L’uomo non vive di solo benessere

Pubblichiamo il testo dell’omelia tenuta dal cardinale Ennio Antonelli, già presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nella Messa per il V Pellegrinaggio nazionale delle famiglie per la famiglia, celebrata a Napoli in Piazza Dante prima della serata dedicata alle Dieci Piazze.

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Grazia e pace e ogni bene a tutti voi e alle vostre famiglie dal Signore nostro Gesù Cristo!

Siamo qui riuniti per partecipare al bellissimo progetto “10 Piazze per 10 Comandamenti”. Sono incontri di festa, ed è giusto che sia così perché per i Comandamenti di Dio, per la legge di Dio, bisogna essere grati, bisogna far festa. È una legge di libertà, una legge di amore, una legge per la vita, per la vita umana autentica, per la vita buona, per la vita personale, per la vita sociale. È giusto far festa: dice la parola di Dio stessa nel Salmo 118 che i precetti del Signore fanno gioire i cuori. Certo, si rattristano anche quando non li osserviamo con piena responsabilità, e allora la coscienza ci rimprovera, ma di per sé sono per la vita, sono per la gioia, sono per la felicità, adesso e nell’eternità.

Oggi siamo qui per celebrare, per festeggiare il quarto Comandamento, “Onora il padre e la madre”, un Comandamento che riguarda la vita familiare. E questo nostro incontro inizia con la liturgia della 24ª domenica del Tempo ordinario. Le Letture come messaggio principale ci presentano la dinamica, la logica, l’orientamento di fondo della vita di Gesù e della vita vera cristiana. È la logica dell’amore inteso come dono di sé, come dedizione a Dio e agli altri. Questa logica dell’amore e della carità conferma, assume i Comandamenti e li porta a perfezione, in un certo senso li trascende. Quindi è molto adatto questo messaggio per questo incontro che stiamo celebrando. Abbiamo ascoltato dal Vangelo l’importante dialogo tra Gesù e i discepoli a Cesarea di Filippi. Questo dialogo si colloca nel momento centrale della vita pubblica di Gesù. Il momento della cosiddetta svolta di Gesù: fino a quell’ora il Signore si era dedicato soprattutto alle folle, alle masse. Da allora in poi si dedica soprattutto ai discepoli, ovviamente senza trascurare le folle.

Ma c’è una svolta piuttosto evidente nei racconti evangelici. Gesù aveva compiuto molte guarigioni, aveva mostrato la potenza di Dio, la misericordia di Dio. La gente lo aveva seguito in massa, con entusiasmo, piena di meraviglia per quello che lui compie, piena di speranza per il futuro e si domandava: «Chi è mai costui? Chi è quest’uomo così potente, così buono?». E dava diverse interpretazioni, risposte. Qualcuno diceva: «È Giovanni Battista che Erode ha fatto decapitare e che è risuscitato dai morti», qualcun altro diceva: «È Elia», il profeta che secondo l’Antico Testamento era stato tratto in Cielo sul carro di fuoco e secondo l’aspettativa della gente doveva ritornare nei tempi del Messia. Comunque dicevano: «È un profeta, è un grande profeta che è sorto tra di noi». Ma Gesù dice ai discepoli: «Ma voi chi dite che io sia?», e Pietro a nome di tutti dice: «tu sei il Cristo, tu sei il Messia». Gesù accetta questa professione di fede di Pietro ma nello stesso tempo ordina severamente di non dirlo in giro alla gente, di non dirlo a nessuno: «Sì, sono il Messia ma non lo dite».

Perché questo? Perché la gente, i discepoli stessi avevano una falsa immagine del Messia, si aspettavano un re trionfatore, un re che guidasse la rivolta del popolo contro i Romani, che liberasse il popolo dall’oppressione dell’Impero romano, che portasse la libertà e il benessere, che inaugurasse un regno potente, facesse di Gerusalemme il centro del mondo. Quelle che la gente nutriva erano speranze terrene di gloria e di grandezza, Gesù invece è il Messia in un senso completamente diverso. Si rivolge ai discepoli e dice che il Figlio dell’Uomo deve essere rifiutato, respinto dalle autorità della nazione, deve essere perseguitato, oltraggiato, umiliato, suppliziato, ucciso, e poi risusciterà. I discepoli rimangono profondamente disorientati, sbalorditi: «ma che sta dicendo?», e Pietro a nome di tutti lo tira in disparte e dice: «Ma che dici? Non ti deve assolutamente succedere quello che stai dicendo». Pietro rimprovera Gesù, ma Gesù a sua volta rimprovera Pietro, come avete sentito: «Va’ dietro di me, satana, non pretendere di andarmi davanti e di dirmi tu quello che bisogna fare. Vieni dietro a me, a te spetta seguirmi, va’ dietro di me o tentatore, perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini, secondo gli interessi, la mentalità terrena degli uomini».

E poi Gesù, non contento di questo, raduna la folla e dice: «Non pensate che seguirmi sia una passeggiata, una marcia trionfale. Se qualcuno vuol venire dietro me, vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita la perderà ma chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo la salverà». È un discorso difficile per la gente, difficile per gli stessi discepoli, persino per Pietro.

È questa la “svolta di Galilea”: da allora in poi le folle cominciano ad abbandonarlo, non lo capiscono più, rimangono profondamente deluse. Gesù parla di «chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo», cioè chi dona la propria vita per amore, facendo della sua vita un dono, un dono al regno di Dio, a Dio e agli altri. E questo naturalmente costa anche sacrificio, bisogna portare la croce per questo. Ma chi imparerà a donare la sua vita, anche col sacrificio, questi la ritroverà, non perde in realtà la vita, la acquista, la rende autentica, piena, trova la felicità già adesso e poi nell’eternità. È questa l’esperienza che fanno tutti i veri cristiani: il centuplo già adesso e poi la vita eterna.

Ma è un discorso difficile, contrario alla mentalità spontanea, all’interesse immediato, al piacere immediato, alla miopia delle nostre vedute umane, dell’opinione pubblica. E quindi bisogna avere il coraggio di credere sul serio a Gesù, di prenderlo sul serio e di andare controcorrente. Gesù ci assicura che non è una speranza solo nel futuro: adesso soffri e solo dopo la morte, troverai… anche subito! C’è un altro detto di Gesù: c’è più gioia a dare che a ricevere. Non c’è gioia solo nel seguire la propria soddisfazione o nella propria gratificazione, interesse, bene immediato; ma c’è gioia anche a donare, provare per credere! Lo sanno le mamme per esempio, in famiglia, quando con amore fanno dei grossi sacrifici ma si sentono anche interiormente contente perché stanno facendo qualcosa di bello per i loro figli, lo stanno facendo per la loro famiglia. C’è più gioia a dare che a ricevere, già adesso: questo vale per tutta la vita cristiana, e in particolare per la vita di famiglia.

Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica Deus caritas est, dice che l’amore coniugale vero è sintesi di eros e agape, è sintesi di amore e desiderio, di ricerca della propria soddisfazione – giusto e umano anche questo – ma sintesi con la dedizione e l’impegno per il bene dell’altro coniuge. Quindi l’amore-desiderio deve essere unito con l’amore-dono. E allora l’amore-desiderio non è più egoismo, ma viene nobilitato, diventa pieno, autentico amore. E questo è anzitutto amore reciproco tra i coniugi, l’uno per l’altro, e poi è amore comune dei genitori verso i figli, dedizione ai figli, con la procreazione, con la cura e con l’educazione. Questo comporta sacrificio, la croce: Gesù lo dice chiaramente, non ci inganna.

Comporta tanti sacrifici, piccoli e grandi, nelle varie circostanze della vita, quasi ogni giorno, ma porta anche una gioia autentica nella misura in cui riusciamo a vivere coerentemente questa logica dell’amore che è sintesi dieros e agape. A Milano, nel recente Incontro mondiale delle famiglie, è stata presentata una ricerca sociologica “La famiglia, risorsa della società”. Sono stati confrontati diversi modelli, diverse forme di famiglia o para-famiglia – oggi c’è molta fantasia nella società e nella cultura – ed è risultato che le famiglie “normali”, quelle che poi sarebbero anche nelle aspirazioni della gran parte della gente, compresi i giovani, le famiglie normali cioè uomo e donna uniti in matrimonio, con due o più figli, sono le più felici, le meno lamentose, le più coraggiose nell’affrontare la vita, le più generose. Sono più felici e più stabili, perché tra l’altro i figli sono un rafforzamento del legame dei coniugi stessi; sono più pro-sociali, cioè più aperte, più attente, più disponibili, più impegnate anche verso la società, verso le altre famiglie, verso i problemi dei poveri, verso la società in generale. Sono famiglie anche mediamente più povere, questo è significativo, perché non sono sostenute anzi sono penalizzate sia dallo Stato sia dal mercato, e quindi sono mediamente più povere, ma sono più felici.

Cosa significa questo? L’uomo non vive di solo benessere, l’uomo non vive di beni materiali soltanto: vive soprattutto di relazioni buone, e quando c’è la ricchezza di relazioni c’è anche la gioia, il gusto di vivere. E allora ecco, le famiglie che hanno due o più figli hanno ricchezza di relazioni, magari minore ricchezza di beni materiali, ma maggior ricchezza di relazioni. E quindi sono anche l’ambiente più adatto per la crescita umana di tutti i membri, dei figli innanzitutto ma anche degli adulti stessi, sono la scuola più vera, più autentica di umanità, e portano anche un maggiore benessere alla società. Viceversa, la povertà di relazioni crea infelicità e danni alle persone e alla società. Nello stesso libro in cui è stata pubblicata questa ricerca c’è anche uno studio dei dati sociologici, disponibili nel mondo già da tempo, una ricerca di sfondo: i figli, i giovani che crescono senza la figura paterna o con la madre soltanto o con nessuno dei due genitori, negli Stati Uniti sono il 90% dei senza casa, gli sbandati; il 72% degli omicidi, l’85% dei carcerati, il 60% degli stupratori.

Notate quanti danni alle persone e alla società vengono fuori quando la famiglia non c’è o non funziona? In Francia, l’80% dei ricoverati in psichiatria sono persone che sono cresciute in una famiglia incompleta o sfasciata, inesistente. In generale, , i giovani che crescono con un solo genitore, hanno doppia probabilità di diventare delinquenti rispetto agli altri che crescono in una famiglia normale. Questo per quanto riguarda i figli. Ma anche per gli anziani non va bene. Gli anziani che non hanno avuto figli, che non li hanno voluti soprattutto – se non sono venuti non è colpa di nessuno – vanno incontro alla solitudine. La mancanza di figli, la scarsità di figli genera solitudine per gli anziani e la solitudine è una grande povertà.

Dice Madre Teresa di Calcutta, che di povertà se ne intendeva, che è più grave, fa soffrire di più la povertà della solitudine che non quella della miseria dei Paesi poveri. E lei diceva spesso che i Paesi del benessere, in realtà, sono più poveri dei Paesi sottosviluppati, più poveri di umanità e anche di gusto di vivere – e questo non ci vuole molto a rendersene conto se si va in un Paese dell’Africa, per esempio si vedono tanti bambini che sono festosi, gioiosi, non hanno niente eppure sembra che abbiano tutto.

E poi la de-natalità, la mancanza di figli, prepara un futuro molto rischioso per gli anziani, mette a rischio l’economia, lo Stato sociale, le pensioni, l’assistenza degli anziani: in un futuro non lontano il trend è questo. È chiaro che la famiglia normale, quella di due o più figli con una coppia stabile di coniugi, la famiglia cosiddetta normale è la famiglia che è un grande bene per tutti, per le persone e per la società. In fondo è quel tipo di famiglia che il Comandamento di Dio vuole sostenere: “Onora il padre e la madre”, e viceversa i genitori sono i primi che devono dedicarsi seriamente ai figli, l’amore deve essere nelle due direzioni e innanzitutto deve partire dai genitori verso i figli.

Mi pare che queste statistiche presentate a Milano confermino la validità dei Comandamenti di Dio, confermino che i Comandamenti di Dio sono per la vita, per la vita buona già adesso: non solo per il futuro, per l’eternità, ma già adesso, per la vita buona delle persone, per la vita buona della società. E quindi mi pare davvero giusto e bello che noi facciamo festa, che festeggiamo, celebriamo i Comandamenti di Dio e in particolare il quarto Comandamento nell’incontro di oggi.

Chiesa in Europa: per crescere insieme

Si è concluso oggi a Cipro l’incontro Ccee-Comece su radici cristiane e coesione sociale

Una tre giorni di appuntamenti, dibattiti e spunti di riflessione: questo il seminario promosso a Cipro dalla Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e dedicato alla coesione sociale, giunto oggi al termine.

Riaffermato che “non è possibile un’Europa coesa che dimentichi le sue radici cristiane” si è ribadito che la “Chiesa può e deve inserirsi all’interno del dibattito sulla coesione sociale, anzi il suo contributo è fondamentale”.

Come ha sottolineato il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, presidente della Cei e vice-presidente del Ccee (insieme a mons. Józef Michalik, arcivescovo di Przemyśl-Polonia) “la Chiesa ha un grande messaggio per quanto concerne la questione sociale e la società in generale grazie alla dottrina sociale della Chiesa che è il compendio delle implicazioni a livello culturale, sociale, economico, politico, ma soprattutto antropologico del mistero di Cristo e del Vangelo”.

Ecco, quindi, che questo seminario, organizzato dal Ccee (www.ccee.org) e condiviso dalla Comece, la Commissione degli episcopati della Comunità europea (www.comece.org), ha inteso rispondere a questa esigenza. Le Chiese cattoliche europee, ha rilevato il cardinale Bagnasco, sentono “profonda la missione di mettersi a servizio dell’evangelizzazione, sapendo che dentro al Vangelo vi è l’elevazione di tutto l’uomo e, quindi, della società”. 

Una cultura della diversità. Muovendo dal concetto di coesione sociale e richiamandosi alle parole delle Sacre Scritture,Andreas Pitsillides, docente di teologia e membro del Parlamento di Cipro, ha lanciato un messaggio importante a favore della multiculturalità. E come non affrontare un tema così importante proprio in questa terra? Cipro, rappresenta, infatti, un esempio per tutta l’Europa, perché “non si può parlare di coesione sociale se viene meno il concetto d’integrazione”. A tale scopo il teologo ha invocato un sempre maggior impegno da parte di tutti per creare una “cultura della diversità”. Al riguardo, ha aggiunto Pitsillides, “l’impegno e la missione della Chiesa cattolica nel promuovere la coesione sociale in Europa è fondamentale e per raggiungere questo obiettivo è importante comunicare con la gente, stando sempre al passo con le sfide di ogni epoca”. La parola è poi passata a Marios Mavrides, anche lui membro del Parlamento e docente associato all’Università europea di Cipro. Nel suo intervento, dal titolo “Costruire una società giusta: una prospettiva economica”, ha spiegato che, “nonostante i significativi passi in avanti per combattere le ingiustizie, la povertà e la disuguaglianza non sono ancora state debellate”. Concludendo il suo intervento ha poi aggiunto: “La costruzione di una società giusta non è facile e soprattutto non è un compito che può avere una fine, possiamo sempre puntare al meglio. Tuttavia, non riusciremo mai a raggiungere la perfezione”. 

Una prospettiva integrale. A mons. Giampaolo Crepaldi, presidente della Commissione del Ccee promotrice del seminario, è toccato il compito di ripercorrere le tappe salienti di questa tre giorni. Con l’intervento “Verso una ‘road map’ per la commissione ‘Caritas in Veritate’”, mons. Crepaldi ha focalizzato l’attenzione su tre punti salienti emersi dall’incontro: l’identità degli organismi del Ccee e della Comece, l’uso della dottrina sociale della Chiesa e l’Europa. “Chiedo scusa – ha detto – se la ‘road map’ è fatta più di domande che di risposte, ma a me sembra che porre le domande giuste, sia una maniera corretta per iniziare a rispondere in maniera adeguata”. Mons. Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza e uno dei quattro vice-presidenti della Comece e presidente della Commissione sulle questioni sociali della stessa Comece, ha voluto mettere in rilievo le varie declinazioni emerse del concetto di coesione sociale. “A mio avviso – ha affermato mons. Ambrosio – questo tema va affrontato in una prospettiva integrale anche se è giusto, nel mantenere una visione d’insieme, distinguere le varie problematiche. Infine credo sia importante evidenziare la visione culturale e politica di tale concetto, richiamandoci anche ai padri fondatori dell’Europa”. Concludendo l’intervento e riallacciandosi alle tematiche sociali, mons. Ambrosio ha ricordato l’importante appuntamento delle seconde “Giornate sociali europee” che si terranno in Spagna, a Granada, il prossimo anno e che vedranno nuovamente il coinvolgimento del Ccee, della Comece e di tutte le Chiese europee.

Il grande dono. Un messaggio di speranza è stato, infine, lanciato dall’arcivescovo dei maroniti di Cipro, Youssef Soueif, il quale ha ricordato che l’Europa ha dovuto far fronte a numerose difficoltà. “La minaccia della crisi economica – ha detto – ci mette nuovamente a dura prova, ma le guerre, anche quelle economiche, si affrontano nello Spirito di Cristo, l’Unico in grado di trasformare le difficoltà in grazie e benedizioni”. Come ha ricordato, infatti, il cardinale Bagnasco: “L’Europa è il grembo originario del cristianesimo e non deve perdere questo grande dono”.

a cura di Nike Giurlani, inviata Sir Europa a Cipro

Catechesi: sempre con la famiglia

Un bilancio dei 16 convegni regionali promossi dalla Cei.

“Sperimentazione alla prassi condivisa”…

 

Don Guido Benzi, direttore dell’Ufficio catechistico della Cei, sintetizza con questo slogan il percorso compiuto nel 2012 attraverso i 16 convegni catechistici regionali, l’ultimo dei quali è in programma il 29 e 30 settembre, ad Assisi, sul tema: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).

Tema generale dei 16 appuntamenti, promossi dall’Ufficio Cei: “‘Come pietre vive’ (1Pt 2,4-8). Rinnovare l’iniziazione cristiana nelle nostre Chiese”. M.Michela Nicolais, per il Sir, ha chiesto a don Benzi un primo bilancio “a caldo” dell’iniziativa, che ha coinvolto complessivamente circa 5.000 persone sul territorio, spesso guidate dai lori rispettivi vescovi diocesani. L’incontro nazionale di chiusura di questo ciclo di convegni si svolgerà il 4 e 5 ottobre, ad Abano Terme.

Don Benzi, perché la scelta di un unico convegno “diffuso” nelle diverse regioni?
“L’idea dei convegni regionali è nata per rispondere alla domanda di verifica e confronto sugli itinerari di iniziazione cristiana e sulle sperimentazioni sviluppatisi in molte diocesi negli ultimi dieci anni. Una richiesta, questa, avanzata dai vescovi al n. 54 degli Orientamenti pastorali sull’educazione, in modo da arrivare a comprendere la situazione in cui si trova oggi la catechesi in Italia. La sensazione è quella che, sul territorio, in tema di iniziazione cristiana si siano prodotti di fatto modelli differenziati: di qui l’esigenza di portare a convergenza il più possibile le varie esperienze, facendo evolvere la sperimentazione verso criteri condivisi”.

Quali le prime impressioni, alla vigilia della conclusione di questo itinerario?
“La prima impressione, per quanto riguarda l’iniziazione cristiana, è che la catechesi in Italia è viva, in tutte le diocesi e comunità. Certo, si tratta di una catechesi che risente del momento di passaggio culturale che stiamo vivendo, ma che comunque ha a cuore la dimensione della nuova evangelizzazione. Non a caso il tema del primo annuncio, dell’evangelizzazione è stato tenuto molto presente nell’articolazione dei vari convegni: per noi non si tratta affatto di una sorpresa, semmai è invece la conferma di questa esigenza, così come della vitalità dell’attività catechistica. La seconda impressione è una sorpresa, e riguarda la constatazione del coinvolgimento, all’interno dei convegni, di tante realtà: nelle diocesi le associazioni, i movimenti, sono molto presenti a fianco delle parrocchie, e questo mi sembra un segnale molto importante, corroborato dalla presenza di tanti catechisti. Ciò conferma il successo del metodo che abbiamo scelto: più stiamo sul territorio, più si diffonde il confronto, la partecipazione, perché della catechesi bisogna parlare là dove si fa”.

Ci sono difficoltà ancora da superare, o nodi irrisolti?
“Nessuno nega i problemi, sia di carattere formativo sia organizzativo, che possono caratterizzare la vita delle parrocchie. In primo luogo, c’è la difficoltà del dialogo con le famiglie, che spesso tendono alla delega o avanzano per i propri figli richieste non di fede ma di socialità religiosa. Tuttavia, la catechesi rimane una grande risorsa per la nostra comunità, e in particolare l’iniziazione cristiana viene declinata innanzitutto come annuncio della fede, ma anche come scoperta e interiorizzazione di essa, nell’ottica propria del documento di base, che esorta ad ‘educare alla mentalità di fede’”.

Ripensare l’iniziazione cristiana, per l’uomo di oggi, significa quindi pensarla come processo educativo in vista di una fede sempre più adulta…
“Direi proprio di sì, ed è proprio questo uno dei punti maggiormente messi in evidenza durante i convegni. In questa prospettiva, risulta necessario e ineliminabile il dialogo con la realtà delle famiglie, in particolare nella pastorale pre- e post-battesimale. L’iniziazione cristiana comincia col battesimo, e ciò implica una riflessione rinnovata sul ruolo dei padrini e un dialogo con le famiglie che prosegua fino a quando il bambino inizia il catechismo. Diventa centrale, in questo modo, la figura dell’educatore della fede: per questo nel prossimo anno pastorale abbiamo in programma d’intensificare il rapporto tra catechesi e famiglia, tramite una più stretta collaborazione tra i due Uffici, che può rappresentare uno splendido laboratorio di pastorale integrata. Anche le Consulte dei due Uffici si svolgeranno congiuntamente, per poi culminare in un convegno nel giugno 2013”.

Il futuro della catechesi si gioca sui binari della “pastorale integrata” e delle “alleanze educative”?
“L’obiettivo è quello di arrivare a pensare che l’animatore della catechesi non è il catechista o il parroco, ma tutta la comunità cristiana: la comunicazione con le famiglie è prima di tutto un ‘clima’ in cui il bambino viene inserito. Tutto ciò implica il superamento di una pastorale sacramentale, a favore di uno stile di comunità che si senta responsabile, con la sua vita, della fede dei suoi figli. Nasce da qui l’importanza del mondo adulto, da curare sia nell’impegno alla formazione permanente, sia tramite la catechesi degli adulti”.

Famiglia e insegnamento della religione per lo sviluppo dei giovani

Lettera pastorale dei vescovi polacchi per la II Settimana di Formazione

 

Sia il padre che la madre, contrariamente a quanto sostengono alcune ideologie, dovrebbero assumersi la responsabilità per l’educazione del bambino”.

Questo è quanto sottolineano i vescovi polacchi in una lettera pastorale diffusa prima della Seconda Settimana di Formazione che si sta svolgendo in Polonia dal 16 al 22 agosto.

I presuli rilevano che la testimonianza  e la partecipazione alla vita religiosa dei genitori è essenziale per l’educazione del bambino.

“In tutti i luoghi in cui si svolge l’educazione: a casa, a scuola e nella parrocchia, è necessario cercare le risposte alle domande che seguono: chi vogliamo formare ed educare? Come entrare nell’intimo del giovane? Sulla base di quali valori si desidera formare?

“Senza una riflessioni condotta congiuntamente dai genitori, dai padrini e dai nonni, così come per i responsabili per l’istruzione, gli insegnanti e gli educatori, non può esserci un’educazione fruttuosa”, affermano i Vescovi.

Nella lettera i vescovi polacchi hanno scritto che “il primo incontro con Dio e con la Chiesa avviene nella famiglia, giustamente chiamata ‘Chiesa domestica’.

“Nel clima di amore e di legami naturali della famiglia, cresce il processo di educazione e lo sviluppo dell’anima umana”, sostengono i Vescovi.

Secondo i vescovi polacchi, “preservare l’unità e la santità del matrimonio è una preoccupazione costante della Chiesa. La sua legittimità è ancora più evidente quando i coniugi sono i genitori”.

“Purtroppo, – continua la lettera dei presuli – un problema sociale crescente è il numero crescente di matrimoni che si disgregano. La divisione ha un impatto negativo sulla formazione e contribuisce alle esperienze negative dei bambini e dei giovani. Una parte molto importante della formazione in famiglia è infatti, un senso di stabilità e di sicurezza, che ogni bambino dovrebbe sperimentare”.

Nella lettera alla II Settimana di Formazione i vescovi consigliano la catechesi che realizza “la funzione educativa”.

 “L’esperienza dimostra che – sostengono i presuli – l’insegnamento della religione nella scuola favorisce il pieno sviluppo dei giovani. La catechesi arricchisce il panorama educativo con nuovi contenuti, apportando alla vita della scuola e dei suoi allievi l’ispirazione e la motivazione che favorisce lo sviluppo della personalità”.

 Per questi motivi – conclude la lettera – i vescovi lanciano un appello per “garantire l’insegnamento della religione nella formazione scolastica”.

di Don Mariusz Frukacz

ROMA, giovedì, 23 agosto 2012 (ZENIT.org).-

Il secondo Festival della Dottrina Sociale della Chiesa

Il direttore de La Società propone di riscoprire il buono, il bello, il vero
di Claudio Gentili, Direttore de “La Società”

Nel periodo tra il primo e il secondo Festival della Dottrina Sociale della Chiesa, che si svolgerà a Verona dal 14 al 16 settembre, (http://www.festivaldsc.it/news/gallery/) sono accadute molte cose nel nostro Paese. La crisi è peggiorata, il Governo è cambiato, la disoccupazione giovanile è arrivata a livelli mai visti, la Nazionale di calcio è stata la sorpresa agli Europei e i nostri ricercatori hanno dato un contributo fondamentale per scoprire il Bosone di Higgs.

 In tutti questi cambiamenti, spesso burrascosi e neanche facilmente prevedibili, molti cattolici sono rimasti nell’ombra, almeno in apparenza, presi a discutere di partiti, nomine, strategie e programmi per un futuro poco chiaro. L’onnipresente dibattito sui giornali ormai è più un bollettino delle voci di corridoio che una discussione aperta e onesta sul ruolo (e sulla rilevanza) dei cattolici in questa pesante crisi, prima antropologica che economica.

 Non serve ragionare per pochi seggi in più, ma ricostruire il disegno di un umanesimo che coinvolga l’intera società. Il tracollo finanziario sta minando quella che è la caratteristica più “umana” di tutte: la relazione. Ed è sulla relazione che i cattolici possono e devono dare il loro contributo, prima di pensare a tutto il resto.

 La seconda edizione del Festival (14-16 settembre) ci dà una grande occasione: vivere la relazione tra cattolici, tra famiglie, tra giovani, tra italiani, tra operatori del bene comune. Alla luce della DSC. È curioso che arrivi adesso, dopo un’estate di dibattiti sull’abolizione delle festività a beneficio di ben 1 punto di PIL. Fare festa non è perdere ricchezza, se si fa festa per ritrovarsi assieme.

 La festa non è una colpa, non è una fonte di spesa. Chi fa festa non è la causa dell’Italia che non funziona. Ogni volta che c’è un problema nel nostro Paese si fa a gara a puntarsi il dito contro. Tra tutti questi dati, tra tutte queste leggi, ci troviamo di fronte ad un sistema che quasi vuole convincerci che siamo noi cittadini i colpevoli di tutto, come fu per il kafkiano Signor K.

 I cattolici devono uscire da questo circo dei numeri e ragionare sulla persona, senza accusati né accusatori. Passare dal senso di colpa alla corresponsabilità. Bisogna essere come il Padre Brown di Chesterton: avere la capacità di comprendere i mali della società moderna e sentirsi corresponsabili nella loro soluzione. Padre Brown insegna che bisogna “entrare dentro l’uomo” per risolvere i problemi. Gli steccati, i moralismo e le inquisizioni vanno abbattuti, anche tra cattolici.

 A Verona saranno tutti i benvenuti, perché tutti sono necessari per avere un pensiero diverso. Non ci saranno cattedre o tavolini ma piazze, spazi aperti, luoghi condivisi e non luoghi comuni. Crisi, significati, riferimenti, saranno passati in rassegna per proporre qualcosa di nuovo rispetto a quanto sentiamo tutti i giorni, rispetto ai forti momenti di solitudine che sperimenta chiunque agisca in un tessuto sociale sfilacciato.

 Va creata una forte soluzione di continuità col passato per riaffermare la “convenienza” di un’economia al servizio dell’uomo, di uno sviluppo solidale e coerente degli interessi personali, di una società che si riscopre viva e a misura d’uomo. A ciascuno di noi è dato il compito di andare oltre la crisi, di passare dalla centralità dello spread alla centralità della persona. 

 Tutti coloro che partecipano al Festival hanno il compito di rispondere e di “comunicare” la DSC in tutte le sue forme. Nel nostro Paese l’urgenza di una nuova generazione di politici ci fa spesso dimenticare quella altrettanto grave di una nuova generazione di comunicatori. 

 La Chiesa ci illumina presentandoci la testimonianza di Mons. Fulton John Sheen, vescovo e tele-predicatore americano che presto sarà proclamato Beato. Quando Mons. Sheen andava in TV, in prima serata, gli Stati Uniti si fermavano per seguirlo. Ironia, competenza, profondità di pensiero caratterizzavano tutte le sue uscite. Non smetteva di scherzare ma sapeva far riflettere. Raccontava le Scritture ma esortava all’agire. Quanti cattolici sono in grado di farlo oggi? Quanti cattolici riescono a mantenere viva nelle loro azioni la connessione Fede e DSC?

 Provvidenzialmente il Festival DSC arriva alla vigilia del Sinodo sulla nuova evangelizzazione che inaugurerà l’Anno della Fede, una Fede resa “adulta” dalla DSC che rappresenta la via da percorrere rimanendo in comunione con l’Uomo Nuovo, Gesù Cristo, mediante una robusta spiritualità ed esperienza di Chiesa.

 Non a caso a Verona accorreranno i “terminali” dell’esperienza ecclesiale: comunità parrocchiali, famiglie, ONLUS, cooperatori, associazioni e movimenti; perchè solo da questi terminali, accompagnati da vescovi attenti ed illuminati, può nascere un nuovo inizio per l’esperienza della Chiesa in Italia e nel mondo. A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, le buone premesse ci sono tutte.

 Il Festival DSC sarà la chance, forse una delle ultime, per riscoprire e comunicare al nostro Paese il buono, il bello, il vero. Riscoprire il buono: è la fine delle perbeniste giustificazioni che eliminano il confine tra il bene e il male e il senso di responsabilità.

 Riscoprire il bello: è la fine di notizie e relazioni che piuttosto che semplificare un messaggio lo esagerano, distorcono, manipolano. Riscoprire il vero: è la fine del relativismo, del “tutti hanno ragione”, delle minoranze creative, delle maggioranze omologanti, dei falsi profeti, dei catto-confusi e delle religioni ad personam.

 ROMA, sabato, 4 agosto 2012 (ZENIT.org) –

L’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice compie 140 anni

Il 5 AGOSTO 2012 l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice compie 140 anni. Il 5 agosto 1872 a Mornese, un piccolo centro in provincia di Alessandria, 11 giovani si consacrano al Signore dando vita a quello che poi sarebbe diventato un Istituto internazionale presente in 94 Nazioni…

Il 5 agosto 1872 a Mornese, un piccolo centro in provincia di Alessandria, 11 giovani si consacrano al Signore dando vita a quello che poi sarebbe diventato un Istituto internazionale presente in 94 Nazioni. In occasione del 5 agosto proponiamo una intervista alla Superiora generale, Madre Yvonne Reungoat.

 

Ha da poco concluso le Verifiche, quale il volto e lo stato di salute dell’Istituto FMA? Quali le sfide che si pongono per il futuro?

Al momento ci sono ancora due gruppi di Conferenze interispettoriali che devono attuare la Verifica del CG XXII, dove confluirà il vissuto e la riflessione delle Ispettorie. Credo però di poter dire – anche grazie alla conoscenza acquisita attraverso le visite – che l’Istituto goda di buona salute. È vivo in tutte le consorelle il desiderio e l’impegno di ravvivare il carisma. Si sente il bisogno di dare più profondità spirituale alla propria vita e di rafforzare la profezia fondandola nella sua radice mistica. Si avverte anche l’esigenza di puntare sulla qualità evangelica delle relazioni come comunità FMA e come Comunità educanti. Emerge il cammino realizzato con i laici non solo a livello di collaborazione, ma anche di corresponsabilità nella missione educativa. Si è consolidata la convinzione di una rinnovata opzione per i poveri, in un mondo che si è progressivamente impoverito, e si riconosce l’importanza di dare vita a comunità autenticamente vocazionali, dove i giovani si sentano accolti e ascoltati e dove possano percepire la bellezza e il dinamismo del carisma.

In sintesi: il cammino dell’Istituto si colloca tra il già e non-ancora. Credo però che la sfida più grande che ingloba le altre sia la speranza.

 L’Istituto FMA celebra 140 anni di vita. Com’è cambiata la sua identità e la missione?

140 anni di vita dell’Istituto rappresentano per tutta la Famiglia salesiana una ricorrenza importante. Per noi FMA costituiscono la celebrazione della fedeltà di Dio e della nostra risposta al suo amore, e sono motivo di gioia e di gratitudine. L’intuizione di Don Bosco di dare anche alle ragazze le stesse opportunità che egli offriva ai suoi ragazzi si è concretizzato grazie alla risposta di alcune giovani donne dell’Associazione dell’Immacolata in Mornese, che hanno aderito alla sua proposta di consacrarsi al Signore come religiose secondo lo spirito salesiano.

In quel piccolo centro del Monferrato, come da un seme coltivato in terra buona e fertile, ha avuto inizio l’Istituto: era il 5 agosto 1872. L’identità delle FMA è stata chiara fin dall’inizio: donne consacrate per la missione di evangelizzare attraverso l’educazione, con una forte identità mariana. Don Bosco ne dava piena testimonianza e Maria Domenica Mazzarello si sentiva totalmente in sintonia con il suo progetto di vita e il suo metodo di educazione: il Sistema preventivo. L’Istituto è cresciuto in modo sorprendente e si è dilatato con una presenza che oggi raggiunge 94 nazioni del mondo e conta circa 14.000 membri, che vivono e operano nei cinque continenti.

Il segreto è nel dinamismo dello Spirito che ha impresso alla nostra Famiglia religiosa una dimensione missionaria e un volto universale. L’identità si è approfondita nel tempo e la missione educativa oggi abbraccia anche le nuove frontiere, i nuovi areopaghi in cui è possibile incontrare i giovani e risvegliare in loro la domanda di senso, educandoli ad essere e buoni cristiani e onesti cittadini, come li voleva Don Bosco. Questo programma è stato assunto in pieno dalle FMA fin dalle origini e attualmente si coniuga sempre più con la promozione dei loro diritti fondamentali e con l’impegno di evangelizzarli.

 Quali sono le attese e le sfide dei giovani di oggi? Si può tracciare ancora una geografia del mondo giovanile o la globalizzazione ha unificato tutto?

Ci sono sicuramente sfide specifiche per i giovani a seconda dei contesti socio-culturali. In quelli di maggiore povertà economica o impoveriti, i giovani sono più motivati ad impegnarsi per elevare il loro stato sociale e sanno approfittare delle opportunità che si offrono loro; quelli dei Paesi definiti ricchi, sono meno motivati e hanno un tempo più lungo di maturazione umana. Ma sono solo generalizzazioni.

La globalizzazione ha un po’ uniformato i bisogni e ne ha indotti degli altri, così che sono molti di più gli aspetti che accomunano i giovani di oggi a livello mondiale rispetto a quelli che li differenziano. Si sono globalizzati i linguaggi, il consumo, le attese di realizzazione, i news media e le nuove tecnologie.

Non mi riferisco alle sfide della globalizzazione solo nella loro dimensione negativa – secolarizzazione, relativismo, consumismo – ma anche in quella positiva. Si è globalizzata ad esempio la solidarietà, il volontariato è cresciuto, c’è una nuova sensibilità riguardo ai diritti umani e alla dignità di ogni persona. I bisogni profondi dei giovani sono quelli di sempre: amare ed essere amati, cercare il senso della vita e la felicità, impegnarsi per l’utilità comune, rendere il mondo una casa abitabile per tutti.

Oggi i giovani vogliono esserci: non solo facendo sentire la loro voce come indignati, ma mettendo a disposizione le loro risorse come giovani impegnati. Credo che ci prepariamo a vivere una nuova stagione, a patto che sappiamo ascoltarli e accompagnarli nel loro percorso di crescita umana e cristiana.

Non c’è solo un linguaggio giovanile criptato, ma anche uno fatto di semplicità, di concretezza, di gratuità e di dono. Esiste una domanda spesso implicita di senso che esige di essere portata alla luce e c’è una richiesta latente dei giovani di essere accompagnati da adulti significativi in un mondo divenuto sempre più multietnico, multiculturale, multireligioso e che non ha punti di riferimento. Per noi la sfida è accompagnarli ad aprirsi agli altri e all’Altro, fino all’annuncio esplicito di Gesù.

 Il termine “crisi” caratterizza diversi ambiti, da quello economico, a quello sociale, dai valori alla realtà giovanile. Quali speranze le FMA offrono?

Le speranze che possiamo offrire dipendono da quelle che animano la nostra stessa vita. Il primo segno di speranza per i giovani è trovare adulti capaci di sperare. La crisi, presente soprattutto in occidente, è crisi economica e sociale, dei valori, culturale ed educativa. L’emergenza educativa può essere interpretata come emergenza di padri e di madri, di casa e di famiglia, di formazione.

Educare in una società che fa troppo spesso del relativismo il proprio credo e che colma le nuove generazioni di gratificazioni emotive ed esalta la cultura dell’effimero, può rendere più difficile il nostro compito e frenare i nostri slanci. Sono convinta, tuttavia, che potremo offrire speranza ai giovani solo se supereremo la crisi di autorevolezza in cui molti adulti sono precipitati abdicando spesso alle loro responsabilità.

Se, come FMA, testimonieremo la bellezza e la gioia della nostra vocazione, sarà più facile costituire una grande rete di comunione e di dialogo con tutti quelli cui sta a cuore l’educazione dei giovani e con i giovani stessi.

A nome di tutte le FMA, esprimo il desiderio che molte giovani donne possano scoprire la chiamata a seguire Gesù nel nostro Istituto. Il campo dei bisogni educativi è immenso. Dalla crisi, che è anche vocazionale, si esce se si è capaci di consegnare alle giovani generazioni il carisma salesiano perché lo sviluppino e lo arricchiscano. A 140 anni dalla fondazione, scorgo un orizzonte grande e aperto in cui la nostra Famiglia religiosa può continuare a scrivere pagine di fedeltà gioiosa, anche con l’apporto di giovani donne che non hanno paura di impegnarsi a seguire Gesù.

 

Ci può raccontare brevemente la sua storia vocazionale?

In famiglia avevo uno zio salesiano missionario in Canada e si riceveva regolarmente il Bollettino Salesiano. Fu così che i miei genitori scoprirono l’esistenza di una scuola delle FMA presso la città di Dinan, in Bretagna (Francia), dove potei frequentare gli studi. Rimasi colpita dal clima di famiglia che regnava in comunità. Un giorno la direttrice mi chiese: “Hai mai pensato alla vita religiosa?”. Questa domanda diretta rievocò in me il desiderio di farmi religiosa che coltivavo in cuore già prima di conoscere le suore e che avevo lasciato cadere pensando all’impossibilità della risposta. Devo riconoscere che la direttrice di Dinan è stata una vera accompagnatrice e che il clima educativo della comunità ha sostenuto il mio cammino. Le FMA avevano l’arte di renderci protagoniste; ci affidavano piccole responsabilità adeguate alle nostre possibilità, così da educarci al servizio verso gli altri. L’accompagnamento mi ha aiutata a maturare la risposta vocazionale. Mi sono sentita afferrata da Dio, ma senza quella domanda, forse, non sarei stata una Figlia di Maria Ausiliatrice.

L’essere stata missionaria in Africa ha arricchito la mia vocazione, che ha poi avuto svolte sorprendenti con la mia elezione a Consigliera Visitatrice, Vicaria generale e, infine, a Superiora Generale. Ho pensato fin dall’inizio che questa missione mi superava totalmente e che avrei potuto adempierla soltanto potendo contare sull’aiuto del Signore e di Maria Ausiliatrice.

Essere la nona Successora di Madre Mazzarello è un compito che può essere svolto solo con la grazia di Dio, con l’affidamento a Maria Ausiliatrice, Colei che ha fatto tutto anche nella mia vita. Sono persuasa che il Signore ci chiede solo la disponibilità per agire in noi con libertà e farci strumenti del suo amore preveniente.

“L’arte della politica”, le ACLI di Roma si raccontano

La prima edizione della scuola di politica, organizzata dalle Acli di Roma presso il Monastero benedettino di Santa Scolastica di Civitella S. Paolo

Un percorso di una settimana tra testimonianze, dibattiti ed attività formative, per fornire strumenti nuovi per approcciarsi alla politica ispirandosi all’insegnamento di Tommaso d’Aquino. 

 E’ stata questa la scuola di politica organizzata dalle Acli della Capitale – “L’arte della politica” – che, alla sua prima edizione, si è svolta dal 17 al 22 luglio presso il Monastero benedettino di Santa Scolastica di Civitella S. Paolo, in provincia di Roma.  

 Un percorso dedicato agli oltre trenta giovani, fra i 18 e i 30 anni, che hanno deciso di partecipare al campo desiderosi di toccare con mano «il senso della buona e della cattiva politica, per scoprire insieme che cosa vuol dire oggi essere cittadini››.

Durante le giornate si sono affrontati i temi del conoscere, ascoltare, prendere parte, mediare e decidere, per trasformare l’idea di bene comune in un qualcosa da costruire insieme, con metodo.

 Gli incontri sono stati introdotti dalla meditazione spirituale pensata con lo scopo di introdurre l’argomento del giorno e fornirne una prima analisi di tipo spirituale, mentre nel corso della prima parte della mattinata si sono svolti gli incontri con gli ospiti seguiti dalla fase di dibattito con la platea.

 Nel pomeriggio si sono svolte attività pratiche e ludiche per mettere in opera quanto precedentemente affrontato in aula: dalla pinacoteca della politica durante la quale i ragazzi hanno potuto dipingere la propria idea di politica, al tribunale nel quale l’imputato “Politica” è stato accusato e difeso dai partecipanti divisi in due gruppi fino ad arrivare alla messa in scena di un caso politico.   

Per l’attività di cineforum è stato proiettato il film “Buongiorno, Notte”, ambientato nel 1978 narra del rapimento e della detenzione, da parte delle Brigate Rosse, di Aldo Moro.
Alle giornate hanno partecipato, il presidente delle Acli di Roma, Cristian Carrara, i deputati Enrico Letta e Luigi Bobba, il presidente delle Acli nazionali, Andrea Olivero, il giurista Alberto Gambino, il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini, il direttore della Società, Claudio Gentili, Don Andrea Palamides (sacerdote della Comunità della Riconciliazione – Santa Teresa di Gesù Bambino), il direttore delle relazioni esterne, affari istituzionali e marketing di Autostrade per l’Italia Francesco Delzio, il poeta Davide Rondoni, la iena Filippo Roma, il direttore generale di Peter Pan Onlus, Gian Paolo Montini, la giornalista Stefania Divertito e l’assessore alla Famiglia, all’Educazione ed ai Giovani di Roma Capitale, Gianluigi De Palo.

 Primo passo di un percorso che tende a replicarsi in futuro, questa scuola mira anche ad essere un punto di partenza per promuovere un’opera di sensibilizzazione sui temi della politica per portare i giovani ad essere di nuovo protagonisti attivi e consapevoli della società.

 Cogliendo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno partecipato e che hanno dedicato con cura il proprio tempo mirando alla buona riuscita della scuola, vi invitiamo a vedere le foto nella sezione fotografica del sito.

ROMA, venerdì, 3 agosto 2012 (ZENIT.org) –

“Youth with a mission” il messaggio di Cristo alle Olimpiadi

Nel cortile della chiesa cattolica di san Francesco d’Assisi, appena fuori il villaggio olimpico, alcuni volontari provenienti dalla Finlandia, appartenenti all’organizzazione protestante “Youth with a mission”, chiedono ai frati della loro vocazione cattolica.

Lo spirito delle Olimpiadi è anche questo, un nuovo dialogo tra le diverse fedi cristiane e la volontà di raggiungere insieme chi si è allontanato da Cristo. In questa parrocchia, frequentata da circa mille persone ogni domenica, il gruppo di giovani arrivati dalla Finlandia collabora con frati provenienti da Portogallo, Argentina, Singapore, Isole Mauritius, Francia, Colombia e anche dalla comunità di Palestrina, vicino a Roma.

Escono insieme, sulle strade attorno al villaggio olimpico, i giovani vestiti con la maglietta con la scritta “More than gold”, la charity ecumenica che ha organizzato le attività di evangelizzazione in tutto il Regno Unito, e i frati con il saio marrone. “Non facciamo proselitismo imponendo il cristianesimo”, spiega Alice Lamula, volontaria finlandese, che è qui insieme al marito, “cerchiamo di far sentire ai passanti che li amiamo e che il nostro affetto proviene da Gesù. Poi li invitiamo a messa o a bere qualcosa nella tenda dell’ospitalità che la parrocchia ha organizzato per accogliere i visitatori che vengono a Stratford per le gare”.

“Sulla metropolitana la gente è incuriosita dal nostro vestito e ci fa domande. Anche questo è un modo di testimoniare Cristo”, spiega padre Anthony Cho, parroco. “In occasione della cerimonia di apertura dei giochi – prosegue -abbiamo organizzato una festa: le persone delle diverse comunità hanno portato cibo e abbiamo fatto il tifo gli uni per le squadre degli altri, guardando le Olimpiadi su un maxi schermo”. Per padre Cho, i Giochi olimpici sono un’ottima opportunità per migliorare i rapporti all’interno di questa comunità multiculturale nella quale i parrocchiani provengono un po’ da tutto il mondo: Europa dell’est, Malesia, Singapore e Caraibi.

“Fino al 10 agosto esporremo il Santissimo Sacramento dalle 9 del mattino alle 18 di sera e avremo quattro serate dedicate alle preghiere di Taizè. L’ultimo giorno delle Olimpiadi, domenica 12 agosto – conclude -, il vescovo di Brentwood, mons. Thomas McMahon, celebrerà una messa di ringraziamento”.

da Sir del 31/07/12

Giornate di studio sulla presenza salesiana tra i musulmani

Le giornate di studio avranno luogo a Roma – Salesianum nei giorni 30 luglio – 4 agosto 2012.

Sono in corso fino a sabato 4 agosto le “Giornate di studio sulla presenza salesiana tra i musulmani”.

Nella sede del Salesianum della Casa generalizia, salesiani, figlie di Maria Ausiliatrice, laici e religiosi loro collaboratori condividono riflessioni per una migliore comprensione di questa realtà e per scoprire nuove prospettive.

Il programma delle Giornate prevede una prima parte dedicata all’analisi della situazione; una seconda volta alla condivisione di studi e riflessioni; una terza per la formulazione delle conclusioni. I lavori seguiranno una metodologia laboratoriale: don Alfred Maravilla e suor Loes Maika saranno i moderatori che coordineranno le attività dei gruppi. Nell’ultima giornata don Maria Arokiam Kanaga, consigliere per la regione Asia Sud, presenterà una riflessione sul sistema preventivo quale criterio fondamentale per la presenza salesiana e le attività nel contesto musulmano.

Gli altri oratori delle Giornate di studio, invece, sono stati scelti al di fuori degli ambienti salesiani, per aiutare i partecipanti a cogliere nuovi punti di vista. Le relazioni toccheranno temi specifici e concreti, come la storia dei rapporti cristiano-musulmani, la testimonianza cristiana come presenza profetica, i valori cristiani a cui i musulmani sono più sensibili e i consigli degli esperti di dialogo interreligioso.

E’ pluridecennale la presenza dei Salesiani in Nazioni dove prevale la religione islamica, prima tra tutte quella più nota, che ha nella Ispettoria del Medio Oriente la modalità organizzativa e di governo.

Ma non si può dimenticare la presenza in Nigeria, nel Marocco e in Tunisia, in Pakistan e nel Sudan, nell’Indonedia e in Albania, e in altre Nazioni.

Da aggiungere la crescente presenza di giovani e adulti  di religione islamica in Italia, in Francia, in Germania e in Austria.

Questa realtà, sebbene geograficamente variegata, ha spinto il Dicastero delle Missioni dei Salesiani e l’ Ambito Missione delle Suore Figlie di Maria Ausiliatrice a promuovere alcune giornate di studio per una riflessione comune che tende ad “avere una più profonda comprensione delle sfide e scoprire nuove intuizioni e prospettive in vista della riscoperta della attualità oggi”.

Con una metodologia prevalentemente laboratoriale, a partire dall’analisi della situazione, le riflessioni e lo studio avranno nella tematica del primo annuncio il filo conduttore che illuminerà il confronto e il dibattito per giungere anche ad alcune possibili indicazioni operative.

Di rilievo i Relatori chiamati a introdurre i diversi momenti di studio e riflessione:

«Relazione tra Cristiani-Musulmani nella Storia: Sfide ed Opportunità Oggi» – P. Miguel Ángel Ayuso Guixot, MCCJ – PISAI, Roma

«Testimonianza Cristiana come “presenza profetica”» Prof. Francesco Zannini – PISAI, Roma

«La Presenza dei Musulmani negli Ambienti Cristiani: Le Vie per Dialogo e Annuncio» – P. Maurice Borrmans, M. Afr. – antico professore al PISAI, autore di libri sul dialogo islamo-cristiano

«Il significato, opportunità e sfide della presenza salesiana tra i musulmani» – D. Maria Arokiam Kanaga, SDB – Consigliere Regionale Asia Sud

Obiettivo ultimo delle giornate non è quello di un momento di formazione missionaria, ma piuttosto quello di una riflessione sul vissuto e sulla prassi, alla luce di esperienze molteplici nel tempo e nello spazio.

Quanto verrà elaborato con il concorso di ogni partecipante verrà raccolto in una pubblicazione al servizio dei contesti locali, sempre più chiamati al confronto interreligioso e  alla presenza educativa e profetica.

La Circoscrizione Salesiana dell’ Italia Centrale avrà modo di essere rappresentata da due missionari originari delle proprie regioni: Don Erando Vacca, attualmente missionario in Egitto, e il Sig. Roberto Lionelli, missionario in Tunisia.

 

“Obiezione di coscienza diritto inviolabile dell’uomo”

Riportiamo alcuni commenti relativi alla decisione presa dal Comitato nazionale di bioetica su l’obiezione di coscienza in bioetica da un punto di vista generale.

La sfida posta dalle nuove frontiere della scienza e della biomedicina allo Stato costituzionale e pluralista è raccolto da un documento del Comitato nazionale per la bioetica sull’obiezione di coscienza diffuso ieri.

Il documento, come è stato già precisato dal vicepresidente del Cnb Lorenzo D’Avack, «è stato esaminato da un punto di vista generale» senza limitarsi a campi in cui sono già in vigore leggi, come quelle sull’aborto o sulla procreazione medicalmente assistita. Il testo è stato approvato praticamente all’unanimità, con un solo voto contrario, quello di Carlo Flamigni, che però si è astenuto sulle conclusioni. 

«Si tratta di evitare – afferma tra l’altro il documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Andrea Nicolussi, ordinario di Diritto civile all’Università Cattolica – di imporre obblighi contrari alla coscienza strumentalizzando chi esercita una professione».

Nelle conclusioni si afferma che l’obiezione di coscienza in bioetica «è costituzionalmente fondata, con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo». Nel sottolineare che essa «va esercitata in modo sostenibile», si ribadisce che è «un diritto della persona e un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili».

Il parere evidenzia peraltro che quando si riferisce a un’attività professionale, essa «concorre a impedire una definizione autoritaria» data per legge delle «finalità proprie» di quella attività. «La tutela dell’obiezione per la sua stessa sostenibilità nell’ordinamento giuridico – si aggiunge – non deve limitare né rendere più gravoso l’esercizio dei diritti riconosciuti per legge né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza sociale». 

Il Cnb raccomanda che la legge preveda «misure adeguate a garantire l’erogazione dei servizi, eventualmente individuando un responsabile degli stessi». L’esercizio di questo diritto fondamentale deve essere disciplinato in modo tale «da non discriminare né gli obiettori né i non obiettori e quindi non far gravare sugli uni o sugli altri, in via esclusiva, servizi particolarmente gravosi o poco gratificanti». Allo scopo si chiede «la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento», che «può prevedere forme di mobilità del personale e di reclutamento differenziato, in modo da equilibrare sulla base dei dati disponibili il numero degli obiettori e dei non obiettori».

Si indica anche la strada anche di controlli «a posteriori» per accertare che l’obiettore non svolga attività incompatibili con la sua scelta dichiarata. Sono da evitare però processi alle intenzioni a priori che mortificano la sua libertà. Il parere insomma evidenzia in ogni modo l’«esigenza di rispetto dei principi di legalità e di certezza del diritto», e dei diritti spettanti ai cittadini. Nella parte riservata all’analisi morale si chiarisce che l’obiezione non si basa su una mera opinione soggettiva, ma su di un valore «rincoscibile e comunicabile». 

Da un punto di vista giuridico essa viene distinta nettamente da qualsiasi forma di “sabotaggio” di leggi in vigore, ma anche dalla disobbedienza civile e dalla resistenza al potere. Su un piano più generale si osserva che che tale istituto segna «una profonda revisione» della cultura giuridica avvenuta dopo Auschwitz. Nel caso della difesa della vita o della salute il valore richiamato dal medico obiettore rappresenta in effetti una diversa interpretazione del valore protetto dalla Costituzione rispetto a quanto avviene nella legge approvata a maggioranza. La legittimità della obiezione testimonia quindi che il diritto costituzionale più aggiornato «accetta uno spazio critico nei confronti delle decisioni della maggioranza», proprio perché i principi richiamati sono presenti nella stessa Carta fondamentale dello Stato. L’obiezione di coscienza assume, inoltre, un peculiare rilievo «quando è invocata da un soggetto nell’esercizio di un’attività professionale», come risulta dai codici deontologici. In quello dei medici si afferma che l’esercizio della professione è fondato «sulla libertà e sull’indipendenza», «diritto inalienabile del medico», che qualora gli «vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento  per la salute della persona assistita». 

Principi richiamati nel giuramento professionale. Il parere esamina anche il fenomeno del continuo spostamento dei terreni di applicazione dell’etica, osservando che l’agire del medico regredisce dal trattamento chirurgico alla prescrizione del farmaco, o nel caso del farmacista alla somministrazione di esso. Questione che non riguarda solo i farmaci abortivi, tema già trattato dal Cnb, ma anche quelli letali illeciti in Italia, ma ammessi in altri Paesi. La complessità della questione secondo il Comitato suggerisce l’intervento degli ordini professionali per definire coloro che sono legittimati a esercitare l’obiezione. Ma considerando anche i casi in cui tale diritto non è riconosciuto, il parere osserva che «finché l’ordinamento ha la forza di ammettere l’obiezione mantiene un certo equilibrio; quando invece non è riconosciuta o gli obiettori vengono discriminati la legalità si riveste nuovamente del carattere autoritario», come Creonte nell’Antigone di Sofocle.

Avvenire del 31/07/2012

Pier Luigi Fornari

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Il Cnb sull’obiezione di coscienza: diritto della persona


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di Cinzia Sciuto

Diciamolo chiaramente: di questo parere del Comitato nazionale di Bioetica sull’obiezione di coscienza non se ne sentiva proprio il bisogno. In un paese in cui la quasi totalità dei ginecologi si rifiuta di compiere interruzioni di gravidanza proprio dichiarandosi obiettore di coscienza, e in cui a causa di questi numeri abnormi sta diventando praticamente impossibile abortire in molte strutture pubbliche, il Cnb – organo consultivo del governo – pubblica un parere (approvato con il solo voto contrario e motivato di Carlo Flamigni) in cui difende a spada tratta l’obiezione di coscienza, conferendole il rango di diritto costituzionale. Di più: definendola addirittura un baluardo della democrazia a presidio dei “diritti inviolabili dell’uomo”. 

Andiamo con ordine. Il parere pubblicato dal Cnb decide di occuparsi della questione dell’obiezione di coscienza in generale, non con riferimento specifico all’interruzione di gravidanza. L’obiettivo del Comitato è quello di fornire un quadro etico-giuridico che possa essere utile alla regolamentazione dell’obiezione di coscienza. E i princìpi ribaditi nel documento si possono così riassumere:

a) l’obiezione di coscienza è un diritto costituzionalmente fondato (il riferimento è agli articoli 2,3,10,19 e 21 della Costituzione);

b) “la libertà di coscienza da sola non è sufficiente a fondare l’obiezione di coscienzasecundum legem ma dev’essere integrata dal valore richiamato dall’obiettore” perché “quando la legge interviene sulla tutela di un bene fondamentale come la vita o la salute (…), il valore richiamato dal medico obiettore rappresenta una diversa interpretazione del valore protetto dalla Costituzione”.

Dunque, l’obiezione di coscienza “legittima”, o secundum legem, per usare le parole del documento, secondo il Cnb non è determinata dal semplice, arbitrario e soggettivo richiamo alla propria coscienza, ma deve avere anche un “contenuto” che faccia riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo, che l’obiettore ritiene essere messi in discussione dalla legge alla quale obietta. L’obiezione di coscienza è infatti definita dal Comitato come “la pretesa del singolo di essere esonerato da un obbligo giuridico, perché egli ritiene che tale obbligo sia in contrasto con un comando proveniente dalla propria coscienza e sia inoltre lesivo di un diritto fondamentale rilevante in ambito bioetico e biogiuridico”. La combinazione di questi due elementi, per un verso, delimita l’ambito di applicazione dell’obiezione di coscienza – non potendosi qualificare come tale qualunque rifiuto arbitrario in materie che non implichino il riferimento a “diritti fondamentali” – ma contemporaneamente fornisce agli obiettori una formidabile giustificazione etica alla loro scelta.

E inoltre implicitamente afferma che le leggi in cui la questione dell’obiezione di coscienza assume una certa rilevanza – come quelle sull’interruzione di gravidanza o sulla procreazione medicalmente assistita – mettono in discussione dei “diritti fondamentali” che la clausola dell’obiezione di coscienza è chiamata a tutelare. Non è un caso, infatti, che in riferimento all’obiezione di coscienza il documento richiami continuamente i concetti di “diritti fondamentali”, “diritti inviolabili dell’uomo”, “diritti costituzionali”, mentre a proposito delle leggi verso le quali l’obiezione è sollevata si parli esclusivamente di “principio di legalità”, senza mai, per esempio, un riferimento al diritto alla salute delle donne – questo sì effettivamente “diritto umano inviolabile” – che è il cuore della legge 194. 

Il parere del comitato cade poi in continue ambiguità, e talvolta in vere e proprie contraddizioni. Nel tentare di difendere l’autonomia sia dei singoli medici che della categoria professionale nel suo complesso, il Cnb propone in un esempio paradossale: “Un’eventuale legge che obbligasse il medico a somministrare una emotrasfusione nonostante il rifiuto del paziente maggiorenne e consapevole (ad esempio testimone di Geova) – si legge nel documento – imporrebbe un’idea eteronoma della professione come attività di esecuzione di prestazioni obbligatorie anche per chi le riceve, anziché di prestazioni offerte a persone libere”. Ma qui siamo in presenza di un paziente che rifiuta una cura! L’esempio calzante sarebbe stato quello di un medico testimone di Geova che si rifiuta di fare una trasfusione di sangue su un paziente che ne ha bisogno (e che la consenta). Ossia – in analogia con il più classico caso dell’obiettore di coscienza sull’aborto – l’esempio di un medico che, in nome delle sue convinzioni etiche e religiose, si rifiuta di prestare un servizio previsto dalla sua professione.

Il documento è tutto teso a creare la cornice etico-giuridica per un’obiezione di coscienza costituzionalmente fondata e perfettamente coerente con l’ordinamento giuridico e per fare questo (e anche forse per riuscire ad ottenere una larghissima maggioranza) ribadisce più volte che questo istituto non può diventare un’arma di sabotaggio delle leggi dello Stato. Per questo, nelle conclusioni, il Cnb afferma che “nel riconoscere la tutela dell’obiezione di coscienza nelle ipotesi in cui viene in considerazione in bioetica, la legge deve prevedere misure adeguate a garantire l’erogazione dei servizi, eventualmente individuando un responsabile degli stessi” ed esplicitamente raccomanda “la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento, negli ambiti della bioetica in cui l’obiezione di coscienza viene esercitata, che può prevedere forme di mobilità del personale e di reclutamento differenziato atti a equilibrare, sulla base dei dati disponibili, il numero degli obiettori e dei non obiettori”. Ma è proprio l’ordine del ragionamento a essere capovolto: è la tutela dell’obiezione di coscienza come diritto fondamentale della persona il punto di partenza. 

E forse non è un caso che questo parere, che non è stato richiesto dal governo né dal parlamento, ma è un’iniziativa autonoma del Comitato, esca proprio a pochi mesi dall’inizio di una mobilitazione dei medici non obiettori. Con le iniziative della Laiga prima e con la campagna “Il buon medico non obietta” dopo, i non obiettori avevano cominciato ad alzare la testa e a ribadire con forza e orgoglio la propria professionalità, denunciando un fenomeno che sta di fatto rendendo inoperativa la 194. La controffensiva è cominciata. 

(31 luglio 2012) La Repubblica