“Legami di vita buona” riflessione dal convegno della Azione Cattolica

Il Concilio è il nostro presente e il nostro futuro. È la chiamata a rinnovare il nostro patto di fedeltà alla Chiesa e a dare risposte alle aspettative di questo nostro tempo, carico di drammi e pur fecondo”.

Così il presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Franco Miano, ha concluso ieri a Roma il convegno nazionale “Legami di vita buona. Azione Cattolica, Chiesa locale e Chiesa universale”, che dal 21 al 23 settembre ha riunito oltre 350 tra presidenti e assistenti unitari diocesani e regionali di Ac.

Con lo sguardo al nuovo anno associativo, che s’inserisce e si orienta nel cammino tracciato dalla coincidenza di tre grandi eventi – i 50 anni dall’apertura del Concilio, l’inizio dell’Anno della fede e l’imminente inaugurazione del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione -, Miano ha rinnovato la “promessa” dei laici di Ac di “costruire legami di vita buona con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, nel cammino ordinario compiuto da ciascuno di noi nelle diocesi e nelle parrocchie”.

Una fede intelligente. Ogni fondamento di “vita buona”, ha spiegato inaugurando i lavori mons. Domenico Sigalini, assistente generale dell’Azione Cattolica e vescovo di Palestrina, presuppone una “fede intelligente”, poiché “una fede senza intelligenza è un insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti”, bensì “persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori”. Nella sua relazione di apertura, “I laici e il Concilio”, il monaco camaldolese Franco Mosconi ha offerto all’uditorio un “percorso conciliare” basato su tre direttrici “da riscoprire”. A partire dalla speranza, ossia l’avere fisso “un orizzonte escatologico”, per arrivare alla santità, “termine ormai relegato tra gli incensi”, ma che “significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio”. Su di esse si erge come “stella polare” la “Parola di Dio”. Di qui la domanda: “Cosa ne abbiamo fatto della Parola a mezzo secolo dalla ‘Dei Verbum’?”. “Questo arco di tempo – che per la Bibbia è il segno di un’intera generazione – quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola?”. La Parola divina “è come un mare in cui ci si deve immergere”; invece, ha concluso Mosconi, “spesso non incide ferite nella placida superficialità dei nostri giorni”.

Seminatori della Parola. Nell’omelia della celebrazione eucaristica presieduta il 22 settembre, mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, ha ricordato che “dopo Gesù, ognuno di noi è seminatore della Parola di Dio”, e ciò comporta anzitutto “la responsabilità a non essere seminatori qualunque”. “Non ci si improvvisa evangelizzatori, come non ci si improvvisa buoni seminatori: occorre formarsi a questo compito”. “Il buon seminatore – ha ammonito il presule – non è colui che resta immobile. Come Gesù, è in continuo andare incontro all’altro. Dunque, non è più tempo di rimanere chiusi nelle nostre parrocchie. Bisogna uscire e andare lì dove l’uomo vive. Il che non vuol dire andare in Paesi lontani, ma al di là del nostro pianerottolo, dove vive il nostro vicino. Questa è la nuova evangelizzazione”. “L’unica e indivisibile missione della Chiesa – ha precisato mons. Diego Coletti, vescovo di Como – si articola secondo tre prospettive principali, intimamente connesse tra loro”: “Secolare, profetica e pastorale”. La prima consiste nel permeare “dello spirito evangelico la vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti “secolari” (famiglia, lavoro, economia, cultura, politica, scienza…)”. La prospettiva “profetica” si esplica nel manifestare “in grado straordinario, nel proprio stile di vita, le esigenze radicali della sequela di Gesù, indicate nel Vangelo”. “La prospettiva “pastorale” è, infine, il modo di “vivere ed esprimere l’unica e indivisibile missione della Chiesa assumendo, con la forza dello Spirito Santo, il compito di dar vita alla comunità cristiana, nutrirla con la Parola e i sacramenti, coordinarne i carismi e i ministeri, curarne i difetti e le malattie, vigilare per diffonderla e custodirla: in una parola, edificare e condurre la comunità in quanto tale”. 

Testimonianza dalla Romania. Il “profilo delle responsabilità cui è chiamato il laico cristiano nel suo servizio alla comunità” è stato delineato da Anna Maria Basile, presidente diocesana di Andria dal 2005 al 2011. A partire da tre verbi, ha spiegato: “Custodire, tramandare, generare ancora” per “capire meglio il tempo e il luogo in cui viviamo”, avere “uno sguardo nuovo”, cercare “nel passato le radici del futuro”. La storia di un’Ac romena “cresciuta in numeri e impegno, in particolare nel far conoscere il ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, considerando che i documenti del Concilio sono stati pubblicati in lingua romena solo dal 1990, dopo la caduta del comunismo, a 35 anni sua dalla chiusura”. A raccontarla sono stati la presidente dell’Ac di Iasi, Adriana Ianus, l’assistente don Felix Roca, e il vescovo ausiliare mons. Aurel Percã. Un’esperienza di laicato missionario ed evangelizzatore, “impegnato nell’educazione alla fede e nell’azione di carità” e “particolarmente attento ai temi della famiglia”.


Riportiamo la Lectio divinadi mons. Domenico Sigalini, Assistente generale dell’Azione cattolica e vescovo di Palestrina, al Convegno nazionale dei Presidenti e Assistenti unitari diocesani e regionali dell’Ac, in corso a Roma.

Troppo indurito è il nostro cuore

Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo. Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode! ”. E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”. Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via? ”. Gli dissero: “Dodici”. “E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via? ”. Gli dissero: “Sette”. E disse loro: “Non capite ancora? ”.(Mc 8, 14-21)

Appena prima di questo brano di vangelo sono state narrate due moltiplicazioni dei pani, al capitolo 6 (vv. 41-43) e al capitolo 8 (vv. 6-8). Hanno destato grande meraviglia e discussioni, piccoli egoismi e grandi progetti materiali. Chi aveva trovato la panacea per tutti i suoi mali: che vuoi di più, ci dà anche da mangiare! Chi aveva pensato che il miracolo poteva essere di casa tutti i giorni con un uomo così. Gesù coglie il rischio e fa fatica a far capire che i suoi miracoli sono segno, soltanto segno. Questo è segno di un altro pane. I farisei continuano a chiedere segni, sicurezze, certezze, ma Gesù offre un segno decisivo per la fede dei cristiani: il pane che è Lui, il pane eucaristico, che è ancora Lui, il pane dell’offerta sacrificale dell’Eucaristia, che è sempre Lui, il pane della vita, che ne è il senso, la pienezza.

Ma i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo.

Ne erano avanzati di pani dopo la prima e la seconda moltiplicazione; Gesù li sollecita a prendere la barca per non fissarsi sui facili successi e sul facile indice di gradimento ottenuto con il miracolo. E i discepoli lasciano a terra tutto quel ben di Dio. Era la scorta per la loro fame, ma la lasciano e si adattano a quel pezzo che è rimasto in barca. E’ solo un pezzo di pane o è il pane della vita che è Gesù? Su questo gioco di simboli si sviluppano le domande dure, incalzanti, mozzafiato di Gesù.

Che pane avevano con sé sulla barca?

Io chi sono per voi? Mi sto facendo in quattro per aiutarvi ad alzare lo sguardo dal piatto e voi ci ficcate dentro pure la vita! Non siete capaci di fare il salto di qualità che deve fare ogni uomo di fronte a tutte le cose. Niente è solo materia, tutto ha un significato che rimanda a Dio. Questo pane non è la sorgente di un litigio per quando gli apostoli sentiranno un buco nello stomaco, ma è la presenza di Gesù. Lui è il pane della vita, il sapore, il senso; il nutrimento, il gusto della casa e del forno, dell’amore di chi lo ha preparato e del lavoro che lo ha reso possibile: è una introduzione umanissima alla sua presenza nel pane e nel vino.

Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!

Il lievito dei farisei e il lievito di Erode sono inseriti in questa scena da Marco come un inciso, prima di proseguire con le domande di Gesù e possono essere letti nel contesto come due preoccupazioni o condizioni per credere alla grandezza del pane che è Gesù: c’è un lievito che traduce la cecità dovuta alle ideologie, o ad atteggiamenti culturali di autosufficienza e un lievito, quello di Erode, che stigmatizza e rappresenta ogni strumentalizzazione del potere. Sono minacce all’accoglienza del pane che è Gesù, al significato del consumarsi per gli altri che è assolutamente opposto a quello che i due lieviti rappresentano.

Se questo pane è poi figura non troppo velata e lontana del pane eucaristico che deve essere spezzato per tutti, i lieviti errati possono essere letti come l’autosufficienza, l’egoismo, il dominio dell’uomo sull’uomo, come fu la vita di Erode. Non sono assolutamente compatibili questi modi di vivere con l’accoglienza di questo pane, con la disponibilità e la comunione fraterna che deve caratterizzare ogni comunità che si raccoglie la domenica attorno al pane eucaristico. Che senso avrebbe spezzare il pane da gente che si ignora, che non si sopporta, che si fa la guerra, che non vive in pace, che cerca in tutti i modi di sopraffare l’altro, di usarlo, pure con i guanti bianchi?.

E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”.

Siamo senza nutrimento, siamo senza concretezza, ci siamo ritrovati euforici, dopo le belle moltiplicazioni dei pani, dopo aver goduto di un successo insperato con la gente, dopo che tutti ci guardavano con invidia perché siamo del giro di Gesù, ma oggi tutto è finito e siamo rimasti soli. Cercavano con gli occhi un forno, invece dovevano guardare a Gesù. Quante volte anche noi davanti a Dio diciamo: non abbiamo più pane

L’abbiamo consumato nell’ingordigia

L’abbiamo creduto un modo di dire di Gesù e non abbiamo conservato quella fede semplice della prima comunione

Non abbiamo pane perché nelle nostre comunità non si fa posto alla sua Parola.

Non abbiamo pane perché abbiamo perso il senso della vita

Non abbiamo pane perché siamo pigri; niente ci soddisfa, e tiriamo a campare

Non abbiamo pane perché ci manca la speranza nella vita

Non abbiamo pane perché sentiamo una fame che non passa con il cibo

Non abbiamo pane perché ci siamo affidati alle superficialità e ora ci lasciano soli

Non abbiamo pane perché la messa domenicale viene dopo le nostre preoccupazioni economiche, di riposo, di relax. Dopo lo spread e i dati della borsa.

Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?

Inizia qui la serie di domande che anche noi ci vogliamo fare, che Gesù in maniera incalzante fa ai suoi discepoli.

Se scorriamo il testo vediamo che la parola pane o pani è detta almeno sei volte e che almeno sette volte Gesù coglie la loro assoluta incomprensione. Non ci sono dubbi su che cosa voglia dirci il vangelo con questo episodio e val la pena di lasciarci interrogare. Solo rispondendo a queste domande potremo trovare pace.

Discutere, intendere, capire è il desiderio e l’impegno di mettere al servizio della situazione la propria intelligenza e l’intelligenza degli amici: assieme si sta cercando di capire, ma non ci si riesce. L’intelligenza è la prima scintilla che deve scattare quando si tratta di fede; forse è la fame che ha innescato la discussione, forse la rabbia, il dispetto, ma Gesù vuole che si metta testa a quello che si fa e si vuol pensare. Ogni esperienza di fede può avere mille motivi, ma deve passare per il crogiuolo dell’intelligenza. Dio ci ha dato l’intelligenza perché la usiamo sempre fino in fondo. Abbiamo una razionalità che non può essere mandata all’ammasso perché troviamo più comodo fidarci del sentito dire, del sentimento, delle emozioni, delle atmosfere, delle tradizioni.

Una fede senza intelligenza è un  insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti. Vuole persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori. Quanti giovani credono che la fede sia abbandonare la lucidità della ragione, un atto che non regge di fronte alla scienza. Certo, se le conoscenze di Dio e della sua Parola sono ferme alle nozioni rabberciate al catechismo della fanciullezza, non possiamo dire che stiamo usando l’intelligenza. Abbiamo un luogo dove la fede deve fare i conti con l’intelligenza sempre, con la vita concreta, con i fatti quotidiani come la nascita, la morte, la malattia; questo luogo è la vita concreta di una comunità cristiana: la parrocchia

La parrocchia serve una fede che cerca l’intelligenza e che non si dà senza ragioni. Il sapere Dio che offre la parrocchia è intrinsecamente spinto a delinearsi nella vita dell’uomo e in ogni sua domanda, per questo non può non dirsi con parole di uomo, con simboli e linguaggi umani, dentro i significati profondi della vita e di ogni vita, nella quotidianità e nel susseguirsi degli eventi, nella ricerca faticosa di senso e di felicità degli uomini. La mediazione culturale non è un optional per la testimonianza cristiana della fede.

Entra in campo qui un servizio alla fede che deve abitare la cultura.

È autentico servizio alla vita quotidiana della gente, al tessuto di relazioni del territorio, alla costruzione di una società una fede che si fa cultura.

– Che sa rispondere ai grandi interrogativi dell’uomo andando oltre le risposte ben compaginate o didascaliche di ogni catechismo, che si fa domanda prima di essere risposta. E’ una fede che si comunica, qualitativamente diversa da quella che rimane nel chiuso della propria consolazione

– per questo è necessario un passaggio da una cultura inconsapevole, che faceva parte dell’habitat naturale di una società cristiana a una nuova consapevolezza. Forzando, ma non troppo, il concetto si può dire che occorre passare da una generazione di cristiani che hanno ricevuto le risposte senza farsi le domande, a cristiani che si interrogano con tutti gli uomini sul proprio destino, sul senso ultimo della vita. Qui si apre tutto il campo della inculturazione della fede

– un altro livello di necessità dell’esprimersi culturalmente della fede e che è a portata di parrocchia, proprio per la sua popolarità e concretezza, è

* tutto lo sforzo di cambiamento di mentalità assolutamente improrogabile per aiutare i nuovi poveri a ridarsi speranza da sé, entro nuovi modi di pensarsi nel proprio territorio, per uscire dall’usura, per ridare forza alle strutture educative, per innestarsi nelle relazioni umane. E’ ancora fede che si fa cultura se è vero come abbiamo detto sopra, che la carità e forma della fede.

* la consapevolezza che si deve tradurre ogni pensiero, ogni contenuto della fede in un linguaggio laico, in un linguaggio che ha la persona umana al centro dell’attenzione. Bisogna diffidare delle comunicazioni semplicemente cristiane. Il pensiero sociale della Chiesa è tutto traducibile in linguaggio laico. E’ in voga purtroppo una sorta di fondamentalismo che non si applica seriamente a ridire con linguaggio laico le grandezze della fede in Gesù. E’ una scorciatoia che, se da una parte aiuta a sentirsi a posto in coscienza, perché siamo stati capaci di dire con coraggio la nostra fede, dall’altra lascia l’uomo solo ad affrontare il delicato momento del dirsi della fede nella sua vita, nelle sue fatiche quotidiane, nella pressione degli eventi, nei problemi che rimangono spesso aperti non solo per tutta una vita, ma anche per stagioni di storia.

Il nostro cuore è indurito

Gesù fa però anche un’altra domanda, chiama in causa non solo l’intelligenza, ma anche il cuore, anche la capacità di lasciarsi coinvolgere in una  esperienza di dono. Cuore, nel nostro modo di dire è termine che significa amore, dono, l’offerta di tutta la persona. E’ necessario per la completezza di una adesione di vita. Non basta l’intelligenza, occorre la capacità di amare. Gesù fa una domanda che suona come un rimprovero, che ci mette al muro: avete il cuore indurito? Sclerocardia è l’indurimento: sclerosi del cuore. E’ lì bloccato come una pietra. Che cosa può esprimere un pezzo di pietra se non la durezza di una vita che sta altrove, che non si commuove per niente, che non comanda al viso nemmeno un sorriso, alle mani una stretta d’accoglienza, al corpo uno slancio di dedizione? Chi ha il cuore indurito per eccellenza nell’Antico Testamento è il faraone, il padrone dell’Egitto, colui che tiene prigioniero il popolo, che lo sfrutta, che non bada a sofferenze, che calcola il  numero dei mattoni, che comanda la morte dei neonati, che si mette contro Dio, contro il suo piano di salvezza (cfr Es 4, 21). Alla fine di ogni piaga che ritma le speranze e delusioni del popolo di Israele che vuol uscire dall’Egitto c’è un ritornello: il cuore del faraone è ostinato nella sua durezza di cuore. Il salmo 4 dice:  Fino a quando, o uomini, sarete duri di cuore? Perché amate cose vane e cercate la menzogna? Nel vangelo di Matteo (13, 15) si richiamano le parole di Isaia : Voi udrete, ma non comprenderete,  guarderete, ma non vedrete.  Perché il cuore di questo popolo  si è indurito. Ezechiele (2,4) dice:  Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito.

Lo stesso Marco (6,52) appena dopo la moltiplicazione dei pani, nelle stesse condizioni, sulla barca, nella fatica di reggerla col vento contrario, con Gesù che cammina sulle acque e viene in loro aiuto, ancora dice: Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito.

Insomma Gesù nella sua infinita sapienza e bontà continua a chiedere agli apostoli di aprire il cuore, di mettersi in una condizione di amore, di dono, di accoglienza, di apertura.

Lasciati andare, smollati, vieni giù dalle tue sicurezze, fidati, fa un passo, rischia, dona la tua vita, smettila di stare sulle tue, apriti alla vita, buttati nell’avventura dell’amore, esci dal tuo comodo loculo…Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dá, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso (Deut 15, 7)

A questo cuore indurito serve una cardioterapia, fatta di preghiera, di ascolto della Parola, di relazioni umanissime e di scuola d’amore. La famiglia, l’amicizia, l’innamoramento, il fidanzamento sono tutte cardioterapie se hanno al centro l’amore fino all’ultima goccia di Gesù. Questi apostoli hanno bisogno di una full immersion nel cuore di Gesù. La faranno, ma prima verrà la passione

Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ?

Sono domande che Gesù fa usando letteralmente le parole dei profeti

Is 6, 9-10 Ascoltate pure, ma senza comprendere,
osservate pure, ma senza conoscere.
Rendi insensibile il cuore di questo popolo,
fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi
e non veda con gli occhi
né oda con gli orecchi
né comprenda con il cuore
né si converta in modo da esser guarito”.

Ger 5, 21 “Questo dunque ascoltate,
o popolo stolto e privo di senno,
che ha occhi ma non vede,
che ha orecchi ma non ode.

Ez 12, 12 Il principe, che è in mezzo a loro si caricherà il bagaglio sulle spalle, nell’oscurità, e uscirà per la breccia che verrà fatta nel muro per farlo partire; si coprirà il viso, per non vedere con gli occhi il paese.

Nei discepoli si verifica un’altra volta e chissà per quante volte ancora il dramma dell’antico popolo, dell’uomo che continua a fuggire la premura di Dio, che snobba il suo amore, che chiude gli occhi davanti all’evidenza, che si chiude in se stesso, che butta fuori Dio dalla vita. Gesù si mette così nella linea dello struggente amore di Dio per l’umanità e vuol far capire agli apostoli che in questa azione di assoluta misericordia si vuol collocare.

Gesù si manifesta come colui che realizza il piano di Dio, pensato da secoli, come poi San Paolo cercherà di annunciare a tutti i pagani.

Allora la storia di questi discepoli è la nostra storia, le loro difficoltà sono le nostre, le loro chiusure sono le nostre autosufficienze, i loro dubbi sono i nostri rifiuti a seguire Gesù.

E non vi ricordate….

E’ utile dare risalto anche a questo verbo che spesso torna nelle Sacre Scritture; un verbo legato alla memoria, che per la bibbia non è il riportarsi a cose passate, ma a un fatto vivo e attualmente operante. Così è la memoria della Pasqua, così è l’Eucaristia che è memoria, memoriale della morte e Risurrezione di Gesù, così sono tutti i gesti sacramentali.

Gli apostoli se vorranno fare parte di un nuovo modo di vivere la vita e il rapporto con Dio dovranno esercitare e confrontarsi continuamente con questo significato di memoria. Non siamo cultori di diari, di musei, non siamo antiquari o specialisti del mercato delle pulci dove puoi trovare pezzi antichi a basso prezzo, ma siamo ricostruttori di vita vera, riproduttori di gesti autentici di salvezza, li riviviamo, non li togliamo dalla formalina per guardarli o dall’antitarme per metterli in mostra. L’Eucaristia è qui, è oggi spezzare il pane che è la vita, la morte e la risurrezione di Gesù. Vengono ricordate le sette sporte, le dodici ceste: sono ancora le sporte e le ceste del pane eucaristico che viene spezzato ogni giorno, ogni domenica nell’Eucaristia per i fedeli di oggi. Si dice due volte “pezzi di pane”, perché l’Eucaristia è proprio pane spezzato, fatto in pezzi. L’intento degli evangelisti è chiarissimo e noi oggi ancora viviamo questa gioia di avere tra noi il pane che è Gesù.

E disse loro: “Non capite ancora? ”

Il brano di vangelo termina con un’altra domanda ancora, con una infinita serie di punti interrogativi, di inviti a cambiare testa, a entrare in un altro ordine di idee, di atteggiamenti, di conoscenza di Gesù. Dobbiamo decidere di affidarci interamente a Gesù. E’ tempo di accorgerci della nostra durezza di cuore, di risvegliarci nella verità. Questo brano di vangelo ci dice la forza e l’impegno che esige sempre la lettura della Parola di Dio; è una lettura che continuamente ci provoca, non è fatta per far riposare le orecchie, ma per far cantare il cuore.

Così mi immagino che dicessero tra di loro gli apostoli:

Siamo su quella barca e stiamo riprendendo il cammino con Gesù; è stato veramente emozionante partecipare alle moltiplicazioni dei pani, ma ci siamo fermati al livello dello stomaco. Ci siamo riempiti la pancia, e capivamo a fatica che non erano espedienti per soccorrere la fame di cibo della gente. Noi euforici di questo potere abbiamo avvertito in Gesù una certa tensione. Dopo la prima moltiplicazione ci ha quasi obbligati a metterci in barca per cambiare aria. Ci aveva visti troppo attaccati al successo, non voleva che ci lasciassimo prendere la mano da un eventuale potere e già lì ci ha detto che avevamo un cuore duro. Ma perché?

Poi un’altra moltiplicazione e ci siamo ancora meravigliati. Ancora un altro spostamento in barca, con un solo pane. Non ci eravamo accorti che quel pane era per noi solo Gesù. Non capivamo, Ci ha fatto un fuoco di fila di domande, ci sembrava perfino impaziente. Ci ha detto che abbiamo il cuore malato, duro come una pietra. Ci ha riportato alla storia dei nostri padri che hanno spesso voltato le spalle a Dio. Volete abbandonare Dio anche voi? Volete capire che questo pane sono io, il senso della vita sono io, il Dio che ha fatto cielo e terra si fa incontrare da me?

Gli avremmo creduto pienamente più tardi, quando dopo quell’ultima cena, abbiamo toccato con mano la sua tristezza, ma anche la sua volontà incrollabile di dono fino alla fine, il suo essere pronto a dare la vita volontariamente. Quella sera ci ha fatto capire che nessuno lo stava consegnando anche se lo tradiva o ingannava, nessuno lo stava prendendo con inganno, ma si offriva lui. Da sempre aveva aspettato quel momento. Quel pane oggi per noi è ancora la sua presenza, Lui nella pienezza del dono di sé e sarà sempre la nostra forza, sarà al centro della nostra preghiera, lo contempleremo in adorazione ininterrotta.

L’uomo non vive di solo benessere

Pubblichiamo il testo dell’omelia tenuta dal cardinale Ennio Antonelli, già presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nella Messa per il V Pellegrinaggio nazionale delle famiglie per la famiglia, celebrata a Napoli in Piazza Dante prima della serata dedicata alle Dieci Piazze.

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Grazia e pace e ogni bene a tutti voi e alle vostre famiglie dal Signore nostro Gesù Cristo!

Siamo qui riuniti per partecipare al bellissimo progetto “10 Piazze per 10 Comandamenti”. Sono incontri di festa, ed è giusto che sia così perché per i Comandamenti di Dio, per la legge di Dio, bisogna essere grati, bisogna far festa. È una legge di libertà, una legge di amore, una legge per la vita, per la vita umana autentica, per la vita buona, per la vita personale, per la vita sociale. È giusto far festa: dice la parola di Dio stessa nel Salmo 118 che i precetti del Signore fanno gioire i cuori. Certo, si rattristano anche quando non li osserviamo con piena responsabilità, e allora la coscienza ci rimprovera, ma di per sé sono per la vita, sono per la gioia, sono per la felicità, adesso e nell’eternità.

Oggi siamo qui per celebrare, per festeggiare il quarto Comandamento, “Onora il padre e la madre”, un Comandamento che riguarda la vita familiare. E questo nostro incontro inizia con la liturgia della 24ª domenica del Tempo ordinario. Le Letture come messaggio principale ci presentano la dinamica, la logica, l’orientamento di fondo della vita di Gesù e della vita vera cristiana. È la logica dell’amore inteso come dono di sé, come dedizione a Dio e agli altri. Questa logica dell’amore e della carità conferma, assume i Comandamenti e li porta a perfezione, in un certo senso li trascende. Quindi è molto adatto questo messaggio per questo incontro che stiamo celebrando. Abbiamo ascoltato dal Vangelo l’importante dialogo tra Gesù e i discepoli a Cesarea di Filippi. Questo dialogo si colloca nel momento centrale della vita pubblica di Gesù. Il momento della cosiddetta svolta di Gesù: fino a quell’ora il Signore si era dedicato soprattutto alle folle, alle masse. Da allora in poi si dedica soprattutto ai discepoli, ovviamente senza trascurare le folle.

Ma c’è una svolta piuttosto evidente nei racconti evangelici. Gesù aveva compiuto molte guarigioni, aveva mostrato la potenza di Dio, la misericordia di Dio. La gente lo aveva seguito in massa, con entusiasmo, piena di meraviglia per quello che lui compie, piena di speranza per il futuro e si domandava: «Chi è mai costui? Chi è quest’uomo così potente, così buono?». E dava diverse interpretazioni, risposte. Qualcuno diceva: «È Giovanni Battista che Erode ha fatto decapitare e che è risuscitato dai morti», qualcun altro diceva: «È Elia», il profeta che secondo l’Antico Testamento era stato tratto in Cielo sul carro di fuoco e secondo l’aspettativa della gente doveva ritornare nei tempi del Messia. Comunque dicevano: «È un profeta, è un grande profeta che è sorto tra di noi». Ma Gesù dice ai discepoli: «Ma voi chi dite che io sia?», e Pietro a nome di tutti dice: «tu sei il Cristo, tu sei il Messia». Gesù accetta questa professione di fede di Pietro ma nello stesso tempo ordina severamente di non dirlo in giro alla gente, di non dirlo a nessuno: «Sì, sono il Messia ma non lo dite».

Perché questo? Perché la gente, i discepoli stessi avevano una falsa immagine del Messia, si aspettavano un re trionfatore, un re che guidasse la rivolta del popolo contro i Romani, che liberasse il popolo dall’oppressione dell’Impero romano, che portasse la libertà e il benessere, che inaugurasse un regno potente, facesse di Gerusalemme il centro del mondo. Quelle che la gente nutriva erano speranze terrene di gloria e di grandezza, Gesù invece è il Messia in un senso completamente diverso. Si rivolge ai discepoli e dice che il Figlio dell’Uomo deve essere rifiutato, respinto dalle autorità della nazione, deve essere perseguitato, oltraggiato, umiliato, suppliziato, ucciso, e poi risusciterà. I discepoli rimangono profondamente disorientati, sbalorditi: «ma che sta dicendo?», e Pietro a nome di tutti lo tira in disparte e dice: «Ma che dici? Non ti deve assolutamente succedere quello che stai dicendo». Pietro rimprovera Gesù, ma Gesù a sua volta rimprovera Pietro, come avete sentito: «Va’ dietro di me, satana, non pretendere di andarmi davanti e di dirmi tu quello che bisogna fare. Vieni dietro a me, a te spetta seguirmi, va’ dietro di me o tentatore, perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini, secondo gli interessi, la mentalità terrena degli uomini».

E poi Gesù, non contento di questo, raduna la folla e dice: «Non pensate che seguirmi sia una passeggiata, una marcia trionfale. Se qualcuno vuol venire dietro me, vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita la perderà ma chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo la salverà». È un discorso difficile per la gente, difficile per gli stessi discepoli, persino per Pietro.

È questa la “svolta di Galilea”: da allora in poi le folle cominciano ad abbandonarlo, non lo capiscono più, rimangono profondamente deluse. Gesù parla di «chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo», cioè chi dona la propria vita per amore, facendo della sua vita un dono, un dono al regno di Dio, a Dio e agli altri. E questo naturalmente costa anche sacrificio, bisogna portare la croce per questo. Ma chi imparerà a donare la sua vita, anche col sacrificio, questi la ritroverà, non perde in realtà la vita, la acquista, la rende autentica, piena, trova la felicità già adesso e poi nell’eternità. È questa l’esperienza che fanno tutti i veri cristiani: il centuplo già adesso e poi la vita eterna.

Ma è un discorso difficile, contrario alla mentalità spontanea, all’interesse immediato, al piacere immediato, alla miopia delle nostre vedute umane, dell’opinione pubblica. E quindi bisogna avere il coraggio di credere sul serio a Gesù, di prenderlo sul serio e di andare controcorrente. Gesù ci assicura che non è una speranza solo nel futuro: adesso soffri e solo dopo la morte, troverai… anche subito! C’è un altro detto di Gesù: c’è più gioia a dare che a ricevere. Non c’è gioia solo nel seguire la propria soddisfazione o nella propria gratificazione, interesse, bene immediato; ma c’è gioia anche a donare, provare per credere! Lo sanno le mamme per esempio, in famiglia, quando con amore fanno dei grossi sacrifici ma si sentono anche interiormente contente perché stanno facendo qualcosa di bello per i loro figli, lo stanno facendo per la loro famiglia. C’è più gioia a dare che a ricevere, già adesso: questo vale per tutta la vita cristiana, e in particolare per la vita di famiglia.

Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica Deus caritas est, dice che l’amore coniugale vero è sintesi di eros e agape, è sintesi di amore e desiderio, di ricerca della propria soddisfazione – giusto e umano anche questo – ma sintesi con la dedizione e l’impegno per il bene dell’altro coniuge. Quindi l’amore-desiderio deve essere unito con l’amore-dono. E allora l’amore-desiderio non è più egoismo, ma viene nobilitato, diventa pieno, autentico amore. E questo è anzitutto amore reciproco tra i coniugi, l’uno per l’altro, e poi è amore comune dei genitori verso i figli, dedizione ai figli, con la procreazione, con la cura e con l’educazione. Questo comporta sacrificio, la croce: Gesù lo dice chiaramente, non ci inganna.

Comporta tanti sacrifici, piccoli e grandi, nelle varie circostanze della vita, quasi ogni giorno, ma porta anche una gioia autentica nella misura in cui riusciamo a vivere coerentemente questa logica dell’amore che è sintesi dieros e agape. A Milano, nel recente Incontro mondiale delle famiglie, è stata presentata una ricerca sociologica “La famiglia, risorsa della società”. Sono stati confrontati diversi modelli, diverse forme di famiglia o para-famiglia – oggi c’è molta fantasia nella società e nella cultura – ed è risultato che le famiglie “normali”, quelle che poi sarebbero anche nelle aspirazioni della gran parte della gente, compresi i giovani, le famiglie normali cioè uomo e donna uniti in matrimonio, con due o più figli, sono le più felici, le meno lamentose, le più coraggiose nell’affrontare la vita, le più generose. Sono più felici e più stabili, perché tra l’altro i figli sono un rafforzamento del legame dei coniugi stessi; sono più pro-sociali, cioè più aperte, più attente, più disponibili, più impegnate anche verso la società, verso le altre famiglie, verso i problemi dei poveri, verso la società in generale. Sono famiglie anche mediamente più povere, questo è significativo, perché non sono sostenute anzi sono penalizzate sia dallo Stato sia dal mercato, e quindi sono mediamente più povere, ma sono più felici.

Cosa significa questo? L’uomo non vive di solo benessere, l’uomo non vive di beni materiali soltanto: vive soprattutto di relazioni buone, e quando c’è la ricchezza di relazioni c’è anche la gioia, il gusto di vivere. E allora ecco, le famiglie che hanno due o più figli hanno ricchezza di relazioni, magari minore ricchezza di beni materiali, ma maggior ricchezza di relazioni. E quindi sono anche l’ambiente più adatto per la crescita umana di tutti i membri, dei figli innanzitutto ma anche degli adulti stessi, sono la scuola più vera, più autentica di umanità, e portano anche un maggiore benessere alla società. Viceversa, la povertà di relazioni crea infelicità e danni alle persone e alla società. Nello stesso libro in cui è stata pubblicata questa ricerca c’è anche uno studio dei dati sociologici, disponibili nel mondo già da tempo, una ricerca di sfondo: i figli, i giovani che crescono senza la figura paterna o con la madre soltanto o con nessuno dei due genitori, negli Stati Uniti sono il 90% dei senza casa, gli sbandati; il 72% degli omicidi, l’85% dei carcerati, il 60% degli stupratori.

Notate quanti danni alle persone e alla società vengono fuori quando la famiglia non c’è o non funziona? In Francia, l’80% dei ricoverati in psichiatria sono persone che sono cresciute in una famiglia incompleta o sfasciata, inesistente. In generale, , i giovani che crescono con un solo genitore, hanno doppia probabilità di diventare delinquenti rispetto agli altri che crescono in una famiglia normale. Questo per quanto riguarda i figli. Ma anche per gli anziani non va bene. Gli anziani che non hanno avuto figli, che non li hanno voluti soprattutto – se non sono venuti non è colpa di nessuno – vanno incontro alla solitudine. La mancanza di figli, la scarsità di figli genera solitudine per gli anziani e la solitudine è una grande povertà.

Dice Madre Teresa di Calcutta, che di povertà se ne intendeva, che è più grave, fa soffrire di più la povertà della solitudine che non quella della miseria dei Paesi poveri. E lei diceva spesso che i Paesi del benessere, in realtà, sono più poveri dei Paesi sottosviluppati, più poveri di umanità e anche di gusto di vivere – e questo non ci vuole molto a rendersene conto se si va in un Paese dell’Africa, per esempio si vedono tanti bambini che sono festosi, gioiosi, non hanno niente eppure sembra che abbiano tutto.

E poi la de-natalità, la mancanza di figli, prepara un futuro molto rischioso per gli anziani, mette a rischio l’economia, lo Stato sociale, le pensioni, l’assistenza degli anziani: in un futuro non lontano il trend è questo. È chiaro che la famiglia normale, quella di due o più figli con una coppia stabile di coniugi, la famiglia cosiddetta normale è la famiglia che è un grande bene per tutti, per le persone e per la società. In fondo è quel tipo di famiglia che il Comandamento di Dio vuole sostenere: “Onora il padre e la madre”, e viceversa i genitori sono i primi che devono dedicarsi seriamente ai figli, l’amore deve essere nelle due direzioni e innanzitutto deve partire dai genitori verso i figli.

Mi pare che queste statistiche presentate a Milano confermino la validità dei Comandamenti di Dio, confermino che i Comandamenti di Dio sono per la vita, per la vita buona già adesso: non solo per il futuro, per l’eternità, ma già adesso, per la vita buona delle persone, per la vita buona della società. E quindi mi pare davvero giusto e bello che noi facciamo festa, che festeggiamo, celebriamo i Comandamenti di Dio e in particolare il quarto Comandamento nell’incontro di oggi.

Come insegnare la religione con l’arte

Tra le tante proposte per una nuova evangelizzazione e per un insegnamento della religione che sia strettamente connesso ad un progetto culturale, ha destato grande interesse la pratica di alcuni insegnanti di utilizzare le arti visive.

Una vera e propria catechesi della bellezza che mentre fa conoscere e spiega e svela il mistero di capolavori artistici, pittorici, architettonici, scultorei, allarga gli orizzonti verso il sacro e il divino.

A questo proposito le suore Maria Luisa Mazzarello e Maria Franca Tricarico, docenti alla Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, hanno curato e pubblicato un cofanetto di cinque volumi edito da Il Capitello ed Ellenici, con il titolo “Insegnare la religione con l’arte”.

Secondo suor Mazzarello: “Comunicare la fede percorrendo la via della bellezza è certamente avvalersi più di una opportunità per incontrare e penetrare il mistero”.

L’arte – ha aggiunto – è parola silenziosa ed eloquente per incontrare Dio. L’arte, infatti, è luogo teologico, espressione della fede attraverso le formule iconografiche. L’arte è la via del concreto che apre alla comprensione del trascendente”.

Per approfondire un tema di così grande attualità e interesse ZENIT ha intervistato suor Maria Franca Tricarico.

Come è possibile insegnare religione seguendo percorsi artistici?

Nel supertecnologico XXI secolo la Chiesa non manca di richiamare l’attenzione sulla rilevanza del linguaggio dell’arte cristiana il cui scopo, oggi come nel passato, è quello di ‘demonstrare invisibilia per visibilia’  cioè ‘spiegare le cose invisibili attraverso quelle visibili’.

Dall’esperienza in aula e dialogando con gli insegnanti, risulta che il ricorso all’arte è una strada percorribile. L’arte – come aveva scritto Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti – è per sua natura una sorta di appello al Mistero. L’arte, dunque, è un linguaggio che attraverso le forme simboliche svela agli alunni, non solo a quelli della scuola superiore, ma anche a quelli della scuola dell’infanzia, le “cose di Dio”. I nostri ragazzi oggi, sono un po’ come quegli “illetterati” di cui parlava Gregorio Magno i quali vedendo comprendevano. Lo stesso vale a scuola. L’esperienza ci dice che per i ragazzi un’immagine è più eloquente del solo discorso che va comunque ricuperato, forse proprio a partire da un’opera d’arte.

In definitiva, il percorso artistico nell’insegnamento della religione significa riappropriarsi della tradizione antica, significa ri-attualizzarla; significa considerare l’arte quale “testo” che ri-dice la parola di Dio e, nel caso dell’arte contemporanea, quale “testo” che lascia intravedere il religioso e la dimensione spirituale anche attraverso la precarietà esistenziale dell’uomo.

In concreto, in aula le opere d’arte vanno proposte come testo-documento, come esegesi pratica, come esegesi figurativa della Scrittura. Operativamente, per l’analisi delle opere, si può prevedere

▪ la presentazione e l’osservazione dell’opera d’arte: si sollecitano i ragazzi a guardare con attenzione tutti gli elementi presenti nell’opera proposta e ad elencarli (descrizione preiconografica);

▪ il passaggio dalla descrizione dell’opera all’interpretazione simbolica: si sollecitano i ragazzi a scoprire che tutti gli elementi presenti nelle opere di diverse epoche hanno un preciso intento comunicativo, e a tentarne un’interpretazione; si provocano interrogativi che consentono di formulare ipotesi di significato da convalidare alla luce di varie fonti, in particolare il testo biblico come fonte privilegiata. Tutto questo per scoprire gli elementi di significato di cui il testo-arte è portatore (analisi iconografica e interpretazione iconologica).

Inoltre, si può pure prevedere la riespressione dei contenuti trasmessi dall’opera d’arte mediante la produzione dei ragazzi: è il momento di verifica delle competenze acquisite in ordine alla lettura e alla comprensione dell’opera d’arte la quale nasce sempre da un’idea biblico-teologica che si materializza in personaggi, forme, colori, volumi, disposizioni spaziali, ecc. I ragazzi sono invitati ad assumere i seguenti atteggiamenti: silenzio immaginativo, esternazione delle proprie idee, dialogo, produzione individuale e/o di gruppo. In questo modo la classe si costituisce quale “bottega d’arte” dove viene potenziata l’immaginazione e la creatività attraverso processi di reinterpretazione e di rielaborazione.

Un’importante attenzione didattica va rivolta alla scelta delle opere. Si escluderanno opere in cui prevalgono dettagli inutili e l’effetto scenografico; come pure quelle che “infantilizzano” il Mistero. Si sceglieranno invece opere che si propongono per la loro semplicità ed essenzialità, come pure opere che penetrano la Sacra Scrittura, la ri-dicono, la interpretano e l’attualizzano.

Una tale scelta deriva dalla consapevolezza che l’arte è un testo complesso non nel senso di difficile, ma nel senso che racchiude una molteplicità di elementi riconducibili a vari aspetti del dato cristiano. L’attenzione pedagogica e didattica che si richiede è allora quella di proporre agli alunni espressioni artistiche a seconda della loro età e delle loro capacità cognitive ben sapendo che ogni traccia, ogni espressione dell’arte cristiana è un testo che può essere letto, compreso e interpretato a vari livelli.

In definitiva, la via dell’arte cristiana nell’azione didattica è percorribile anche se richiede da parte dell’insegnante una particolare “attrezzatura” cognitiva e la passione per l’arte. Tutto ciò si acquista con una continua formazione e contemplazione.

Per questo, nel corso degli anni, con una mia collega, ho curato la pubblicazione dei sette testi della Collana “Insegnare Religione con l’Arte” (Elledici) il cui scopo è appunto quello di aiutare gli insegnanti nella loro formazione. Questi testi sono indirizzati anche agli studenti degli Istituti Superiori di Scienze Religiose e ai Catechisti.

zenit del 5/09/12

Giovani e scuola: risultati di un’indagine

La Scuola è tra le istituzioni che incontrano maggior grado di fiducia tra le giovani generazioni. Secondo il campione analizzato, la netta maggioranza (oltre il 55%) dà ad essa un voto positivo.

E’ quanto emerge dall’indagine “Rapporto Giovani” dell’Istituto di Studi Superiori Giuseppe Toniolo, realizzata dall’Ipsos, da un campione, rappresentativo su scala italiana, di 4500 giovani tra i 18 e i 29 anni.

Ancor più alto il gradimento (valore positivo per quasi due su tre) tra quelli ancor più giovani (20 anni o meno).

Rispetto alla ripartizione geografica, la fiducia tende ad essere maggiore dove scuola e Università offrono migliori strutture e maggiori livelli di preparazione. Il voto positivo supera infatti il 60% al Nord. I valori sono comunque positivi nella maggioranza dei casi anche nel Centro e nel Sud.

Valori sensibilmente più alti sono, inoltre, assegnati al sistema formativo dai giovani che vivono in una famiglia con genitori più istruiti, dove il valore dello studio tende ad essere maggiormente trasmesso. In particolare, se il padre è laureato la quota di voti positivi arriva vicina al 65%. La percentuale di consensi rimane comunque sopra il 50% anche per chi proviene da classe socio-culturale più bassa.

Sia studio che lavoro

Solleva molte preoccupazioni in Italia il fenomeno dei “Neet”, ovvero dei giovani che non studiano e nemmeno lavorano. Esiste,però, anche la categoria opposta, formata da giovani che studiano e nel contempo anche lavorano. Un gruppo di particolare interesse per vari motivi: perché con la crisi economica questi giovani pur avendo trovato un lavoro non rinunciano allo studio, in funzione di migliorare comunque le proprie prospettive future. Ovvero perché,  pur studiando, hanno deciso di iniziare già a confrontarsi con il mercato del lavoro. Una scelta meritoria, quella di cercare durante gli studi di mantenersi del tutto o parzialmente da soli, tanto più in un Paese come il nostro che presenta i più alti tassi di dipendenza economica dei giovani dai genitori nel mondo sviluppato.

Una scelta dettata non sempre e solo da necessità, ma spinta anche dal desiderio di autonomia e da un senso di responsabilità. Ma che si scontra anche con le difficoltà a conciliare tali due impegni.

Nel nostro ampio campione considerato (oltre 4500 giovani nella fascia 18-29 anni), tra coloro che studiano, la quota di chi svolge una qualche attività lavorativa è vicina a uno su cinque tra chi proviene da famiglie con classe sociale più bassa, ma è comunque su livelli di rilievo anche per chi proviene da famiglie più benestanti.

La possibilità di coniugare studio e lavoro è inoltre molto più elevata al Nord rispetto al Sud, sia per le maggiori opportunità di occupazione ma anche per la maggior presenza di studenti fuori sede che vivono lontani dalla famiglia di origine con i costi che questo comporta.

Come ci si può aspettare, la percentuale aumenta con l’età. Sale a circa un caso su tre attorno ai 25 anni, e si avvicina a un caso su due verso i 30 anni.

Riguardo al tipo di contratto, anche qui come ci si poteva aspettare, molto bassa è la quota di chi ha un contratto a tempo indeterminato, pari a poco più di uno su quattro tra coloro che hanno un lavoro alle dipendenze, mentre circa il 16% ha invece un lavoro autonomo.

Chiesa in Europa: per crescere insieme

Si è concluso oggi a Cipro l’incontro Ccee-Comece su radici cristiane e coesione sociale

Una tre giorni di appuntamenti, dibattiti e spunti di riflessione: questo il seminario promosso a Cipro dalla Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e dedicato alla coesione sociale, giunto oggi al termine.

Riaffermato che “non è possibile un’Europa coesa che dimentichi le sue radici cristiane” si è ribadito che la “Chiesa può e deve inserirsi all’interno del dibattito sulla coesione sociale, anzi il suo contributo è fondamentale”.

Come ha sottolineato il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, presidente della Cei e vice-presidente del Ccee (insieme a mons. Józef Michalik, arcivescovo di Przemyśl-Polonia) “la Chiesa ha un grande messaggio per quanto concerne la questione sociale e la società in generale grazie alla dottrina sociale della Chiesa che è il compendio delle implicazioni a livello culturale, sociale, economico, politico, ma soprattutto antropologico del mistero di Cristo e del Vangelo”.

Ecco, quindi, che questo seminario, organizzato dal Ccee (www.ccee.org) e condiviso dalla Comece, la Commissione degli episcopati della Comunità europea (www.comece.org), ha inteso rispondere a questa esigenza. Le Chiese cattoliche europee, ha rilevato il cardinale Bagnasco, sentono “profonda la missione di mettersi a servizio dell’evangelizzazione, sapendo che dentro al Vangelo vi è l’elevazione di tutto l’uomo e, quindi, della società”. 

Una cultura della diversità. Muovendo dal concetto di coesione sociale e richiamandosi alle parole delle Sacre Scritture,Andreas Pitsillides, docente di teologia e membro del Parlamento di Cipro, ha lanciato un messaggio importante a favore della multiculturalità. E come non affrontare un tema così importante proprio in questa terra? Cipro, rappresenta, infatti, un esempio per tutta l’Europa, perché “non si può parlare di coesione sociale se viene meno il concetto d’integrazione”. A tale scopo il teologo ha invocato un sempre maggior impegno da parte di tutti per creare una “cultura della diversità”. Al riguardo, ha aggiunto Pitsillides, “l’impegno e la missione della Chiesa cattolica nel promuovere la coesione sociale in Europa è fondamentale e per raggiungere questo obiettivo è importante comunicare con la gente, stando sempre al passo con le sfide di ogni epoca”. La parola è poi passata a Marios Mavrides, anche lui membro del Parlamento e docente associato all’Università europea di Cipro. Nel suo intervento, dal titolo “Costruire una società giusta: una prospettiva economica”, ha spiegato che, “nonostante i significativi passi in avanti per combattere le ingiustizie, la povertà e la disuguaglianza non sono ancora state debellate”. Concludendo il suo intervento ha poi aggiunto: “La costruzione di una società giusta non è facile e soprattutto non è un compito che può avere una fine, possiamo sempre puntare al meglio. Tuttavia, non riusciremo mai a raggiungere la perfezione”. 

Una prospettiva integrale. A mons. Giampaolo Crepaldi, presidente della Commissione del Ccee promotrice del seminario, è toccato il compito di ripercorrere le tappe salienti di questa tre giorni. Con l’intervento “Verso una ‘road map’ per la commissione ‘Caritas in Veritate’”, mons. Crepaldi ha focalizzato l’attenzione su tre punti salienti emersi dall’incontro: l’identità degli organismi del Ccee e della Comece, l’uso della dottrina sociale della Chiesa e l’Europa. “Chiedo scusa – ha detto – se la ‘road map’ è fatta più di domande che di risposte, ma a me sembra che porre le domande giuste, sia una maniera corretta per iniziare a rispondere in maniera adeguata”. Mons. Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza e uno dei quattro vice-presidenti della Comece e presidente della Commissione sulle questioni sociali della stessa Comece, ha voluto mettere in rilievo le varie declinazioni emerse del concetto di coesione sociale. “A mio avviso – ha affermato mons. Ambrosio – questo tema va affrontato in una prospettiva integrale anche se è giusto, nel mantenere una visione d’insieme, distinguere le varie problematiche. Infine credo sia importante evidenziare la visione culturale e politica di tale concetto, richiamandoci anche ai padri fondatori dell’Europa”. Concludendo l’intervento e riallacciandosi alle tematiche sociali, mons. Ambrosio ha ricordato l’importante appuntamento delle seconde “Giornate sociali europee” che si terranno in Spagna, a Granada, il prossimo anno e che vedranno nuovamente il coinvolgimento del Ccee, della Comece e di tutte le Chiese europee.

Il grande dono. Un messaggio di speranza è stato, infine, lanciato dall’arcivescovo dei maroniti di Cipro, Youssef Soueif, il quale ha ricordato che l’Europa ha dovuto far fronte a numerose difficoltà. “La minaccia della crisi economica – ha detto – ci mette nuovamente a dura prova, ma le guerre, anche quelle economiche, si affrontano nello Spirito di Cristo, l’Unico in grado di trasformare le difficoltà in grazie e benedizioni”. Come ha ricordato, infatti, il cardinale Bagnasco: “L’Europa è il grembo originario del cristianesimo e non deve perdere questo grande dono”.

a cura di Nike Giurlani, inviata Sir Europa a Cipro

“L’arte della politica”, le ACLI di Roma si raccontano

La prima edizione della scuola di politica, organizzata dalle Acli di Roma presso il Monastero benedettino di Santa Scolastica di Civitella S. Paolo

Un percorso di una settimana tra testimonianze, dibattiti ed attività formative, per fornire strumenti nuovi per approcciarsi alla politica ispirandosi all’insegnamento di Tommaso d’Aquino. 

 E’ stata questa la scuola di politica organizzata dalle Acli della Capitale – “L’arte della politica” – che, alla sua prima edizione, si è svolta dal 17 al 22 luglio presso il Monastero benedettino di Santa Scolastica di Civitella S. Paolo, in provincia di Roma.  

 Un percorso dedicato agli oltre trenta giovani, fra i 18 e i 30 anni, che hanno deciso di partecipare al campo desiderosi di toccare con mano «il senso della buona e della cattiva politica, per scoprire insieme che cosa vuol dire oggi essere cittadini››.

Durante le giornate si sono affrontati i temi del conoscere, ascoltare, prendere parte, mediare e decidere, per trasformare l’idea di bene comune in un qualcosa da costruire insieme, con metodo.

 Gli incontri sono stati introdotti dalla meditazione spirituale pensata con lo scopo di introdurre l’argomento del giorno e fornirne una prima analisi di tipo spirituale, mentre nel corso della prima parte della mattinata si sono svolti gli incontri con gli ospiti seguiti dalla fase di dibattito con la platea.

 Nel pomeriggio si sono svolte attività pratiche e ludiche per mettere in opera quanto precedentemente affrontato in aula: dalla pinacoteca della politica durante la quale i ragazzi hanno potuto dipingere la propria idea di politica, al tribunale nel quale l’imputato “Politica” è stato accusato e difeso dai partecipanti divisi in due gruppi fino ad arrivare alla messa in scena di un caso politico.   

Per l’attività di cineforum è stato proiettato il film “Buongiorno, Notte”, ambientato nel 1978 narra del rapimento e della detenzione, da parte delle Brigate Rosse, di Aldo Moro.
Alle giornate hanno partecipato, il presidente delle Acli di Roma, Cristian Carrara, i deputati Enrico Letta e Luigi Bobba, il presidente delle Acli nazionali, Andrea Olivero, il giurista Alberto Gambino, il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini, il direttore della Società, Claudio Gentili, Don Andrea Palamides (sacerdote della Comunità della Riconciliazione – Santa Teresa di Gesù Bambino), il direttore delle relazioni esterne, affari istituzionali e marketing di Autostrade per l’Italia Francesco Delzio, il poeta Davide Rondoni, la iena Filippo Roma, il direttore generale di Peter Pan Onlus, Gian Paolo Montini, la giornalista Stefania Divertito e l’assessore alla Famiglia, all’Educazione ed ai Giovani di Roma Capitale, Gianluigi De Palo.

 Primo passo di un percorso che tende a replicarsi in futuro, questa scuola mira anche ad essere un punto di partenza per promuovere un’opera di sensibilizzazione sui temi della politica per portare i giovani ad essere di nuovo protagonisti attivi e consapevoli della società.

 Cogliendo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno partecipato e che hanno dedicato con cura il proprio tempo mirando alla buona riuscita della scuola, vi invitiamo a vedere le foto nella sezione fotografica del sito.

ROMA, venerdì, 3 agosto 2012 (ZENIT.org) –

“Youth with a mission” il messaggio di Cristo alle Olimpiadi

Nel cortile della chiesa cattolica di san Francesco d’Assisi, appena fuori il villaggio olimpico, alcuni volontari provenienti dalla Finlandia, appartenenti all’organizzazione protestante “Youth with a mission”, chiedono ai frati della loro vocazione cattolica.

Lo spirito delle Olimpiadi è anche questo, un nuovo dialogo tra le diverse fedi cristiane e la volontà di raggiungere insieme chi si è allontanato da Cristo. In questa parrocchia, frequentata da circa mille persone ogni domenica, il gruppo di giovani arrivati dalla Finlandia collabora con frati provenienti da Portogallo, Argentina, Singapore, Isole Mauritius, Francia, Colombia e anche dalla comunità di Palestrina, vicino a Roma.

Escono insieme, sulle strade attorno al villaggio olimpico, i giovani vestiti con la maglietta con la scritta “More than gold”, la charity ecumenica che ha organizzato le attività di evangelizzazione in tutto il Regno Unito, e i frati con il saio marrone. “Non facciamo proselitismo imponendo il cristianesimo”, spiega Alice Lamula, volontaria finlandese, che è qui insieme al marito, “cerchiamo di far sentire ai passanti che li amiamo e che il nostro affetto proviene da Gesù. Poi li invitiamo a messa o a bere qualcosa nella tenda dell’ospitalità che la parrocchia ha organizzato per accogliere i visitatori che vengono a Stratford per le gare”.

“Sulla metropolitana la gente è incuriosita dal nostro vestito e ci fa domande. Anche questo è un modo di testimoniare Cristo”, spiega padre Anthony Cho, parroco. “In occasione della cerimonia di apertura dei giochi – prosegue -abbiamo organizzato una festa: le persone delle diverse comunità hanno portato cibo e abbiamo fatto il tifo gli uni per le squadre degli altri, guardando le Olimpiadi su un maxi schermo”. Per padre Cho, i Giochi olimpici sono un’ottima opportunità per migliorare i rapporti all’interno di questa comunità multiculturale nella quale i parrocchiani provengono un po’ da tutto il mondo: Europa dell’est, Malesia, Singapore e Caraibi.

“Fino al 10 agosto esporremo il Santissimo Sacramento dalle 9 del mattino alle 18 di sera e avremo quattro serate dedicate alle preghiere di Taizè. L’ultimo giorno delle Olimpiadi, domenica 12 agosto – conclude -, il vescovo di Brentwood, mons. Thomas McMahon, celebrerà una messa di ringraziamento”.

da Sir del 31/07/12

La visione cristiana del lavoro

Una “nuova cultura del lavoro” secondo la “visione cristiana”, quindi non solo in “chiave economicistica”.

É quella auspicata da mons. Arrigo Miglio, arcivescovo di Cagliari e presidente del Comitato scientifico delle Settimane sociali, in occasione del confronto con il ministro del lavoro Elsa Fornero sul tema “La profezia del lavoro. Occupazione e sviluppo nel pensiero di Benedetto XVI” che si è tenuto ieri sera all’Auditorium Augustinianum di Roma.

Un “umanesimo aperto all’assoluto”. “Benedetto XVI é un Papa teologo, ma il suo magistero teologico offre e produce risvolti sociali profondi”, ha detto mons. Miglio, “soprattutto se pensiamo alla teologia della carità. Non c’é carità senza verità – ha proseguito – per questo l’enciclica Caritas in Veritate é una voce forte, che indica la via della speranza e invita a non avere paura di crescere, superando la prospettiva etico-culturale di impostazione individualistica”. Quello che serve é “un umanesimo aperto all’assoluto”, che dia la “possibilità di non rassegnarsi mai” e di “trovare nuove energie per ricercare la giustizia, senza ricorrere a slogan”. Il monito della Caritas in Veritate a proposito delle “condizioni di grande povertà oggi risuona più severo”, e “ancora più attuale – ha sottolineato -, “è il richiamo a superare una visione riduttiva della carità”. Che non può essere “estromessa dal tessuto etico” ma deve venire valorizzata nella sua componente di verità, senza la quale “scivola nel sentimentalismo” e “diventa preda delle opinioni contingenti dei soggetti”, fino a rischiare di mutarsi in “parola distorta”. La verità, come “un’ossatura”, libera la carità “dall’immobilismo che la priva di contenuti”, ha evidenziato mons. Miglio, che nel corso del suo intervento ha spesso attinto alle parole affidate dal Papa alle encicliche, veicoli di messaggi che, ha sottolineato, “non scavalcano la ragione, ma la aiutano a trovare soluzioni”.

Fiducia, solidarietà, gratuità. Quanto alla “nuova cultura del lavoro”, potrà instaurarsi “se riconosciamo l’importanza, per il mercato, di parole tradizionalmente non appartenenti al lessico economico: fiducia, solidarietà, principio di gratuità” e se “coltiviamo la relazione tra lavoro e festa”. Il lavoro, ha detto, “non é solo salario, ma realizzazione. La festa non é solo riposo ma gioia. E aiuta a comprendere la dimensione antropologica del lavoro”. Un’esigenza, quella del lavoro, che “deve diventare intreccio virtuoso con la famiglia” nella conciliazione dei tempi, seguendo “esempi che in Europa non mancano”. Il percorso culturale da intraprendere é “non semplice e mai compiuto”, pertanto si rende necessario “abbattere il lavoro sommerso, elaborare politiche per il sostegno famigliare, ridistribuire la pressione fiscale e sostenere la crescita delle imprese”: impegni che saranno al centro della prossima Settimana sociale, nel 2013 a Torino. Mons. Miglio si é infine soffermato sulla relazione tra lavoro e preghiera, sottolineando “la consapevolezza cristiana” secondo la quale “lo sviluppo non viene prodotto ma donato”.

Al centro la persona, non “il posto”. “Dalla Rerum novarum alla Populorum progressio, – ha detto il ministro Elsa Fornero – la dottrina sociale della Chiesa propone l’adattamento e l’accoglimento del principio di sussidiarietà” in maniera “molto più flessibile” di quanto facciano le “dottrine laiche” dell’economia di mercato, ossia la visione liberale e quella socialista. L’enciclica Caritas in Veritate é “profetica” per “la concezione del lavoro espressa da Benedetto XVI, come attività umana prima che professionale”: visione che, secondo il ministro, “é coerente con la nuova cultura del lavoro”, che richiede “rapporti personali” e “capacità di non fossilizzarsi”. L’impegno sul mercato del lavoro si muove, ha proseguito, verso la direzione “dell’inclusione e della dinamicità” affinché giovani e donne non rimangano tagliati fuori e si possano “ridurre i tempi della transizione dalla scuola al lavoro”. Al centro di questo mercato non c’é “il posto”, ma “la persona, col suo sapere e il suo capitale umano”: per questo, ha spiegato, “le dinamiche adottate per salvaguardare la crescita” sono “coerenti con le parole e il pensiero di Benedetto XVI”. I temi delle encicliche “hanno lasciato la loro impronta nella riforma approvata in Parlamento” e, ha concluso la Fornero, “se instradiamo questo Paese verso gli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, avremo svolto bene il nostro lavoro”.

da: SIR di mercoledì 25 luglio 2012

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ANCHE NEL LAVORO VA RISPETTATA LA CENTRALITÀ DELLA PERSONA

Monsignor Arrigo Miglio interviene ad un dibattito all’Augustinianum sulla Caritas in Veritate

ROMA, mercoledì, 25 luglio 2012 (ZENIT.org) –

La profezia del lavoro: occupazione e sviluppo nel pensiero di Benedetto XVI

questo il titolo dell’incontro organizzato ieri presso l’Auditorium dell’Augustinianum di Roma, da Eventi Elea, con l’intervento del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, e dell’arcivescovo di Cagliari, monsignor Arrigo Miglio, organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani.

A Zenit il vescovo di Cagliari ha indicato due punti importanti riguardo all’incontro: “Primo, che si sia trovato il tempo da parte del ministro, ma anche dei partecipanti di fermarsi a riflettere sul tema del lavoro, in un discorso generale di fondo, un segnale culturale e sociale. Secondo, ci siamo trovati insieme anche con delle convergenze che conoscevamo prima e che esprimono di più la volontà di cercare insieme, lavorare insieme e parlarci schiettamente. E la volontà di collaborare da parte della Chiesa italiana sempre c’è stata”.

Sulle difficoltà di coniugare i principi dell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in Veritate con una politica economica concreta, il presule ha aggiunto: “I principi vanno declinati nelle situazioni concrete, che a volte sono provvisorie, poiché si evolvono”. L’arcivescovo ha considerato positivo il principio sottolineato dalla Fornero, ovvero che “va difesa la centralità della persona umana”.

Nella sua presentazione mons. Miglio ha rivolto un pensiero ai giovani: “A chi è in difficoltà va data la risposta della solidarietà, la società civile deve stringersi intorno ai giovani”. E ha esortato: “Tutta la comunità si faccia carico di questi problemi, ognuno con le sue competenze”.

Il ministro del Lavoro ha centrato il suo discorso sul fatto che nel mondo globalizzato attuale le situazioni lavorative non sono quasi mai immobili come nel passato, così come non esiste più le possibilità di fare carriera all’interno di una stessa azienda.

Questo conduce, ha aggiunto la Fornero, a una nuova cultura del lavoro “che metta al centro la persona, la sua professionalità, e non un posto fisso specifico e unico che, purtroppo, di questi tempi, è diventata merce assai rara”.

La concezione del lavoro di Benedetto XVI, ha osservato il ministro “vede l’attività umana prima che professionale”, quindi “bisogna mettere al centro del mercato del lavoro non il posto, ma la persona, il suo capitale umano e il suo sapere”.

“È l’occupabilità che va valorizzata – ha detto – e non l’attaccamento, a volte esasperato, tra quel lavoratore e il suo posto di lavoro”. Perché esiste un mercato del lavoro che è vero, e deve essere ‘”dinamico e inclusivo, che non lasci ai margini donne e giovani”.

Il ministro ha spiegato come la dinamicità del lavoro è la possibilità di iniziare a lavorare non appena si finiscono gli studi, e non dopo mesi o anni come succede adesso. Ma anche la necessità di riabilitare mestieri che i giovani di oggi considerano svilenti.

Bertone agli atleti azzurri: “Lo sport quale lezione di vita”

“Mostrate a quali traguardi può condurre la vitalità della giovinezza, quando non si rifiuta la fatica di duri allenamenti e si accettano volentieri non pochi sacrifici e privazioni”.

Ha ripreso le parole del Papa il Card. Bagnasco nel messaggio inviato domenica 22 luglio alla Squadra Olimpica azzurra, riunita a Londra nella storica St.Peter’s Church per la S. Messa, celebrata alle ore 19.

“Una lezione di vita più che mai necessaria oggi – ha osservato il Presidente della CEI – in un tempo di crisi che chiama tutti a rigore e sacrificio”.Soffermandosi in particolare sulle Olimpiadi, “dove si confrontano popoli e nazioni che rappresentano culture e tradizioni differenti”, il Cardinale Presidente ha evidenziato che esse possono “diventare tramite di una forza ideale capace di aprire vie nuove, e a volte insperate, nel superamento di tensioni, conflitti, violazione dei diritti umani”.

IL MESSAGGIO

da: CEI del 22/07/2012

IRC: i testi dell’intesa tra CEI e MIUR

Ecco in allegato i testi della duplice Intesa – firmata giovedì 28 giugno a Roma dal Card. Angelo Bagnasco, per la Conferenza Episcopale Italiana, e dal Ministro Francesco Profumo, per il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – con cui viene ridefinito il profilo professionale dei futuri insegnanti di religione cattolica e vengono aggiornate le indicazioni per l’insegnamento nel II ciclo, adeguandole al nuovo ordinamento scolastico.

Ridefinire il profilo professionale dei futuri insegnanti di religione cattolica e aggiornare le indicazioni per l’insegnamento nel II ciclo, adeguandole al nuovo ordinamento scolastico: questo l’oggetto della duplice Intesa che è stata firmata giovedì 28 giugno alle ore 12.30 a Roma, presso la sede CEI di Circonvallazione Aurelia 50.

L’intesa, che aggiorna un precedente accordo del 1985, corona un lungo percorso di dialogo e collaborazione.

Intesa MIUR-CEI religione scuole pubbliche.pdf


Intesa MIUR-CEI Indicazioni secondo ciclo.pdf

 

da: www.chiesacattolica.it del 20/7/12