Ripetere non serve e costa troppo

Settembre. Un nuovo anno scolastico è iniziato e l’attenzione di politici e dell’opinione pubblica si è concentrata sulla scuola. Un po’ per gli annunci di riforma, ma anche perché siamo tutti genitori, figli, zii, nonni o nonne e quindi il mondo della scuola fa parte, nel bene e nel male, del nostro vivere quotidiano o di quello dei nostri cari. Quello che è certo, al di la delle proposte di rivoluzionare la scuola è che molti studenti italiani sentiranno sia sui banchi di scuola che a casa la minaccia “Studia! Altrimenti sarai bocciato”. In teoria la bocciatura dovrebbe servire a permettere a uno studente che è rimasto indietro nel programma di “mettersi in pari” per riuscire poi a proseguire gli studi con profitto. Tuttavia lo studio OCSE PISA che confronta i dati sulle bocciature e sulle competenze scolastiche degli studenti 15-enni in più di 65 paesi nel mondo mostra che far ripetere anni scolastici non è di aiuto per gli studenti che ripetono un anno, comporta costi elevati per il sistema paese e non solo non aiuta a promuovere maggiore equità nel sistema, ma rinforza le differenze tra studenti con un diverso background socio-economico. In Italia ci sono ancora troppi bocciati: il 17% degli studenti quindicenni ha dichiarato di aver ripetuto almeno un anno scolastico, rispetto a una media OCSE del 12%.

Gli studenti persi e il mancato recupero

Inoltre, mentre in molti paesi dei Paesi con livelli molto alti di ripetenti il numero di studenti che ha ripetuto una classe è diminuito, in Italia il numero degli studenti ripetenti è aumentato. In Italia tra il 2003 e il 2012, la percentuale di studenti che ha dichiarato di aver ripetuto almeno un anno scolastico è aumentata di 2 punti percentuali, mentre in Francia che nel 2003 registrava il 39% di ripetenti nel 2012 questo era sceso al 28%. Lo studio PISA mostra che purtroppo in Italia, come in molti altri paesi, tra gli studenti che ottengono gli stessi risultati in matematica, comprensione di testi e scienze, gli studenti socialmente svantaggiati hanno più probabilità di ripetere un anno rispetto agli studenti più favoriti. Gli studenti socio-economicamente svantaggiati hanno meno possibilità di ricevere aiuto durante l’anno scolastico grazie a corsi di recupero e lezioni private. Gli studenti svantaggiati spesso hanno maggiori problemi comportamentali, arrivano in ritardo e saltano lezioni o giorni di scuola. Invece che intervenire sui problemi che determinano un allontanamento progressivo di troppi ragazzi dalle classi, il mondo scuola in Italia si basa ancora sull’uso della bocciatura come strumento per punire. Uno dei possibili risultati e’ la scarsa motivazione dei ragazzi e gli alti livelli di dispersione scolastica. L’esigenza di fare ripetere una classe implica costi elevati: alla spesa di un anno aggiuntivo d’istruzione bisogna infatti aggiungere il mancato introito per la società quando si differisce di almeno un anno l’ingresso dello studente bocciato sul mercato del lavoro. In Italia, il costo delle bocciature rappresenta il 6,7% della spesa annua nazionale per l’istruzione primaria e secondaria – ovvero 47.174 dollari (circa 36 mila euro) per studente che ripete l’anno. Prevenire è meglio che curare. Vale nel mondo della sanità pubblica, ma vale anche, e soprattutto, nel mondo della scuola. Prevenire è meglio che curare e le bocciature sono costose e non curano il problema dello scarso profitto e motivazione degli studenti italiani. Ridurre le bocciature potrebbe aiutare a risparmiare risorse da investire nella prevenzione: per aiutare i ragazzi in modo personalizzato durante l’anno affinché’ non si creino lacune nel processo di apprendimento e per affiancare ragazzi demotivati e con scarso attaccamento alla scuola.

di Francesca Borgonovi, analista Ocse

Serra International Italia

Da 11 anni il Serra Italia bandisce un concorso scolastico a livello nazionale come attività di servizio alla Chiesa cattolica per invogliare i giovani a discutere sui valori religiosi ed etici. Le prove in oggetto costituiscono uno spaccato interessante per comprendere le dinamiche relazionali dei giovani, la loro affettività, la nuova accettazione dei modelli educativi, lo status della famiglia contemporanea e le difficoltà dipendenti da questo momento storico.
Il Concorso è finalizzato a promuovere la cultura cattolica, ovvero la formazione integrale dei  giovani da accompagnare con l’ascolto dei loro bisogni  nell’età adolescenziale per la definizione delle scelte della vita in senso cristiano.  In una società in cui i giovani soffrono la mancanza di chiamanti autentici e coerenti, il progetto educativo del concorso  si propone di declinare ad ampio raggio il valore della Bellezza della vita nel rispetto della dignità umana.
 

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:  Ezechiele 18,25-28

Così dice il Signore:  «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore a punto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

 

Questi versetti sono presi dal capitolo più tipico di Ezechiele sulla responsabilità personale. Egli parla ai deportati a Babilonia, consapevoli dei peccati del popolo d’Israele e ormai rassegnati che i figli debbano pagare le colpe dei padri. Essi vanno ripetendo: «I padri han mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez 18,2). Ma il profeta, a nome di Dio, li contraddice: «Voi non ripeterete più questo proverbio… chi pecca morirà» (Ez 18,3-4). In questo capitolo lo fa in quattro riprese, articolate tutte allo stesso modo: un’obiezione degli israeliti, la confutazione del profeta e la sua istruzione sull’argomento. È il genere letterario del responso sacerdotale o Torâh. Il brano liturgico presenta la risposta alla terza obiezione, molto simile alla seconda che precede (Ez 18,19) e alla quarta che segue (Ez 18,29). Applica gli insegnamenti della lunga risposta data alla prima, con i casi specifici del nonno buono, del figlio malvagio e del nipote ancora buono (Ez 18,2).

     C’è una botta e risposta iniziale (v. 25). Gli interlocutori del profeta obiettano che non è retto il comportamento del Signore, se adesso non fa più scontare ai figli le iniquità dei padri, ed egli subito ribatte con l’interrogativo se piuttosto il loro comportamento non sia retto, non approfondendo i motivi profondi del problema.

     Poi c’è la spiegazione dettagliata (vv. 26-28). Ezechiele ribadisce quanto ha già detto e ripetuto. Al di là degli aspetti legali di colpa e pena, egli fa considerare l’ordine delle cose in se stesse, nel quale c’è un rapporto stretto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Nel dire questo, allarga di molto le visuali. Alla morte da lo stesso significato di disfacimento dell’essere umano, quale conseguenza della colpa dei progenitori (Gen 2,17), e alla vita quello della crescita piena prevista originariamente, nell’armonia con Dio (Gen 1,28). L’iniquità e la giustizia inoltre le intende in base alla Torâh, della quale appena prima ha ripetuto per tre volte una sintesi (Ez 18,5-9.10-13,15-17), sulla quale regolare la responsabilità personale, e in riferimento alla quale già il Deuteronomio proclamava: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30.15).

     Nel Pentateuco però l’orizzonte rimane terreno e certamente anche Ezechiele lo ha, guardando alla fine della deportazione, al ritorno in patria e alla ricostruzione. Ma questo non basta per le singole persone, malvagie o giuste. Per esse le insistenze del profeta pongono una promessa allo sviluppo della rivelazione sulla retribuzione ultraterrena. Solo in vista di essa, infatti, vale per tutti lo stretto rapporto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Del resto lo esige anche l’affermazione all’inizio di questo capitolo: «Tutte le vite sono mie» (Ez 18,4), fatta da colui che si è proclamato «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,15), proclamazione che comprova la risurrezione dei morti, secondo Gesù (cf. Mt 22,33).

 

Seconda lettura: Filippesi 2,1-11

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

Filippi è la prima Chiesa che Paolo ha fondato in Europa, durante il secondo viaggio missionario (ca. 50-53 d.C.), dalla quale ha accettato più volte aiuti anche materiali, con molta riconoscenza ma tenendoci anche a non lasciarsi condizionare dai doni, nel proporre gli impegni del vangelo. Lo dice con tanta intensità alla fine della lettera (Fil 4,10-21). Alla luce di quelle espressioni si capisce il triplice e appassionato «se» rivolto ai suoi  benefattori, che apre questo brano: «se c’è qualche conforto… se c’è qualche comunione di spirito… se ci sono sentimenti di amore e di compassione…». Se tutto questo c’è verso Paolo, ci sia anche fra di loro, con l’unione degli spiriti e con le prestazioni della collaborazione in tutta umiltà e non per spirito di rivalità o per vanagloria. Al riguardo ha da dire dell’altro e lo fa nel resto del capitolo. Ma prima richiama loro il modello supremo di Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù». Un richiamo sempre necessario, specialmente nel nostro tempo, nel quale si vorrebbe che Cristo avesse i nostri sentimenti…

     L’inno cristologico molto più probabilmente Paolo lo ha preso dalla liturgia delle prime comunità cristiane e lo ha inserito qui perché fondamentale per il suo messaggio. Sintetizza infatti il mistero pasquale negli aspetti del dono totale di sé, per i quali Cristo ha avuto il massimo della esaltazione. Si sviluppa in due strofe parallele e antitetiche.

     La prima strofa è discendente per una serie di gradini, segnati dalla kènosi o svuotamento e dalla obbedienza di Cristo. Dalle perfezioni della natura divina egli ha svuotato se stesso, assumendo la forma umana e la condizione di servo. Il servizio dell’obbedienza, che ha scelto, lo ha realizzato fino alla morte, cioè totalmente, e alla morte di croce, cioè nel modo più infamante del supplizio riservato agli schiavi e ai peggiori delinquenti, per raggiungere col suo esempio e la sua grazia anche le situazioni estreme.

     La seconda strofa è ascendente per un’altra serie di gradini, contrapposti ai precedenti ma frutto di essi e segnati dalla esaltazione di Cristo e dalla obbedienza di tutti gli esseri sottoposti a lui. Perché si è «svuotato» della natura divina, Dio gli ha dato un «nome», cioè una dignità e un potere, al di sopra di ogni altro nome. Perché si è fatto obbediente fino ai livelli infimi. Dio destina ogni ginocchio a piegarsi, cioè ogni essere a sottomettersi a lui, in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua o cultura, umana e angelica, a proclamarlo Signore, Kyrios, lo stesso nome dato a Dio tradotto in greco l’ebraico Adonaj. La sua gloria sarà nuova gloria per il Padre, dal quale ha avuto origine tutta la vicenda: è abbozzato qui il ritornello che scandisce l’inno trinitario all’inizio della lettera agli Efesini.

Vangelo: Matteo 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

 

Esegesi 

     La parabola dei due figli mandati a lavorare nella vigna è riportata dal solo Matteo, dopo che i membri del Sinedrio, sommi sacerdoti e anziani del popolo, hanno chiesto a Gesù con quale autorità compie gesti clamorosi e non autorizzati, quali l’ingresso messianico a Gerusalemme, la cacciata dei venditori dal tempio e l’insegnamento all’interno di esso. A rincararne la dose aggiunge subito quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45). In precedenza, sullo stesso argomento ha raccontato quella dei chiamati al lavoro in diverse ore del giorno (Mt 20,1-16).

     1. Il significato è chiarissimo. Il lavoro nella vigna è il paragone classico con il quale i profeti parlano dell’opera di Dio per educare il suo popolo (cf. specialmente Is 5.1-7). Sulla corrispondenza a tale opera Gesù prende posizioni molto dure, nel suo ultimo ministero a Gerusalemme. In questa parabola pone i casi di un consenso a parole e rifiuto nei fatti e di un rifiuto a parole e consenso nei fatti. Con una domanda all’inizio e una alla fine, chiede ai suoi avversari la valutazione dei due comportamenti. Essi danno quella più ovvia e, lontani dall’immaginare le intenzioni del loro interlocutore, pronunciano così la propria condanna.

     2. L’applicazione di Gesù. Essa, è rivolta proprio a loro. Nella volontà del padre della parabola egli intende quella che Dio manifesta al suo popolo, mediante i suoi inviati. Ma non rimane sul generico. Va al caso specifico della predicazione del Battista, che ultimamente ha indicato anche ai membri del Sinedrio la «via della giustizia» cioè della corrispondenza alla effettiva volontà di Dio in questo tempo di grazia.

     Di fronte ad essa, era un no in partenza la condotta delle prostitute e dei pubblicani, ma poi hanno creduto e si sono convertiti. I pubblicani, esattori delle tasse, erano considerati pubblici peccatori perché imbroglioni e perché sacrileghi, in quanto versavano i tributi all’invasore pagano. Era invece un sì in partenza il compito dei sommi sacerdoti e degli anziani, in quanto servizio voluto da Dio per il suo popolo, ma in pratica essi non hanno avuto nemmeno un cenno di pentimento delle proprie infedeltà e non hanno creduto al Battista. La parabola è stata così in primo luogo un puntuale atto di accusa nei loro riguardi.

     Quando Matteo l’ha messa in iscritto, dopo il concilio di Gerusalemme (49 d.C.), era già applicabile all’altro contesto, preannunciato da Gesù, della defezione di tanti giudei convertiti, mentre i pagani accoglievano in massa il vangelo: «molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori» (Mt 8,11-12). E da allora rimane sempre aperto un terzo contesto: quello delle successive letture in ogni tempo e luogo. Adesso è aperto il nostro contesto da interpretare.

     In questo modo le parabole sono uno degli strumenti più forti della predicazione di Gesù. Egli non racconta storielle per bambini, ma affronta con esse i responsabili della cosa pubblica, civile e religiosa, e provoca prese di coscienza e scelte precise, alla maniera dei profeti, in particolare di Natan di fronte a David (2Sam 12). Le parabole stanno alla frontiera della evangelizzazione, usava dire il compianto monsignor Vittorio Fusco.

 

Meditazione

Prima lettura e vangelo propongono un messaggio sul pentimento. L’uomo ingiusto può desistere dalla sua ingiustizia e agire con rettitudine (Ezechiele); il figlio che in un primo tempo si è rifiutato di andare a lavorare nella vigna del padre, dopo decide di andarvi (vangelo).

     L’unità delle due letture può anche essere espressa con le categorie della conversione e della responsabilità.

     Il pentimento è attestazione di libertà. Anche il malvagio può cambiare. Questa possibilità di conversione dice che il peccato non è una potenza metafisica che schiaccia l’uomo e che ha su di lui l’ultima parola. Nel pentimento l’uomo ritrova la retta via e «torna» a se stesso e a Dio allo stesso tempo.

     Atto di libertà, il pentimento è anche atto di liberazione. Il malvagio che cambia condotta «fa vivere se stesso» (Ez 18,27), da vita alla sua esistenza, mostrando di non essere schiavo dei precedenti comportamenti.

     Che cosa porta il malvagio a cambiare condotta? Com’è possibile evocare il pentimento, questo evento in cui è in gioco il mistero della persona e la coscienza della contraddizione fra sé e sé che conduce al dolore e alla lacerazione interiori? Ezechiele evoca il cammino interiore che conduce al pentimento con le parole: «ha visto» (Ez 18,28, letteralmente; Vulgata: considerans). Che cosa ha visto? In Ez 18,14 si parla del «vedere i peccati del padre» da parte del figlio, che pure non fa della visione dei peccati paterni un alibi per il proprio peccare, anzi, non si lascia generare al peccato dal padre peccatore. Quella visione indica allora la presa di coscienza dei propri peccati, è la dolorosa visione di sé nella non-unificazione, nella divisione profonda. Nel pentimento noi vediamo noi stessi nella contraddizione con noi stessi. E sappiamo di poterci rivolgere a Dio proprio in quella condizione di chi ha il cuore contrito.

     Nell’odierna parabola evangelica (Mt 21,28-31), il figlio che ha risposto «no» all’invito del padre e poi, «pentitosi», «avendo provato rimorso», ha fatto la volontà del padre, rivela che il credere passa a volte anche attraverso un ricredersi. L’obbedienza alla parola e alla volontà di Dio passa a volte attraverso uno smentire la propria parola e la propria volontà. La fede non ci chiede di non sbagliare e di non peccare, ma di riconoscere l’errore e di confessare il peccato.

     In quel «ricredersi» c’è il dialogo interiore, c’è la presa di coscienza della realtà, c’è l’audacia di guardare in faccia se stessi, preliminare essenziale per l’agire responsabile. Insomma, c’è l’inizio del movimento verso la responsabilità, della decisione di passare dall’irresponsabilità alla responsabilità. In questo senso, lungi dall’essere un segno di debolezza, il pentimento è segno di coraggio e di forza. Per quanto sia raro e impopolare, anche nella chiesa, il gesto di chi riconosce di aver sbagliato, di chi ammette di aver assunto posizioni che si sono rivelate poco conformi al vangelo e muta la propria posizione cercando di essere più fedele al vangelo, è segno di grandezza umana e spirituale.

     Nel cristianesimo il pentimento è la via maestra per accedere alla volontà di Dio. «Noi cristiani abbiamo il privilegio di disporre di un metodo altro, rispetto alla mondanità, per avvicinarci alla verità: il pentimento» (Christos Yannaras).

     I due figli della parabola sono entrambi in contraddizione tra il dire e il fare. Ma con una differenza essenziale. Il figlio che dice «no» si espone a un conflitto con il padre, con una persona esterna a lui, e questo lo conduce a prendere coscienza del suo conflitto interiore e a mutare opinione. Cosa che non avviene in chi risponde «sì» e che compiace l’altro, si adagia sull’altro, non si espone conflittualmente all’altro e può evitare di guardare alla tentazione della disobbedienza che abita pure in lui. Per Matteo è evidente che coloro che vivono nel «sì» sono i religiosi (sacerdoti e anziani del popolo: Mt 21,23) che possono non sentirsi bisognosi di conversione perché già «a posto», a differenza di coloro che invece vivono nel «no», pubblicani e prostitute, e che possono fare spazio all’evangelo ed entrare nel Regno.

Preghiere e racconti

Un «sì» continuamente ripetuto

Questa parabola riguarda ciascuno di noi. Abbiamo detto «sì» quando abbiamo riconosciuto la legittimità della legge di Dio e promesso di sottometterci ad essa; ma il più delle volte continuiamo a vivere o riprendiamo a vivere senza preoccuparci della volontà di Dio. Crediamo di vivere nel Regno perché un tempo il nostro «sì» è stato sincero, ma ciò che vi è di più abituale in noi sfugge alla volontà di Dio che ci chiama al Regno. Spesso le nostre azioni sono in sintonia con la volontà di Dio, ma, quando ciò che vogliamo non si accorda con la sua volontà, è in genere il nostro volere ad avere la meglio; obbediamo ai nostri desideri e ai nostri capricci. Ma la vita nel Regno non consiste nell’iscrizione del nostro nome in un libro [dei battesimi o dei matrimoni]. L’ingresso nel Regno richiede una volontà viva e continua, un’accettazione costante e attuale della volontà di Dio su di noi. È un«sì» continuamente ripetuto.

(Y. de Montcheuil, Il Regno e le sue esigenze)

La possibilità di rispondere NO

Un amore reale secerne la possibilità di una rivolta. Può proporre solo il SI e il NO. Tutto sommato, un buon padre è colui che dà al figlio la possibilità di rispondergli NO. Certo, non è l’amore a produrre il NO (il figlio lo ha scoperto da solo), ma lo rende possibile. Si noterà questa specie di misteriosa simpatia che il Cristo sembra aver avuto nei riguardi dei ribelli. La loro condotta gli sembrava dovuta a un malinteso, un malinteso che non poteva durare e, soprattutto, che in seguito si sarebbe dimostrato benefico. Il figlio-schiavo non ha alcuna possibilità di riconoscere l’amore del Padre; il figlio ribelle, più tardi, ha la possibilità di scoprirlo.

(A. Maillot, Le parabole di Gesù oggi)

Il mio «sì»…

Maria, vorrei che il mio «sì» fosse semplice come il tuo,

che non avesse astuzie mentali.

Vorrei che il mio  «sì», come il tuo,

non mi mettesse al centro, ma a servizio.

Vorrei che il mio  «sì» al disegno di un altro, come il tuo,

volesse dire soffrire in silenzio.

Vorrei che il mio  «sì»,  come il tuo,

volesse dire tirarsi indietro per far posto alla vita.

Vorrei che il mio  «sì» , come il tuo,

racchiudesse una storia di salvezza.

Ma il mio peccato, il mio orgoglio, la mia autosufficienza,

dicono un  «sì» ben diverso.

Il tuo sguardo su di me, Maria,

mi aiuti ad essere semplice,

una che si dimentica,

una che vuole perdersi nella disponibilità

di chi sa di esistere da sempre

soltanto come un pensiero d’amore. Amen.

Non importa

L’uomo è irragionevole,

illogico, egocentrico

non importa, amalo.

Se fai bene

ti attribuiranno secondi fini egoistici,

non importa, fa il bene.

Se realizzi i tuoi obiettivi

troverai falsi amici e veri nemici,

non importa, realizzali.

Il bene che fai

verrà domani dimenticato,

non importa, fa il bene.

L’onestà e la sincerità

ti rendono vulnerabile,

non importa, sii franco e onesto.

Quello che per anni hai costruito

può essere distrutto in un attimo,

non importa, costruisci.

Se aiuti la gente

se ne risentirà,

non importa, aiutala.

Dà al mondo il meglio di te

e ti prenderanno a calci,

non importa, dà il meglio di te.

(Calcuta, scritta sul muro casa dei bambini di Madre Teresa)

Il Padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte

A chi si è rivolto in verità con tutto il cuore a Dio si aprono le porte e il padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte. La vera conversione consiste nel non ricadere nelle stesse colpe, ma di estirpare completamente dall’anima i peccati per i quali sei giudicato meritevole di morte. Una volta eliminati questi, Dio ritornerà ad abitare in te, perché, come dice il Signore, grande e insuperabile è la gioia e la festa nei cieli per il Padre e per gli angeli quando un solo peccatore si converte e si pente (cfr. Lc 15,10). Perciò il Signore ha proclamato: «Misericordia voglio e non sacrificio (Os 6,6; Mt 9,12; 12,7); non voglio la morte del peccatore, ma la conversione (Ez 33,11); e se i vostri peccati fossero come lana scarlatta, li farò diventare bianchi come neve, e se fossero più neri della tenebra, li laverò e li farò diventare come lana bianca» (Is 1,18). Dio solo, infatti, può perdonare i peccati e non tener conto delle cadute. Anche a noi il Signore comanda di perdonare ogni giorno i fratelli che si pentono. E se noi, che siamo cattivi, sappiamo dare cose buone (cfr. Mt 7,11), quanto più il Padre delle misericordie, il Padre buono, «di ogni consolazione» (2Cor 1,3), pieno di tenerezza e di compassione sa pazientare. Egli aspetta quelli che si sono convertiti. Ora, la vera conversione è smettere di peccare e non guardarsi più indietro. Dio accorda il perdono dei peccati passati, mentre per ciò che riguarda il futuro ciascuno è responsabile di se stesso. Anche questo è pentirsi, riconoscere gli errori passati e chiedere al Padre di non ricordarli più. Lui solo può rendere non compiuti i peccati compiuti, cancellando con la misericordia che viene da lui e con la rugiada dello Spirito i peccati commessi in passato.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Quale ricco si salva? 39,2-40,1, GCS 3,185-186)

Sì, ma…

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo, continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione. Giorno e notte spero soltanto una cosa: che tu mi mostri la tua misericordia e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore. Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento, a una preghiera sincera e umile e a una generosità libera e spontanea. Vedo così chiaramente la strada da seguire! Comprendo così bene che mi è necessario venire a te. Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te; ma il mio cuore esita, il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro, vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…». O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami, che tu mi aspetti a braccia aperte? Come un padre con le lacrime agli occhi, tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai dato. Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a te. Solo quando verrò liberamente a te, quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli affanni e confesserò liberamente le mie vie sbagliate e chiederò liberamente misericordia, solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.

Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa, ascolta il mio desiderio di ritornare a te. Non lasciarmi solo nella mia lotta. Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto. Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

Aiutami a dire “sì”.

Ho paura a di “sì”, Signore.

Dove mi porterai?

Ho paura del “sì” che comporta altri “sì”.

Ho paura a mettere la mia mano nella tua;

perché tu possa stringerla […]

O, Signore, ho paura delle tue richieste,

ma chi può opporti resistenza?

Che venga il tuo regno, non il mio,

che sia fatta la tua volontà e non la mia,

Aiutami a dire “sì”».

(Michel QUOIST)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 20

PER APPROFONDIRE:

XXVI DOM TEMP ORDINARIO (A)

«Così insegno inglese con Facebook e twitter, in classe e da casa»

Il gessetto e la lavagna, certo. Ma anche Twitter, perché no. E in classe, proprio dentro quelle stesse aule da cui di solito smartphone e tablet sono banditi. La lezione-tipo della prof norvegese Ann Michaelsen ha un che di irrituale e avveniristico. Di riflesso, molti potrebbero stentare a crederle. Se non fosse che tra le mura della Sandvika High School vicino a Oslo, le lezioni via Skype con classi sudafricane, i compiti consegnati sul blog personale, e il dialogo fitto tra alunni e docente su Twitter vanno in scena per davvero. «I ragazzi hanno bisogno di sapere cosa condividere in rete e come farlo, ed è la scuola che deve insegnare ad usare la tecnologia responsabilmente», dice al Corriere della Sera la professoressa Michaelsen. 

La docente insegna inglese a gruppi di studenti di classi diverse, ma tutti attorno ai 17-18 anni. «Loro hanno il permesso di usare Twitter, Facebook, Skype e YouTube a scuola. Lavorando sui social network siamo riusciti a scrivere insieme Connected Learners, un libro che tra le altre cose spiega come usiamo Twitter a scuola», racconta la prof. Il social dei 140 caratteri viene usato dagli studenti per inviare messaggi privati alla docente, che può assistere i suoi studenti in tempo reale anche quando è a casa. «Di certo non rispondo sempre, ma di volta in volta decido se è urgente o meno quello che mi domandano», confessa Michaelsen, che in effetti ha risposto in pochi minuti alla nostra richiesta di contatto su Twitter. Ma anche lanciare un hashtag particolare, con cui classificare link e approfondimenti trovati a casa ma da usare in classe, è una delle idee per ottenere il meglio dal social network dell’uccellino blu. «Facebook? Certo, da casa ci serve anche quello», assicura poi la docente, che spiega come riesce a mettersi in contatto con gli studenti, superando anche il costume che impone spesso l’accettazione della loro amicizia sul social. Compiti su facebook e consigli su twitter, ma niente «amicizia» Michealsen non concede agli studenti l’opportunità di chiedergliela, ma usa una pagina pubblica per ogni classe che le viene assegnata. Ad orari prefissati, gli studenti si ritrovano online per svolgere esercitazioni da casa, oppure ricevere indicazioni sulle lezioni del giorno dopo. «Condividere documenti su Facebook è spesso più semplice che stamparli e distribuirli di volta in volta agli studenti, magari assenti quel giorno. I ragazzi trascorrono sui social network molto tempo, perciò perché non raggiungerli dove sono, anziché passare dalle fredde e poco utilizzate piattaforme di condivisione didattica?», continua la docente. La motivazione parrebbe lampante: «Sì, gli studenti possono distrarsi con Facebook e Twitter a portata di mano. Ma il compito dell’insegnante in classe non è chiudersi ma aprirsi, anche andando a spulciare cosa stanno facendo, o imponendo ritmi serrati e scadenze specifiche da rispettare, incentivandoli così a lavorare di più», replica la professoressa della Sandvika High School. Un altro suggerimento per i colleghi insegnanti è quello di stimolare la curiosità degli studenti sfruttando proprio i social network, con metodi alternativi di trasmissione delle nozioni. In fondo Facebook e Twitter sono solo uno strumento, e demonizzarli, restituisce sempre un retrogusto luddista. Sembra essere questo l’approccio della prof Michaelsen, sempre molto concreta nel valutare il rapporto della scuola con la quotidianità, e le giuste contromosse per stare al passo con la domanda di didattica che si evolve continuamente. 

«La scuola deve insegnare come si usano i social e anche far ragionare i ragazzi» «I social media sono già una parte importante della nostra vita e la maggioranza dei miei studenti useranno la tecnologia nella loro professione. Perciò è necessario che la scuola insegni loro sia l’aspetto funzionale, sia quello etico. Non dimentichiamoci che il nostro obiettivo è fornire loro le competenze di cui avranno bisogno nel ventunesimo secolo», conferma la docente. Di certo, a fare da sfondo alle classi norvegesi c’è un ambiente ideale per studenti e professori. All’istruzione pubblica e gratuita, si accompagnano investimenti di non poco conto da parte dello Stato che assicurano a ciascuno studente un tablet o un pc da usare non solo a scopo didattico. Ad ogni modo, gessetto e lavagna a parte, anche in Italia la vera sfida sarà coniugare la domanda di nuovi strumenti didattici, con un’adeguata offerta di scuola pubblica. Passando forse anche da Twitter e Facebook.

«Voi non siete speciali» Ai ragazzi si insegna così

Diventa un libro il discorso del professore di inglese David McCullough ai diplomati del suo liceo di Boston visualizzato due milioni di volte e che ha sbancato Facebook

«Voi non siete speciali. Vi hanno viziati, coccolati, idolatrati. Ma diversamente da quanto suggeriscono il trofeo che avete vinto a calcio o la vostra splendida pagella, non lo siete. Anche se ci fosse un diplomato su un milione, sareste comunque settemila sulla terra: se tutti siete speciali, non lo è nessuno». Il discorso del professore d’inglese David McCullough ai diplomati del suo liceo di Boston finì su YouTube appena concluso, il 7 giugno 2012. La sera stessa era stato visualizzato 2 milioni di volte e condiviso su centinaia di migliaia di bacheche Facebook. E in pochi mesi è diventato un libro, uscito ora anche in Italia: Ragazzi, non siete speciali! E altre verità che non sappiamo più dire ai nostri figli (Garzanti, 252 pagg., € 15, traduzione di Roberto Merlini). «Ricevetti tonnellate di email, la gente mi fermava per strada, le tv mi invitavano. La mia era una critica da insegnante: negli ultimi anni i miei allievi, spronati da genitori che per la loro formazione investono molto, hanno sempre più difficoltà a valutare i propri talenti, pensano che un master darà loro lavoro e diventano narcisisti, incapaci di gestire l’insuccesso. Ma nessuno si è offeso. Anzi, ho capito che il messaggio ‘‘non siete speciali’‘ generava in tutti un certo sollievo». 

Già, sollievo. Perché «per i ragazzi di oggi essere speciali è una condanna», spiega lo scrittore Francesco Pacifico. «Non c’è scelta: i loro padri l’avevano, tra un percorso sicuro ma poco eccitante e carriere ambiziose ma più precarie. Loro no: anche per fare l’insegnante oggi servono dieci anni di tribolazioni. Così ci si butta, finanziati da genitori ansiosi, su ambizioni spesso fuori misura: regista, diplomatico, fisico nucleare». Al tema Pacifico ha dedicato un romanzo, Class – vite infelici di romani mantenuti a New York (Mondadori, 189 pagg., € 19). Che inizia così: «La realizzazione personale di un giovane borghese non vale il denaro che costa». E racconta le storie (infelici, appunto) di un giovane regista e della moglie, le cui carriere creative sono finanziate da famiglie non miliardarie fino a tardissima età. 
«Credendo di aiutarli, i genitori li caricano di aspettative. E ritardano domande fondamentali: ‘‘ho talento o no? Quello per cui sto studiando mi piace o no?’‘». Non a caso, il manuale Ragazzi, non siete speciali! è dedicato «agli adolescenti, ma soprattutto a mamma e papà. È da loro che nascono moltissime delle ambizioni sbagliate dei ragazzi, e delle loro frustrazioni», spiega McCullough. 

Isabella Milani, docente di italiano, è autrice di un blog per insegnanti: uno dei momenti più rischiosi per gli adolescenti è la scelta delle scuole superiori

E se il docente americano descrive genitori «ossessionati dai voti, pronti a telefonare a casa dell’insegnante per fargli cancellare un’insufficienza per timore che macchi il curriculum del ragazzo», i colleghi italiani raccontano di «mamme che fanno i compiti al posto dei figli, e se chiedo loro perché mi rispondono: era stanco. Se do un sei, mi chiedono perché non sette, in fondo il ragazzo è portato. E così via». A parlare è Isabella Milani, professoressa di italiano in una scuola media e autrice di un fortunato blog per insegnanti (http://bit.ly/milani_scuola). «Ma il momento peggiore è la scelta delle superiori: noi insegnanti diamo consigli, ma in pochi ci ascoltano. Preferiscono mandarli al liceo, a costo che sputino sangue, e protestare anche lì se i voti non sono buoni, piuttosto che scegliere un buon istituto tecnico o professionale dove potrebbero fare, e stare, meglio».

Un errore e che molti pagano con la dispersione o l’abbandono scolastico. «Il 74% delle richieste di consulenza arrivate tra il 2010 e il 2012 sono di studenti liceali che vogliono cambiare percorso», commenta Francesco Dell’Oro, per anni responsabile del Servizio orientamento scolastico al Comune di Milano e autore di vari saggi sul tema. «Molto spesso non hanno scelto loro di andare al classico o allo scientifico. Ma i genitori, che hanno una fede incrollabile nell’iter liceo – università ‘‘concreta’‘ come Economia o Ingegneria – laurea a pieni voti, come carta vincente per trovare lavoro. E sbagliano». Mostra i risultati 2013 dell’indagine Excelsior di Unioncamere, secondo cui le capacità più richieste per un neolaureato sono «lavorare in gruppo» e «attitudini comunicative»: «capacità che un ragazzo sviluppa se studia con piacere e curiosità, non con l’acqua alla gola in un corso scelto ‘‘perché dà lavoro’‘. Magari uno sarebbe un buon chef, e invece passa anni di fatica a studiare da medico». 
O, come i velleitari protagonisti del romanzo di Pacifico, anni di scuole di cinema per poi scoprirsi senza talento. Anche questo è un rischio. «Ma almeno sta seguendo la sua strada», chiosa McCullough. «L’importante è che si trovi un piano B, un’attività con cui mantenere il sogno e che non gli dispiaccia. Se no non diventa adulto». Figlio di uno storico affermato (il premio Pulitzer David McCullough Sr.), da giovane aveva i mezzi economici e il desiderio di fare lo scrittore. Tre romanzi impubblicati – «e impubblicabili, lo ammetto» – più tardi ripiega, senza voglia, sull’insegnamento. «Un lavoro ordinario. Che però mi piacque moltissimo. E non solo: mi ha poi consentito di scrivere un libro, proprio sull’insegnamento. Realizzando, alla fine, il mio sogno da ragazzo». 

Sinodo dei vescovi: pubblicato l’Instrumentum laboris

Il Vangelo della famiglia, le situazioni coniugali difficili, l’educazione alla vita e alla fede: sono i tre ambiti in cui si sviluppa l’Instrumentum Laboris che servirà a preparare i lavori del prossimo Sinodo straordinario dei Vescovi, in programma in Vaticano dal 5 al 19 ottobre 2014. Il testo, che racchiude e sintetizza le risposte al questionario sui temi del matrimonio e della famiglia, è stato presentato il 26 giugno dai cardinali Baldisseri ed Erdõ e dal vescovo Bruno Forte.
La prima parte del documento innanzitutto ribadisce il “dato biblico” della famiglia, basata sul matrimonio tra uomo e donna, creati ad immagine e somiglianza di Dio e collaboratori del Signore nell’accogliere e trasmettere la vita. Tra i fedeli, però, l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia viene accettato parzialmente: in generale, si dice sì alla difesa della dignità della vita umana, mentre si fa resistenza alla dottrina sul controllo delle nascite, sul divorzio o sulle relazioni prematrimoniali. Di qui l’esigenza di trovare nuovi linguaggi per trasmettere questi insegnamenti, formando in modo adeguato gli operatori pastorali. Di fronte alla grande sfida della privatizzazione della famiglia, non più intesa come elemento attivo della società e cellula fondamentale di essa, emerge la necessità di coltivare un legame costante con la parrocchia, “famiglia di famiglie”, e di curare la formazione soprattutto per i nuclei familiari in crisi.
La seconda parte entra nel vivo delle sfide pastorali contemporanee: dalla debolezza della figura paterna alle violenze e abusi su donne e bambini, dalla pesante incidenza del lavoro sulla vita familiare ai danni arrecati dalla “contro-testimonianza nella Chiesa”, dalla percezione dell’amore solo come “un fatto privato” alla sua riduzione alla mera sfera emozionale. Il documento dedica un’ampia parte alle “situazioni di irregolarità canonica”, in particolare al disagio dei divorziati risposati che non possono accostarsi ai sacramenti, evidenziando come per le situazioni difficili la Chiesa non debba assumere un atteggiamento di giudice che condanna, ma quello di una madre che sempre accoglie i suoi figli. Circa le unioni tra persone dello stesso sesso, inoltre, si mette in luce che tutte le Conferenze episcopali dicono no all’introduzione di una legislazione che ridefinisca il matrimonio anche in tal senso; sono anche contrarie all’adozione di bambini da parte di persone in unione omosessuale. Tuttavia, se tali persone chiedono il battesimo per il bambino, esso deve essere accolto con “la stessa cura, tenerezza e sollecitudine” che si ha nei confronti degli altri.
La terza parte del testo, infine, constata come la dottrina della Chiesa sull’apertura alla vita da parte degli sposi sia poco conosciuta nella sua dimensione positiva e quindi considerata un’ingerenza nella coppia e una limitazione all’autonomia della coscienza. Viene poi esaminata la timidezza con la quale oggi i genitori spingono i figli alla pratica religiosa, l’importanza di sostenere le scuole cattoliche, la necessità di un’accoglienza senza pregiudizio, la riscoperta del ruolo del padrino e della madrina nel cammino di fede di bambini e ragazzi.
È importante ricordare che quello del prossimo ottobre sarà un Sinodo “straordinario”, legato all’urgenza della questione da trattare. Suo compito primario sarà quello di valutare ed approfondire i dati presentati dalle Chiese particolari, mentre le linee pastorali da attuare saranno al centro del Sinodo generale ordinario che si terrà nell’ottobre 2015, sul tema: “Gesù Cristo rivela il mistero e la vocazione della famiglia”.

Per la famiglia in Piazza con Francesco

Alla vigilia della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi (Roma, 5-19 ottobre 2014), dedicato a riflettere circa “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, la Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana invita il popolo di Dio a prendere parte a un momento pubblico di preghiera e di riflessione, che culminerà nell’intervento del Santo Padre.
L’iniziativa intende manifestare l’attenzione della Chiesa italiana attorno a una tematica tanto decisiva quale quella della famiglia, nucleo vitale della società e della stessa comunità ecclesiale. Di qui la volontà di accompagnare i lavori dell’Assemblea sinodale, invocando su di essa la luce dello Spirito Santo.
L’evento – al quale parteciperanno anche i Padri sinodali – si svolgerà sabato 4 ottobre, dalle 18 alle 19.30, in Piazza San Pietro; sarà ripreso dal CTV e trasmesso in diretta da Tv2000 e dalle altre televisioni cattoliche.

Colpa delle stelle

Solidarietà ed altruismo nella difficile storia dei due giovani protagonisti malati di cancro. 

Di film che cercano di commuovere gli spettatori raccontando  una storia d’ amore che termina tragicamente con  la morte di uno dei due amanti a causa di una malattia incurabile, ce ne sono stati tanti; i fiumi di lacrime che vengono versati, i fazzoletti  consumati  testimoniano il perenne successo di queste pellicole. Vorrei  ricordare, come caratteristici di questo filone,  Love story (1970) e Autunno a New York (2000).

Colpa delle stelle sembra voler raddoppiare l’effetto: non uno, ma entrambi gli innamorati sono malati di cancro (lei ai polmoni, lui alle ossa)  e fin dall’inizio ci domandiamo chi dei due morirà per primo. Anche per vedere questo film è opportuno portarsi un’ampia scorta di fazzoletti ma nonostante questo inevitabile “difetto”, la grande abilità narrativa del  regista e la contagiosa simpatia dei due protagonisti rendono il racconto interessante  e gradevole.

Hazel e Gus sono giovani e come tali si mostrano sempre pronti a sorridere e scherzare ma la sceneggiatura (ricavata dal best seller omonimo di John Greene) li rende attraenti perché ce li mostra dotati  di alcune insolite virtù: solidarietà e altruismo.

“La cosa peggiore di morire di cancro è avere una figlia che muore di cancro” pensa Hazel che si preoccupa  più di quello che provano i suoi genitori che di se stessa. Ciò che la rattrista è il pensare a cosa faranno quando lei, figlia unica, non ci sarà più e quando scopre che stanno frequentando un corso di assitenti sociali per poter aiutare in seguito altre famiglie che si trovano nella loro stessa situazione, Hazel li abbraccia felice.

Anche Gus non lascia da solo un istante il suo amico Isaac; a causa del cancro diventerà presto cieco e Gus cerca di confortarlo e distrarlo durante i momenti di sconforto. “Parlami” è la frase che ricorre più volte fra questi ragazzi dalla vita breve: il chiudersi in se stessi è la cosa peggiore che possa capitare all’interno del loro piccolo  circuito di solidarietà.
Verso metà del film la visita di Hazel e Gus alla casa di Anna Frank  attiva in modo manifesto un  parallelo del loro atteggiamento con quello di quella ragazza che serenamente affrontò il suo dramma non dimenticando mai che “nonostante tutto la gente ha un cuore buono” .

Un altro aspetto che caratterizza questo originale lavoro è il fatto che i due ragazzi non evitano di soffermarsi sulla loro condizione ma ne parlano apertamente. Entrambi cercano di dare un senso alla loro vita: partono da posizioni diverse ma poi l’uno finisce per comprendere e assimilare le rispettive posizioni, realizzando quella intesa profonda che finirà per sfociare in amore.

Quando Hazel si allontana da Gus perché la sua malattia sta peggiorando e vuole evitargli ulteriori sofferenze,  lui risponde che per lui “sarebbe un privilegio avere un cuore a pezzi per te”. Quando sarà poi lui a sentirsi triste perché si accorge che nella sua vita non è riuscito a diventare famoso e il suo destino sarà il completo oblio, sarà lei ad arrabbiarsi facendogli notare che  lui è importante per lei e ciò gli deve bastare.

In due hanno modo di aiutarsi a vicenda anche quando cercano di approfondire il  tema della vita dopo la morte.
Se lei preferisce restare scettica, lui rigetta questa prospettiva: Gus si sente innamorato e non può sopportare che il suo amore sia “un grido nel vuoto”.  In un altro confronto fra loro due sarà lei a riconoscere che il loro amore ha un sapore di infinito: “mi hai regalato un per sempre in un numero finito di giorni”.

Il tema dela fede non è mai affrontato in modo esplicito ma è presente nel film solo come allusione discreta:   nella figura del  moderatore del gruppo di sostegno che cerca di parlare di Gesù ai suoi malati, nei funerali religiosi.
Il film non riesce sempre ad evitare di sfociare nel patetico (Gus, prima di morire, vuole ascoltare i discorsi funebri che i suoi amici hanno preparato per lui), qualche zuccherosa romanticheria (“abbiamo imbottigliato tutte le stelle per voi” dice il cameriere ai due innamorati nel versare dello champagne) o insostenibili “americanate” , come quando il loro bacio in un luogo pubblico scatena l’applauso di tutti i presenti.

Alla fine un incasso in U.S.A. di 124 milioni di $ su un budget di 12 milioni sta a dimostrare come anche temi difficili come quello delle  malattie incurabili riesca a far breccia nel pubblico, grazie a due attori perfettamente nella parte, un bravo regista e un libro di riferimento scritto da chi è stato capace di scavare in profondità sul tema. 

di Franco Olearo

XXV DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura: Isaia 55,6-9 

 Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

 

Siamo nell’ultimo capitolo del secondo Isaia (40-55), un profeta anonimo del tempo dell’esilio babilonese (VI sec. a. C.) i cui oracoli di consolazione sono stati aggiunti al libro di Isaia (VIII sec. a.C.). Il cap. 55 si conclude con una esortazione a cercare e invocare il Signore, la rinnovata promessa dell’alleanza e l’efficacia della parola di Dio.

     Nei versetti precedenti il nostro brano il profeta annuncia la nuova alleanza e la realizzazione delle promesse fatte a Davide, in un orizzonte universalistico che coinvolge i popoli e le nazioni: anche chi non conosce Israele accorrerà a rendergli onore a causa del Signore.

     L’oracolo si apre con il v. 6 che esorta gli esiliati a cercare il Signore, mentre è vicino e si fa trovare.

     È un tema caratteristico della profezia esilica quello della vicinanza del Signore, proprio in terra straniera, dove gli esuli temevano di averlo perduto. Gli ebrei avevano legato infatti la presenza del Signore al possesso della Terra, alla città santa e al Tempio: con la distruzione di quest’ultimo e la deportazione tutto sembrava compromesso, l’alleanza infranta e la salvezza irraggiungibile. Invece, proprio la condizione di smarrimento dell’esilio, assimilata dai profeti al deserto, è una condizione favorevole alla conversione e al ravvedimento.

     Il v. 7 invita ad abbandonare le vie e i pensieri iniqui e a ritornare al Signore: il verbo shûv indica la conversione, la metanoia. Il Signore avrà misericordia: la radice rhm indica le viscere materne del Signore che prova compassione per il popolo, senza che esso lo abbia in alcun modo meritato.

     Le «vie» e i «pensieri» ritornano al v. 8 per riaffermare con maggior forza la necessità della conversione: le vie e i pensieri degli uomini infatti (l’iniquo e l’empio del v. 7, ma anche tutto il popolo che si illude di essere nel giusto) non corrispondono alle vie e ai pensieri di Dio.

     La differenza sostanziale e la superiorità assoluta del progetto di Dio rispetto ai progetti umani sono pari alla distanza infinita tra terra e cielo (v. 9): non è semplicemente l’idea filosofica della trascendenza di Dio, ma la grandezza e la profondità del suo amore, della sua misericordia e del suo perdono, che l’uomo non riesce nemmeno a immaginare.

     L’efficacia della parola del Signore, che porta a compimento ciò che promette, viene riaffermata nei versetti seguenti.

 

Seconda lettura: Filippesi 1,20-24.27 

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.  Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.  Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo. 

 

La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

     Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo (cf. l,14ss.).

     Paolo sviluppa in questi versetti un’audace e paradossale contabilità della sua missione apostolica.

     I vv. 20c-22 pongono il problema.

     La «partita doppia» tra sofferenze e pericoli della persecuzione e glorificazione di Cristo si chiude in pari, anzi in attivo: Cristo sarà glorificato, sia che l’apostolo venga liberato e viva, sia che subisca la condanna e muoia.

     La morte, infatti, rappresenta per Paolo un guadagno perché significa essere ricongiunti a Cristo, che è la vita vera. Il discorso sembrerebbe qui chiuso con l’aspirazione al martirio: ma Paolo vi oppone un argomento altruistico. Per sé, egli sceglierebbe il martirio; ma la vita al servizio dei fratelli e del vangelo può dare frutti alla Chiesa, allora ecco che la scelta si fa più difficile.

     I vv. 23-24, centrali nella pericope, propongono con chiarezza l’alternativa: morire in Cristo (espresso con il verbo analysai, come una liberazione) sarebbe il meglio, ed è il desiderio di Paolo; ma vivere è più necessario per i fratelli.

     Gli ultimi tre versetti (25-27) risolvono la questione indicando la scelta di Paolo: «continuerò a rimanere in mezzo a voi». Ne segue, logica conseguenza, l’esortazione ai Filippesi perché si rendano degni del vangelo di Cristo: questo è il solo «vanto» (kauchema) riconosciuto valido dall’apostolo.

     L’opposizione vita/morte si compone in Cristo, che sarà comunque glorificato dall’apostolo, sia con una morte testimoniale sia con una vita dedicata alla predicazione.

 

Vangelo: Matteo 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzo giorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

     Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». 

 

Esegesi

     Siamo nella sezione del vangelo di Matteo dedicata al cammino verso la Passione (capp. 16-20).

     La sezione si apre con la confessione di fede di Pietro — tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente (16,15) — e prosegue con i tre annunci della Passione (16,21; 16,22-23; 20,18-19). Poco prima dell’ultimo annuncio l’evangelista inserisce la parabola degli operai dell’ultima ora, incorniciata da due detti quasi identici sugli ultimi che saranno primi e i primi che saranno ultimi (19,30; 20,16). Il tutto è a sua volta incastonato fra due brani che riguardano il discepolato e pongono il problema della ricompensa (cf. il salario della parabola) e della gerarchia (cf. l’ordine di priorità fra gli operai della prima e dell’ultima ora). Il brano che precede è la domanda di Pietro sulla ricompensa che spetta a chi ha «lasciato tutto» per seguire Gesù, e la risposta di Gesù (19,27-29); segue immediatamente il terzo annuncio della Passione, e la richiesta della madre dei figli di Zebedeo sui posti da assegnare nel regno.

     Nella parabola si possono distinguere tre parti.

1) la prima (vv. 1-7) racconta ciò che succede durante il giorno. Si tratta della giornata lavorativa tipica nella società agricola palestinese del tempo, che durava «dai primi raggi del sole fino al sorgere delle stesse» (cf. Sl 103/104,22-23). La suddivisione in 12 ore quindi, nella stagione estiva, comporta una durata dell’ora lavorativa ben superiore ai 60 minuti. Si susseguono quattro brani sul padrone di casa che esce cinque volte a cercare operai per la sua vigna. Nei primi tre abbiamo una contrattazione in cui si pattuisce un salario («Si accordò con loro per un denaro», la paga giornaliera normale, cf. Tob 5,15; «quello che è giusto ve lo darò»; «fece altrettanto»). Nell’ultimo brano si riferisce nei particolari il dialogo, ma non si parla di salario.          

     Si crea così una sospensione e un’attesa: anche il lettore si aspetta che gli altri ricevano di meno. Ciò anche perché rimane inespresso il motivo per cui a sera sono ancora disoccupati: non c’era lavoro a sufficienza o erano pigri? dov’erano, quando il padrone era uscito all’alba, alla terza, alla sesta e alla nona ora?

2) Al centro, il v. 8 crea il collegamento tra la parabola e ciò che precede e che segue: abbiamo il rovesciamento tra gli ultimi e i primi (che anticipa la risposta ai figli di Zebedeo), l’ordine inverso nella paga (la ricompensa rivendicata da Pietro). Il tutto a opera del «Signore della vigna» (il «padrone di casa» dei vv. 1 e 11), chiara metafora del regno dei cieli.

     La tensione, già creata con il v. 7, viene qui accentuata. È insolito, anche se non impossibile, che si assumano operai al termine della giornata; ancor più insolito che si inizi da costoro il pagamento, costringendo chi ha faticato fin dall’alba ad attendere e rinviare così il momento del riposo. Tanto più che la Legge prescriveva di pagare senza indugio i lavoratori a giornata, che non avevano altro mezzo per provvedere al cibo per sé e per la famiglia: «gli darai il salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole» (Deut 24,15).

     A questo punto ci aspettiamo che possa seguire qualcosa di ancora più strano. Era necessario del resto quest’ordine inverso, perché così i primi assistono al pagamento degli ultimi e possono attendersi di ricevere di più (v. 10).

3) Nell’ultima parte vengono messi in parallelo gli ultimi e i primi (vv. 9-10): «e venuti quelli dell’undicesima ora…», «e venuti i primi…». In seguito si riferisce il dialogo: la domanda dei primi operai (vv. 11-12) e la risposta del padrone (vv. 13-15).

     Il padrone rivendica a sé la sovrana libertà di disporre del proprio come vuole. Un denaro non era solo la paga consueta, era anche il necessario per vivere: ebbene, la volontà del padrone della vigna è che ciascuno abbia il necessario per vivere (il pane quotidiano), indipendentemente dai propri meriti. Il problema nasce quando si fanno dei confronti, e ci si erge a giudici pretendendo che la giustizia del Signore segua i nostri criteri.

     Alcuni elementi colpiscono particolarmente, e portano a comprendere che non di equità sociale o di diritti sindacali vuol parlare l’evangelista.

     Il padrone della vigna sottolinea l’opposizione giusto/ingiusto: «quello che è giusto ve lo darò» (v. 4); «non sono ingiusto con te» (v. 13). Si tratta evidentemente di una strana giustizia: «la si perde se l’uomo la reclama per sé con leggerezza, come un suo diritto ovvio, confrontando il proprio curriculum con quello degli altri e non concentra così lo sguardo sulla bontà del Signore davanti alla quale tutto quello che egli ha fatto e meritato svanisce. Così proprio l’incomprensibile bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non vuole liberarsi dei suoi concetti umani di merito e giustizia» – (EDUARD SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 367).

     Il padrone, che nella prima parte della parabola appare tanto premuroso e generoso da uscire ben cinque volte alla ricerca di disoccupati cui offrire lavoro, si rivela subito dopo, se non ingiusto (è pur vero che rispetta i patti), quanto meno capriccioso e brusco («prendi il tuo e vattene», v. 14a). Il contrasto viene sciolto dall’ultima domanda che il padrone rivolge non a tutti gli operai, ma a uno, chiamandolo «amico»: rivolta perciò al lettore del vangelo, a ciascuno di noi personalmente, suona alla lettera: «o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». La cattiveria sta nell’occhio dei primi, come Caino verso Abele, i fratelli verso Giuseppe: «Gli operai della prima ora non vogliono riconoscere che è stato un dono essere stati assunti: certo, hanno lavorato dodici ore, ma solo grazie all’invito del padrone di casa. Come la vita è un dono, regalata dal Padre, senza alcun merito da parte di chi la riceve» (ROLAND MEYNET, Una nuova introduzione ai vangeli sinottici, EDB, 2001, p. 249).

Meditazione 

     La dichiarazione divina trasmessa dal profeta «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8) trova una esposizione narrativa nella parabola evangelica secondo la quale gli operai che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del padrone ricevono una paga identica a quella di coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Nello scandalo patito dagli operai della prima ora vi è tutta la distanza tra il pensare e l’agire di Dio e il pensare e l’agire degli uomini.

     Questa distanza non dice il capriccio di Dio o il suo arbitrio, ma la sua misericordia. Ciò che gli operai della prima ora contestano al padrone è infatti di aver dato la stessa ricompensa agli ultimi arrivati come a loro che avevano patito il peso dell’intero giorno di lavoro. Letteralmente essi dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12). Il fare agli ultimi come ai primi abbatte le discriminazioni e i privilegi. Il Dio biblico, infatti, è il Dio della grazia. Esprime bene questo primato della misericordia e della grazia sulle logiche giuridiche un brano della Catechesi sulla santa Pasqua dello Pseudo-Giovanni Crisostomo: «Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato fin dalla prima».

     Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è «giogo soave e leggero» e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione.

     La distanza tra pensieri di Dio e pensieri umani è importante da salvaguardare perché impedisce l’operazione perversa di identificare i propri pensieri umani con quelli di Dio. Questa affermazione contesta la presunzione religiosa che proietta in Dio le proprie azioni e i propri pensieri e identifica le proprie parole su Dio con Dio e la propria volontà con quella di Dio. L’istanza espressa dal profeta è un invito all’umiltà del pensiero, in particolare del pensiero teologico, del pensiero che osa «pensare Dio».

     Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi. E l’invidia è definita come avere «l’occhio cattivo» (Mt 20,15). L’etimologia è illuminante: invidere, significa «non vedere», «vedere contro», ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: «perché lui sì e io no?»; «perché a lui come a me che meritavo di più?». L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile.

     Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli: si entra in un rapporto giuridico padrone-servi, e si esce dalla solidarietà con gli altri operai, gli altri uomini.

     Male della vita comunitaria ed ecclesiale è la mormorazione (Mt 20,11). Mormorando, gli operai della prima ora affermano che il padrone non aveva il diritto di comportarsi come si è comportato. La mormorazione non è una parola personale chiara che esprime un dissenso leale, ma movimento sotterraneo che aggrega diverse persone che si fanno forza vicendevolmente con il loro malumore per poi esprimersi in accuse e lamentele. La sua logica è la complicità, non la responsabilità.

 

Preghiere e racconti

Rattristati dalla felicità degli altri

È indiscutibile: noi siamo spesso rattristati dalla felicità degli altri. È uno degli aspetti del mistero del peccato, della ferita presente in ciascuno di noi, Vi sono persone che si rattristano quando vedono che gli altri si amano. Vi sono degli sventurati che non perdonano agli altri la loro giovinezza, la loro bellezza, la loro intelligenza. Vi sono nella Chiesa dei cristiani imbronciati e laboriosi che non perdonano a certi convertiti di essere stati soggiogati dalla grazia di Dio, apparentemente senza alcun sforzo e merito da parte loro… L’inizio della santità sarebbe riconoscere che, nonostante la disuguaglianza delle nostre vite, non ci manca nulla se Dio è con noi; e allora potremmo gioire della bontà di Dio che sembra amare maggiormente i nuovi arrivati nel suo amore.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio)

Lavorare nella vigna del Signore

Nella liturgia di oggi inizia la lettura della Lettera di San Paolo ai Filippesi, cioè ai membri della comunità che l’Apostolo stesso fondò nella città di Filippi, importante colonia romana in Macedonia, oggi Grecia settentrionale. Paolo giunse a Filippi durante il suo secondo viaggio missionario, provenendo dalla costa dell’Anatolia e attraversando il Mare Egeo. Fu quella la prima volta in cui il Vangelo giunse in Europa. Siamo intorno all’anno 50, dunque circa vent’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Eppure, nella Lettera ai Filippesi, è contenuto un inno a Cristo che già presenta una sintesi completa del suo mistero: incarnazione, chenosi, cioè umiliazione fino alla morte di croce, e glorificazione. Questo stesso mistero è diventato un tutt’uno con la vita dell’apostolo Paolo, che scrive questa lettera mentre si trova in prigione, in attesa di una sentenza di vita o di morte. Egli afferma: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). E’ un nuovo senso della vita, dell’esistenza umana, che consiste nella comunione con Gesù Cristo vivente; non solo con un personaggio storico, un maestro di saggezza, un leader religioso, ma con un uomo in cui abita personalmente Dio. La sua morte e risurrezione è la Buona Notizia che, partendo da Gerusalemme, è destinata a raggiungere tutti gli uomini e i popoli, e a trasformare dall’interno tutte le culture, aprendole alla verità fondamentale: Dio è amore, si è fatto uomo in Gesù e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del male donandole una speranza affidabile. San Paolo era un uomo che riassumeva in sé tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Non a caso Dio affidò a lui la missione di portare il Vangelo dall’Asia Minore alla Grecia e poi a Roma, gettando un ponte che avrebbe proiettato il Cristianesimo fino agli estremi confini della terra.

Oggi viviamo in un’epoca di nuova evangelizzazione. Vasti orizzonti si aprono all’annuncio del Vangelo, mentre regioni di antica tradizione cristiana sono chiamate a riscoprire la bellezza della fede. Protagonisti di questa missione sono uomini e donne che, come san Paolo, possono dire: “Per me vivere è Cristo”. Persone, famiglie, comunità che accettano di lavorare nella vigna del Signore, secondo l’immagine del Vangelo di questa domenica (cfr Mt 20,1-16). Operai umili e generosi, che non chiedono altra ricompensa se non quella di partecipare alla missione di Gesù e della Chiesa. “Se il vivere nel corpo – scrive ancora san Paolo – significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22): se l’unione piena con Cristo al di là della morte, o il servizio al suo corpo mistico in questa terra.

Cari amici, il Vangelo ha trasformato il mondo, e ancora lo sta trasformando, come un fiume che irriga un immenso campo.

(Benedetto XVI, Angelus, 18-09-2011).

Il tuo occhio è malvagio, perché io sono buono?

      La vigna sono i precetti e i comandi di Dio, il tempo della fatica, la vita presente; gli operai quelli che in modo diverso sono chiamati a compiere i precetti; quelli venuti al mattino, all’ora terza, alla sesta, alla nona e all’undicesima ora sono quelli che sono giunti [alla fede] in età diverse e si sono fatti onore. Ma ciò che è da indagare è se i primi, che si sono splendidamente distinti e sono stati graditi a Dio e che per tutto il giorno hanno brillato per le loro fatiche, si lasciano dominare da quel male estremo della malvagità che è dato dall’invidia e dalla gelosia.

Vedendo infatti che quelli avevano usufruito della stessa ricompensa, dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo» (Mt 20,12). E sebbene non ricevessero alcun danno e il loro compenso non fosse diminuito, si dispiacevano e si irritavano per i beni altrui, cosa che è propria dell’invidia e della gelosia. E il fatto più importante è che il padrone, che aveva preso le difese di quelli e si era giustificato dinanzi a chi aveva parlato in questi termini, lo condanna per la sua malvagità e la sua estrema invidia, dicendo: «Non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene! Io voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Forse il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?» (Mt 20,13-15). Che cosa si ricava da queste parole? Quella stessa cosa che possiamo vedere anche in altre parabole. Infatti il figlio stimato per la sua buona condotta viene presentato con gli stessi sentimenti quando vede che il fratello dissoluto riceve molti più onori di lui (cfr. Lc 15,28). Come quelli godettero di un bene maggiore ricevendo la ricompensa per primi, così anche quello veniva onorato di più per l’abbondanza dei doni e lo testimonia il figlio dalla buona condotta.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 64,3, PG 58,612-613).

Il ricco e il povero

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero. Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni. Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.” “Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto. “verso Oriente” rispose la donna, e scomparve.

Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità. E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé. “Mia cara, – disse il povero  sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me”.  La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.

Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.

Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato. “Non riceverai del denaro, – gli disse  ma tutto ciò che trovi scavando è tuo”.

Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro. Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza. Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce: “Mio signore, aprimi! Aprimi!”. Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse: “Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia”. Dopo di che scomparve. Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza  con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno. Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari. L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora. L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.

Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro. Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria. Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò. L’aperse subito. La Miseria  saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia.  “Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte”.

Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna. I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione. Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.

(da: Fiabe di Praga magica,  Arcana ed., 1993).

Quando sei chiamato, va’

Tu, quando sei chiamato, va’.

Sei chiamato a mezzogiorno? Va’ a quell’ora.

È vero che il padrone ti ha promesso un denaro anche se vai nella vigna all’ultima ora, ma nessuno ti ha promesso se vivrai fino alla prima ora del pomeriggio. Non dico fino all’ultima ora del giorno, ma fino alla prima ora dopo mezzogiorno.

Perché dunque ritardi a seguire chi ti chiama? Sei sicuro del compenso, è vero, ma non sai come andrà la giornata.

Vedi di non perdere, a causa del tuo differire, ciò che egli ti darà in base alla sua promessa.

(Agostino D’Ippona, Discorso 87, 6.8).

Non desiderare le cose altrui

“Se stai cercando di darti delle arie con chi sta in alto, scordatelo. Ti guarderanno dall’alto in basso comunque. E se stai cercando di darti delle arie con la gente che sta in basso, scordatelo lo stesso. Ti invidieranno e basta. Gli status-symbol non ti porteranno da nessuna parte. Solo un cuore sincero ti permetterà di stare alla pari con tutti.” […] “Fa’ il genere di cose che ti vengono dal cuore. Quando le farai, non ne resterai insoddisfatto, non sarai invidioso; non desidererai le cose altrui. Al contrario, sarai sommerso da quel che ti verrà in cambio.”

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 132-133).

Non andare via, Signore

Quando trovi chiusa la porta del mio cuore,

abbattila ed entra: non andare via, Signore.

Quando le corde della mia chitarra dimenticano il tuo nome,

ti prego, aspetta: non andare via, Signore.

Quando il tuo richiamo non rompe il mio torpore,

folgorami con il tuo dolore: non andare via, Signore.

Quando faccio sedere altri sul tuo trono,

o re della mia vita: non andare via, Signore.

(Rabindranath Tagore)

Il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 200

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXV DOM TEMP ORDINARIO (A)

Accompagnare la persona disabile nel tempo della malattia

Il percorso formativo offerto dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute e il Settore Catechesi per le persone disabili dell?Ufficio Catechistico Nazionale si propone di qualificare animatori attraverso la conoscenza delle dimensioni portanti della pastorale con le persone in situazione di disabilità e di malattia in strutture socio-sanitarie assistenziali (centri diurni per persone con disabilità semplice o pluridisabilità, strutture per anziani disabili, strutture per disabilità adulte).

Il corso è rivolto a sacerdoti, animatori pastorali religiosi e laici, ai membri di equipe pastorali dei centri e delle strutture per le diverse disabilità “adulte” e/o per anziani.

Programma            

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