XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:  Isaia 5,1-7

Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna.

  Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi. 

 

Il richiamo della vigna e delle premure del padrone nei suoi confronti ha un noto antecedente nell’Antico Testamento, come testimonia il brano di Isaia, scelto come prima lettura. Questo piccolo poema è un autentico gioiello della letteratura universale.

     Un valido cantore intona questo canto per il suo amico che ha avuto una vicenda dolorosa con la sua vigna. L’inizio fa echeggiare note di amore che celebrano la premurosa sollecitudine di un uomo nei confronti della sua vigna (vv. 1-2). Poi il cantore si tira in disparte e prende il suo posto lo stesso interessato che convoca gli abitanti di Gerusalemme come testimoni e proclama il suo totale impegno (vv. 3-4). Nella terza parte, cambiando decisamente registro, troviamo una requisitoria e una condanna verso Israele, presentato in forma criptata nella figura della vigna (vv. 5-7).

     La cura amorosa per la vigna è espressa con la scelta di vitigni che danno l’uva vermiglia, una qualità ancora oggi molto apprezzata nel vicino Oriente per i suoi rubicondi grappoli. Oltre a ciò, alcuni interventi quali l’asportazione di pietrame e la costruzione di una torre difensiva erano garanzia di un frutto di qualità. Inaspettatamente, il risultato deludente contraddice tanta passione e tanto sforzo: i grappoli presentano solo agresta, un tipo di uva ad acini piccoli, fibrosi e per di più asprigni, così da allegare i denti.

     Concluso lo status quaestionis, la scena si trasforma da amorosa in giudiziale. Ci sono tutte le premesse: lo stesso danneggiato prende la parola, espone il caso negativo (produzione di uva selvatica), cita i testimoni, dichiara il proprio stato di innocenza.

     La reazione, che è altresì una punizione, serve a scoprire le carte. Dopo le cure infruttuose, ecco lo stato di abbandono (eliminazione della siepe e abbattimento del muro di cinta) che rende la vigna proprietà selvaggia di presenze indesiderate (animali e erbe male). Il vertice della narrazione è raggiunto con l’identificazione dei contendenti. Da una parte sta l’amato tradito che è Dio in quanto è colui che può comandare alle nubi di non far piovere (cf. v. 6) e dall’altra la vigna che è il popolo di Israele che produce grappoli amari di malvagità, espressa sinteticamente come «spargimento di sangue» e «grida di oppressi» (v. 7). Nonostante tutte le premure di Dio, l’elezione, la protezione dai suoi nemici e altro ancora, il popolo non ha realizzato le aspettative del suo Dio. Davvero una vigna ingrata, incapace di relazionarsi correttamente con chi l’ha tanto amata.

Seconda lettura: Filippesi 4,6-9

Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù. In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!

 

Verso la parte finale della lettera alla comunità di Filippi, Paolo si attarda in una serie di raccomandazioni. Aveva esortato ad una gioia ben fondata perché il Signore era vicino. La sua vicinanza funge da deterrente contro ansie incontrollate. Chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio. Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio. Il cristiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo.

     Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf. 1,13). È pure convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf. lo stesso verbo di Mt 6,25.31 dove si raccomanda un sincero abbandono alla Provvidenza) che bloccano e rendono improduttivi. Positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v. 7 è la sacramentalizzazione. La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti». Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a lui. Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.

     La formula «in conclusione» del v. 8 raccoglie un insieme di ammonimenti che appartenevano alla sapienza classica. Passiamo ora, dopo le pennellate teologiche, ad affreschi di tutto rispetto ma nell’ordine della normalità. E questo non dispiace. Il cristiano non è pensato come un abitante della stratosfera dello spirito, bensì come un essere incarnato che, partendo dalle virtù umane, risponde agli impulsi dello spirito per tendere alla perfezione. Non ci sarà santità di vita senza una piattaforma di sana ‘normalità’. Per questo un elenco di 8 virtù invita a ricercare e a perseguire «quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode». Le prime quattro indicano valori etici e spirituali individuali, le altre quattro invece, a due a due, sottolineano di più l’aspetto pubblico e sociale. Il cristiano è capace di valorizzare tutto, di integrare i valori proposti dai pagani e dai giudei e di inserirli in una sintesi superiore.

     Paolo rimanda ancora al proprio esempio, concretizzazione di vita cristiana alla quale i Filippesi possono ispirarsi perché l’hanno, almeno in parte, sperimentata personalmente. Per loro Paolo, in quanto apostolo, rimane il collegamento diretto e sicuro con Cristo.

     Con la promessa benedicente «Il Dio della pace sarà con tutti voi!» si conclude il presente brano a carattere esortativo.

 

Vangelo: Matteo 21,33-43

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.  Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».  Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».  

 

Esegesi

     Cronologicamente siamo verso la fine della vita pubblica di Gesù, dopo il solenne ingresso nella città santa. Gli ultimi giorni terreni sono segnati da un conflitto sempre più aspro con i capi. Gesù ha già polemizzato con loro a proposito della sua autorità nel tempio (cacciata dei venditori) e pronosticato un rivoluzionario sorpasso («i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», 21,31). In questo rovente clima giunge la nostra parabola che, con la successiva riguardante il banchetto, rincara la dose arrivando addirittura all’esclusione dei capi giudei.

     La parabola ha un canovaccio particolare. La minuta esposizione imbastita sui generosi interventi del padrone nei confronti della vigna e sulla feroce ostilità dei vignaioli produce una reazione immediata nell’uditorio, pronto a condannare un comportamento inqualificabile. Gli ascoltatori non si avvedono però che le loro parole sono un’autocondanna. Gesù raccoglie e fa proprio il loro giudizio orientando il senso della parabola in chiave d’istologica e pasquale.

     Possiamo allora ravvisare questo schema:

     vv. 33-39: esposizione del racconto parabolico;

     vv. 40-41: domanda di Gesù e risposta (autoaccusa) degli ascoltatori;

     vv. 42-43: prospettiva cristologica e passaggio di consegne da un popolo improduttivo a uno produttivo.

     1. Il canovaccio della parabola

     I primi destinatari delle parole di Gesù sono i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo (cf. 21,23), coloro che dovevano guidare il popolo sui sentieri di Dio. Di fatto, loro stessi si sono smarriti sui viottoli di un bieco interesse personale.

     L’azione del padrone è minuziosamente descritta con una raffica di sette verbi («piantò, circondò, scavò, costruì, affidò, andò, mandò») di cui i primi cinque sono direttamente riferiti al rapporto padrone-vigna. Ne viene un itinerario dettagliato di appassionato amore. Si inizia dal fatto che il padrone pianta la vigna. Essa nasce quindi da una precisa volontà altrui. Sarebbe logico aspettarsi un profondo legame tra lei e colui che l’ha voluta. L’idea di dipendenza è arricchita da una serie di interventi che mostrano la cura che il padrone ha nei confronti della sua creatura. Dopo averla «generata» si premura di assicurarle un futuro prosperoso. Ecco le azioni di recinzione e di costruzione di una torre, con evidente intento difensivo. La costruzione del torchio nella stessa vigna è pure un atto di attenzione; è una vigna dove c’è tutto. Non occorre quindi trasportare il futuro raccolto da un’altra parte.

     Il quarto verbo — «affidò» — sta ad indicare che il padrone non intende creare un monopolio nei confronti della vigna e associa altre persone come collaboratrici della sua opera. Consegna loro una situazione ottimale: vigna piantata e protetta, munita di tutto il necessario. Si tratta di continuare nella stessa linea, permettendo alla vigna di produrre e raccogliere il prodotto. In qualità di collaboratori, associati in un’opera da loro non fondata e ricevuta già ben avviata, devono anch’essi mantenere un legame di amorosa sudditanza nei confronti del padrone. Questi infatti se ne va, lasciando campo libero alla vigna e ai vignaioli.

     Potrebbe sembrare che i punti di attenzione siano due: la produttività della vigna e la sollecitudine dei vignaioli nel favorire tale produttività. In realtà l’asse si sposta invece su un interesse che riguarda i vignaioli, perché non si fa parola sulla produttività della vigna, dando per acquisito l’esistenza dei frutti. Tutto l’interesse della parabola è fissato sul rapporto tra il padrone e i vignaioli a proposito della consegna del raccolto. Dal settimo verbo riferito al padrone — «mandò» — scaturisce tutto lo sviluppo della parabola (cf. vv. 34-39). Ciò fa capire che la punta polemica della parabola è rivolta verso i capi («principi dei sacerdoti e anziani del popolo») citati all’inizio.

     L’esigenza del padrone di ritirare il raccolto è legittima e secondo le regole dell’epoca. Non si dice che lui voglia tutto il raccolto, costringendo i lavoratori alla fame. Possiamo ipotizzare qui una saggia regola della mezzadria e perciò anche i lavoratori partecipano alla rendita della vigna. Ciò che qui viene esplicitato, quindi degno di nota, è il rifiuto totale di consegnare qualche frutto al padrone, delegittimando così la sua autorità. I vignaioli infatti dimostrano un rifiuto totale e violento che diventa aggressione e uccisione dei servi inviati allo scopo d’impossessarsi dei frutti.

   Anche qui troviamo un elenco di verbi che pubblicizzano i sentimenti dei lavoratori che si sono impossessati dei servi del padrone («presero»), compiendo azioni violente: «bastonarono, uccisero, lapidarono».

     Il padrone è doppiamente danneggiato: non riceve i frutti della vigna e perde i suoi servi. Tuttavia mostra magnanimità nell’inviare altri servi, in numero maggiore dei primi. Stesso risultato fallimentare. Egli compie un ultimo tentativo, con l’invio del proprio figlio. Pure in questo caso, la sorte è analoga: espulsione dalla vigna e uccisione. I mezzadri non vogliono riconoscere alcuna autorità e si pongono come antagonisti nei confronti del padrone, usurpando la sua proprietà e uccidendo le persone che gli appartengono.

     Come sempre succede nelle parabole, anche qui l’attenzione è posta sull’ultimo elemento, l’invio del figlio. L’importanza è ben messa in evidenza anche dalla duplice riflessione — del padrone e dei vignaioli — che permette al lettore di accedere ai sentimenti più profondi dei protagonisti. È un’introspezione psicologica che rivela i meccanismi profondi delle scelte e dello stile di vita. Il padrone è presentato come PADRE che investe tutto sul FIGLIO, pensando che a questo punto termini la furia omicida dei suoi dipendenti e che si rendano conto dei loro obblighi, riconoscendo così la legittima autorità. I vignaioli sanno bene che il figlio è l’EREDE e pensano di eliminarlo per entrare in possesso della vigna. Il loro pensiero denuncia un preciso piano: c’è in loro una lucida e programmata malvagità.

     Qui termina la parte espositiva della parabola. Potrebbe suonare un po’ irreale (l’uccisione di coloro che vengono a riscuotere), se non fosse in filigrana la tragica vicenda che vede coinvolto Gesù. Egli è il figlio che «patì fuori della porta della città» (Eb 13,12) e che fu ucciso. E prima di lui tanti profeti hanno vissuto una sorte analoga.

     Un aspetto abbastanza originale della parabola è la chiara domanda posta da Gesù ai suoi uditori (v. 40) e l’altrettanto chiara la risposta dei suoi uditori che non hanno titubanze nell’esecrare il comportamento dei vignaioli prospettando una drastica soluzione: «li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo» (v. 41). La prima parte della risposta riguarda la condanna di collaboratori indegni, sottoposti al supplizio da loro applicato a coloro che venivano a riscuotere (una specie di legge del taglione). La seconda parte, positiva, prospetta il corretto atteggiamento di collaboratori fedeli, pronti a consegnare i frutti al legittimo proprietario.

     I poveri ascoltatori non si avvedono che la parabola è diretta contro di loro. Proprio perché sono liberi da condizionamenti e da pregiudizi convengono sulla necessità di punire gli empi mezzadri e di sostituirli con altri onesti e corretti.

     L’immagine della vigna attinge i suoi colori ad una tavolozza tante volte impiegata nel mondo biblico, basti ricordare il cap. 5 di Isaia (cf. prima lettura) e il Salmo 80 (79). La vigna era una rappresentazione del popolo di Israele. Il padrone che pianta e cura la vigna era l’icona del comportamento di Dio. I vignaioli omicidi sono i capi che hanno rifiutato di essere il legittimo tramite tra Dio e la sua vigna. Su di loro si abbatte la scure di un giudizio senza appello.

     2. La prospettiva cristologica

     Gesù riprende in mano le redini del discorso a cui imprime una chiara svolta cristologica e pasquale. La citazione del Sal 118 (117), 22-23 sposta l’asse di interesse dal rapporto padrone-vignaioli a quello di accoglienza-rifiuto di Cristo. È lui la pietra di cui parla il salmo. Una pietra apparentemente senza valore, tanto da essere gettata dai costruttori perché ritenuta inutile, ma presa da Dio per diventare un punto di forza di tutta la costruzione. Il rapporto di Dio con gli uomini ha avuto il suo punto culminante con l’incarnazione, che è l’invio del figlio fatto carne, dell’erede che chiamava tutti gli uomini a diventare eredi del padre celeste. Lui non è stato accolto e gli è stata riservata una sorte analoga a quella dei profeti, condannandolo a morte. L’idea che siano i capi i primi e principali responsabili della sua morte affiora anche altrove nel vangelo (cf. Lc 24,20). Il rifiuto di Cristo è l’atto supremo di malvagità che squalifica una persona, facendole perdere l’occasione unica e irripetibile della sua vita. Per questo occorre ripristinare una nuova relazione.

     Per fortuna, o meglio, per grazia, esiste qualcun altro con il quale è possibile ricominciare. Il brano termina positivamente con la prospettiva di un popolo capace di far fruttificare il regno di Dio. Ciò grazie all’opera salvifica di Cristo che culmina nel mistero pasquale. La sua morte è premessa e condizione di vita nuova che crea un popolo capace di opere degne e soprattutto di un rapporto filiale con Dio.

Meditazione

     Isaia e Matteo sottolineano il tema del fare: c’è un fare di Dio che attende un fare umano come risposta; in particolare, attende da parte della vigna-Israele un fare frutti adeguati. La prassi dei credenti è un fare frutto: si tratta di entrare in una relazione che dona fecondità. L’agire cristiano, pastorale in specie, rischia spesso la cecità dell’attivismo, la pigrizia della forza d’inerzia, l’insipienza di chi ha «freddo il senso e perduto il motivo dell’azione» (Thomas Stearns Eliot). Il raffreddarsi della carità (Mt 24,12) si può accompagnare a un fare dissennato, indiscreto e senza discernimento. La fede nel fare di Dio per l’uomo, dunque nel suo amore, è il fondamento dell’agire del credente.

     Il fare di Dio per la sua vigna è un lavorare (Is 5,2) che ne esprime l’amore (Is 5,1). L’amore è un lavoro, una fatica: la «fatica dell’amore» ( 1Ts 1,3). Anche per l’uomo, lungi dall’essere un’attività facile e immediata, l’amore è un lavoro che esige un’ascesi. La maturità umana trova nella capacità di lavorare efficacemente e di amare in modo adulto due elementi qualificanti decisivi.

     L’amore divino nutre un’attesa nei confronti dell’amato: non attende amore di ritorno, ma giustizia (Is 5,7). La giustizia umana onora l’amore di Dio. L’amore che attende qualcosa dall’amato esercita una dolce violenza, ma un amore che non attenda nulla dall’amato è semplicemente irreale.

     Prima lettura e vangelo sono brani di teologia della storia, di rilettura della storia alla luce della fede. Isaia parla dell’agire di Dio verso il suo popolo e la parabola evangelica rilegge la storia degli invii dei profeti e del loro rigetto da parte del popolo, fino all’invio del Figlio. Emerge la difficoltà di discernere il servo di Dio, il profeta. L’alterità insostenibile di Dio diviene l’alterità del profeta che si traduce nella sua presenza scomoda, imprevedibile, non racchiudibile in etichette del tipo «progressista» o «conservatore». Uomo del pathos di Dio, le reazioni del profeta agli eventi storici ed ecclesiali sfidano il buon senso comune e il comune sentire religioso e appaiono di volta in volta eccessive, non allineate, sproporzionate, difficilmente comprensibili, trascurabili, ininfluenti. Ed egli stesso viene sentito spesso come insopportabile o deriso come sognatore o considerato come presenza di cui si può tranquillamente non tener conto alcuno.

     L’atteggiamento dei contadini a cui è affidata la vigna (Mt 21,33-39) denuncia un pericolo perenne nella comunità cristiana: l’occupazione dello spazio ecclesiale da parte di chi vi esercita una leadership (Mt 21,38). Questo avviene quando un gruppo di persone che rivestono ruoli dirigenti nella chiesa assolutizza la propria visione e cerca di far divenire norma generale le proprie opzioni.

     La parabola pone di fronte all’enigma della violenza che può scandalosamente farsi presente in uno spazio religioso. Nell’alveo ecclesiale la violenza non riveste normalmente forme clamorose come la violenza fisica, ma più sottili come il non ascolto, il rifiuto, l’emarginazione, il disprezzo, la non accoglienza, il disinteresse, la pressione e l’abuso psicologico.

     Avviene così che l’agire di Dio, che fa dello scarto umano il fondamento della storia di salvezza (Mt 21,42), sia contraddetto dall’agire ecclesiale che crea scarti e produce emarginati. Questo l’agire di Dio: «Dio sceglie ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato» ( 1Cor 1,28). Questo lo scandaloso agire messianico, e questo è chiamato a essere l’agire dei messianici, i «cristiani».

     Lo stupore e lo scandalo che suscita in noi l’agire del padrone della vigna che, dopo avere visto tanti suoi servi subire una sorte violenta, infine invia il figlio, quasi sottovalutando il rischio, è indice della nostra distanza dal pensare di Dio, dalla radicalità del suo amore, dalla follia della sua gratuità.

     Il passaggio della vigna a un popolo che la farà fruttificare non è un giudizio sulla vigna-Israele, ma sui suoi capi, ed è anche invito e ammonimento, agli «eredi» a essere fecondi. Nessun sostituzionismo (i vignaioli non si sostituiscono alla vigna!): nessuna idea di chiesa come nuovo o vero Israele scaturisce dal testo. 

Preghiere e racconti

Curare la vigna è come curare la vita

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

Io sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.

   Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».

   E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta)

Continuate a esortarli finché vengano alla fede

Cristo «ci ha affidato il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Di nuovo con queste parole Paolo mostra la grandezza degli apostoli indicando quale ministero è stato loro affidato e contemporaneamente la sovrabbondanza dell’amore di Dio. Egli non si è adirato né ha abbandonato gli uomini per il fatto che non avevano ascoltato il suo inviato, ma persevera nell’esortare da se stesso o per mezzo di altri. Chi si meraviglierebbe a sufficienza dinanzi a tale sollecitudine? È stato ucciso il Figlio, il vero Unigenito venuto a riconciliare gli uomini con Dio, e il Padre non ha voltato le spalle a quelli che l’hanno ucciso; non ha detto: «Ho inviato mio figlio quale mediatore, e loro non solo non hanno voluto ascoltarlo, ma l’hanno messo a morte e l’hanno crocifisso. È giusto che li abbandoni». Ha fatto proprio il contrario, e ora che Cristo ha lasciato la terra, l’incarico è stato affidato a noi. Ci ha affidato il ministero della riconciliazione poiché Dio stesso era in Cristo e ha riconciliato a sé il mondo non tenendo conto dei peccati degli uomini. Vedi l’amore che supera ogni pensiero, ogni intelligenza! Chi era stato offeso? Dio. Chi fa il primo passo verso la riconciliazione? Dio. […] Paolo dice: «Ci ha affidato il ministero della riconciliazione»; queste parole necessitano di una precisazione. Non pensate che questo potere risieda in noi; siamo servi, colui che opera tutto è Dio che si è riconciliato il mondo attraverso il suo unico Figlio. E come se lo è riconciliato? Questa è la cosa meravigliosa che non solo lo abbia amato, ma che l’abbia amato in questo modo. Come? Perdonando agli uomini i peccati; non v’era altro modo. Perciò Paolo aggiunge: «Non tenendo conto dei peccati degli uomini» (2Cor 5,19). […] «Ci ha affidato il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Non veniamo a voi per sottoporvi a un’opera faticosa, ma per fare di tutti gli uomini degli amici di Dio. Poiché non hanno ascoltato, ci dice il Signore,  continuate a esortarli finché vengano alla fede. Perciò Paolo prosegue: «Fungiamo da ambasciatori per Cristo; è come se Dio vi esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo, nel nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor5,20).

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla seconda lettera ai Corinti 11,2-3, PG 61,476-477).

La tensione degli opposti

“La vita è una sorta di tiro alla fune. Vorresti fare una cosa, ma sei costretto a fare qualcos’altro. Qualcosa ti fa male, eppure tu sai che non dovrebbe. Prendi per scontate alcune cose, pur sapendo che non c’è nulla di scontato. “La tensione degli opposti, come un elastico che si tira. E quasi sempre stiamo da qualche parte, nel mezzo.” Sembra un incontro di pugilato, commento io. “Già, un incontro di pugilato”, ride lui. “Ecco, potresti proprio descrivere la vita così”. “Chi vince?” Mi sorride, e gli si formano le rughe intorno agli occhi, gli si scoprono i denti storti. “Vince l’amore. L’amore vince sempre”.

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 47).

No, lui, io non l’ho conosciuto

Del resto, si interessava poco

a questo figlio sfortunato

che si rese antipatico

a tutti i poteri politici.

No, lui, io non l’ho conosciuto.

E tuttavia, suo figlio lo adorava,

diceva: io, ciò che spero

e augurerei a tutti

è di andare a vivere presso mio padre.

No, lui, io non l’ho conosciuto.

Non fece assolutamente nulla

per salvare questo figlio, un vero santo

che fu condannato ingiustamente

e morì fra atroci supplizi.

Ma lui, io non l’ho conosciuto.

(Norge, Suo figlio e lui)

Preghiera

O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.

Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.

Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXVII DOM TEMP ORDINARIO

25° Viaggio di Studio in Terra Santa

Nonostante le incertezze e le preoccupazioni dell’ultimo momento per la situazione sempre così dolorosa nella Terra Santa si è potuto realizzare e celebrare il 25° Viaggio di Studioche il Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica (DPGC) organizza nella Terra di Gesù, culla della storia del cristianesimo. Il viaggio si è svolto dall’1 al 14 settembre scorsi.

Ancora una volta la motivazione del Viaggio si è rinnovata: la vita cristiana che si nutre di un contatto reale, permanente e competente con quella testimonianza originale e insostituibile della Parola di Dio che è la Bibbia quale codice autorevole del senso cristiano dei luoghi, dei tempi e degli avvenimenti che costituiscono la cosiddetta Terra Santa. Gli obiettivi  erano i seguenti: l’aggiornamento biblico, storico, esegetico, archeologico; l’approfondimento e l’’ulteriore qualifica della formazione teologica, pastorale e catechetica, a contatto con i luoghi della storia della salvezza; l’arricchimento della vita personale di fede. Questi obiettivi sono stati – ne sono rimasti convinti tutti i partecipanti, un gruppo particolarmente qualificato, molto affiatato e pieno di entusiasmo e di attese – raggiunti.

Il gruppo era composto da 42 partecipanti, guidati da quattro professori, animatori del Viaggio: don Corrado Pastoredon Mario Cimosa e don Xavier Matoses, e don Luis Gallo. Questi i paesi di provenienza dei partecipanti: Italia (6), Messico (15), Brasile (10), Argentina (3), Cina (2), Nigeria (2), Spagna (1), Perù (1), India (1), Angola (1). Alcuni di loro erano studenti dell’UPS, specie del DPGC o del curricolo di Pastorale Biblica e Liturgica; altri invece provenivano da altre Università Pontificie Romane (Gregoriana, Lateranense, Urbaniana, Antonianum, Anselmianum, Teresianum…). Inoltre qualche amico laico, impegnato nello studio e nell’uso per la vita spirituale della Parola di Dio, o nell’insegnamento della Religione. La presenza di questi ultimi è stata molto positiva per la loro testimonianza cristiana.

Tra le novità di quest’anno: la visita al Pozzo della Samaritana a Sichar (Sichem-Nablus), dove la Chiesa Greco-Ortodossa ha costruito una  Basilica, l’escursione nel Wadi Rum (in Giordania), il deserto di Lawrence d’Arabia, dove il gruppo ha celebrato una suggestiva Eucarestia presso la tenda di un Beduino che li ha accolti con la tipica ospitalità araba (tè e incenso per tutti e altri doni); la visita della Giordania con una guida di eccezione Nader Twal, laico ex-allievo dell’UPS (Facoltà di Teologia e ISCOS, l’attuale FSCS) e visita del Centro di Madaba, sempre in Giordania. Ad Ain Karem alcuni hanno rinnovato la promessa di vita consacrata.

Nell’impossibilità di andare al Sinai per i gravi problemi attuali, a tutti noti, che agitano l’Egitto e dintorni,  ha supplito la suggestiva “scorribanda” nel Wadi Rume la visita di Bethany (Tell Al Kharrar), il vero luogo del Battesimo di Gesù al Giordano, in questi ultimi anni localizzato e inaugurato già nella Visita di Giovanni Paolo II qualche anno fa’. In questo luogo suggestivo il gruppo ha celebrato l’eucaristia e rinnovato le promesse battesimali in un clima di profonda spiritualità animata da Nader.

Nonostante tanta diversità di provenienze, di carismi e in qualche raro caso anche di età, è stata agevole la conoscenza e l’accoglienza reciproca, il rispetto e la condivisione. Fatto significativo la condivisione della ricchezza con i contributi personali espressi nelle omelie, nelle preghiere e nelle varie riflessioni svolte da tutti. Il clima di profonda fraternità spirituale che si è prodotto non ha neanche fatto avvertire ai partecipanti che poche settimane prima, a pochi chilometri dai luoghi visitati, c’era stata una vera e propria guerra. Forse soltanto una certa diminuzione di gruppi e di presenze che poi li ha favoriti nel non dover fare lunghe attese. Negli ultimi giorni, a Gerusalemme, prima del rientro, si è avuta l’impressione di una nuova ripresa dei pellegrinaggi.

Ad ogni modo, la formula che mette insieme visite ai luoghi e lettura della Bibbia, celebrazioni e conferenze, momenti comuni e spazi individuali, continua a risultare vincente poiché non soffoca il desiderio di riflessione personale. Ottimi anche i sussidi a disposizione, tra cui la guida pratica continuamente aggiornata e apprezzata “Alle Sorgenti della Fede” preparata dai proff. Cimosa e Gallo in questi anni e aggiornata in una nuova edizione. Certamente l’impressione generale è stata quella di un gruppo di lavoro e di studio fortemente impegnato. Le conferenze di alcuni professori dell’UPS o dei Paesi visitati, su temi biblici hanno costituito un’ottima integrazione all’esperienza di studio e di spiritualità “alle sorgenti della nostra fede”: il ritorno alle Origini, sulle orme di Gesù di Nazaret, nella città Santa di Gerusalemme e in Giudea. «Come avevamo udito, così abbiamo visto» (Sal 48, 9). 

Ripetere non serve e costa troppo

Settembre. Un nuovo anno scolastico è iniziato e l’attenzione di politici e dell’opinione pubblica si è concentrata sulla scuola. Un po’ per gli annunci di riforma, ma anche perché siamo tutti genitori, figli, zii, nonni o nonne e quindi il mondo della scuola fa parte, nel bene e nel male, del nostro vivere quotidiano o di quello dei nostri cari. Quello che è certo, al di la delle proposte di rivoluzionare la scuola è che molti studenti italiani sentiranno sia sui banchi di scuola che a casa la minaccia “Studia! Altrimenti sarai bocciato”. In teoria la bocciatura dovrebbe servire a permettere a uno studente che è rimasto indietro nel programma di “mettersi in pari” per riuscire poi a proseguire gli studi con profitto. Tuttavia lo studio OCSE PISA che confronta i dati sulle bocciature e sulle competenze scolastiche degli studenti 15-enni in più di 65 paesi nel mondo mostra che far ripetere anni scolastici non è di aiuto per gli studenti che ripetono un anno, comporta costi elevati per il sistema paese e non solo non aiuta a promuovere maggiore equità nel sistema, ma rinforza le differenze tra studenti con un diverso background socio-economico. In Italia ci sono ancora troppi bocciati: il 17% degli studenti quindicenni ha dichiarato di aver ripetuto almeno un anno scolastico, rispetto a una media OCSE del 12%.

Gli studenti persi e il mancato recupero

Inoltre, mentre in molti paesi dei Paesi con livelli molto alti di ripetenti il numero di studenti che ha ripetuto una classe è diminuito, in Italia il numero degli studenti ripetenti è aumentato. In Italia tra il 2003 e il 2012, la percentuale di studenti che ha dichiarato di aver ripetuto almeno un anno scolastico è aumentata di 2 punti percentuali, mentre in Francia che nel 2003 registrava il 39% di ripetenti nel 2012 questo era sceso al 28%. Lo studio PISA mostra che purtroppo in Italia, come in molti altri paesi, tra gli studenti che ottengono gli stessi risultati in matematica, comprensione di testi e scienze, gli studenti socialmente svantaggiati hanno più probabilità di ripetere un anno rispetto agli studenti più favoriti. Gli studenti socio-economicamente svantaggiati hanno meno possibilità di ricevere aiuto durante l’anno scolastico grazie a corsi di recupero e lezioni private. Gli studenti svantaggiati spesso hanno maggiori problemi comportamentali, arrivano in ritardo e saltano lezioni o giorni di scuola. Invece che intervenire sui problemi che determinano un allontanamento progressivo di troppi ragazzi dalle classi, il mondo scuola in Italia si basa ancora sull’uso della bocciatura come strumento per punire. Uno dei possibili risultati e’ la scarsa motivazione dei ragazzi e gli alti livelli di dispersione scolastica. L’esigenza di fare ripetere una classe implica costi elevati: alla spesa di un anno aggiuntivo d’istruzione bisogna infatti aggiungere il mancato introito per la società quando si differisce di almeno un anno l’ingresso dello studente bocciato sul mercato del lavoro. In Italia, il costo delle bocciature rappresenta il 6,7% della spesa annua nazionale per l’istruzione primaria e secondaria – ovvero 47.174 dollari (circa 36 mila euro) per studente che ripete l’anno. Prevenire è meglio che curare. Vale nel mondo della sanità pubblica, ma vale anche, e soprattutto, nel mondo della scuola. Prevenire è meglio che curare e le bocciature sono costose e non curano il problema dello scarso profitto e motivazione degli studenti italiani. Ridurre le bocciature potrebbe aiutare a risparmiare risorse da investire nella prevenzione: per aiutare i ragazzi in modo personalizzato durante l’anno affinché’ non si creino lacune nel processo di apprendimento e per affiancare ragazzi demotivati e con scarso attaccamento alla scuola.

di Francesca Borgonovi, analista Ocse

Serra International Italia

Da 11 anni il Serra Italia bandisce un concorso scolastico a livello nazionale come attività di servizio alla Chiesa cattolica per invogliare i giovani a discutere sui valori religiosi ed etici. Le prove in oggetto costituiscono uno spaccato interessante per comprendere le dinamiche relazionali dei giovani, la loro affettività, la nuova accettazione dei modelli educativi, lo status della famiglia contemporanea e le difficoltà dipendenti da questo momento storico.
Il Concorso è finalizzato a promuovere la cultura cattolica, ovvero la formazione integrale dei  giovani da accompagnare con l’ascolto dei loro bisogni  nell’età adolescenziale per la definizione delle scelte della vita in senso cristiano.  In una società in cui i giovani soffrono la mancanza di chiamanti autentici e coerenti, il progetto educativo del concorso  si propone di declinare ad ampio raggio il valore della Bellezza della vita nel rispetto della dignità umana.
 

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:  Ezechiele 18,25-28

Così dice il Signore:  «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore a punto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

 

Questi versetti sono presi dal capitolo più tipico di Ezechiele sulla responsabilità personale. Egli parla ai deportati a Babilonia, consapevoli dei peccati del popolo d’Israele e ormai rassegnati che i figli debbano pagare le colpe dei padri. Essi vanno ripetendo: «I padri han mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez 18,2). Ma il profeta, a nome di Dio, li contraddice: «Voi non ripeterete più questo proverbio… chi pecca morirà» (Ez 18,3-4). In questo capitolo lo fa in quattro riprese, articolate tutte allo stesso modo: un’obiezione degli israeliti, la confutazione del profeta e la sua istruzione sull’argomento. È il genere letterario del responso sacerdotale o Torâh. Il brano liturgico presenta la risposta alla terza obiezione, molto simile alla seconda che precede (Ez 18,19) e alla quarta che segue (Ez 18,29). Applica gli insegnamenti della lunga risposta data alla prima, con i casi specifici del nonno buono, del figlio malvagio e del nipote ancora buono (Ez 18,2).

     C’è una botta e risposta iniziale (v. 25). Gli interlocutori del profeta obiettano che non è retto il comportamento del Signore, se adesso non fa più scontare ai figli le iniquità dei padri, ed egli subito ribatte con l’interrogativo se piuttosto il loro comportamento non sia retto, non approfondendo i motivi profondi del problema.

     Poi c’è la spiegazione dettagliata (vv. 26-28). Ezechiele ribadisce quanto ha già detto e ripetuto. Al di là degli aspetti legali di colpa e pena, egli fa considerare l’ordine delle cose in se stesse, nel quale c’è un rapporto stretto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Nel dire questo, allarga di molto le visuali. Alla morte da lo stesso significato di disfacimento dell’essere umano, quale conseguenza della colpa dei progenitori (Gen 2,17), e alla vita quello della crescita piena prevista originariamente, nell’armonia con Dio (Gen 1,28). L’iniquità e la giustizia inoltre le intende in base alla Torâh, della quale appena prima ha ripetuto per tre volte una sintesi (Ez 18,5-9.10-13,15-17), sulla quale regolare la responsabilità personale, e in riferimento alla quale già il Deuteronomio proclamava: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30.15).

     Nel Pentateuco però l’orizzonte rimane terreno e certamente anche Ezechiele lo ha, guardando alla fine della deportazione, al ritorno in patria e alla ricostruzione. Ma questo non basta per le singole persone, malvagie o giuste. Per esse le insistenze del profeta pongono una promessa allo sviluppo della rivelazione sulla retribuzione ultraterrena. Solo in vista di essa, infatti, vale per tutti lo stretto rapporto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Del resto lo esige anche l’affermazione all’inizio di questo capitolo: «Tutte le vite sono mie» (Ez 18,4), fatta da colui che si è proclamato «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,15), proclamazione che comprova la risurrezione dei morti, secondo Gesù (cf. Mt 22,33).

 

Seconda lettura: Filippesi 2,1-11

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

Filippi è la prima Chiesa che Paolo ha fondato in Europa, durante il secondo viaggio missionario (ca. 50-53 d.C.), dalla quale ha accettato più volte aiuti anche materiali, con molta riconoscenza ma tenendoci anche a non lasciarsi condizionare dai doni, nel proporre gli impegni del vangelo. Lo dice con tanta intensità alla fine della lettera (Fil 4,10-21). Alla luce di quelle espressioni si capisce il triplice e appassionato «se» rivolto ai suoi  benefattori, che apre questo brano: «se c’è qualche conforto… se c’è qualche comunione di spirito… se ci sono sentimenti di amore e di compassione…». Se tutto questo c’è verso Paolo, ci sia anche fra di loro, con l’unione degli spiriti e con le prestazioni della collaborazione in tutta umiltà e non per spirito di rivalità o per vanagloria. Al riguardo ha da dire dell’altro e lo fa nel resto del capitolo. Ma prima richiama loro il modello supremo di Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù». Un richiamo sempre necessario, specialmente nel nostro tempo, nel quale si vorrebbe che Cristo avesse i nostri sentimenti…

     L’inno cristologico molto più probabilmente Paolo lo ha preso dalla liturgia delle prime comunità cristiane e lo ha inserito qui perché fondamentale per il suo messaggio. Sintetizza infatti il mistero pasquale negli aspetti del dono totale di sé, per i quali Cristo ha avuto il massimo della esaltazione. Si sviluppa in due strofe parallele e antitetiche.

     La prima strofa è discendente per una serie di gradini, segnati dalla kènosi o svuotamento e dalla obbedienza di Cristo. Dalle perfezioni della natura divina egli ha svuotato se stesso, assumendo la forma umana e la condizione di servo. Il servizio dell’obbedienza, che ha scelto, lo ha realizzato fino alla morte, cioè totalmente, e alla morte di croce, cioè nel modo più infamante del supplizio riservato agli schiavi e ai peggiori delinquenti, per raggiungere col suo esempio e la sua grazia anche le situazioni estreme.

     La seconda strofa è ascendente per un’altra serie di gradini, contrapposti ai precedenti ma frutto di essi e segnati dalla esaltazione di Cristo e dalla obbedienza di tutti gli esseri sottoposti a lui. Perché si è «svuotato» della natura divina, Dio gli ha dato un «nome», cioè una dignità e un potere, al di sopra di ogni altro nome. Perché si è fatto obbediente fino ai livelli infimi. Dio destina ogni ginocchio a piegarsi, cioè ogni essere a sottomettersi a lui, in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua o cultura, umana e angelica, a proclamarlo Signore, Kyrios, lo stesso nome dato a Dio tradotto in greco l’ebraico Adonaj. La sua gloria sarà nuova gloria per il Padre, dal quale ha avuto origine tutta la vicenda: è abbozzato qui il ritornello che scandisce l’inno trinitario all’inizio della lettera agli Efesini.

Vangelo: Matteo 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

 

Esegesi 

     La parabola dei due figli mandati a lavorare nella vigna è riportata dal solo Matteo, dopo che i membri del Sinedrio, sommi sacerdoti e anziani del popolo, hanno chiesto a Gesù con quale autorità compie gesti clamorosi e non autorizzati, quali l’ingresso messianico a Gerusalemme, la cacciata dei venditori dal tempio e l’insegnamento all’interno di esso. A rincararne la dose aggiunge subito quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45). In precedenza, sullo stesso argomento ha raccontato quella dei chiamati al lavoro in diverse ore del giorno (Mt 20,1-16).

     1. Il significato è chiarissimo. Il lavoro nella vigna è il paragone classico con il quale i profeti parlano dell’opera di Dio per educare il suo popolo (cf. specialmente Is 5.1-7). Sulla corrispondenza a tale opera Gesù prende posizioni molto dure, nel suo ultimo ministero a Gerusalemme. In questa parabola pone i casi di un consenso a parole e rifiuto nei fatti e di un rifiuto a parole e consenso nei fatti. Con una domanda all’inizio e una alla fine, chiede ai suoi avversari la valutazione dei due comportamenti. Essi danno quella più ovvia e, lontani dall’immaginare le intenzioni del loro interlocutore, pronunciano così la propria condanna.

     2. L’applicazione di Gesù. Essa, è rivolta proprio a loro. Nella volontà del padre della parabola egli intende quella che Dio manifesta al suo popolo, mediante i suoi inviati. Ma non rimane sul generico. Va al caso specifico della predicazione del Battista, che ultimamente ha indicato anche ai membri del Sinedrio la «via della giustizia» cioè della corrispondenza alla effettiva volontà di Dio in questo tempo di grazia.

     Di fronte ad essa, era un no in partenza la condotta delle prostitute e dei pubblicani, ma poi hanno creduto e si sono convertiti. I pubblicani, esattori delle tasse, erano considerati pubblici peccatori perché imbroglioni e perché sacrileghi, in quanto versavano i tributi all’invasore pagano. Era invece un sì in partenza il compito dei sommi sacerdoti e degli anziani, in quanto servizio voluto da Dio per il suo popolo, ma in pratica essi non hanno avuto nemmeno un cenno di pentimento delle proprie infedeltà e non hanno creduto al Battista. La parabola è stata così in primo luogo un puntuale atto di accusa nei loro riguardi.

     Quando Matteo l’ha messa in iscritto, dopo il concilio di Gerusalemme (49 d.C.), era già applicabile all’altro contesto, preannunciato da Gesù, della defezione di tanti giudei convertiti, mentre i pagani accoglievano in massa il vangelo: «molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori» (Mt 8,11-12). E da allora rimane sempre aperto un terzo contesto: quello delle successive letture in ogni tempo e luogo. Adesso è aperto il nostro contesto da interpretare.

     In questo modo le parabole sono uno degli strumenti più forti della predicazione di Gesù. Egli non racconta storielle per bambini, ma affronta con esse i responsabili della cosa pubblica, civile e religiosa, e provoca prese di coscienza e scelte precise, alla maniera dei profeti, in particolare di Natan di fronte a David (2Sam 12). Le parabole stanno alla frontiera della evangelizzazione, usava dire il compianto monsignor Vittorio Fusco.

 

Meditazione

Prima lettura e vangelo propongono un messaggio sul pentimento. L’uomo ingiusto può desistere dalla sua ingiustizia e agire con rettitudine (Ezechiele); il figlio che in un primo tempo si è rifiutato di andare a lavorare nella vigna del padre, dopo decide di andarvi (vangelo).

     L’unità delle due letture può anche essere espressa con le categorie della conversione e della responsabilità.

     Il pentimento è attestazione di libertà. Anche il malvagio può cambiare. Questa possibilità di conversione dice che il peccato non è una potenza metafisica che schiaccia l’uomo e che ha su di lui l’ultima parola. Nel pentimento l’uomo ritrova la retta via e «torna» a se stesso e a Dio allo stesso tempo.

     Atto di libertà, il pentimento è anche atto di liberazione. Il malvagio che cambia condotta «fa vivere se stesso» (Ez 18,27), da vita alla sua esistenza, mostrando di non essere schiavo dei precedenti comportamenti.

     Che cosa porta il malvagio a cambiare condotta? Com’è possibile evocare il pentimento, questo evento in cui è in gioco il mistero della persona e la coscienza della contraddizione fra sé e sé che conduce al dolore e alla lacerazione interiori? Ezechiele evoca il cammino interiore che conduce al pentimento con le parole: «ha visto» (Ez 18,28, letteralmente; Vulgata: considerans). Che cosa ha visto? In Ez 18,14 si parla del «vedere i peccati del padre» da parte del figlio, che pure non fa della visione dei peccati paterni un alibi per il proprio peccare, anzi, non si lascia generare al peccato dal padre peccatore. Quella visione indica allora la presa di coscienza dei propri peccati, è la dolorosa visione di sé nella non-unificazione, nella divisione profonda. Nel pentimento noi vediamo noi stessi nella contraddizione con noi stessi. E sappiamo di poterci rivolgere a Dio proprio in quella condizione di chi ha il cuore contrito.

     Nell’odierna parabola evangelica (Mt 21,28-31), il figlio che ha risposto «no» all’invito del padre e poi, «pentitosi», «avendo provato rimorso», ha fatto la volontà del padre, rivela che il credere passa a volte anche attraverso un ricredersi. L’obbedienza alla parola e alla volontà di Dio passa a volte attraverso uno smentire la propria parola e la propria volontà. La fede non ci chiede di non sbagliare e di non peccare, ma di riconoscere l’errore e di confessare il peccato.

     In quel «ricredersi» c’è il dialogo interiore, c’è la presa di coscienza della realtà, c’è l’audacia di guardare in faccia se stessi, preliminare essenziale per l’agire responsabile. Insomma, c’è l’inizio del movimento verso la responsabilità, della decisione di passare dall’irresponsabilità alla responsabilità. In questo senso, lungi dall’essere un segno di debolezza, il pentimento è segno di coraggio e di forza. Per quanto sia raro e impopolare, anche nella chiesa, il gesto di chi riconosce di aver sbagliato, di chi ammette di aver assunto posizioni che si sono rivelate poco conformi al vangelo e muta la propria posizione cercando di essere più fedele al vangelo, è segno di grandezza umana e spirituale.

     Nel cristianesimo il pentimento è la via maestra per accedere alla volontà di Dio. «Noi cristiani abbiamo il privilegio di disporre di un metodo altro, rispetto alla mondanità, per avvicinarci alla verità: il pentimento» (Christos Yannaras).

     I due figli della parabola sono entrambi in contraddizione tra il dire e il fare. Ma con una differenza essenziale. Il figlio che dice «no» si espone a un conflitto con il padre, con una persona esterna a lui, e questo lo conduce a prendere coscienza del suo conflitto interiore e a mutare opinione. Cosa che non avviene in chi risponde «sì» e che compiace l’altro, si adagia sull’altro, non si espone conflittualmente all’altro e può evitare di guardare alla tentazione della disobbedienza che abita pure in lui. Per Matteo è evidente che coloro che vivono nel «sì» sono i religiosi (sacerdoti e anziani del popolo: Mt 21,23) che possono non sentirsi bisognosi di conversione perché già «a posto», a differenza di coloro che invece vivono nel «no», pubblicani e prostitute, e che possono fare spazio all’evangelo ed entrare nel Regno.

Preghiere e racconti

Un «sì» continuamente ripetuto

Questa parabola riguarda ciascuno di noi. Abbiamo detto «sì» quando abbiamo riconosciuto la legittimità della legge di Dio e promesso di sottometterci ad essa; ma il più delle volte continuiamo a vivere o riprendiamo a vivere senza preoccuparci della volontà di Dio. Crediamo di vivere nel Regno perché un tempo il nostro «sì» è stato sincero, ma ciò che vi è di più abituale in noi sfugge alla volontà di Dio che ci chiama al Regno. Spesso le nostre azioni sono in sintonia con la volontà di Dio, ma, quando ciò che vogliamo non si accorda con la sua volontà, è in genere il nostro volere ad avere la meglio; obbediamo ai nostri desideri e ai nostri capricci. Ma la vita nel Regno non consiste nell’iscrizione del nostro nome in un libro [dei battesimi o dei matrimoni]. L’ingresso nel Regno richiede una volontà viva e continua, un’accettazione costante e attuale della volontà di Dio su di noi. È un«sì» continuamente ripetuto.

(Y. de Montcheuil, Il Regno e le sue esigenze)

La possibilità di rispondere NO

Un amore reale secerne la possibilità di una rivolta. Può proporre solo il SI e il NO. Tutto sommato, un buon padre è colui che dà al figlio la possibilità di rispondergli NO. Certo, non è l’amore a produrre il NO (il figlio lo ha scoperto da solo), ma lo rende possibile. Si noterà questa specie di misteriosa simpatia che il Cristo sembra aver avuto nei riguardi dei ribelli. La loro condotta gli sembrava dovuta a un malinteso, un malinteso che non poteva durare e, soprattutto, che in seguito si sarebbe dimostrato benefico. Il figlio-schiavo non ha alcuna possibilità di riconoscere l’amore del Padre; il figlio ribelle, più tardi, ha la possibilità di scoprirlo.

(A. Maillot, Le parabole di Gesù oggi)

Il mio «sì»…

Maria, vorrei che il mio «sì» fosse semplice come il tuo,

che non avesse astuzie mentali.

Vorrei che il mio  «sì», come il tuo,

non mi mettesse al centro, ma a servizio.

Vorrei che il mio  «sì» al disegno di un altro, come il tuo,

volesse dire soffrire in silenzio.

Vorrei che il mio  «sì»,  come il tuo,

volesse dire tirarsi indietro per far posto alla vita.

Vorrei che il mio  «sì» , come il tuo,

racchiudesse una storia di salvezza.

Ma il mio peccato, il mio orgoglio, la mia autosufficienza,

dicono un  «sì» ben diverso.

Il tuo sguardo su di me, Maria,

mi aiuti ad essere semplice,

una che si dimentica,

una che vuole perdersi nella disponibilità

di chi sa di esistere da sempre

soltanto come un pensiero d’amore. Amen.

Non importa

L’uomo è irragionevole,

illogico, egocentrico

non importa, amalo.

Se fai bene

ti attribuiranno secondi fini egoistici,

non importa, fa il bene.

Se realizzi i tuoi obiettivi

troverai falsi amici e veri nemici,

non importa, realizzali.

Il bene che fai

verrà domani dimenticato,

non importa, fa il bene.

L’onestà e la sincerità

ti rendono vulnerabile,

non importa, sii franco e onesto.

Quello che per anni hai costruito

può essere distrutto in un attimo,

non importa, costruisci.

Se aiuti la gente

se ne risentirà,

non importa, aiutala.

Dà al mondo il meglio di te

e ti prenderanno a calci,

non importa, dà il meglio di te.

(Calcuta, scritta sul muro casa dei bambini di Madre Teresa)

Il Padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte

A chi si è rivolto in verità con tutto il cuore a Dio si aprono le porte e il padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte. La vera conversione consiste nel non ricadere nelle stesse colpe, ma di estirpare completamente dall’anima i peccati per i quali sei giudicato meritevole di morte. Una volta eliminati questi, Dio ritornerà ad abitare in te, perché, come dice il Signore, grande e insuperabile è la gioia e la festa nei cieli per il Padre e per gli angeli quando un solo peccatore si converte e si pente (cfr. Lc 15,10). Perciò il Signore ha proclamato: «Misericordia voglio e non sacrificio (Os 6,6; Mt 9,12; 12,7); non voglio la morte del peccatore, ma la conversione (Ez 33,11); e se i vostri peccati fossero come lana scarlatta, li farò diventare bianchi come neve, e se fossero più neri della tenebra, li laverò e li farò diventare come lana bianca» (Is 1,18). Dio solo, infatti, può perdonare i peccati e non tener conto delle cadute. Anche a noi il Signore comanda di perdonare ogni giorno i fratelli che si pentono. E se noi, che siamo cattivi, sappiamo dare cose buone (cfr. Mt 7,11), quanto più il Padre delle misericordie, il Padre buono, «di ogni consolazione» (2Cor 1,3), pieno di tenerezza e di compassione sa pazientare. Egli aspetta quelli che si sono convertiti. Ora, la vera conversione è smettere di peccare e non guardarsi più indietro. Dio accorda il perdono dei peccati passati, mentre per ciò che riguarda il futuro ciascuno è responsabile di se stesso. Anche questo è pentirsi, riconoscere gli errori passati e chiedere al Padre di non ricordarli più. Lui solo può rendere non compiuti i peccati compiuti, cancellando con la misericordia che viene da lui e con la rugiada dello Spirito i peccati commessi in passato.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Quale ricco si salva? 39,2-40,1, GCS 3,185-186)

Sì, ma…

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo, continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione. Giorno e notte spero soltanto una cosa: che tu mi mostri la tua misericordia e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore. Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento, a una preghiera sincera e umile e a una generosità libera e spontanea. Vedo così chiaramente la strada da seguire! Comprendo così bene che mi è necessario venire a te. Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te; ma il mio cuore esita, il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro, vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…». O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami, che tu mi aspetti a braccia aperte? Come un padre con le lacrime agli occhi, tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai dato. Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a te. Solo quando verrò liberamente a te, quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli affanni e confesserò liberamente le mie vie sbagliate e chiederò liberamente misericordia, solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.

Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa, ascolta il mio desiderio di ritornare a te. Non lasciarmi solo nella mia lotta. Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto. Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

Aiutami a dire “sì”.

Ho paura a di “sì”, Signore.

Dove mi porterai?

Ho paura del “sì” che comporta altri “sì”.

Ho paura a mettere la mia mano nella tua;

perché tu possa stringerla […]

O, Signore, ho paura delle tue richieste,

ma chi può opporti resistenza?

Che venga il tuo regno, non il mio,

che sia fatta la tua volontà e non la mia,

Aiutami a dire “sì”».

(Michel QUOIST)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 20

PER APPROFONDIRE:

XXVI DOM TEMP ORDINARIO (A)

«Così insegno inglese con Facebook e twitter, in classe e da casa»

Il gessetto e la lavagna, certo. Ma anche Twitter, perché no. E in classe, proprio dentro quelle stesse aule da cui di solito smartphone e tablet sono banditi. La lezione-tipo della prof norvegese Ann Michaelsen ha un che di irrituale e avveniristico. Di riflesso, molti potrebbero stentare a crederle. Se non fosse che tra le mura della Sandvika High School vicino a Oslo, le lezioni via Skype con classi sudafricane, i compiti consegnati sul blog personale, e il dialogo fitto tra alunni e docente su Twitter vanno in scena per davvero. «I ragazzi hanno bisogno di sapere cosa condividere in rete e come farlo, ed è la scuola che deve insegnare ad usare la tecnologia responsabilmente», dice al Corriere della Sera la professoressa Michaelsen. 

La docente insegna inglese a gruppi di studenti di classi diverse, ma tutti attorno ai 17-18 anni. «Loro hanno il permesso di usare Twitter, Facebook, Skype e YouTube a scuola. Lavorando sui social network siamo riusciti a scrivere insieme Connected Learners, un libro che tra le altre cose spiega come usiamo Twitter a scuola», racconta la prof. Il social dei 140 caratteri viene usato dagli studenti per inviare messaggi privati alla docente, che può assistere i suoi studenti in tempo reale anche quando è a casa. «Di certo non rispondo sempre, ma di volta in volta decido se è urgente o meno quello che mi domandano», confessa Michaelsen, che in effetti ha risposto in pochi minuti alla nostra richiesta di contatto su Twitter. Ma anche lanciare un hashtag particolare, con cui classificare link e approfondimenti trovati a casa ma da usare in classe, è una delle idee per ottenere il meglio dal social network dell’uccellino blu. «Facebook? Certo, da casa ci serve anche quello», assicura poi la docente, che spiega come riesce a mettersi in contatto con gli studenti, superando anche il costume che impone spesso l’accettazione della loro amicizia sul social. Compiti su facebook e consigli su twitter, ma niente «amicizia» Michealsen non concede agli studenti l’opportunità di chiedergliela, ma usa una pagina pubblica per ogni classe che le viene assegnata. Ad orari prefissati, gli studenti si ritrovano online per svolgere esercitazioni da casa, oppure ricevere indicazioni sulle lezioni del giorno dopo. «Condividere documenti su Facebook è spesso più semplice che stamparli e distribuirli di volta in volta agli studenti, magari assenti quel giorno. I ragazzi trascorrono sui social network molto tempo, perciò perché non raggiungerli dove sono, anziché passare dalle fredde e poco utilizzate piattaforme di condivisione didattica?», continua la docente. La motivazione parrebbe lampante: «Sì, gli studenti possono distrarsi con Facebook e Twitter a portata di mano. Ma il compito dell’insegnante in classe non è chiudersi ma aprirsi, anche andando a spulciare cosa stanno facendo, o imponendo ritmi serrati e scadenze specifiche da rispettare, incentivandoli così a lavorare di più», replica la professoressa della Sandvika High School. Un altro suggerimento per i colleghi insegnanti è quello di stimolare la curiosità degli studenti sfruttando proprio i social network, con metodi alternativi di trasmissione delle nozioni. In fondo Facebook e Twitter sono solo uno strumento, e demonizzarli, restituisce sempre un retrogusto luddista. Sembra essere questo l’approccio della prof Michaelsen, sempre molto concreta nel valutare il rapporto della scuola con la quotidianità, e le giuste contromosse per stare al passo con la domanda di didattica che si evolve continuamente. 

«La scuola deve insegnare come si usano i social e anche far ragionare i ragazzi» «I social media sono già una parte importante della nostra vita e la maggioranza dei miei studenti useranno la tecnologia nella loro professione. Perciò è necessario che la scuola insegni loro sia l’aspetto funzionale, sia quello etico. Non dimentichiamoci che il nostro obiettivo è fornire loro le competenze di cui avranno bisogno nel ventunesimo secolo», conferma la docente. Di certo, a fare da sfondo alle classi norvegesi c’è un ambiente ideale per studenti e professori. All’istruzione pubblica e gratuita, si accompagnano investimenti di non poco conto da parte dello Stato che assicurano a ciascuno studente un tablet o un pc da usare non solo a scopo didattico. Ad ogni modo, gessetto e lavagna a parte, anche in Italia la vera sfida sarà coniugare la domanda di nuovi strumenti didattici, con un’adeguata offerta di scuola pubblica. Passando forse anche da Twitter e Facebook.

«Voi non siete speciali» Ai ragazzi si insegna così

Diventa un libro il discorso del professore di inglese David McCullough ai diplomati del suo liceo di Boston visualizzato due milioni di volte e che ha sbancato Facebook

«Voi non siete speciali. Vi hanno viziati, coccolati, idolatrati. Ma diversamente da quanto suggeriscono il trofeo che avete vinto a calcio o la vostra splendida pagella, non lo siete. Anche se ci fosse un diplomato su un milione, sareste comunque settemila sulla terra: se tutti siete speciali, non lo è nessuno». Il discorso del professore d’inglese David McCullough ai diplomati del suo liceo di Boston finì su YouTube appena concluso, il 7 giugno 2012. La sera stessa era stato visualizzato 2 milioni di volte e condiviso su centinaia di migliaia di bacheche Facebook. E in pochi mesi è diventato un libro, uscito ora anche in Italia: Ragazzi, non siete speciali! E altre verità che non sappiamo più dire ai nostri figli (Garzanti, 252 pagg., € 15, traduzione di Roberto Merlini). «Ricevetti tonnellate di email, la gente mi fermava per strada, le tv mi invitavano. La mia era una critica da insegnante: negli ultimi anni i miei allievi, spronati da genitori che per la loro formazione investono molto, hanno sempre più difficoltà a valutare i propri talenti, pensano che un master darà loro lavoro e diventano narcisisti, incapaci di gestire l’insuccesso. Ma nessuno si è offeso. Anzi, ho capito che il messaggio ‘‘non siete speciali’‘ generava in tutti un certo sollievo». 

Già, sollievo. Perché «per i ragazzi di oggi essere speciali è una condanna», spiega lo scrittore Francesco Pacifico. «Non c’è scelta: i loro padri l’avevano, tra un percorso sicuro ma poco eccitante e carriere ambiziose ma più precarie. Loro no: anche per fare l’insegnante oggi servono dieci anni di tribolazioni. Così ci si butta, finanziati da genitori ansiosi, su ambizioni spesso fuori misura: regista, diplomatico, fisico nucleare». Al tema Pacifico ha dedicato un romanzo, Class – vite infelici di romani mantenuti a New York (Mondadori, 189 pagg., € 19). Che inizia così: «La realizzazione personale di un giovane borghese non vale il denaro che costa». E racconta le storie (infelici, appunto) di un giovane regista e della moglie, le cui carriere creative sono finanziate da famiglie non miliardarie fino a tardissima età. 
«Credendo di aiutarli, i genitori li caricano di aspettative. E ritardano domande fondamentali: ‘‘ho talento o no? Quello per cui sto studiando mi piace o no?’‘». Non a caso, il manuale Ragazzi, non siete speciali! è dedicato «agli adolescenti, ma soprattutto a mamma e papà. È da loro che nascono moltissime delle ambizioni sbagliate dei ragazzi, e delle loro frustrazioni», spiega McCullough. 

Isabella Milani, docente di italiano, è autrice di un blog per insegnanti: uno dei momenti più rischiosi per gli adolescenti è la scelta delle scuole superiori

E se il docente americano descrive genitori «ossessionati dai voti, pronti a telefonare a casa dell’insegnante per fargli cancellare un’insufficienza per timore che macchi il curriculum del ragazzo», i colleghi italiani raccontano di «mamme che fanno i compiti al posto dei figli, e se chiedo loro perché mi rispondono: era stanco. Se do un sei, mi chiedono perché non sette, in fondo il ragazzo è portato. E così via». A parlare è Isabella Milani, professoressa di italiano in una scuola media e autrice di un fortunato blog per insegnanti (http://bit.ly/milani_scuola). «Ma il momento peggiore è la scelta delle superiori: noi insegnanti diamo consigli, ma in pochi ci ascoltano. Preferiscono mandarli al liceo, a costo che sputino sangue, e protestare anche lì se i voti non sono buoni, piuttosto che scegliere un buon istituto tecnico o professionale dove potrebbero fare, e stare, meglio».

Un errore e che molti pagano con la dispersione o l’abbandono scolastico. «Il 74% delle richieste di consulenza arrivate tra il 2010 e il 2012 sono di studenti liceali che vogliono cambiare percorso», commenta Francesco Dell’Oro, per anni responsabile del Servizio orientamento scolastico al Comune di Milano e autore di vari saggi sul tema. «Molto spesso non hanno scelto loro di andare al classico o allo scientifico. Ma i genitori, che hanno una fede incrollabile nell’iter liceo – università ‘‘concreta’‘ come Economia o Ingegneria – laurea a pieni voti, come carta vincente per trovare lavoro. E sbagliano». Mostra i risultati 2013 dell’indagine Excelsior di Unioncamere, secondo cui le capacità più richieste per un neolaureato sono «lavorare in gruppo» e «attitudini comunicative»: «capacità che un ragazzo sviluppa se studia con piacere e curiosità, non con l’acqua alla gola in un corso scelto ‘‘perché dà lavoro’‘. Magari uno sarebbe un buon chef, e invece passa anni di fatica a studiare da medico». 
O, come i velleitari protagonisti del romanzo di Pacifico, anni di scuole di cinema per poi scoprirsi senza talento. Anche questo è un rischio. «Ma almeno sta seguendo la sua strada», chiosa McCullough. «L’importante è che si trovi un piano B, un’attività con cui mantenere il sogno e che non gli dispiaccia. Se no non diventa adulto». Figlio di uno storico affermato (il premio Pulitzer David McCullough Sr.), da giovane aveva i mezzi economici e il desiderio di fare lo scrittore. Tre romanzi impubblicati – «e impubblicabili, lo ammetto» – più tardi ripiega, senza voglia, sull’insegnamento. «Un lavoro ordinario. Che però mi piacque moltissimo. E non solo: mi ha poi consentito di scrivere un libro, proprio sull’insegnamento. Realizzando, alla fine, il mio sogno da ragazzo». 

Sinodo dei vescovi: pubblicato l’Instrumentum laboris

Il Vangelo della famiglia, le situazioni coniugali difficili, l’educazione alla vita e alla fede: sono i tre ambiti in cui si sviluppa l’Instrumentum Laboris che servirà a preparare i lavori del prossimo Sinodo straordinario dei Vescovi, in programma in Vaticano dal 5 al 19 ottobre 2014. Il testo, che racchiude e sintetizza le risposte al questionario sui temi del matrimonio e della famiglia, è stato presentato il 26 giugno dai cardinali Baldisseri ed Erdõ e dal vescovo Bruno Forte.
La prima parte del documento innanzitutto ribadisce il “dato biblico” della famiglia, basata sul matrimonio tra uomo e donna, creati ad immagine e somiglianza di Dio e collaboratori del Signore nell’accogliere e trasmettere la vita. Tra i fedeli, però, l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia viene accettato parzialmente: in generale, si dice sì alla difesa della dignità della vita umana, mentre si fa resistenza alla dottrina sul controllo delle nascite, sul divorzio o sulle relazioni prematrimoniali. Di qui l’esigenza di trovare nuovi linguaggi per trasmettere questi insegnamenti, formando in modo adeguato gli operatori pastorali. Di fronte alla grande sfida della privatizzazione della famiglia, non più intesa come elemento attivo della società e cellula fondamentale di essa, emerge la necessità di coltivare un legame costante con la parrocchia, “famiglia di famiglie”, e di curare la formazione soprattutto per i nuclei familiari in crisi.
La seconda parte entra nel vivo delle sfide pastorali contemporanee: dalla debolezza della figura paterna alle violenze e abusi su donne e bambini, dalla pesante incidenza del lavoro sulla vita familiare ai danni arrecati dalla “contro-testimonianza nella Chiesa”, dalla percezione dell’amore solo come “un fatto privato” alla sua riduzione alla mera sfera emozionale. Il documento dedica un’ampia parte alle “situazioni di irregolarità canonica”, in particolare al disagio dei divorziati risposati che non possono accostarsi ai sacramenti, evidenziando come per le situazioni difficili la Chiesa non debba assumere un atteggiamento di giudice che condanna, ma quello di una madre che sempre accoglie i suoi figli. Circa le unioni tra persone dello stesso sesso, inoltre, si mette in luce che tutte le Conferenze episcopali dicono no all’introduzione di una legislazione che ridefinisca il matrimonio anche in tal senso; sono anche contrarie all’adozione di bambini da parte di persone in unione omosessuale. Tuttavia, se tali persone chiedono il battesimo per il bambino, esso deve essere accolto con “la stessa cura, tenerezza e sollecitudine” che si ha nei confronti degli altri.
La terza parte del testo, infine, constata come la dottrina della Chiesa sull’apertura alla vita da parte degli sposi sia poco conosciuta nella sua dimensione positiva e quindi considerata un’ingerenza nella coppia e una limitazione all’autonomia della coscienza. Viene poi esaminata la timidezza con la quale oggi i genitori spingono i figli alla pratica religiosa, l’importanza di sostenere le scuole cattoliche, la necessità di un’accoglienza senza pregiudizio, la riscoperta del ruolo del padrino e della madrina nel cammino di fede di bambini e ragazzi.
È importante ricordare che quello del prossimo ottobre sarà un Sinodo “straordinario”, legato all’urgenza della questione da trattare. Suo compito primario sarà quello di valutare ed approfondire i dati presentati dalle Chiese particolari, mentre le linee pastorali da attuare saranno al centro del Sinodo generale ordinario che si terrà nell’ottobre 2015, sul tema: “Gesù Cristo rivela il mistero e la vocazione della famiglia”.

Per la famiglia in Piazza con Francesco

Alla vigilia della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi (Roma, 5-19 ottobre 2014), dedicato a riflettere circa “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, la Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana invita il popolo di Dio a prendere parte a un momento pubblico di preghiera e di riflessione, che culminerà nell’intervento del Santo Padre.
L’iniziativa intende manifestare l’attenzione della Chiesa italiana attorno a una tematica tanto decisiva quale quella della famiglia, nucleo vitale della società e della stessa comunità ecclesiale. Di qui la volontà di accompagnare i lavori dell’Assemblea sinodale, invocando su di essa la luce dello Spirito Santo.
L’evento – al quale parteciperanno anche i Padri sinodali – si svolgerà sabato 4 ottobre, dalle 18 alle 19.30, in Piazza San Pietro; sarà ripreso dal CTV e trasmesso in diretta da Tv2000 e dalle altre televisioni cattoliche.

Colpa delle stelle

Solidarietà ed altruismo nella difficile storia dei due giovani protagonisti malati di cancro. 

Di film che cercano di commuovere gli spettatori raccontando  una storia d’ amore che termina tragicamente con  la morte di uno dei due amanti a causa di una malattia incurabile, ce ne sono stati tanti; i fiumi di lacrime che vengono versati, i fazzoletti  consumati  testimoniano il perenne successo di queste pellicole. Vorrei  ricordare, come caratteristici di questo filone,  Love story (1970) e Autunno a New York (2000).

Colpa delle stelle sembra voler raddoppiare l’effetto: non uno, ma entrambi gli innamorati sono malati di cancro (lei ai polmoni, lui alle ossa)  e fin dall’inizio ci domandiamo chi dei due morirà per primo. Anche per vedere questo film è opportuno portarsi un’ampia scorta di fazzoletti ma nonostante questo inevitabile “difetto”, la grande abilità narrativa del  regista e la contagiosa simpatia dei due protagonisti rendono il racconto interessante  e gradevole.

Hazel e Gus sono giovani e come tali si mostrano sempre pronti a sorridere e scherzare ma la sceneggiatura (ricavata dal best seller omonimo di John Greene) li rende attraenti perché ce li mostra dotati  di alcune insolite virtù: solidarietà e altruismo.

“La cosa peggiore di morire di cancro è avere una figlia che muore di cancro” pensa Hazel che si preoccupa  più di quello che provano i suoi genitori che di se stessa. Ciò che la rattrista è il pensare a cosa faranno quando lei, figlia unica, non ci sarà più e quando scopre che stanno frequentando un corso di assitenti sociali per poter aiutare in seguito altre famiglie che si trovano nella loro stessa situazione, Hazel li abbraccia felice.

Anche Gus non lascia da solo un istante il suo amico Isaac; a causa del cancro diventerà presto cieco e Gus cerca di confortarlo e distrarlo durante i momenti di sconforto. “Parlami” è la frase che ricorre più volte fra questi ragazzi dalla vita breve: il chiudersi in se stessi è la cosa peggiore che possa capitare all’interno del loro piccolo  circuito di solidarietà.
Verso metà del film la visita di Hazel e Gus alla casa di Anna Frank  attiva in modo manifesto un  parallelo del loro atteggiamento con quello di quella ragazza che serenamente affrontò il suo dramma non dimenticando mai che “nonostante tutto la gente ha un cuore buono” .

Un altro aspetto che caratterizza questo originale lavoro è il fatto che i due ragazzi non evitano di soffermarsi sulla loro condizione ma ne parlano apertamente. Entrambi cercano di dare un senso alla loro vita: partono da posizioni diverse ma poi l’uno finisce per comprendere e assimilare le rispettive posizioni, realizzando quella intesa profonda che finirà per sfociare in amore.

Quando Hazel si allontana da Gus perché la sua malattia sta peggiorando e vuole evitargli ulteriori sofferenze,  lui risponde che per lui “sarebbe un privilegio avere un cuore a pezzi per te”. Quando sarà poi lui a sentirsi triste perché si accorge che nella sua vita non è riuscito a diventare famoso e il suo destino sarà il completo oblio, sarà lei ad arrabbiarsi facendogli notare che  lui è importante per lei e ciò gli deve bastare.

In due hanno modo di aiutarsi a vicenda anche quando cercano di approfondire il  tema della vita dopo la morte.
Se lei preferisce restare scettica, lui rigetta questa prospettiva: Gus si sente innamorato e non può sopportare che il suo amore sia “un grido nel vuoto”.  In un altro confronto fra loro due sarà lei a riconoscere che il loro amore ha un sapore di infinito: “mi hai regalato un per sempre in un numero finito di giorni”.

Il tema dela fede non è mai affrontato in modo esplicito ma è presente nel film solo come allusione discreta:   nella figura del  moderatore del gruppo di sostegno che cerca di parlare di Gesù ai suoi malati, nei funerali religiosi.
Il film non riesce sempre ad evitare di sfociare nel patetico (Gus, prima di morire, vuole ascoltare i discorsi funebri che i suoi amici hanno preparato per lui), qualche zuccherosa romanticheria (“abbiamo imbottigliato tutte le stelle per voi” dice il cameriere ai due innamorati nel versare dello champagne) o insostenibili “americanate” , come quando il loro bacio in un luogo pubblico scatena l’applauso di tutti i presenti.

Alla fine un incasso in U.S.A. di 124 milioni di $ su un budget di 12 milioni sta a dimostrare come anche temi difficili come quello delle  malattie incurabili riesca a far breccia nel pubblico, grazie a due attori perfettamente nella parte, un bravo regista e un libro di riferimento scritto da chi è stato capace di scavare in profondità sul tema. 

di Franco Olearo