XXX DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura:  Esodo 22,20-26

Così dice il Signore:  «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.

Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

 

Il brano è preso da quello che gli esegeti (in base a Es 24,7) chiamano “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22-23,19), inserito fra la teofania del Sinai, col dono del decalogo (Es 19,1-20,21), e il rito della stipulazione (Es 24). Offre un chiaro esempio di alcuni precetti sociali profondamente motivati dalla opzione fondamentale dell’amore di Dio e del prossimo. Introducono bene al Vangelo.

     Per forma e contenuto si possono dividere in due gruppi.

     Il primo gruppo (vv. 20-23) si occupa dei comportamenti verso le persone emarginate di allora; il forestiero, la vedova e l’orfano, un trinomio spesso ricorrente nei profeti. La forma è apodittica: esprime un comando, accompagnato da una motivazione.

     Prima proibisce le molestie e le oppressioni verso il forestiero (gher), cioè colui che ha lasciato il proprio ambiente di origine, per motivi economici o politici o di altro genere, e si è inserito nel popolo di Israele. Di solito era persona povera e indifesa, facilmente vittima di soprusi e sfruttamenti.

     Motivo della proibizione: anche Israele è stato forestiero in Egitto. Un modo concreto di dire: ama il tuo prossimo come te stesso! A monte c’è pure il motivo teologico, che domanda ancora più amore. A Israele, infatti, Dio dice anche: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25,23). Col cristianesimo questo motivo diventa universale e perenne. I discepoli di Gesù sono «nel mondo» ma non «del mondo» e impegnati a redimerlo (cf. Gv 17,11-19). Per san Paolo «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20) e «finché abitiamo nel corpo siamo in esilio»: qui e là occorre essere graditi a Dio (cf. 2Cor 5,6-9; e pure 1Pt 2,11; Eb 13,14). La lettera A Diogneto infine delinea mirabilmente i cristiani nel contempo cittadini e stranieri e benefattori del mondo.

     Il brano liturgico proibisce poi i maltrattamenti alla vedova e all’orfano, le persone prive di sostegno per la morte del marito e del padre, quindi esposte a tanti abusi e sopraffazioni. Il motivo qui è subito teologico: Dio stesso si farà loro vindice e punirà i trasgressori con la pena del contrappasso; le loro mogli diventeranno vedove e i loro figli orfani.

     Il secondo gruppo (vv. 24-26) ha due precetti su cose necessarie al prossimo indigente. La forma è casuistica: pone un caso e detta la norma, aggiungendo però anche qui delle motivazioni.

     Il primo caso riguarda il prestito di denaro e proibisce l’usura, in modo assoluto, verso il povero. Il Deuteronomio riserva questa norma verso ogni fratello israelita e consente di riscuotere interessi dallo straniero (cf. Dt 23,20-21). In pratica i comportamenti devono essere stati piuttosto vari. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso parla di depositi in banca e di interessi (cf. Mt 25,27 e Lc 19,23). Le norme bibliche comunque sono sempre a tutela dei poveri e deboli e opposte ai profittatori.

     Il secondo caso riguarda il pegno preso a garanzia della restituzione di un prestito. Se si tratta del mantello, al tramonto bisogna renderlo al proprietario, perché gli serve anche da coperta. Il motivo è altamente umanitario: il pegno non deve mai compromettere la vita o la salute del debitore. Per questo il Deuteronomio vieta assolutamente di prendere la macina, che serve a fare il pane (Dt 24,6), e stabilisce che non si entri in casa a prendersi il pegno, ma si aspetti che il proprietario lo porti fuori. Al motivo umanitario il Codice dell’alleanza aggiunge ancora quello teologico di Dio che ascolta il lamento dell’oppresso, perché è misericordioso, come ha già fatto con Israele in Egitto.

     Da notare come questa legislazione ancora primitiva è assai rispettosa nei dettagli pratici e molto ricca nelle motivazioni umane e teologiche.

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi  1,5-10 

Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.

E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acàia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.  Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

 

A causa della persecuzione, Paolo era dovuto fuggire da Tessalonica, poche settimane dopo la fondazione di quella chiesa, ed era rimasto in ansia per i riflessi negativi che il fatto poteva avere. Ma Timoteo, inviato a supplirlo (1Tess 3,2,6), gli ha portato ottime notizie. Allora scrive questa lettera, che storicamente è il primo documento del Nuovo Testamento. La liturgia ne propone l’esordio, del quale riporta i passaggi finali, dopo solo un cenno di quelli iniziali, sul soggiorno dell’apostolo fra i Tessalonicesi, tutto proteso al bene (v. 5).

     Esprime una serie di complimenti ai destinatari, perché nella vita pratica si sono fatti imitatori dell’apostolo e di Cristo, anche nella tribolazione (v. 6), perché sono diventati modelli a tutti i credenti della Grecia, nella quale contribuiscono con la testimonianza alla diffusione della parola del Signore (vv. 7-8), e perché la loro conversione dagli idoli morti al Dio vivente li ha posti nell’attesa fattiva del Cristo risorto, che libera il mondo dall’ira divina (vv. 9-10). Nei versetti sulla conversione, gli esegeti vedono un sunto della catechesi orale di Paolo: lo suggerisce la successione di frasi brevi e simmetriche che riecheggiano la sua predicazione ai pagani, in particolare quella agli Ateniesi di poco anteriore alla lettera (cf At 17,22-31).

     Presa in tutto il suo contesto, anche questa seconda lettura ha legami col tema dell’amore di Dio e del prossimo ispiratore di tutti i comportamenti pratici, che è proprio delle altre due. Perché Paolo scrive i suoi pensieri in ginocchio, per così dire, dato che li esprime nel ringraziamento a Dio e li attinge dalla preghiera continua per i Tessalonicesi, come dice all’inizio dell’esordio (1Tess 1,2-5). E si compiace per la loro fede impegnata, per la carità operosa e per la speranza perseverante nel Signore Gesù Cristo. Colloca quindi se stesso e i suoi cristiani in rapporto profondo con la fonte delle loro esperienze e comportamenti. Inoltre pensiero dominante è il ricordo della conversione (vv. 9-10), che ha implicato una opzione fondamentale, in risposta all’iniziativa di Dio che li ha eletti (v. 4): essa che va continuamente rinnovata e coltivata nella preghiera. Richiamato questo, a Paolo non è necessario impartire tanti precetti.

 

Vangelo: Matteo 22,34-40

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».  Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

Esegesi 

     Siamo alla quarta delle cinque controversie affrontate da Gesù a Gerusalemme prima della passione, riferite dai Sinottici. Sommi sacerdoti, sadducei, farisei ed erodiani, ormai determinati a ucciderlo, si alternano nel contestargli le prese di posizione e gli insegnamenti. In questo episodio, Matteo abbrevia il corrispondente testo di Marco, dove la controversia si conclude con un complimento reciproco tra Gesù e un dottore della legge, che sembra staccarsi dal coro degli avversari.

     «Qual è il grande comandamento della legge?»

L’interlocutore si riferisce al libro della legge o Torâh, contenuta nel Pentateuco e sancita con l’Alleanza tra Dio e Israele, domanda quale sia l’impegno basilare di tale Alleanza, dal quale deriva ogni altro. La stipulazione di essa infatti, con opportuni adattamenti, ricalcava lo schema dei patti di vassallaggio tra i popoli dell’area mesopotamica e hittita. Prima avevano un prologo, con la presentazione dei contraenti e dei rapporti già intervenuti fra loro. Poi invitavano all’adesione reciproca totale e perenne che in termini attuali possiamo dire anche una opzione fondamentale: questo è il comandamento «grande» al quale derivano tutti gli altri. Esso è molto chiaro in Dt 6,4-5 nella preghiera «Ascolta, Israele», tuttora recitata quotidianamente, da dove è presa la risposta di Gesù, ed è racco-mandato particolarmente nelle omelie dei capitoli di Dt 5-11.

     I patti di vassallaggio elencavano poi le clausole particolari derivate. Quindi era previsto il rito sacro per la stipulazione dell’Alleanza. Infine erano enumerate le maledizioni o penalità per le infrazioni e le benedizioni o vantaggi della fedeltà reciproca.

     In questa prospettiva, il dottore della legge non ha proposto a Gesù una sottigliezza rabbinica, ma lo ha sfidato sull’impianto fondamentale della sua fede. Ed ha avuto una risposta adeguata, con l’aggiunta anzi che il secondo comandamento, dell’amore al prossimo, è «simile» al primo, del quale è come l’altra faccia: insieme costituiscono la opzione fondamentale della fede biblica. Per questo Gesù può dire che da ambedue dipendono tutte le sacre scritture, legge e profeti.

     Con questa impostazione diventa chiaro pure per noi che i comandamenti dell’amore non sono propriamente comandati (che amore sarebbe?), ma conseguenti all’impegno dell’alleanza con Dio, nella fede.

     Similmente gli altri comandamenti, sviluppati sulla base di essi, non sono soltanto legge naturale resa positiva con la promulgazione del decalogo, ma impegni presi tuttora in una adesione a Dio nella fede e nell’amore.

     Una eloquente conferma, per contrasto in negativo, viene da certi comportamenti oggi diffusi: dove sono carenti le opzioni fondamentali di amore a Dio e al prossimo, sono trascurati e calpestati anche tutti fili altri valori morali.  

 

Meditazione

La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torâh (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torâh, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi,  come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18; Mt 22,39). La Torâh, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è vangelo.

     Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come «perenne» è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei Verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero «al tramonto del sole» il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?» (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.

     La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: «perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.

     La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Si narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: «Dov’è il tuo vangelo?», rispose: «Ho venduto colui che mi diceva: “Vendi quello che possiedi o dallo ai poveri”». Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana.

     Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.

     Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. «Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente» (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono «un altro», sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.

     La somiglianza (Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

 

Preghiere e racconti

Il cantus firmus

Ogni grande amore comporta il rischio di farci perdere di vista quella che amerei definire la polifonia della vita. Mi spiego. Dio e la sua eternità vogliono essere amati da noi pienamente. Ma quest’amore non deve ne nuocere a un amore terreno ne indebolirlo; deve essere in qualche modo il cantus fìrmus attorno al quale cantano le altre voci della vita. L’amore terreno è uno di quei temi in contrappunto che, pur avendo la loro piena indipendenza, si ricollegano comunque al cantus fìrmus. Là dove il cantus fìrmus è chiaro e distinto, il contrappunto può esprimersi con la maggior potenza possibile. I due sono inseparabili e tuttavia distinti, per usare il linguaggio del concilio di Calcedonia, come la natura umana e la natura divina del Cristo. La polifonia musicale è così vicina a noi e così importante per noi forse proprio per il fatto di essere l’immagine musicale di questo dato cristologico, e quindi anche della nostra vita cristiana?

(D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere)

Chi non ha l’amore

Chi non ha l’amore guarda gli alberi

e non vede mai bruciare le loro foglie.

Non vede l’uccello, non vede l’ape

né il giorno che ritorna dalle Cicladi.

Chi non ha l’amore non sente gli alberi

la musica dei muschi sui loro tronchi.

L’autunno si fa uggioso, gli uomini

Dicono – È finita la bella stagione! –

Essi non sanno – mai sapranno –

che basta un uccello a farci svernare.

L’ape, l’uccello, gli alberi, l’azzurro…

Chi non ha l’amore non ne è cosi certo!

(Ch. le Quintrec)

Aprire il cuore all’amore di Dio

E così, più impari ad amare Dio, più impari a conoscere e a voler bene a te stesso. La conoscenza e l’amore di noi stessi sono frutti della conoscenza che abbiamo di Dio e dell’amore che nutriamo per lui. Ora puoi comprendere meglio il significato del grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,37-38). Se apriremo totalmente il cuore all’amore di Dio, avremo per noi stessi un amore che ci darà la forza di amare il prossimo con tutto il cuore. E nel segreto del nostro cuore che impareremo a conoscere la presenza nascosta di Dio; e con questa conoscenza spirituale potremo vivere una vita d’amore. Ma tutto questo esige disciplina. La vita spirituale richiede una disciplina del cuore. La disciplina è il distintivo del discepolo di Gesù. Il che però non mira a crearti difficoltà, ma a mettere a tua disposizione uno spazio interiore dove Dio possa toccarti con un amore che ti trasforma completamente.

(Cf. H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 2008).

A causa dell’amore per lui, dimostreremo amore per gli altri

Cerchiamo, vi prego, di amare Cristo. Egli da te non desidera nient’altro se non che tu lo ami con tutto il cuore e compia i suoi comandamenti. Chi lo ama come si deve, evidentemente si sforza anche di adempiere i suoi comandamenti. Quando infatti si comporta con sincerità nei confronti del prossimo, cerca di fare di tutto per attirare a sé l’amato. Anche noi, dunque, se amiamo con sincerità il Signore, possiamo adempiere i suoi comandamenti e non far nulla di ciò che può irritare l’amato.

Questo è il regno dei cieli, questo il godimento dei beni, questo ottiene i mille beni: l’amare sinceramente e nel modo dovuto. Lo ameremo sinceramente se, a causa dell’amore per lui, dimostreremo grande amore per gli altri, servi al pari di noi. Sta scritto: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti» (Mt 22,40), cioè dall’amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come e stesso (cfr. Mc 12,30-31). Questo è il culmine di tutte le virtù, questo è il fondamento. All’amore verso Dio si aggiunge anche l’amore verso il prossimo. Colui che ama Dio, infatti, non deve disprezzare suo fratello, e non deve stimare il denaro più di un membro del suo corpo, e deve mostrare una grande benevolenza nei suoi confronti, ricordando ciò che Cristo ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E considerando che il Signore dell’universo ritiene come reso a se stesso il servizio prestato a un compagno, farà tutto con grande sollecitudine e nell’elemosina mostrerà una grande generosità; non rifiuterà la miseria apparente del povero, ma guarderà alla grandezza di Colui che ha promesso di accogliere come compiuta per sé stesso qualunque cosa operata a favore di un povero. Non tralasciamo, dunque, il profitto delle nostre anime, la medicina delle nostre ferite. E questo, infatti, è questo che ci offre una medicina tanto efficace da far scomparire le ferite delle nostre anime in modo da non lasciare nessuna traccia, nessuna cicatrice, cosa che non è possibile per le ferite del corpo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, Om. 55,3, PG 54,482-483). 

L’amore incomincia in casa propria

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre”. La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

Amare l’altro con umiltà, discrezione e rispetto

«La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. “Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. “Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui».

(Thomas Merton, un monaco trappista).

Voglio Te solo, Signore

Ti ho cercato, o Signore della vita,

e tu mi hai fatto il dono di trovarti:

te io voglio amare, mio Dio.

Perde la vita, chi non ama te:

chi non vive per Te, Signore,

è niente e vive per il nulla.

Accresci in me, ti prego,

il desiderio di conoscerti

e di amarti, Dio mio:

dammi, Signore, ciò che ti domando;

anche se tu mi dessi il mondo intero,

ma non mi donassi te stesso,

non saprei cosa farmene, Signore.

Dammi te stesso, Dio mio!

Ecco, ti amo, Signore:

aiutami ad amarti di più.

 (Sant’Anselmo di Aosta)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOM TEMP ORDINARIO (A)

“Change” per il Religion Today FilmFestival

Mentre è in corso di svolgimento a Trento e in altre località del Trentino Alto Adige la XVII edizione del Religion Today Filmfestival, l’UPS si prepara ad accogliere alcuni dei suoi protagonisti al Seminario internazionaleche avrà luogo lunedì 20 ottobre 2014 presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale, con inizio alle ore 9.00. Il Seminario è diventato ormai una tappa importante del festival itinerante del cinema sulle religioni per il dialogo e la pace. Per l’edizione di quest’anno è stato scelto il titolo “Change”.

Due le novità che riguardano in particolare la nostra Facoltà. La prima è il premio Youth for Religions and Peace, assegnato dagli studenti dalla FSC; la seconda è la partecipazione tra i membri della Giuria internazionale – che assegnerà i quattro premi del Religion Today (Miglior Film, Miglior Cortometraggio, Miglior Documentario, Gran Premio Nello Spirito della Fede) – del prof. Renato Butera, docente di giornalismo e di cinema della Facoltà.
Il programma del Seminario Internazionale prevede per la mattinata di lunedì, i saluti del Rettore dell’UPS, prof. Carlo Nanni, del decano della FSC, prof. Mauro Mantovani, e della direttrice del Festival, dott. Katia Malatesta. Fanno seguito gli interventi del prof. Paolo Frizzi, direttore artistico del festival, e del prof. Butera, che presentano l’esperienza del Religion Today illustrandone Happening e Content (eventi e contenuti). Gli altri tre interventi che seguono si concentrano sull’aspetto tematico contenuto nel titolo dell’edizione 2014, e cioè il cambiamento. In successione, intervengono Mohammad Gozarabadi (Iran), con una relazione dal titolo: “Change: Cinema and Character Arc”; John Forrest (UK), che propone il tema “Changing technology in changing how we see Faith”; e infine di Lukáš Jirsa (Repubblica Ceca), il cui intervento si intitola: “Searching the full Filmic Experience: to see the world Anew”.
La mattinata continua con l’incontro con alcuni esponenti della Ma’aleh Film School di Gerusalemme, che presentano la loro esperienza mettendola a confronto con quella degli studenti della FSC, e proiettano alcuni dei loro migliori lavori, due dei quali presentati al Religion Today di quest’anno (uno è in concorso tra i cortometraggi). Il Seminario si conclude con la consegna del premio Youth for Religion and Peace – FCS Award, assegnato dalla giuria composta da alcuni studenti della FSC.
Nel pomeriggio, alle ore 15.00verrà proiettato il film vincitore della XVII edizione del Religion Today Filmfestival che sarà introdotto dalla direttrice del Festival, dott. Malatesta. Fa seguito la proiezione del Film Vincitore del YFRP-FSC. Alle ore 21.00 è prevista una seconda proiezione del film vincitore aperta al pubblico. Sono queste le uniche proiezioni (pomeridiana e serale) previste a Roma. 
Destinatari del Seminario sono gli studenti e i docenti della FSC. L’incontro è aperto anche al territorio romano e a quanti volessero prendervi parte a qualsiasi titolo.

Locandina

 

Il discorso di Papa Francesco ai padri sinodali

Eminenze, Beatitudini, Eccellenze, fratelli e sorelle, 

Con un cuore pieno di riconoscenza e di gratitudine vorrei ringraziare, assieme a voi, il Signore che ci ha accompagnato e ci ha guidato nei giorni passati, con la luce dello Spirito Santo!
Ringrazio di cuore il signor cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, Mons. Fabio Fabene, Sotto-segretario, e con loro ringrazio il Relatore, il Card. Péter Erdö che ha lavorato tanto anche nei giorni del lutto familiare, e il Segretario Speciale Mons. Bruno Forte, i tre Presidenti delegati, gli scrittori, i consultori, i traduttori e gli anonimi, tutti coloro che hanno lavorato con vera fedeltà dietro le quinte e totale dedizione alla Chiesa e senza sosta: grazie tante!
Ringrazio ugualmente tutti voi, cari Padri Sinodali, Delegati Fraterni, Uditori, Uditrici e Assessori per la vostra partecipazione attiva e fruttuosa. Vi porterò nella preghiera, chiedendo al Signore di ricompensarvi con l’abbondanza dei Suoi doni di grazia!

Potrei dire serenamente che – con uno spirito di collegialità e di sinodalità – abbiamo vissuto davvero un’esperienza di “Sinodo”, un percorso solidale, un “cammino insieme”.
Ed essendo stato “un cammino” – e come ogni cammino ci sono stati dei momenti di corsa veloce, quasi a voler vincere il tempo e raggiungere al più presto la mèta; altri momenti di affaticamento, quasi a voler dire basta; altri momenti di entusiasmo e di ardore.
Ci sono stati momenti di profonda consolazione ascoltando la testimonianza dei pastori veri (cf. Gv 10 e Cann. 375, 386, 387) che portano nel cuore saggiamente le gioie e le lacrime dei loro fedeli. Momenti di consolazione e grazia e di conforto ascoltando e testimonianze delle famiglie che hanno partecipato al Sinodo e hanno condiviso con noi la bellezza e la gioia della loro vita matrimoniale. Un cammino dove il più forte si è sentito in dovere di aiutare il meno forte, dove il più esperto si è prestato a servire gli altri, anche attraverso i confronti. E poiché essendo un cammino di uomini, con le consolazioni ci sono stati anche altri momenti di desolazione, di tensione e di tentazioni, delle quali si potrebbe menzionare qualche possibilità:

– Una: la tentazione dell’irrigidimento ostile, cioè il voler chiudersi dentro lo scritto (la lettera) e non lasciarsi sorprendere da Dio, dal Dio delle sorprese (lo spirito); dentro la legge, dentro la certezza di ciò che conosciamo e non di ciò che dobbiamo ancora imparare e raggiungere. Dal tempo di Gesù, è la tentazione degli zelanti, degli scrupolosi, dei premurosi e dei cosiddetti – oggi – “tradizionalisti” e anche degli intellettualisti.

– La tentazione del buonismo distruttivo, che a nome di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza prima curarle e medicarle; che tratta i sintomi e non le cause e le radici. E’ la tentazione dei “buonisti”, dei timorosi e anche dei cosiddetti “progressisti e liberalisti”.

– La tentazione di trasformare la pietra in pane per rompere un digiuno lungo, pesante e dolente (cf. Lc 4,1-4) e anche di trasformare il pane in pietra e scagliarla contro i peccatori, i deboli e i malati (cf. Gv 8,7) cioè di trasformarlo in “fardelli insopportabili” (Lc 10, 27).

– La tentazione di scendere dalla croce, per accontentare la gente, e non rimanerci, per compiere la volontà del Padre; di piegarsi allo spirito mondano invece di purificarlo e piegarlo allo Spirito di Dio.

– La tentazione di trascurare il “depositum fidei”, considerandosi non custodi ma proprietari e padroni o, dall’altra parte, la tentazione di trascurare la realtà utilizzando una lingua minuziosa e un linguaggio di levigatura per dire tante cose e non dire niente! Li chiamavano “bizantinismi”, credo, queste cose…

Cari fratelli e sorelle, le tentazioni non ci devono né spaventare né sconcertare e nemmeno scoraggiare, perché nessun discepolo è più grande del suo maestro; quindi se Gesù è stato tentato – e addirittura chiamato Beelzebul (cf. Mt 12, 24) – i suoi discepoli non devono attendersi un trattamento migliore.

Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni e queste animate discussioni; questo movimento degli spiriti, come lo chiamava Sant’Ignazio (EE, 6), se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace. Invece ho visto e ho ascoltato – con gioia e riconoscenza – discorsi e interventi pieni di fede, di zelo pastorale e dottrinale, di saggezza, di franchezza, di coraggio: e di parresia. E ho sentito che è stato messo davanti ai propri occhi il bene della Chiesa, delle famiglie e la “suprema lex”, la “salus animarum” (cf. Can. 1752). E questo sempre – lo abbiamo detto qui, in Aula – senza mettere mai in discussione le verità fondamentali del Sacramento del Matrimonio: l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e la procreatività, ossia l’apertura alla vita (cf. Cann. 1055, 1056 e Gaudium et Spes, 48).

E questa è la Chiesa, la vigna del Signore, la Madre fertile e la Maestra premurosa, che non ha paura di rimboccarsi le maniche per versare l’olio e il vino sulle ferite degli uomini (cf. Lc 10, 25-37); che non guarda l’umanità da un castello di vetro per giudicare o classificare le persone. Questa è la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica e composta da peccatori, bisognosi della Sua misericordia. Questa è la Chiesa, la vera sposa di Cristo, che cerca di essere fedele al suo Sposo e alla sua dottrina. E’ la Chiesa che non ha paura di mangiare e di bere con le prostitute e i pubblicani (cf. Lc 15). La Chiesa che ha le porte spalancate per ricevere i bisognosi, i pentiti e non solo i giusti o coloro che credono di essere perfetti! La Chiesa che non si vergogna del fratello caduto e non fa finta di non vederlo, anzi si sente coinvolta e quasi obbligata a rialzarlo e a incoraggiarlo a riprendere il cammino e lo accompagna verso l’incontro definitivo, con il suo Sposo, nella Gerusalemme Celeste.

Questa è la Chiesa, la nostra madre! E quando la Chiesa, nella varietà dei suoi carismi, si esprime in comunione, non può sbagliare: è la bellezza e la forza del sensus fidei, di quel senso soprannaturale della fede, che viene donato dallo Spirito Santo affinché, insieme, possiamo tutti entrare nel cuore del Vangelo e imparare a seguire Gesù nella nostra vita, e questo non deve essere visto come motivo di confusione e di disagio.

Tanti commentatori, o gente che parla, hanno immaginato di vedere una Chiesa in litigio dove una parte è contro l’altra, dubitando perfino dello Spirito Santo, il vero promotore e garante dell’unità e dell’armonia nella Chiesa. Lo Spirito Santo che lungo la storia ha sempre condotto la barca, attraverso i suoi Ministri, anche quando il mare era contrario e mosso e i ministri infedeli e peccatori. E, come ho osato di dirvi vi ho detto all’inizio del Sinodo, era necessario vivere tutto questo con tranquillità, con e pace interiore anche perché il Sinodo si svolge cum Petro et sub Petro, e la presenza del Papa è garanzia per tutti.

Parliamo un po’ del Papa, adesso, in rapporto con i vescovi. Dunque, il compito del Papa è quello di garantire l’unità della Chiesa; è quello di ricordare ai fedeli il loro dovere a seguire fedelmente il Vangelo di Cristo; è quello di ricordare ai pastori che il loro primo dovere è nutrire il gregge – nutrire il gregge – che il Signore ha loro affidato e di cercare di accogliere – con paternità e misericordia e senza false paure – le pecorelle smarrite. Ho sbagliato, qui. Ho detto accogliere: andare a trovarle.

Il suo compito è di ricordare a tutti che l’autorità nella Chiesa è servizio (cf. Mc 9, 33-35) come ha spiegato con chiarezza Papa Benedetto XVI, con parole che cito testualmente: «La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo … attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro … partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana, o, come dice il Concilio, “curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (Presbyterorum Ordinis, 6) … è attraverso di noi – continua Papa Benedetto – che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di San Giovanni, dice: “Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore” (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cf. S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cf. Id., Lettera 95, 1)» (Benedetto XVI, Udienza Generale, Mercoledì, 26 maggio 2010).

Quindi, la Chiesa è di Cristo – è la Sua Sposa – e tutti i vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, hanno il compito e il dovere di custodirla e di servirla, non come padroni ma come servitori. Il Papa, in questo contesto, non è il signore supremo ma piuttosto il supremo servitore – il “servus servorum Dei”; il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo – per volontà di Cristo stesso – il “Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli” (Can. 749) e pur godendo “della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa” (cf. Cann. 331-334).

Cari fratelli e sorelle, ora abbiamo ancora un anno per maturare, con vero discernimento spirituale, le idee proposte e trovare soluzioni concrete alle tante difficoltà e innumerevoli sfide che le famiglie devono affrontare; a dare risposte ai tanti scoraggiamenti che circondano e soffocano le famiglie.
Un anno per lavorare sulla “Relatio synodi” che è il riassunto fedele e chiaro di tutto quello ciò che è stato detto e discusso in questa aula e nei circoli minori. E viene presentato alle Conferenze episcopali come “Lineamenta”.
Il Signore ci accompagni, e ci guidi in questo percorso a gloria del Suo nome con l’intercessione della Beata Vergine Maria e di San Giuseppe! E per favore non dimenticate di pregare per me! Grazie.
Grazie tante e buon riposo, adesso, eh?

“Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”

INDICE 
Introduzione

I Parte
L’ascolto: il contesto e le sfide sulla famiglia
Il contesto socio-culturale
La rilevanza della vita affettiva
La sfida per la pastorale

II Parte
Lo sguardo su Cristo: il Vangelo della famiglia
Lo sguardo su Gesù e la pedagogia divina nella storia della salvezza
La famiglia nel disegno salvifico di Dio
La famiglia nei documenti della Chiesa
L’indissolubilità del matrimonio e la gioia del vivere insieme
Verità e bellezza della famiglia e misericordia verso le famiglie ferite e fragili

III Parte

Il confronto: prospettive pastorali
Annunciare il Vangelo della famiglia oggi, nei vari contesti
Guidare i nubendi nel cammino di preparazione al matrimonio
Accompagnare i primi anni della vita matrimoniale
Cura pastorale di coloro che vivono nel matrimonio civile o in convivenze
Curare le famiglie ferite (separati, divorziati non risposati, divorziati risposati, famiglie monoparentali)
L’attenzione pastorale verso le persone con orientamento omosessuale
La trasmissione della vita e la sfida della denatalità
La sfida dell’educazione e il ruolo della famiglia nell’evangelizzazione

Conclusione

Introduzione
1. Il Sinodo dei Vescovi riunito intorno al Papa rivolge il suo pensiero a tutte le famiglie del mondo con le loro gioie, le loro fatiche, le loro speranze. In particolare sente il dovere di ringraziare il Signore per la generosa fedeltà con cui tante famiglie cristiane rispondono alla loro vocazione e missione. Lo fanno con gioia e con fede anche quando il cammino familiare le pone dinanzi a ostacoli, incomprensioni e sofferenze. A queste famiglie va l’apprezzamento, il ringraziamento e l’incoraggiamento di tutta la Chiesa e di questo Sinodo. Nella veglia di preghiera celebrata in Piazza San Pietro sabato 4 ottobre 2014 in preparazione al Sinodo sulla famiglia Papa Francesco ha evocato in maniera semplice e concreta la centralità dell’esperienza familiare nella vita di tutti, esprimendosi così: «Scende ormai la sera sulla nostra assemblea. È l’ora in cui si fa volentieri ritorno a casa per ritrovarsi alla stessa mensa, nello spessore degli affetti, del bene compiuto e ricevuto, degli incontri che scaldano il cuore e lo fanno crescere, vino buono che anticipa nei giorni dell’uomo la festa senza tramonto. È anche l’ora più pesante per chi si ritrova a tu per tu con la propria solitudine, nel crepuscolo amaro di sogni e di progetti infranti: quante persone trascinano le giornate nel vicolo cieco della rassegnazione, dell’abbandono, se non del rancore; in quante case è venuto meno il vino della gioia e, quindi, il sapore – la sapienza stessa – della vita […] Degli uni e degli altri questa sera ci facciamo voce con la nostra preghiera, una preghiera per tutti».

2. Grembo di gioie e di prove, di affetti profondi e di relazioni a volte ferite, la famiglia è veramente “scuola di umanità” (cf. Gaudium et Spes, 52), di cui si avverte fortemente il bisogno. Nonostante i tanti segnali di crisi dell’istituto familiare nei vari contesti del “villaggio globale”, il desiderio di famiglia resta vivo, in specie fra i giovani, e motiva la Chiesa, esperta in umanità e fedele alla sua missione, ad annunciare senza sosta e con convinzione profonda il “Vangelo della famiglia” che le è stato affidato con la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo e ininterrottamente insegnato dai Padri, dai Maestri della spiritualità e dal Magistero della Chiesa. La famiglia assume per la Chiesa un’importanza del tutto particolare e nel momento in cui tutti i credenti sono invitati a uscire da se stessi è necessario che la famiglia si riscopra come soggetto imprescindibile per l’evangelizzazione. Il pensiero va alla testimonianza missionaria di tante famiglie.

3. Sulla realtà della famiglia, decisiva e preziosa, il Vescovo di Roma ha chiamato a riflettere il Sinodo dei Vescovi nella sua Assemblea Generale Straordinaria dell’ottobre 2014, per approfondire poi la riflessione nell’Assemblea Generale Ordinaria che si terrà nell’ottobre 2015, oltre che nell’intero anno che intercorre fra i due eventi sinodali. «Già il convenire in unum attorno al Vescovo di Roma è evento di grazia, nel quale la collegialità episcopale si manifesta in un cammino di discernimento spirituale e pastorale»: così Papa Francesco ha descritto l’esperienza sinodale, indicandone i compiti nel duplice ascolto dei segni di Dio e della storia degli uomini e nella duplice e unica fedeltà che ne consegue.

4. Alla luce dello stesso discorso abbiamo raccolto i risultati delle nostre riflessioni e dei nostri dialoghi nelle seguenti tre parti: l’ascolto, per guardare alla realtà della famiglia oggi, nella complessità delle sue luci e delle sue ombre; lo sguardo fisso sul Cristo per ripensare con rinnovata freschezza ed entusiasmo quanto la rivelazione, trasmessa nella fede della Chiesa, ci dice sulla bellezza, sul ruolo e sulla dignità della famiglia; il confronto alla luce del Signore Gesù per discernere le vie con cui rinnovare la Chiesa e la società nel loro impegno per la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna.

PRIMA PARTE
L’ascolto: il contesto e le sfide sulla famiglia
Il contesto socio-culturale

5. Fedeli all’insegnamento di Cristo guardiamo alla realtà della famiglia oggi in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre. Pensiamo ai genitori, ai nonni, ai fratelli e alle sorelle, ai parenti prossimi e lontani, e al legame tra due famiglie che tesse ogni matrimonio. Il cambiamento antropologico-culturale influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato. Vanno sottolineati prima di tutto gli aspetti positivi: la più grande libertà di espressione e il migliore riconoscimento dei diritti della donna e dei bambini, almeno in alcune regioni. Ma, d’altra parte, bisogna egualmente considerare il crescente pericolo rappresentato da un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un’isola, facendo prevalere, in certi casi, l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto. A ciò si aggiunge anche la crisi della fede che ha toccato tanti cattolici e che spesso è all’origine delle crisi del matrimonio e della famiglia.

6. Una delle più grandi povertà della cultura attuale è la solitudine, frutto dell’assenza di Dio nella vita delle persone e della fragilità delle relazioni. C’è anche una sensazione generale di impotenza nei confronti della realtà socio-economica che spesso finisce per schiacciare le famiglie. Così è per la crescente povertà e precarietà lavorativa che è vissuta talvolta come un vero incubo, o a motivo di una fiscalità troppo pesante che certo non incoraggia i giovani al matrimonio. Spesso le famiglie si sentono abbandonate per il disinteresse e la poca attenzione da parte delle istituzioni. Le conseguenze negative dal punto di vista dell’organizzazione sociale sono evidenti: dalla crisi demografica alle difficoltà educative, dalla fatica nell’accogliere la vita nascente all’avvertire la presenza degli anziani come un peso, fino al diffondersi di un disagio affettivo che arriva talvolta alla violenza. È responsabilità dello Stato creare le condizioni legislative e di lavoro per garantire l’avvenire dei giovani e aiutarli a realizzare il loro progetto di fondare una famiglia.

7. Ci sono contesti culturali e religiosi che pongono sfide particolari. In alcune società vige ancora la pratica della poligamia e in alcuni contesti tradizionali la consuetudine del “matrimonio per tappe”. In altri contesti permane la pratica dei matrimoni combinati. Nei Paesi in cui la presenza della Chiesa cattolica è minoritaria sono numerosi i matrimoni misti e di disparità di culto con tutte le difficoltà che essi comportano riguardo alla configurazione giuridica, al battesimo e all’educazione dei figli e al reciproco rispetto dal punto di vista della diversità della fede. In questi matrimoni può esistere il pericolo del relativismo o dell’indifferenza, ma vi può essere anche la possibilità di favorire lo spirito ecumenico e il dialogo interreligioso in un’armoniosa convivenza di comunità che vivono nello stesso luogo. In molti contesti, e non solo occidentali, si va diffondendo ampiamente la prassi della convivenza che precede il matrimonio o anche di convivenze non orientate ad assumere la forma di un vincolo istituzionale. A questo si aggiunge spesso una legislazione civile che compromette il matrimonio e la famiglia. A causa della secolarizzazione in molte parti del mondo il riferimento a Dio è fortemente diminuito e la fede non è più socialmente condivisa.

8. Molti sono i bambini che nascono fuori dal matrimonio, specie in alcuni Paesi, e molti quelli che poi crescono con uno solo dei genitori o in un contesto familiare allargato o ricostituito. Il numero dei divorzi è crescente e non è raro il caso di scelte determinate unicamente da fattori di ordine economico. I bambini spesso sono oggetto di contesa tra i genitori e i figli sono le vere vittime delle lacerazioni familiari. I padri sono spesso assenti non solo per cause economiche laddove invece si avverte il bisogno che essi assumano più chiaramente la responsabilità per i figli e per la famiglia. La dignità della donna ha ancora bisogno di essere difesa e promossa. Oggi infatti, in molti contesti, l’essere donna è oggetto di discriminazione e anche il dono della maternità viene spesso penalizzato piuttosto che essere presentato come valore. Non vanno neppure dimenticati i crescenti fenomeni di violenza di cui le donne sono vittime, talvolta purtroppo anche all’interno delle famiglie e la grave e diffusa mutilazione genitale della donna in alcune culture. Lo sfruttamento sessuale dell’infanzia costituisce poi una delle realtà più scandalose e perverse della società attuale. Anche le società attraversate dalla violenza a causa della guerra, del terrorismo o della presenza della criminalità organizzata, vedono situazioni familiari deterioratee soprattutto nelle grandi metropoli e nelle loro periferie cresce il cosiddetto fenomeno dei bambini di strada. Le migrazioni inoltre rappresentano un altro segno dei tempi da affrontare e comprendere con tutto il carico di conseguenze sulla vita familiare.

La rilevanza della vita affettiva
9. A fronte del quadro sociale delineato si riscontra in molte parti del mondo, nei singoli un maggiore bisogno di prendersi cura della propria persona, di conoscersi interiormente, di vivere meglio in sintonia con le proprie emozioni e i propri sentimenti, di cercare relazioni affettive di qualità; tale giusta aspirazione può aprire al desiderio di impegnarsi nel costruire relazioni di donazione e reciprocità creative, responsabilizzanti e solidali come quelle familiari. Il pericolo individualista e il rischio di vivere in chiave egoistica sono rilevanti. La sfida per la Chiesa è di aiutare le coppie nella maturazione della dimensione emozionale e nello sviluppo affettivo attraverso la promozione del dialogo, della virtù e della fiducia nell’amore misericordioso di Dio. Il pieno impegno richiesto nel matrimonio cristiano può essere un forte antidoto alla tentazione di un individualismo egoistico.

10. Nel mondo attuale non mancano tendenze culturali che sembrano imporre una affettività senza limiti di cui si vogliono esplorare tutti i versanti, anche quelli più complessi. Di fatto, la questione della fragilità affettiva è di grande attualità: una affettività narcisistica, instabile e mutevole che non aiuta sempre i soggetti a raggiungere una maggiore maturità. Preoccupa una certa diffusione della pornografia e della commercializzazione del corpo, favorita anche da un uso distorto di internet e va denunciata la situazione di quelle persone che sono obbligate a praticare la prostituzione. In questo contesto, le coppie sono talvolta incerte, esitanti e faticano a trovare i modi per crescere. Molti sono quelli che tendono a restare negli stadi primari della vita emozionale e sessuale. La crisi della coppia destabilizza la famiglia e può arrivare attraverso le separazioni e i divorzi a produrre serie conseguenze sugli adulti, i figli e la società, indebolendo l’individuo e i legami sociali. Anche il calo demografico, dovuto ad una mentalità antinatalista e promosso dalle politiche mondiali di salute riproduttiva, non solo determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire. Lo sviluppo delle biotecnologie ha avuto anch’esso un forte impatto sulla natalità.

La sfida per la pastorale
11. In questo contesto la Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. Occorre muovere dalla convinzione che l’uomo viene da Dio e che, pertanto, una riflessione capace di riproporre le grandi domande sul significato dell’essere uomini, possa trovare un terreno fertile nelle attese più profonde dell’umanità. I grandi valori del matrimonio e della famiglia cristiana corrispondono alla ricerca che attraversa l’esistenza umana anche in un tempo segnato dall’individualismo e dall’edonismo. Occorre accogliere le persone con la loro esistenza concreta, saperne sostenere la ricerca, incoraggiare il desiderio di Dio e la volontà di sentirsi pienamente parte della Chiesa anche in chi ha sperimentato il fallimento o si trova nelle situazioni più disparate. Il messaggio cristiano ha sempre in sé la realtà e la dinamica della misericordia e della verità, che in Cristo convergono.

II PARTE
Lo sguardo su Cristo: il Vangelo della famiglia
Lo sguardo su Gesù e la pedagogia divina nella storia della salvezza

12. Al fine di «verificare il nostro passo sul terreno delle sfide contemporanee, la condizione decisiva è mantenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, sostare nella contemplazione e nell’adorazione del suo volto […]. Infatti, ogni volta che torniamo alla fonte dell’esperienza cristiana si aprono strade nuove e possibilità impensate» (Papa Francesco, Discorso del 4 ottobre 2014). Gesù ha guardato alle donne e agli uomini che ha incontrato con amore e tenerezza, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, nell’annunciare le esigenze del Regno di Dio.

13. Dato che l’ordine della creazione è determinato dall’orientamento a Cristo, occorre distinguere senza separare i diversi gradi mediante i quali Dio comunica all’umanità la grazia dell’alleanza. In ragione della pedagogia divina, secondo cui l’ordine della creazione evolve in quello della redenzione attraverso tappe successive, occorre comprendere la novità del sacramento nuziale cristiano in continuità con il matrimonio naturale delle origini. Così qui s’intende il modo di agire salvifico di Dio, sia nella creazione sia nella vita cristiana. Nella creazione: poiché tutto è stato fatto per mezzo di Cristo ed in vista di Lui (cf. Col 1,16), i cristiani sono «lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti; debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli» (Ad Gentes, 11). Nella vita cristiana: in quanto con il battesimo il credente è inserito nella Chiesa mediante quella Chiesa domestica che è la sua famiglia, egli intraprende quel «processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio» (Familiaris Consortio, 11), mediante la conversione continua all’amore che salva dal peccato e dona pienezza di vita.

14. Gesù stesso, riferendosi al disegno primigenio sulla coppia umana, riafferma l’unione indissolubile tra l’uomo e la donna, pur dicendo che «per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19,8). L’indissolubilità del matrimonio (“Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” Mt 19,6), non è innanzitutto da intendere come “giogo” imposto agli uomini bensì come un “dono” fatto alle persone unite in matrimonio. In tal modo, Gesù mostra come la condiscendenza divina accompagni sempre il cammino umano, guarisca e trasformi il cuore indurito con la sua grazia, orientandolo verso il suo principio, attraverso la via della croce. Dai Vangeli emerge chiaramente l’esempio di Gesù che è paradigmatico per la Chiesa. Gesù infatti ha assunto una famiglia, ha dato inizio ai segni nella festa nuziale a Cana, ha annunciato il messaggio concernente il significato del matrimonio come pienezza della rivelazione che recupera il progetto originario di Dio (Mt 19,3). Ma nello stesso tempo ha messo in pratica la dottrina insegnata manifestando così il vero significato della misericordia. Ciò appare chiaramente negli incontri con la samaritana (Gv 4,1-30) e con l’adultera (Gv 8,1-11) in cui Gesù, con un atteggiamento di amore verso la persona peccatrice, porta al pentimento e alla conversione (“va’ e non peccare più”), condizione per il perdono.

La famiglia nel disegno salvifico di Dio
15. Le parole di vita eterna che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli comprendevano l’insegnamento sul matrimonio e la famiglia. Tale insegnamento di Gesù ci permette di distinguere in tre tappe fondamentali il progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia. All’inizio, c’è la famiglia delle origini, quando Dio creatore istituì il matrimonio primordiale tra Adamo ed Eva, come solido fondamento della famiglia. Dio non solo ha creato l’essere umano maschio e femmina (Gen 1,27), ma li ha anche benedetti perché fossero fecondi e si moltiplicassero (Gen 1,28). Per questo, «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gen 2,24). Questa unione è stata danneggiata dal peccato ed è diventata la forma storica di matrimonio nel Popolo di Dio, per il quale Mosè concesse la possibilità di rilasciare un attestato di divorzio (cf. Dt 24, 1ss). Tale forma era prevalente ai tempi di Gesù. Con il Suo avvento e la riconciliazione del mondo caduto grazie alla redenzione da Lui operata, terminò l’era inaugurata con Mosé.

16. Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé, ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (cf. Mc 10,1-12). La famiglia e il matrimonio sono stati redenti da Cristo (cf. Ef 5,21-32), restaurati a immagine della Santissima Trinità, mistero da cui scaturisce ogni vero amore. L’alleanza sponsale, inaugurata nella creazione e rivelata nella storia della salvezza, riceve la piena rivelazione del suo significato in Cristo e nella sua Chiesa. Da Cristo attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia necessaria per testimoniare l’amore di Dio e vivere la vita di comunione. Il Vangelo della famiglia attraversa la storia del mondo sin dalla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1, 26-27) fino al compimento del mistero dell’Alleanza in Cristo alla fine dei secoli con le nozze dell’Agnello (cf. Ap 19,9; Giovanni Paolo II, Catechesi sull’amore umano).

La famiglia nei documenti della Chiesa
17. «Nel corso dei secoli, la Chiesa non ha fatto mancare il suo costante insegnamento sul matrimonio e la famiglia. Una delle espressioni più alte di questo Magistero è stata proposta dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, che dedica un intero capitolo alla promozione della dignità del matrimonio e della famiglia (cf. Gaudium et Spes, 47-52). Esso ha definito il matrimonio come comunità di vita e di amore (cf. Gaudium et Spes, 48), mettendo l’amore al centro della famiglia, mostrando, allo stesso tempo, la verità di questo amore davanti alle diverse forme di riduzionismo presenti nella cultura contemporanea. Il “vero amore tra marito e moglie” (Gaudium et Spes, 49) implica la mutua donazione di sé, include e integra la dimensione sessuale e l’affettività, corrispondendo al disegno divino (cf. Gaudium et Spes, 48-49). Inoltre, Gaudium et Spes 48 sottolinea il radicamento in Cristo degli sposi: Cristo Signore “viene incontro ai coniugi cristiani nel sacramento del matrimonio”, e con loro rimane. Nell’incarnazione, Egli assume l’amore umano, lo purifica, lo porta a pienezza, e dona agli sposi, con il suo Spirito, la capacità di viverlo, pervadendo tutta la loro vita di fede, speranza e carità. In questo modo gli sposi sono come consacrati e, mediante una grazia propria, edificano il Corpo di Cristo e costituiscono una Chiesa domestica (cf. Lumen Gentium, 11), così che la Chiesa, per comprendere pienamente il suo mistero, guarda alla famiglia cristiana, che lo manifesta in modo genuino» (Instrumentum Laboris, 4).

18. «Sulla scia del Concilio Vaticano II, il Magistero pontificio ha approfondito la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia. In particolare, Paolo VI, con la Enciclica Humanae Vitae, ha messo in luce l’intimo legame tra amore coniugale e generazione della vita. San Giovanni Paolo II ha dedicato alla famiglia una particolare attenzione attraverso le sue catechesi sull’amore umano, la Lettera alle famiglie (Gratissimam Sane) e soprattutto con l’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio. In tali documenti, il Pontefice ha definito la famiglia “via della Chiesa”; ha offerto una visione d’insieme sulla vocazione all’amore dell’uomo e della donna; ha proposto le linee fondamentali per la pastorale della famiglia e per la presenza della famiglia nella società. In particolare, trattando della carità coniugale (cf. Familiaris Consortio, 13), ha descritto il modo in cui i coniugi, nel loro mutuo amore, ricevono il dono dello Spirito di Cristo e vivono la loro chiamata alla santità» (Instrumentum Laboris, 5).

19. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus Caritas Est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cf. Deus Caritas Est, 2). Egli ribadisce come: “Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (Deus Caritas Est, 11). Inoltre, nella Enciclica Caritas in Veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cf. Caritas in Veritate, 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune» (Instrumentum Laboris, 6).

20. «Papa Francesco, nell’Enciclica Lumen Fidei affrontando il legame tra la famiglia e la fede, scrive: “L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità” (Lumen Fidei, 53)» (Instrumentum Laboris, 7).

L’indissolubilità del matrimonio e la gioia del vivere insieme
21. Il dono reciproco costitutivo del matrimonio sacramentale è radicato nella grazia del battesimo che stabilisce l’alleanza fondamentale di ogni persona con Cristo nella Chiesa. Nella reciproca accoglienza e con la grazia di Cristo i nubendi si promettono dono totale, fedeltà e apertura alla vita, essi riconoscono come elementi costitutivi del matrimonio i doni che Dio offre loro, prendendo sul serio il loro vicendevole impegno, in suo nome e di fronte alla Chiesa. Ora, nella fede è possibile assumere i beni del matrimonio come impegni meglio sostenibili mediante l’aiuto della grazia del sacramento. Dio consacra l’amore degli sposi e ne conferma l’indissolubilità, offrendo loro l’aiuto per vivere la fedeltà, l’integrazione reciproca e l’apertura alla vita. Pertanto, lo sguardo della Chiesa si volge agli sposi come al cuore della famiglia intera che volge anch’essa lo sguardo verso Gesù.

22. Nella stessa prospettiva, facendo nostro l’insegnamento dell’Apostolo secondo cui tutta la creazione è stata pensata in Cristo e in vista di lui (cf. Col 1,16), il Concilio Vaticano II ha voluto esprimere apprezzamento per il matrimonio naturale e per gli elementi validi presenti nelle altre religioni (cf. Nostra Aetate, 2) e nelle culture nonostante i limiti e le insufficienze (cf. Redemptoris Missio, 55). La presenza dei semina Verbi nelle culture (cf. Ad Gentes, 11) potrebbe essere applicata, per alcuni versi, anche alla realtà matrimoniale e familiare di tante culture e di persone non cristiane. Ci sono quindi elementi validi anche in alcune forme fuori del matrimonio cristiano –comunque fondato sulla relazione stabile e vera di un uomo e una donna –, che in ogni caso riteniamo siano ad esso orientate. Con lo sguardo rivolto alla saggezza umana dei popoli e delle culture, la Chiesa riconosce anche questa famiglia come la cellula basilare necessaria e feconda della convivenza umana.

Verità e bellezza della famiglia e misericordia verso le famiglie ferite e fragili
23. Con intima gioia e profonda consolazione, la Chiesa guarda alle famiglie che restano fedeli agli insegnamenti del Vangelo, ringraziandole e incoraggiandole per la testimonianza che offrono. Grazie ad esse, infatti, è resa credibile la bellezza del matrimonio indissolubile e fedele per sempre. Nella famiglia,«che si potrebbe chiamare Chiesa domestica» (Lumen Gentium, 11), matura la prima esperienza ecclesiale della comunione tra persone, in cui si riflette, per grazia, il mistero della Santa Trinità. «È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1657). La Santa Famiglia di Nazaret ne è il modello mirabile, alla cui scuola noi «comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo» (Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1964). Il Vangelo della famiglia, nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati.

24. La Chiesa, in quanto maestra sicura e madre premurosa, pur riconoscendo che per i battezzati non vi è altro vincolo nuziale che quello sacramentale, e che ogni rottura di esso è contro la volontà di Dio, è anche consapevole della fragilità di molti suoi figli che faticano nel cammino della fede. «Pertanto, senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. […] Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (Evangelii Gaudium, 44).

25. In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nelle loro vite e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro. Seguendo lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo (cf. Gv 1,9; Gaudium et Spes, 22) la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto, riconoscendo che la grazia di Dio opera anche nelle loro vite dando loro il coraggio per compiere il bene, per prendersi cura con amore l’uno dell’altro ed essere a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano.

26. La Chiesa guarda con apprensione alla sfiducia di tanti giovani verso l’impegno coniugale, soffre per la precipitazione con cui tanti fedeli decidono di porre fine al vincolo assunto, instaurandone un altro. Questi fedeli, che fanno parte della Chiesa hanno bisogno di un’attenzione pastorale misericordiosa e incoraggiante, distinguendo adeguatamente le situazioni. I giovani battezzati vanno incoraggiati a non esitare dinanzi alla ricchezza che ai loro progetti di amore procura il sacramento del matrimonio, forti del sostegno che ricevono dalla grazia di Cristo e dalla possibilità di partecipare pienamente alla vita della Chiesa.

27. In tal senso, una dimensione nuova della pastorale familiare odierna consiste nel prestare attenzione alla realtà dei matrimoni civili tra uomo e donna, ai matrimoni tradizionali e, fatte le debite differenze, anche alle convivenze. Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio. Molto spesso invece la convivenza si stabilisce non in vista di un possibile futuro matrimonio, ma senza alcuna intenzione di stabilire un rapporto istituzionale. 28. Conforme allo sguardo misericordioso di Gesù, la Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta. Consapevoli che la misericordia più grande è dire la verità con amore, andiamo aldilà della compassione. L’amore misericordioso, come attrae e unisce, così trasforma ed eleva. Invita alla conversione. Così nello stesso modo intendiamo l’atteggiamento del Signore, che non condanna la donna adultera, ma le chiede di non peccare più (cf. Gv 8,1-11).

III PARTE
Il confronto: prospettive pastorali
Annunciare il Vangelo della famiglia oggi, nei vari contesti
29. Il dialogo sinodale si è soffermato su alcune istanze pastorali più urgenti da affidare alla concretizzazione nelle singole Chiese locali, nella comunione “cum Petro et sub Petro”. L’annunzio del Vangelo della famiglia costituisce un’urgenza per la nuova evangelizzazione. La Chiesa è chiamata ad attuarlo con tenerezza di madre e chiarezza di maestra (cf. Ef 4,15), in fedeltà alla kenosi misericordiosa del Cristo. La verità si incarna nella fragilità umana non per condannarla, ma per salvarla (cf. Gv 3,16 -17). 30. Evangelizzare è responsabilità di tutto il popolo di Dio, ognuno secondo il proprio ministero e carisma. Senza la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche, l’annunzio, anche se corretto, rischia di essere incompreso o di affogare nel mare di parole che caratterizza la nostra società (cf. Novo Millennio Ineunte, 50). I Padri sinodali hanno più volte sottolineato che le famiglie cattoliche in forza della grazia del sacramento nuziale sono chiamate ad essere esse stesse soggetti attivi della pastorale familiare.

31. Decisivo sarà porre in risalto il primato della grazia, e quindi le possibilità che lo Spirito dona nel sacramento. Si tratta di far sperimentare che il Vangelo della famiglia è gioia che «riempie il cuore e la vita intera», perché in Cristo siamo «liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento» (Evangelii Gaudium, 1). Alla luce della parabola del seminatore (cf. Mt 13,3), il nostro compito è di cooperare nella semina: il resto è opera di Dio. Non bisogna neppure dimenticare che la Chiesa che predica sulla famiglia è segno di contraddizione.

32. Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone. Non va mai dimenticato che la crisi della fede ha comportato una crisi del matrimonio e della famiglia e, come conseguenza, si è interrotta spesso la trasmissione della stessa fede dai genitori ai figli. Dinanzi ad una fede forte l’imposizione di alcune prospettive culturali che indeboliscono la famiglia e il matrimonio non ha incidenza.

33. La conversione è anche quella del linguaggio perché esso risulti effettivamente significativo. L’annunzio deve far sperimentare che il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità. Non si tratta soltanto di presentare una normativa ma di proporre valori, rispondendo al bisogno di essi che si constata oggi anche nei Paesi più secolarizzati.

34. La Parola di Dio è fonte di vita e spiritualità per la famiglia. Tutta la pastorale familiare dovrà lasciarsi modellare interiormente e formare i membri della Chiesa domestica mediante la lettura orante e ecclesiale della Sacra Scrittura. La Parola di Dio non solo è una buona novella per la vita privata delle persone, ma anche un criterio di giudizio e una luce per il discernimento delle diverse sfide con cui si confrontano i coniugi e le famiglie.

35. Allo stesso tempo molti Padri sinodali hanno insistito su un approccio più positivo alle ricchezze delle diverse esperienze religiose, senza tacere sulle difficoltà. In queste diverse realtà religiose e nella grande diversità culturale che caratterizza le Nazioni è opportuno apprezzare prima le possibilità positive e alla luce di esse valutare limiti e carenze.

36. Il matrimonio cristiano è una vocazione che si accoglie con un’adeguata preparazione in un itinerario di fede, con un discernimento maturo, e non va considerato solo come una tradizione culturale o un’esigenza sociale o giuridica. Pertanto occorre realizzare percorsi che accompagnino la persona e la coppia in modo che alla comunicazione dei contenuti della fede si unisca l’esperienza di vita offerta dall’intera comunità ecclesiale.

37. È stata ripetutamente richiamata la necessità di un radicale rinnovamento della prassi pastorale alla luce del Vangelo della famiglia, superando le ottiche individualistiche che ancora la caratterizzano. Per questo si è più volte insistito sul rinnovamento della formazione dei presbiteri, dei diaconi, dei catechisti e degli altri operatori pastorali, mediante un maggiore coinvolgimento delle stesse famiglie.

38. Si è parimenti sottolineata la necessità di una evangelizzazione che denunzi con franchezza i condizionamenti culturali, sociali, politici ed economici, come l’eccessivo spazio dato alla logica del mercato, che impediscono un’autentica vita familiare, determinando discriminazioni, povertà, esclusioni, violenza. Per questo va sviluppato un dialogo e una cooperazione con le strutture sociali, e vanno incoraggiati e sostenuti i laici che si impegnano, come cristiani, in ambito culturale e socio-politico.

Guidare i nubendi nel cammino di preparazione al matrimonio
39. La complessa realtà sociale e le sfide che la famiglia oggi è chiamata ad affrontare richiedono un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio. È necessario ricordare l’importanza delle virtù. Tra esse la castità risulta condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale. Riguardo a questa necessità i Padri sinodali sono stati concordi nel sottolineare l’esigenza di un maggiore coinvolgimento dell’intera comunità privilegiando la testimonianza delle stesse famiglie, oltre che di un radicamento della preparazione al matrimonio nel cammino di iniziazione cristiana, sottolineando il nesso del matrimonio con il battesimo e gli altri sacramenti. Si è parimenti evidenziata la necessità di programmi specifici per la preparazione prossima al matrimonio che siano vera esperienza di partecipazione alla vita ecclesiale e approfondiscano i diversi aspetti della vita familiare.

Accompagnare i primi anni della vita matrimoniale
40. I primi anni di matrimonio sono un periodo vitale e delicato durante il quale le coppie crescono nella consapevolezza delle sfide e del significato del matrimonio. Di qui l’esigenza di un accompagnamento pastorale che continui dopo la celebrazione del sacramento (cf. Familiaris Consortio, parte III). Risulta di grande importanza in questa pastorale la presenza di coppie di sposi con esperienza. La parrocchia è considerata come il luogo dove coppie esperte possono essere messe a disposizione di quelle più giovani, con l’eventuale concorso di associazioni, movimenti ecclesiali e nuove comunità. Occorre incoraggiare gli sposi a un atteggiamento fondamentale di accoglienza del grande dono dei figli. Va sottolineata l’importanza della spiritualità familiare, della preghiera e della partecipazione all’Eucaristia domenicale, incoraggiando le coppie a riunirsi regolarmente per promuovere la crescita della vita spirituale e la solidarietà nelle esigenze concrete della vita. Liturgie, pratiche devozionali e Eucaristie celebrate per le famiglie, soprattutto nell’anniversario del matrimonio, sono state menzionate come vitali per favorire l’evangelizzazione attraverso la famiglia.

Cura pastorale di coloro che vivono nel matrimonio civile o in convivenze
41. Mentre continua ad annunciare e promuovere il matrimonio cristiano, il Sinodo incoraggia anche il discernimento pastorale delle situazioni di tanti che non vivono più questa realtà. È importante entrare in dialogo pastorale con tali persone al fine di evidenziare gli elementi della loro vita che possono condurre a una maggiore apertura al Vangelo del matrimonio nella sua pienezza. I pastori devono identificare elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale. Una sensibilità nuova della pastorale odierna, consiste nel cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze. Occorre che nella proposta ecclesiale, pur affermando con chiarezza il messaggio cristiano, indichiamo anche elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più ad esso.

42. È stato anche notato che in molti Paesi un «crescente numero di coppie convivono ad experimentum, senza alcun matrimonio né canonico, né civile» (Instrumentum Laboris, 81). In alcuni Paesi questo avviene specialmente nel matrimonio tradizionale, concertato tra famiglie e spesso celebrato in diverse tappe. In altri Paesi invece è in continua crescita il numero di coloro dopo aver vissuto insieme per lungo tempo chiedono la celebrazione del matrimonio in chiesa. La semplice convivenza è spesso scelta a causa della mentalità generale contraria alle istituzioni e agli impegni definitivi, ma anche per l’attesa di una sicurezza esistenziale (lavoro e salario fisso). In altri Paesi, infine, le unioni di fatto sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto.

43. Tutte queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. Si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza. A questo scopo è importante la testimonianza attraente di autentiche famiglie cristiane, come soggetti dell’evangelizzazione della famiglia. Curare le famiglie ferite (separati, divorziati non risposati, divorziati risposati, famiglie monoparentali)

44. Quando gli sposi sperimentano problemi nelle loro relazioni, devono poter contare sull’aiuto e l’accompagnamento della Chiesa. La pastorale della carità e la misericordia tendono al recupero delle persone e delle relazioni. L’esperienza mostra che con un aiuto adeguato e con l’azione di riconciliazione della grazia una grande percentuale di crisi matrimoniali si superano in maniera soddisfacente. Saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare. Il perdono tra gli sposi permette di sperimentare un amore che è per sempre e non passa mai (cf. 1 Cor 13,8). A volte risulta difficile, però, per chi ha ricevuto il perdono di Dio avere la forza per offrire un perdono autentico che rigeneri la persona.

45. Nel Sinodo è risuonata chiara la necessità di scelte pastorali coraggiose. Riconfermando con forza la fedeltà al Vangelo della famiglia e riconoscendo che separazione e divorzio sono sempre una ferita che provoca profonde sofferenze ai coniugi che li vivono e ai figli, i Padri sinodali hanno avvertito l’urgenza di cammini pastorali nuovi, che partano dall’effettiva realtà delle fragilità familiari, sapendo che esse, spesso, sono più “subite” con sofferenza che scelte in piena libertà. Si tratta di situazioni diverse per fattori sia personali che culturali e socio-economici. Occorre uno sguardo differenziato come San Giovanni Paolo II suggeriva (cf. Familiaris Consortio, 84).

46. Ogni famiglia va innanzitutto ascoltata con rispetto e amore facendosi compagni di cammino come il Cristo con i discepoli sulla strada di Emmaus. Valgono in maniera particolare per queste situazioni le parole di Papa Francesco: «La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf. Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (Evangelii Gaudium, 169).

47. Un particolare discernimento è indispensabile per accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati. Va accolta e valorizzata soprattutto la sofferenza di coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono, oppure sono stati costretti dai maltrattamenti del coniuge a rompere la convivenza. Il perdono per l’ingiustizia subita non è facile, ma è un cammino che la grazia rende possibile. Di qui la necessità di una pastorale della riconciliazione e della mediazione attraverso anche centri di ascolto specializzati da stabilire nelle diocesi. Parimenti va sempre sottolineato che è indispensabile farsi carico in maniera leale e costruttiva delle conseguenze della separazione o del divorzio sui figli, in ogni caso vittime innocenti della situazione. Essi non possono essere un “oggetto” da contendersi e vanno cercate le forme migliori perché possano superare il trauma della scissione familiare e crescere in maniera il più possibile serena. In ogni caso la Chiesa dovrà sempre mettere in rilievo l’ingiustizia che deriva molto spesso dalla situazione di divorzio. Speciale attenzione va data all’accompagnamento delle famiglie monoparentali, in maniera particolare vanno aiutate le donne che devono portare da sole la responsabilità della casa e l’educazione dei figli.

48. Un grande numero dei Padri ha sottolineato la necessità di rendere più accessibili ed agili, possibilmente del tutto gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità. Tra le proposte sono stati indicati: il superamento della necessità della doppia sentenza conforme; la possibilità di determinare una via amministrativa sotto la responsabilità del vescovo diocesano; un processo sommario da avviare nei casi di nullità notoria. Alcuni Padri tuttavia si dicono contrari a queste proposte perché non garantirebbero un giudizio affidabile. Va ribadito che in tutti questi casi si tratta dell’accertamento della verità sulla validità del vincolo. Secondo altre proposte, andrebbe poi considerata la possibilità di dare rilevanza al ruolo della fede dei nubendi in ordine alla validità del sacramento del matrimonio, tenendo fermo che tra battezzati tutti i matrimoni validi sono sacramento.

49. Circa le cause matrimoniali lo snellimento della procedura, richiesto da molti, oltre alla preparazione di sufficienti operatori, chierici e laici con dedizione prioritaria, esige di sottolineare la responsabilità del vescovo diocesano, il quale nella sua diocesi potrebbe incaricare dei consulenti debitamente preparati che possano gratuitamente consigliare le parti sulla validità del loro matrimonio. Tale funzione può essere svolta da un ufficio o persone qualificate (cf. Dignitas Connubii, art. 113, 1).

50. Le persone divorziate ma non risposate, che spesso sono testimoni della fedeltà matrimoniale, vanno incoraggiate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato. La comunità locale e i Pastori devono accompagnare queste persone con sollecitudine, soprattutto quando vi sono figli o è grave la loro situazione di povertà.

51. Anche le situazioni dei divorziati risposati esigono un attento discernimento e un accompagnamento di grande rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati e promovendo la loro partecipazione alla vita della comunità. Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità.

52. Si è riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Diversi Padri sinodali hanno insistito a favore della disciplina attuale, in forza del rapporto costitutivo fra la partecipazione all’Eucaristia e la comunione con la Chiesa ed il suo insegnamento sul matrimonio indissolubile. Altri si sono espressi per un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari ed a condizioni ben precise, soprattutto quando si tratta di casi irreversibili e legati ad obblighi morali verso i figli che verrebbero a subire sofferenze ingiuste. L’eventuale accesso ai sacramenti dovrebbe essere preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità del Vescovo diocesano. Va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che «l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate» da diversi «fattori psichici oppure sociali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1735).

53. Alcuni Padri hanno sostenuto che le persone divorziate e risposate o conviventi possono ricorrere fruttuosamente alla comunione spirituale. Altri Padri si sono domandati perché allora non possano accedere a quella sacramentale. Viene quindi sollecitato un approfondimento della tematica in grado di far emergere la peculiarità delle due forme e la loro connessione con la teologia del matrimonio.

54. Le problematiche relative ai matrimoni misti sono ritornate sovente negli interventi dei Padri sinodali. La diversità della disciplina matrimoniale delle Chiese ortodosse pone in alcuni contesti problemi sui quali è necessario riflettere in ambito ecumenico. Analogamente per i matrimoni interreligiosi sarà importante il contributo del dialogo con le religioni.

L’attenzione pastorale verso le persone con orientamento omosessuale
55. Alcune famiglie vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con orientamento omosessuale. Al riguardo ci si è interrogati su quale attenzione pastorale sia opportuna di fronte a questa situazione riferendosi a quanto insegna la Chiesa: «Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza. «A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4).

56. È del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso.

La trasmissione della vita e la sfida della denatalità
57. Non è difficile constatare il diffondersi di una mentalità che riduce la generazione della vita a una variabile della progettazione individuale o di coppia. I fattori di ordine economico esercitano un peso talvolta determinante contribuendo al forte calo della natalità che indebolisce il tessuto sociale, compromette il rapporto tra le generazioni e rende più incerto lo sguardo sul futuro. L’apertura alla vita è esigenza intrinseca dell’amore coniugale. In questa luce, la Chiesa sostiene le famiglie che accolgono, educano e circondano del loro affetto i figli diversamente abili.

58. Anche in questo ambito occorre partire dall’ascolto delle persone e dar ragione della bellezza e della verità di una apertura incondizionata alla vita come ciò di cui l’amore umano ha bisogno per essere vissuto in pienezza. È su questa base che può poggiare un adeguato insegnamento circa i metodi naturali per la procreazione responsabile. Esso aiuta a vivere in maniera armoniosa e consapevole la comunione tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni, insieme alla responsabilità generativa. Va riscoperto il messaggio dell’Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità. L’adozione di bambini, orfani e abbandonati, accolti come propri figli, è una forma specifica di apostolato familiare (cf. Apostolicam Actuositatem, III,11), più volte richiamata e incoraggiata dal magistero (cf. Familiaris Consortio, III,II; Evangelium Vitae, IV,93). La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, non solo quando questa è segnata dalla sterilità. Tale scelta è segno eloquente dell’amore familiare, occasione per testimoniare la propria fede e restituire dignità filiale a che ne è stato privato.

59. Occorre aiutare a vivere l’affettività, anche nel legame coniugale, come un cammino di maturazione, nella sempre più profonda accoglienza dell’altro e in una donazione sempre più piena. Va ribadita in tal senso la necessità di offrire cammini formativi che alimentino la vita coniugale e l’importanza di un laicato che offra un accompagnamento fatto di testimonianza viva. È di grande aiuto l’esempio di un amore fedele e profondo fatto di tenerezza, di rispetto, capace di crescere nel tempo e che nel suo concreto aprirsi alla generazione della vita fa l’esperienza di un mistero che ci trascende.

La sfida dell’educazione e il ruolo della famiglia nell’evangelizzazione
60. Una delle sfide fondamentali di fronte a cui si trovano le famiglie oggi è sicuramente quella educativa, resa più impegnativa e complessa dalla realtà culturale attuale e della grande influenza dei media. Vanno tenute in debito conto le esigenze e le attese di famiglie capaci di essere nella vita quotidiana, luoghi di crescita, di concreta ed essenziale trasmissione delle virtù che danno forma all’esistenza. Ciò indica che i genitori possano scegliere liberalmente il tipo dell’educazione da dare ai figli secondo le loro convinzioni.

61. La Chiesa svolge un ruolo prezioso di sostegno alle famiglie, partendo dall’iniziazione cristiana, attraverso comunità accoglienti. Ad essa è chiesto, oggi ancor più di ieri, nelle situazioni complesse come in quelle ordinarie, di sostenere i genitori nel loro impegno educativo, accompagnando bambini, ragazzi e giovani nella loro crescita attraverso cammini personalizzati capaci di introdurre al senso pieno della vita e di suscitare scelte e responsabilità, vissute alla luce del Vangelo. Maria, nella sua tenerezza, misericordia, sensibilità materna può nutrire la fame di umanità e vita, per cui viene invocata dalle famiglie e dal popolo cristiano. La pastorale e una devozione mariana sono un punto di partenza opportuno per annunciare il Vangelo della famiglia.

Conclusione
62. Le riflessioni proposte, frutto del lavoro sinodale svoltosi in grande libertà e in uno stile di reciproco ascolto, intendono porre questioni e indicare prospettive che dovranno essere maturate e precisate dalla riflessione delle Chiese locali nell’anno che ci separa dall’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi prevista per l’ottobre 2015, dedicata alla vocazione e missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. Non si tratta di decisioni prese né di prospettive facili. Tuttavia il cammino collegiale dei vescovi e il coinvolgimento dell’intero popolo di Dio sotto l’azione dello Spirito Santo, guardando al modello della Santa Famiglia, potranno guidarci a trovare vie di verità e di misericordia per tutti. È l’auspicio che sin dall’inizio dei nostri lavori Papa Francesco ci ha rivolto invitandoci al coraggio della fede e all’accoglienza umile e onesta della verità nella carità.

Votazioni dei singoli numeri della “Relatio Synodi”

Totale dei presenti: 183
Non sono indicate le astensioni.
placet / non placet

1. 175   1
2. 179   0
3. 178   1
4. 180   2
5. 177   3
6. 175   5
7. 170   9
8. 179    1
9. 171    8
10. 174  8
11. 173  6
12. 176  3
13. 174  7
14. 164  18
15. 167  13
16. 171  8
17. 174  6
18. 175  5
19. 176  5
20. 178  3
21. 181  1
22. 160  22
23. 169  10
24. 170  11
25. 140  39
26. 166  14
27. 147  34
28. 152  27
29. 176  7
30. 178  2
31. 175  4
32. 176  5
33. 175  7
34. 180  1
35. 164  17
36. 177  1
37. 175  2
38. 178  1
39. 176  4
40. 179  1
41. 125  54
42. 143  37
43. 162  14
44. 171  7
45. 165  15
46. 171  8
47. 164  12
48. 143  35
49. 154  23
50. 169  8
51. 155  19
52. 104  74
53. 112  64
54. 145  29
55. 118  62
56. 159  21
57. 169  5
58. 167  9
59. 172  5
60. 174  4
61. 178  1
62. 169  8
 
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Amore coniugale, il miracolo più bello

Battute finali al Sinodo straordinario della famiglia in corso in Vaticano: a larga maggioranza, stamani, l’Aula ha approvato il Messaggio conclusivo dei lavori. Rivolto alle famiglie del mondo ed in particolare a quelle cristiane, il documento contiene anche un appello alle istituzioni, affinché promuovano i diritti della famiglia, e ricorda la riflessione che è stata dedicata all’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati.

“L’amore coniugale, unico ed indissolubile, che persiste nonostante le tante difficoltà del limite umano, è uno dei miracoli più belli” ed anche “il più comune”. Brilla di speranza il Messaggio conclusivo del Sinodo straordinario sulla famiglia, letto in Aula dai cardinali Gianfranco Ravasi e Raymundo Damasceno Assis, rispettivamente presidente della Commissione per il Messaggio e presidente delegato, insieme al segretario speciale dell’Assise, mons. Bruno Forte.

Ringraziando innanzitutto per la “fedeltà, fede, speranza ed amore” che le famiglie offrono al mondo, nella prima parte il documento si sofferma sulla “realtà viva e complessa” in cui vivono i nuclei familiari, su “le luci e le ombre”, le “sfide esaltanti” e le “prove drammatiche”, là dove “il male ed il peccato” si insinuano tra le mura domestiche.

Le sfide, dunque: al primo posto, il Messaggio ricorda la fedeltà coniugale, messa a dura prova da individualismo, indebolimento della fede e frenesia quotidiana che possono provocare crisi matrimoniali affrontate senza pazienza, senza perdono, senza riconciliazione reciproca, senza sacrificio. Dai fallimenti matrimoniali – continua il documento – nascono “nuove relazioni, nuove coppie, nuovi unioni e nuovi matrimoni, creando situazioni familiari complesse e problematiche per la scelta cristiana”.

Ulteriori sfide: figli disabili, malattie, vecchiaia, morte di una persona cara, difficoltà economiche causate da sistemi perversi, da quel “feticismo del denaro” che umilia la dignità della persona. Il pensiero del Sinodo va quindi ai genitori disoccupati, “impotenti di fronte alle necessità primarie delle famiglia”, ed ai giovani che – in giorni vuoti e senza attesa – possono diventare preda di droga e criminalità. Le “ombre” calano anche sulle famiglie povere, profughe, perseguitate  a causa delle fede, colpite da guerre e oppressioni brutali, sulle donne vittime delle violenza e della tratta, sui minori “vittime di abusi persino da pare di coloro che dovevano custodirli”.

Per questo, il Messaggio lancia un forte appello “ai governi ed alle organizzazioni internazionali” affinché promuovano “i diritti della famiglia per il bene comune”. “La Chiesa, casa sempre aperta nell’accoglienza”, si legge ancora nel testo, non esclude nessuno. Gratitudine, quindi, viene espressa per tutti quei pastori, fedeli e comunità che operano nella pastorale familiare.

Ma il documento sinodale non dimentica la “luce” che splende in tante famiglie, quella luce che deriva dall’incontro “pari e reciproco” tra i coniugi, in cui ciascuno si apre all’altro, pur rimanendo se stesso. Centrale, quindi, porre l’accento sul fidanzamento e la preparazione al sacramento del matrimonio, che conosce anche “la sessualità, la tenerezza e la bellezza” che superano il tempo. Perché l’amore “per sua natura”, “tende ad essere per sempre”.

L’amore coniugale si diffonde attraverso la “fecondità e la generatività”, dice il Sinodo, intese non solo come procreazione, ma anche come dono della vita divina nel battesimo, nell’educazione e nella catechesi dei figli, e nella capacità di offrire affetto e valori anche per chi non ha potuto generare.

Il Messaggio sottolinea, inoltre, l’importanza della preghiera comune in famiglia, “piccola oasi dello spirito”, e dell’educazione alla fede ed alla santità, compito che spesso viene esercitato “con affetto e dedizione” anche dai nonni. In quest’ottica, la famiglia, vera “Chiesa domestica”, può esprimere la carità, la vicinanza a “gli ultimi, gli emarginati, i poveri, le persone sole, i malati, gli stranieri”.

Guardando, poi, all’Eucaristia domenicale, quando “la famiglia si siede alla mensa del Signore”, il documento ricorda che “in questa prima tappa del cammino  sinodale” si è “riflettuto sull’accompagnamento pastorale e sull’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati”.
Infine, il Messaggio dei Padri Sinodali guarda alla Sacra Famiglia di Nazaret ed innalza una preghiera a Dio Padre anche in vista dell’Assemblea ordinaria del 2015, sempre dedicata al tema della famiglia. L’invocazione è che il Signore doni “sposi forti e saggi”, giovani coraggiosi “nell’impegno stabile e fedele” , e “una Chiesa sempre più fedele e credibile”, per un mondo capace di amare “verità, giustizia e misericordia”.

Nel pomeriggio, i lavori nell’Aula del Sinodo proseguiranno con l’ultima Congregazione generale, la quindicesima: in programma, la votazione della “Relatio Synodi”, documento conclusivo di norma riservato solo al Papa. Sarà poi il Pontefice a stabilire se renderlo pubblico o meno.

Avvenire

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura:  Is 45,1.4-6

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».

 

Il profeta fa in questo brano una rivelazione da parte di Dio che a prima vista suona strabiliante: Ciro, un re pagano uno che non conosce il Signore (Is 45,4) è chiamato «eletto» (Is 45,1), anzi il termine ebraico è «unto», messia, titolo riservato normalmente al re di Israele (1Sam 9,26). Ma i piani di Dio sono «imperscrutabili» (cf. Is 55,6-9) ed egli è Signore della storia: «non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri» (Is 45,5).

     Dentro alla storia universale ce n’è una guidata in modo particolare da Dio. È la storia di Israele; infatti Dio spiega la scelta di Ciro in questo modo: «Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca» (Is 45,4). Tali parole fanno chiaramente vedere che l’iniziativa è del Signore, che agisce in piena libertà, al di fuori di ogni iniziativa umana. Del resto chi può vantare di aver dato consigli a Dio? (cf. Is 14,13).

     La chiamata di Dio è per il servizio, la gloria se arriverà sarà conseguenza dell’aver servito fedelmente nella missione affidata da Dio. Ciro come eletto da Dio è anche suo servo e il modello per eccellenza del «servo del Signore» è Israele, la cui chiamata è per il bene delle nazioni e non per la propria gloria.

 

Seconda lettura: 1Ts 1,1-5

Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

 

La seconda lettura ci presenta l’inizio della prima lettera ai Tessalonicesi. Paolo e i suoi compagni Silvano e Timoteo augurano «grazia e pace» «alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo» (1Tes 1,1).

     Vale la pena di soffermarsi su questo saluto augurale, che racchiude significati profondi. L’espressione di saluto si ripete all’inizio e alla fine delle lettere paoline; essa può venire letta come formula stereotipata, oppure nello spessore che le due parole, grazia e pace, assumono nell’orizzonte biblico. Tale è la molteplicità e la ricchezza dei loro significati che in questo contesto è possibile solo qualche accenno fugace.

     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, strettamente legato alla sua misericordia (cf. Es 33,19; Sap 3,9). In Cristo abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo benevolo sui peccatori (cf. Rm 3,21-26).

     Pace è bene grande e comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio. Pace su Israele è invocata dalla benedizione sacerdotale (cf. Num 6,26); pace è una caratteristica fondamentale dell’epoca messianica; titolo del Messia è «principe della pace» (cf. Is 9,5); la pace stessa insieme con la giustizia governeranno in Sion città del Signore: «Costituirò tuo sovrano la pace, tuo governatore la giustizia» (Is 60,17).

     Nel saluto è sottolineata anche la caratteristica essenziale della Chiesa: essere «in Dio Padre e in Gesù Cristo». La missione della Chiesa è diffondere il vangelo, opera possibile per mezzo della parola, sostenuta, però, dalla potenza divina, vale a dire lo Spirito Santo (1Tes 1,5).

     «Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui» (1Tes 1,4). L’elezione è dono gratuito di Dio ed anche per i discepoli della chiesa di Tessalonica vale quanto detto nella prima lettura: l’iniziativa è di Dio, a lui bisogna rispondere, lui bisogna servire a modello del «servo Israele», a cui si è conformato Gesù Cristo.

 

Vangelo: Mt 22,15-21

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 

Esegesi 

     Nella prima parte del brano che leggiamo oggi sono nominati tre gruppi di ebrei: i farisei, i sadducei e gli erodiani, attivi ai tempi di Gesù. Gli erodiani erano i sostenitori del re Erode e nei vangeli sono nominati normalmente insieme ai farisei; non traspare un preciso pensiero teologico a loro attribuito. I farisei e i sadducei, invece, si qualificavano per un diverso e incompatibile atteggiamento rispetto al valore della Torâh scritta (Pentateuco) e della Torâh orale, che potremmo chiamare la Tradizione. Molto schematicamente, possiamo dire che i sadducei, il gruppo da cui uscivano i sacerdoti del tempio, sostenevano che ci si doveva attenere alla lettera della Torâh scritta; i farisei, invece, accettavano lo sviluppo della Torâh orale, che credevano contenuta anch’essa nella rivelazione a Mosè al Sinai.

     Essi si adoperavano, perché, tutto il popolo, non solo i sacerdoti o i dottori della legge, conoscesse i precetti e li mettesse in pratica (per un utile approfondimento cf. J. NEUSNER, Il giudaismo nei primi secoli del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1989; G. STEMBERG, Farisei, Sadducei, Esseni, Paideia, Brescia 1993). Le dispute fra i vari gruppi avvenivano spesso in un clima polemico, come si intravvede anche dal brano di oggi.

     I sadducei sono presentati nei vangeli come «coloro che non credono nella risurrezione e disputano su questo argomento con Gesù» (Mc 12,18-27; Mt 22,23-33; Lc 20,27-39).

     Più variegato è l’incontro-scontro con i farisei, il cui atteggiamento polemico sia con Gesù, sia, come nel caso del nostro brano, con i sadducei, che «Gesù aveva ridotto al silenzio», è senz’altro riconducibile allo zelo per la Torâh e al loro interesse di trovare i modi più adatti per metterla in pratica nella situazione concreta. All’interno stesso del gruppo dei farisei c’erano diversità di vedute; lo intravediamo in Luca dove i farisei ospitano Gesù (cf. Lc 7,36; 11,37; 14,1) e sono dei farisei che avvertono Gesù del pericolo dell’ostilità di Erode: «In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: ‘Allontanati da qui, perché, Erode vuole ucciderti’» (Lc 13,31). Matteo è più interessato alla disputa teorica e meno attento alla realtà storica, a cui invece guarda Luca e dalla quale risulta che, anche all’interno di uno stesso gruppo, vi sono posizioni e atteggiamenti diversi.

     L’annotazione di Matteo secondo cui i farisei prendono coraggio di interrogare Gesù dopo che hanno udito che «aveva chiuso la bocca ai sadducei» e lo fanno per «metterlo alla prova» (Mt 22,34) porta subito all’atmosfera di polemica, che regnava fra i diversi gruppi, ma al tempo stesso mostra che Gesù è riconosciuto un maestro.

     Al Maestro veritiero che insegna la via di Dio e non guarda in faccia a nessuno (Mt 22,16) viene posta la cruciale questione, che spaccava di netto le correnti ebraiche del tempo, sulla legittimità di versare il tributo all’imperatore romano. Gesù rispose riproponendo la stessa alternativa tra Dio e gli uomini. Si dia pure, per ora, il tributo a Cesare, ma si ricordi che la scelta decisiva sta nel rendere a Dio quel che è di Dio; proprio come prima era decisivo sapere, come fecero i pubblicani e le prostitute (Mt 21,32), che il battesimo di Giovanni veniva dal cielo e non dagli uomini.

     Per giungere a questa conclusione Gesù si fa mostrare la moneta del tributo chiedendo di chi sia l’effigie e l’iscrizione impressa su di essa. All’inevitabile risposta che esse appartengono a Cesare, Gesù replica affermando: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,26). Il verso impiegato da tutti e tre i sinottici in questa risposta (apodidômi) allude a un significato non solo di un semplice dare, quanto piuttosto di un «dare indietro», di un «restituire». Restituite pure a Cesare quanto è suo, come è comprovato dall’effigie e dall’iscrizione, ma soprattutto restituite a Dio quanto porta impressa in sé la sua immagine: cioè voi stessi. È l’uomo stesso la moneta di Dio che gli deve essere restituita con frutto (cf. Mt 25,14-30). Rashi, — il massimo commentatore ebreo medievale della Bibbia — nel suo commento alla Genesi, chiosa così il versetto secondo cui Dio creò l’uomo a sua immagine (Gn 1,27): Cioè secondo il modello fatto per lui. Infatti tutte le altre cose furono create con la Parola, ma l’uomo fu creato con le mani, come sta scritto: «Hai posto su di me la tua mano» (Sal 139,5). Egli fu fatto con un sigillo, come una moneta che è fatta con un conio. Allo stesso modo sta scritto: «Si trasforma come creta da sigillo» (Gb 38,14)» (cf. Commento alla Genesi, cit., 13). Chi porta in se stesso l’immagine e il sigillo del Signore a lui appartiene, a lui deve innanzitutto obbedire (cf. At 5,29). (PIERO STEFANI, Sia santificato il tuo nome, Commenti ai Vangeli della domenica. Anno A, Marietti, Genova 1986, 200s).

     Gesù non cade nel tranello di risolvere una questione contingente, relativa all’istituzione politica del momento, per la quale sono gli interessati stessi che devono trovare una soluzione adatta a quel preciso momento. Egli, da parte sua, ribadisce il principio della dignità delle persone umane, che hanno la facoltà di scegliere proprio perché create ad immagine di Dio.

 

Meditazione 

     La signoria di Dio è al cuore della prima lettura come del vangelo. Isaia presenta un’audace pagina di teologia della storia in cui si afferma che Ciro, re persiano, dunque pagano, è stabilito da Dio come Messia, con un’estensione inaudita di quella che era una prerogativa della dinastia davidica. Il passo profetico sottolinea l’assoluta libertà di Dio e la sua unicità («Io sono il Signore, non ce n’è altri»: Is 45,6). Il vangelo mostra la rela-tivizzazione delle autorità umane, anche l’imperatore, che all’epoca era divinizzato, davanti a Dio. Se l’autorità statale può esigere tasse e tributi (cfr. Rm 13,7), se alle autorità va accordato il rispetto (Rm 13,7), il timore va riservato a Dio (1Pt 2,17), creatore e signore di ogni uomo.

     La risposta di Gesù alla domanda trabocchetto che gli viene rivolta dai suoi avversari batte due piste: evita la politicizzazione dell’immagine di Dio e si oppone alla sacralizzazione del potere politico. Gesù infatti, da un lato, si distanzia dagli zeloti che consideravano Dio come unico «Cesare» legittimo e, dall’altro, critica la sacralizzazione del potere politico demitizzando Cesare. In entrambi i casi siamo di fronte a tentazioni idolatriche. Nel primo caso la tentazione è di dare a Dio quel che spetta a Cesare, all’entità statale, cadendo in posizioni religiose totalitarie e non dialogiche, irrispettose dalla «laicità» dello stato e del potere politico; nel secondo, la tentazione è di dare a Cesare quel che spetta a Dio, all’interno di una assolutizzazione del potere politico.

     Interessante il commento a questo passo di Kierkegaard, commento giocato sul tema dell’infinita indifferenza di Gesù nei confronti di Cesare e dell’infinita differenza che egli pone tra Dio e Cesare: «O infinita indifferenza! Che Cesare si chiami Erode o Salmanassar, che sia romano o giapponese, è cosa che a Gesù non importa minimamente. Ma, d’altra parte, quale abisso d’infinita differenza egli stabilì fra Dio e Cesare».

     Le parole di risposta di Gesù ai suoi interlocutori sono importanti particolarmente nella loro seconda parte, quando Gesù aggiunge – non necessaria perché non richiesta dalla domanda che gli era stata posta – l’affermazione che riguarda il «dare a Dio quel che è di Dio». Questa rivendicazione significa che, se l’imperatore esige per sé ciò che spetterebbe a Dio, come l’adorazione, il cristiano – memore della parola che dice: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) – non è tenuto a dargliela, anzi può perfino affrontare il martirio, mostrando che solo Dio è il Signore della vita.

     Tertulliano scrive: «Quali saranno le cose di Dio che siano simili al denaro di Cesare? Si intende l’immagine e la somiglianza con lui. Egli comanda quindi di rendere l’uomo al creatore, nella cui immagine e nella cui somiglianza era stato effigiato» (Contro Marcione IV, 38,1). Se il tema dell’immagine rinvia naturalmente all’uomo creato da Dio e capax Dei, il tema dell’iscrizione la si ritrova in un passo isaiano in cui designa l’appartenenza dell’uomo a Dio. I convertiti alla fede nel Dio d’Israele porteranno sulla mano l’iscrizione «Del Signore» e diranno: «Io appartengo al Signore» (Is 44,5). Le parole di Gesù spingono ogni credente a porsi la domanda: a chi appartengo? Chi è il mio signore?

     Nella dialettica posta da Gesù tra Cesare e Dio si situa la condizione del credente che è nel mondo, ma non del mondo (cfr. Gv 17,11.16), che abita la città secolare, ma attende il Regno di Dio, che vive la pólis, ma ha il políteuma, la cittadinanza nei cieli (cfr. Fil 3,20). Una fedeltà alla terra e alla pólis autentica il cristiano la vive grazie alla sua riserva escatologica, alla sua attesa escatologica.

     Il ridare a Dio quel che è di Dio va inteso anche nel senso di operare perché il mondo – uscito dalle mani di Dio e affidato a quelle dell’uomo -, nei suoi ordinamenti e nelle sue istituzioni, possa rispondere a quei requisiti di giustizia e diritto che sono propri della prassi messianica.

     Ciò che è di Dio è anche, propriamente, ciò che è dell’uomo e nell’uomo, l’umano. E rendere a Dio ciò che è suo implica anche il compito umano di divenire la propria umanità, di umanizzare il mondo e i suoi rapporti.

 

Preghiere e racconti

Dio e Cesare

Dobbiamo concedere certe cose al corpo, un tributo a Cesare a seconda dei casi, cioè nella misura richiesta. Ma le cose che riguardano la natura delle nostre anime, cioè quelle che conducono alla virtù, bisogna offrirle a Dio.

(Origene, Catena aurea).

La moneta del tesoro divino

Siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Tu sei uomo, o cristiano. Sei quindi la moneta del tesoro divino che reca l’effigie e la scritta dell’imperatore divino. Perciò, io chiedo con il Cristo: «Quest’effigie e questa scritta di chi sono?». Tu rispondi: «Di Dio». Aggiungo: «Perché quindi non rendi a Dio ciò che è suo?».Se vogliamo essere realmente un’immagine di Dio dobbiamo assomigliare al Cristo, poiché egli è l’immagine della bontà di Dio e l’effigie che esprime il suo essere (cf. Eb 1,3). E Dio ha destinato coloro che conosceva in anticipo ad essere l’immagine del suo Figlio (Rm 8,29)… Così coloro che somigliano al Cristo con la loro vita, la loro condotta e le loro virtù, modellandosi su di lui, rendono veramente visibile l’immagine di Dio.

(Lorenzo da Brindisi, Omelia sul Vangelo)

Chiesa e comunità politica

La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane… Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell’attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, [la Chiesa] rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.

(Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 76; EV 1/1581)

Memorie della clessidra

Il volto di Dio

nel bronzo o nella cera,

il volto di Dio

chi saprà dirmelo?

In quale secolo in quale luogo

raggiungere questo volto?

Il volto di Dio

è senza casa e senza età.

Narciso nel suo specchio

invano si contempla

sognando di scorgere

un dio che gli somigli.

Interrogare il cielo

del solstizio e il suo midollo

di fuochi? È un altare

che nasconde troppe stelle.

Forse con occhi

di bambini, puri come neve,

il volto di Dio

sarà intrappolato?

(J. Vuaillat, Memorie della clessidra)

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

Dio richiede la sua immagine impressa nell’uomo

Se con la dissomiglianza ci allontaniamo da Dio, con la somiglianza ci avviciniamo a lui. Quale somiglianza? La somiglianza secondo la quale siamo stati creati, che peccando abbiamo rovinato, che abbiamo ritrovato con il perdono dei peccati. È un’immagine che si rinnova nel profondo di noi stessi, è l’immagine del nostro Dio che viene, per così dire, scolpita nuovamente sulla moneta, cioè nell’anima perché ritorniamo a far parte dei suoi tesori. Perché, fratelli, il Signore nostro Gesù Cristo volle mostrare a quanti lo tentavano ciò che Dio richiede da noi si servì di una moneta? A proposito del tributo dovuto a Cesare, essi cercavano un pretesto per calunniarlo (cfr. Mt 22,15-22); vollero consultarlo come maestro di verità e lo tentarono chiedendogli se fosse lecito o no pagare il tributo a Cesare. Ed egli cosa rispose? Perché mi tentate, ipocriti? Chiese che gli fosse portata una moneta e quando gli fu portata, disse: «A chi appartiene l’immagine?». Risposero a Cesare. Ed egli: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mt 22,21).

E come se dicesse: Se Cesare richiede la sua immagine impressa sulla moneta, forse che Dio non richiede la sua immagine impressa nell’uomo? Il nostro Signore Gesù Cristo invitandoci a tale somiglianza ci comanda di amare anche i nostri nemici e da quale esempio Dio stesso. Dice: «Siate come il Padre vostro che è in cielo fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Siate dunque perfetti come il Padre vostro è perfetto» (Mt 5,45-48). Quando dice: «Siate perfetti come egli lo è», ci invita a alla somiglianza con lui. E se ci invita alla somiglianza, ciò significa che, diventati dissimili, ci eravamo allontanati. Andati lontano per la dissomiglianza, ci riavviciniamo attraverso la somiglianza.

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 94,2, NBA XXVII, pp. 306-308).

Il diamante caduto nel fango

Ho conosciuto un santo, gli ero intimo amico come un Figlio di Dio: si chiamava Don Giovanni Calabria, fondatore d’una grande opera caritativa.

Quando c’incontrammo in occasione della mia prima messa, mi disse: «Se tu trovassi sulla strada un diamante caduto nel fango che cosa faresti?». Risposi: «Non avrei nessuna ripugnanza a sporcarmi; lo prenderei su, lo laverei, ridonandolo in tal modo alla sua originale brillantezza». «Fà così con l’uomo» soggiunse.

(Zeno SALTINI, L’uomo è diverso, Ed. Stai).

Preghiera

O Dio, tu sei il Re della storia e tutto fai concorrere al bene di coloro che ti amano: anche le prove più difficili, i nostri esili. Ti preghiamo di donarci il tuo Spirito, affinché  possiamo vedere nella luce della fede le complesse vicende della storia, scorgendovi la tua mano amorosa che realizza il meraviglioso piano di salvezza per il tuo popolo e per l’intera umanità. Ti ringraziamo perché ci chiami a collaborare al tuo progetto e ci chiedi di saper assumere le nostre responsabilità nell’ambito civile e politico. La parola del tuo Figlio c’infonde un’accresciuta consapevolezza: il potere umano non può essere né  demonizzato né divinizzato, ma in esso si deve manifestare l’orientamento della nostra libertà.

Ti ringraziamo per averci fatti a tua immagine e per averci rivelato la nostra vocazione cristiana: essa ci impegna a rispondere della qualità morale delle scelte grandi e piccole nella vita d’ogni giorno. Grazie perché con il tuo aiuto potremo vivere tutto questo, rendendo a Cesare ciò che è di Cesare e a te, o nostro Dio, quanto è tuo. Ossia le nostre stesse vite!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXIX DOM TEMP ORDINARIO (A)

«Istituto di Catechetica»: Programmazione «IRC» per il triennio 2014-2017

L’«Istituto di Catechetica» ha approvato la nuova programmazione dell’«IRC» per il triennio 2014-2017.

Prossimi appuntamenti (“Analisi della situazione e prospettive educative dell’IRC”): Seminario di studio (6 dicembre 2014); Corso di aggiornamento (13-15 marzo 2015); Corso estivo (28 giugno-4 luglio 2015). In questo periodo, insieme ad alcune pubblicazioni sul tema, l’Istituto organizzerà ogni anno tre attività fondamentali: da una parte, un seminario di studio; dall’altra, un corso di aggiornamento e un altro estivo per i docenti di religione.

Matrimonio e “seconde nozze” al Concilio di Trento

Il matrimonio sembra essere divenuto nella Chiesa un segno di contraddizione: se da un lato si esalta il valore del sacramento, la dignità dell’amore coniugale e la bellezza della famiglia, dall’altro si assiste alla drammatica realtà di famiglie distrutte, come pure alla sofferenza di chi vive un matrimonio fallito, spiritualmente e umanamente, che non può essere più ricomposto (1). Forse anche questo è uno dei segni dei tempi che san Giovanni XXIII esortava, oltre che a leggere e ad interpretare, anche ad avere a cuore. Proprio il discorso sui segni dei tempi terminava con una affermazione sorprendente: «La Chiesa non è un museo di archeologia» (2). Radicata nella fede ricevuta dagli apostoli, essa deve saper guardare il presente e proiettarsi nel futuro, per aggiornarsi, per essere vicina agli uomini e rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito.

In tale prospettiva è singolare la storia di uno dei decreti più innovativi del Concilio di Trento: quello sul matrimonio, detto Tametsi. Il decreto vieta i matrimoni clandestini, sancisce la libertà del consenso, l’unità e l’indissolubilità del vincolo, la celebrazione del sacramento alla presenza del sacerdote e dei testimoni; impone, inoltre, la trascrizione dell’atto nei registri parrocchiali. Sulla novità e modernità del decreto si è scritto molto, soprattutto per quanto riguarda l’indissolubilità del matrimonio.

Non se ne vuole qui ripercorrere la storia, ma prestare attenzione a un quesito insolito che porta il Tridentino a esprimersi in una direzione inattesa. Nel dibattito sul vincolo matrimoniale, i padri si sono dovuti pronunciare sulla possibilità delle seconde nozze per i cattolici greci dei domini di Venezia, nelle isole del Mediterraneo. Questi avevano forme «singolari» di legami con la comunità degli orientali. All’epoca, i vescovi erano per lo più veneziani e seguivano il rito latino, mentre i sacerdoti del clero locale erano ortodossi. In tali comunità era invalso l’uso, da parte dei vescovi latini, di permettere che i fedeli vivessero secondo i riti ortodossi, salvo la dichiarazione di obbedienza al Papa, che si doveva rinnovare tre volte l’anno. Tra quei riti era in vigore una consuetudine che dava la possibilità di contrarre nuove nozze in caso di adulterio della moglie e che si fondava su una antichissima tradizione. La Chiesa orientale affermava e riconosceva rigorosamente l’indissolubilità del matrimonio; tuttavia, in qualche caso particolare, con il discernimento del vescovo, tollerava un rito penitenziale per coloro che, fallito il matrimonio e non avendo più la possibilità di ricostruirlo, passavano a nuove nozze. Del problema si era parlato al Concilio di Firenze, nel 1439, ma non era stata presa in proposito alcuna decisione (3).

Ecco le principali tappe della discussione tridentina.

 

Il Concilio di Trento (I periodo, 1545-47)

 

La questione appare la prima volta nella Congregazione generale del 15 ottobre 1547 (4). Alcuni teologi affrontano i punti che possono invalidare l’indissolubilità del matrimonio. Qui sorge un quesito, che si riferisce a un caso particolare: se l’infedeltà della moglie possa dare adito a nuove nozze del marito, oppure se chi si risposa dopo aver ripudiato la donna adultera venga a sua volta giudicato colpevole di adulterio (5). Il fondamento è dato dall’interpretazione di Mt 19,9 (la cosiddetta «eccezione», o «precisazione limitativa», qualora ci sia un caso di porneia) (6).

Occorre ricordare anche una Congregazione dei teologi, tenutasi nell’ottobre del 1547, dopo il trasferimento del Concilio a Bologna, dove si raggiunge un accordo generale nel ritenere che il matrimonio non si sciolga con l’adulterio di uno dei coniugi; tuttavia i padri conciliari non sono concordi nell’interpretazione di Mt 19,9 e nel condannare il marito che passi a nuove nozze, dopo aver ripudiato la moglie fornicaria (7).

 

La conclusione del Concilio (1562-63)

Nel 1563, quando si redige il decreto Tametsi sul matrimonio, il caso si ripresenta. Nella Congregazione dei teologi si espongono le ragioni per cui debba ritenersi materia di fede che l’adulterio non sciolga il vincolo matrimoniale. Si alternano a parlare diversi teologi spagnoli e francesi, i quali sostengono unanimemente che, per quanto da Mt 19,9 non si evinca che il Signore abbia vietato le seconde nozze dopo l’abbandono della donna adultera, non è lecito dubitare di ciò che anticamente la Chiesa ha determinato.

Il 20 luglio, nella fase definitiva della formulazione del decreto, vengono distribuiti ai padri conciliari i canoni da approvare, tra cui uno (il sesto, divenuto poi settimo nella redazione finale) che afferma: «Sia anatema chi dice che il matrimonio si può sciogliere per l’adulterio dell’altro coniuge, e che ad ambedue i coniugi o almeno a quello innocente, che non ha causato l’adulterio, sia lecito contrarre nuove nozze, e non commette adulterio chi si risposa dopo aver ripudiato la donna adultera, né la donna che, ripudiato l’uomo adultero, ne sposi un altro» (8).

Nella Congregazione generale si dichiarano contrari al canone alcuni padri; in particolare, gli arcivescovi di Creta e Braga, i vescovi di Genova, Castellaneta e Fünfkirchen adducono la ragione che esso è contro gli orientali e contro l’opinione di Ambrogio (9). Il vescovo di Segovia rileva che alcuni antichi Padri hanno asserito che l’uomo possa risposarsi, in caso di adulterio della donna, dopo aver sciolto il matrimonio (10). Lo ribadisce il vescovo di Alife, che menziona anche sant’Agostino, per il quale è colpa veniale se l’uomo si risposa dopo essere stato abbandonato dalla moglie per adulterio (11). Altri arcivescovi, tra cui quelli di Rossano, di Palermo e di Taranto, si dichiarano favorevoli al canone, ma contrari all’anatema, per rispetto ai Padri, in particolare ad Ambrogio, il quale ovviamente non può essere «scomunicato». Qualche prelato, invece, non dà importanza al fatto che si colpisca Ambrogio, poiché anche un dottore della Chiesa può errare in un caso particolare (12).

 

La richiesta degli ambasciatori veneziani 

Una novità appare nella Congregazione dell’11 agosto, quando viene data lettura di una richiesta degli ambasciatori veneziani (13). L’esordio dichiara solennemente la fedeltà della Serenissima alla Sede Apostolica e la sincera devozione all’autorità del Concilio. Poi una istanza: è inaccettabile la formulazione del canone settimo dell’ultima redazione. Esso crea preoccupazione per i cattolici del regno di Venezia, situati in Grecia e nelle isole di Creta, Cipro, Corcira, Zacinto e Cefalonia, e reca un danno gravissimo, non solo per la pace della comunità cristiana, ma anche per la Chiesa d’Oriente, in particolare per quella dei greci  (Graecorum ecclesia). Questa, benché dissenta in qualche punto dalla Chiesa di Roma, obbedisce ai presuli nominati dalla Sede Apostolica. Ora, per gli orientali è consuetudine, nel caso di adulterio della moglie, sciogliere il matrimonio e risposarsi (fornicariam uxorem dimittere et aliam ducere), ed esiste anche un rito antichissimo dei loro Padri per la celebrazione delle nuove nozze. Tale consuetudine non è stata mai condannata da nessun Concilio ecumenico, né essi sono stati colpiti da alcun anatema, benché quel rito sia stato sempre ben noto alla Chiesa cattolica romana (Romanae et catholicae ecclesiae notissimus). Gli ambasciatori chiedono pertanto che il canone sia modificato, là dove si scomunica chi dice che la Chiesa insegna che il matrimonio non si può sciogliere per l’adulterio di un coniuge e che neppure il coniuge innocente può risposarsi. La richiesta si conclude facendo notare che si va anche contro l’opinione di venerabili dottori.

I Padri a cui ci si riferisce sono almeno tre, che poi vengono citati nella discussione. Innanzitutto Cirillo di Alessandria, il quale, a proposito delle cause di divorzio, afferma che «non sono le lettere di divorzio che sciolgono il matrimonio di fronte a Dio, ma la cattiva condotta dell’uomo» (14). Poi Giovanni Crisostomo, che ritiene essere l’adulterio la ragione della morte reale del matrimonio (15). Infine Basilio, quando parla del marito abbandonato dalla moglie, riconosce che egli può essere in comunione con la Chiesa (il testo presuppone che il marito si sia risposato) (16). 

Si ripropone quindi una nuova formulazione del canone (17): il Concilio rinunci alla condanna della prassi orientale delle nuove nozze per adulterio mediante una norma che per di più è accompagnata dalla scomunica (18).

 

L’argomentazione dei veneziani

Dalla proposta degli ambasciatori veneziani i padri conciliari traggono l’impressione che nei territori greci di Venezia si sia raggiunta una qualche comunione ecclesiale degli orientali con Roma e che i cattolici greci si distinguano solo per alcuni loro riti. Per essi il termine ritus presenta un’accezione più ampia di quella che si dà in Occidente, in quanto comprende anche la celebrazione di nuove nozze in seguito ad adulterio (sempre dopo il discernimento del caso da parte del vescovo e in determinate situazioni). Di qui la richiesta degli ambasciatori.

Si vuole evitare, insomma, che i cattolici presenti nei domini veneziani, che dipendono dai vescovi in comunione con Roma, sia­no colpiti dalla condanna per una prassi antichissima circa il matrimonio: un «rito greco» particolare (19), che però contrasta con l’indissolubilità del matrimonio sancita dal Concilio. Poiché si teme uno scisma, si propone di modificare il canone, in modo che non vengano scomunicati coloro che accettano il rito orientale, ma solo quelli che rifiutano la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio. In tal modo vengono colpiti quanti negano l’autorità del Papa o il magistero della Chiesa, ma non i cattolici greci che li riconoscono.

 

La discussione conciliare

Il dibattito conciliare non è breve e si protrae, con varie tappe, da agosto a novembre. Nella discussione interviene il cardinale di Lorena, Charles de Guisa, che introduce, nella formulazione dei veneziani, un particolare importante: «secondo le Scritture» (iuxta Scripturas), nel senso che, per la Chiesa, la dottrina della indissolubilità del matrimonio si fonda sulla rivelazione (20). Altri interventi palesano che la maggior parte dei padri conciliari è d’accordo sul non censurare la prassi della Chiesa greca. Si tratta di una antica tradizione locale.

Il vescovo di Ostuni sostiene chiaramente che si dovrebbe esplicitare meglio la particolarità della consuetudine, e che comunque non era, e non è, tradizione comune a tutta la Chiesa (21).

Interessante, a tale proposito, è l’intervento dell’arcivescovo Pedro Guerrero di Granada: è chiaro che sono proibiti dalla Bibbia sia il divorzio, sia le seconde nozze per adulterio dell’altro coniuge, ma non si evince dalla Scrittura che il matrimonio così contratto sia invalido. Egli porta l’esempio dei voti semplici, i quali rendono illecito contrarre matrimonio, ma non lo invalidano. Del resto, come avrebbero potuto i Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, nonché i sinodi di Elvira, di Arles e di Toledo, tollerare un nuovo matrimonio del marito dovuto all’adulterio della moglie? Il prelato andaluso accetta la proposta degli ambasciatori veneziani circa la stesura del canone, è contrario all’aggiunta del cardinale di Lorena (22) e propone anche altre due formulazioni del canone settimo, la seconda delle quali afferma: «Se uno dice che la chiesa ha errato quando proibisce di sposare un’altra donna a causa della fornicazione (propter fornicationem), sia scomunicato». Tra le varie testimonianze patristiche egli adduce Ambrogio, Teofilatto, Epifanio, Cromazio, Crisostomo, Ilario, Tertulliano, Basilio e Gregorio. Il Concilio deve quindi parlare chiaramente di indissolubilità del matrimonio, ma pure affermare che questa non può essere ritenuta parte costitutiva della rivelazione (23).

Anche il vescovo di Segovia interviene per documentare come nella Chiesa antica si fosse diffusa la pratica di nuove nozze in caso di adulterio. Per esempio, in Africa al tempo di Tertulliano, nella Gallia con Ilario di Poitiers, in Spagna ai Concili di Toledo. Anzi, allora alcuni dottori della Chiesa ritenevano che il divorzio fosse concesso per cause meno rilevanti dell’adulterio (24). Si noti, tuttavia, la ragione di fondo che anima questi prelati: lungi dal voler introdurre il divorzio, essi desiderano che si definisca l’indissolubilità del matrimonio e si censuri con la scomunica la sua negazione.

Contro di loro si solleva un piccolo gruppo che non riconosce la validità delle testimonianze addotte per una nuova formulazione del canone settimo e vuole mantenerlo tale e quale, perché non si pensi che sia solo di diritto canonico e non di diritto divino (25). Il vescovo di Barcellona afferma che, se si vuole andare incontro ai greci, non si deve però nascondere in nessun modo la verità, e cioè l’indissolubilità del matrimonio (26). Il vescovo di León cita testi di Clemente Alessandrino e di Basilio contro la tradizione greca: la donna, allontanata per fornicazione, deve riconciliarsi con il marito; e la testimonianza di Ambrogio sembra essere falsa (27). Il passo di Gregorio poi va inteso bene, perché si riferisce alla moglie malata, che era tale anche prima di contrarre il matrimonio; altrimenti sarebbero in molti a poter chiedere questo tipo di annullamento (28). Il vescovo di León era stato professore all’università di Alcalá e nelle sue memorie annota che, nell’università di Parigi, un decano era stato costretto a ritrattare «la tesi della dissoluzione del matrimonio per causa di adulterio» (29).

Alla fine, sono 97 i voti che esprimono il consenso agli ambasciatori veneziani e ne approvano la petizione, contro gli 80 contrari alla prassi orientale, ma divisi nelle loro ragioni (30). Ciò non significa che la maggioranza dei padri voglia mettere in questione l’indissolubilità del matrimonio: si intende solo discutere la forma della condanna. Rimane fermo il canone quinto, con le ragioni contro il divorzio.

Nella sessione solenne dell’11 novembre, tuttavia, il primate di Cipro, l’arcivescovo Filippo Mocenigo, fa mettere agli atti del Concilio la professione di fede di un sinodo provinciale del 1340, in cui i vescovi orientali, con le loro comunità, accettano il primato del Papa, confessano la Chiesa di Roma quale mater omnium fidelium et magistra e chiedono umilmente che sia «loro permesso di continuare a vivere secondo i loro riti, che non si scostano dalla fede» (31). Tali «riti» comprendono anche la concessione delle seconde nozze in seguito ad adulterio. Queste ultime parole si ritrovano nella proposta degli ambasciatori veneziani di riformulazione del canone

 

La prassi orientale e l’eccezione del Vangelo di Matteo 

La prassi orientale si fonda sulla precisazione limitativa di Mt 5,32 e 19,9: «eccetto in caso di porneia»: ad essa si riferiscono implicitamente gli ambasciatori veneziani.

A questo punto occorre chiedersi che cosa intendano i veneziani e i padri conciliari per porneia, e poi quale sia il significato della traduzione latina, fornicatio e uxor fornicaria.

Sul significato di porneia si sono versati fiumi d’inchiostro. Si è data al termine una gamma di significati vastissima che va da fornicazione, prostituzione, concubinato, adulterio, impudicizia, fino a impedimento matrimoniale, incesto, omosessualità, sodomia ed altro ancora (32). Al Concilio i padri sostengono l’interpretazione rigorosa data da Agostino di Mt 5,32 e 19,9: in caso di adulterio è ammessa solo la separazione dei coniugi. Altri padri conciliari, invece, affermano che i testi di Matteo non sono chiarissimi e si possono interpretare diversamente. Tuttavia, in Occidente si è formata una tradizione giuridica che rifiuta qualsiasi dissolvimento del vincolo matrimoniale: al Concilio, il teologo Pedro de Soto ne riassume la storia in modo eccellente (33). In ogni caso, porneia è in relazione con porn?, che significa «prostituta», e con porneu?, cioè «prostituir­si», «esercitare la prostituzione», e quindi il nome indica propriamente «prostituzione», e più in generale «fornicazione, impudicizia, lussuria» (34). Quanto al passo di Matteo, va tenuto presente che il suo autore scrive il Vangelo per gli ebrei che conoscono la Torah, e quindi la resa in greco del termine ebraico è verosimilmente attendibile. Che porneia traduca l’ebraico z?nût, cioè «prostituzione», ha più conferme: un frammento del libro di Tobia (in particolare 8,7) ritrovato a Qumran e il Codice di Damasco VIII,5 e XIX,17, dove z?nût è tradotto in greco porneia (35). Si tratterebbe di una trasgressione delle leggi del matrimonio, nel senso che un matrimonio viene giudicato illegittimo per ragioni antecedenti o successive alla sua stipulazione (per esempio, l’unione con una prostituta, con una donna straniera, con un’adultera ecc.), e quindi i rapporti coniugali sono dichiarati reato e perciò illegittimi.

Va tenuto presente che in greco «adulterio» si dice moicheia, e che alcuni termini che si possono tradurre materialmente nelle lingue moderne vanno riferiti al loro contesto storico. Per esempio, pallakeia, che si traduce con «concubinato», indica «piaceri sessuali» non meglio specificati; in ogni caso, tali significati non sarebbero inclusi in porneia. Scrive un esegeta odierno: «Dovrebbe essere ormai chiaro che, in questo ambito linguistico tecnico-giuridico, una cosa è “adulterio” (ni’?pîm/moicheia), altra cosa “prostituzione” (z?nût/porneia). Queste due coppie di termini designano entrambe rapporti sessuali illegittimi; ma la prima quelli avuti con la moglie altrui, la seconda quelli avuti con la moglie propria “che non è secondo la Legge”. Tra i due reati esiste un punto di connessione: l’“adulterio” (reale o presunto) della propria moglie legittima trasforma costei in moglie illegittima e rende “prostituzione” i rapporti sessuali che suo marito intrattenga con lei» (36). Si noti pure che con il termine porneia non si intende una trasgressione avvenuta occasionalmente, ma reiterata con frequenza. Quindi l’eccezione di Matteo riguarderebbe un matrimonio che non è secondo la Legge (37). 

Ma nel contesto specifico di Trento, che cosa comprendono i Padri conciliari per uxor fornicaria? E in particolare, che cosa chiedono i greci che reclamano il mantenimento delle loro tradizioni e del rito delle seconde nozze? Al Concilio, per il teologo Pedro de Soto il concetto di fornicatio è parallelo a quello di adulterio, ed egli lo conferma citando Origene, secondo cui alcuni vescovi hanno permesso – permiserunt – nuove nozze in seguito ad un adulterio, benché nella Chiesa agli adulteri non fosse consentito in nessun modo di risposarsi (38). Il Demochares, già rettore della Sorbona, per porneia intende «fornicazione e adulterio». Anche gli ambasciatori veneziani, nel riformulare il canone, parlano più volte di adulterio. L’arcivescovo di Granada, invece, intende «fornicazione».

Qui entra in gioco il citato canone settimo: «Se qualcuno dirà che la Chiesa sbaglia quando ha insegnato e insegna, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, che il vincolo (39) del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie  che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema» (40). La formulazione è singolare, in quanto da un lato condanna la dottrina di Lutero e dei riformatori che disprezzavano la prassi della Chiesa sul matrimonio (41), dall’altro lascia impregiudicate le tradizioni dei greci che, nel caso specifico, tollerano le nuove nozze. Qui appare una correzione importante rispetto alla precedente stesura: non si dice «il matrimonio», ma «il vincolo del matrimonio». Il canone tratta solo della indissolubilità interna del matrimonio, cioè del fatto che il matrimonio non si scioglie ipso facto, né per l’adulterio di uno dei coniugi, e nemmeno quando i coniugi decidono in merito a questo, secondo la propria coscienza. Inoltre, il Concilio non dice nulla circa la questione se la Chiesa abbia o meno la possibilità di pronunciare una sentenza di scioglimento del vincolo (si tratterebbe della «indissolubilità esterna» del matrimonio). In tal modo il canone rispetta la prassi degli orientali, i quali, pur affermando e riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio, non ammettono che siano i coniugi a decidere personalmente del loro vincolo matrimoniale; gli orientali, tuttavia, dopo un discernimento da parte della Chiesa e una pratica penitenziale, consentono le nuove nozze (42).

È chiaro che nel linguaggio del Concilio il significato di uxor fornicaria va oltre quanto detto nell’«eccezione» matteana, ma i padri conciliari non si impegnano nella questione esegetica, lasciandola aperta. Va notato invece che essi sostengono una parità di trattamento per l’infedeltà dell’uomo e della donna, contro il costume antico che era più tollerante verso l’uomo che verso la donna.

 

La Chiesa antica

Ma che cosa si intendeva nella Chiesa antica per «indissolubilità»? Nei primi secoli essa contrapponeva alla legge civile, che considerava legittimo il ripudio e il divorzio, l’esigenza evangelica di non infrangere il matrimonio e di osservare il precetto del Signore «di non dividere ciò che Dio ha unito». Tuttavia anche al cristiano poteva accadere di fallire nel proprio matrimonio e di passare a una nuova unione; questo peccato, come ogni peccato, non era escluso dalla misericordia di Dio, e la Chiesa aveva e rivendicava il potere di assolverlo. Si trattava proprio dell’applicazione della misericordia e della condiscendenza pastorale, che tiene conto della fragilità e peccaminosità dell’uomo. Tale misericordia è rimasta nella tradizione orientale sotto il nome di oikonomia (43): pur riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio proclamata dal Signore, in quanto icona dell’unione di Cristo con la Chiesa, sua sposa, la prassi pastorale viene incontro ai problemi degli sposi che vivono situazioni matrimoniali irrecuperabili. Dopo un discernimento da parte del vescovo e dopo una penitenza, si possono riconciliare i fedeli, dichiarare valide le nuove nozze e riammetterli alla comunione (44).

Forse potrebbe aver contribuito a una tradizione così tollerante l’interpretazione del comando del Signore sulla indissolubilità (Mt 19,4-6), intesa come una norma etica ideale verso cui il cristiano deve continuamente tendere e non come una norma giuridica (45). Del resto nella Chiesa dei primi secoli, che considerava l’adulterio uno dei peccati più gravi insieme all’apostasia e all’omicidio, i vescovi avevano il potere di assolvere tutti i peccati, anche quelli relativi all’infedeltà coniugale e alla conclusione di una nuova unione (46).

La Chiesa sembra non essere mai intervenuta esplicitamente contro la prassi degli orientali. In verità, nel Concilio di Firenze, la questione venne sollevata dal Papa Eugenio IV, dopo che, il 6 luglio 1439, era stato firmato il decreto di unione con gli orientali. Egli voleva precisare con i vescovi che non erano ancora andati via alcuni punti, uno dei quali riguardava la prassi dello scioglimento del matrimonio e delle nuove nozze. I padri orientali si dichiararono incompetenti a rispondere e non autorizzati a precisare alcunché, senza prima aver consultato l’imperatore e gli altri vescovi. Per quel che concerneva la loro opinione, tali quesiti erano in quel momento inopportuni, perciò essi avrebbero continuato a fare ciò che era giusto, poiché non si dirimevano matrimoni senza una valida ragione (47).

 

Conclusione

La pagina del Concilio di Trento che si è illustrata sembra essere stata dimenticata dalla storia. Di solito non viene menzionata. Ed è eloquente, nei diari del Concilio pubblicati accanto agli Acta, il silenzio degli stessi segretari, sempre presenti, scrupolosi, rigorosi nel documentare ogni episodio. Questa pagina tuttavia manca. Una damnatio memoriae? Oggi appare singolare che al Concilio in cui si afferma l’indissolubilità del matrimonio non si condannino le nuove nozze per i cattolici della tradizione orientale. Eppure questa è la storia: una pagina di misericordia evangelica per quei cristiani che vivono con sofferenza un rapporto coniugale fallito che non si può più ricomporre; ma anche una vicenda storica che ha palesi implicazioni ecumeniche.

 Giancarlo Pani S.I.

Note

1 Cfr W. Kasper, Il vangelo della famiglia, Brescia, Queriniana, 2014; A. Grillo, Indissolubile? Contributo al dibattito dei divorziati risposati, Assisi, Cittadella, 2014; Congregazione per la dottrina della fede, Sulla pastorale dei divorziati risposati, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1998; P. Fransen, «Divorzio in seguito ad adulterio nel Concilio di Trento (1563)», in Concilium 5 (1970) 113-125.   

2 Omelia di Giovanni XXIII, il 13 novembre 1960, nella basilica di San Pietro, nella solenne liturgia in rito bizantino-slavo, in onore di san Giovanni Crisostomo.

3 J. Gill, Il Concilio di Firenze, Firenze, Sansoni, 1967, 353 s.

4 Concilii Tridentini (= CT) diariorum, actorum, etc. VI, Friburgi Br., Herder & Co., 1950, 534.

5 An qui aliam duxerit dimissa fornicaria meccetur (CT VI, cit., 534); cfr A. C. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico. Dal Concilio di Trento al Codice del 1917, Bologna, il Mulino, 1993 (or. 1941), 48.

6 Patres non convenerunt ob varios intellectus cap 19,9 Matthei, quia, licet omnes assererunt matrimonii vinculum non dissolvi, tamen, an qui aliam duxerit dimissa fornicaria meccetur, patres fuerunt varii propter verba Christi in supradicto loco et multas doctorum auctoritates. Res indecisa relinquitur (CT VI, cit., 534). Nel dibattito del 7 novembre si nominano esplicitamente il rito dei Greci, degli Armeni e le opinioni di alcuni Padri, qui propter dictas causas etc. permissive enim intelliguntur at per consequens non videntur anathemate feriendi, cum non dicant ea esse licita, sed permissa (ivi, 537 s).

7 CT I, Friburgi Br., B. Herder, 1901, 710.

8 CT IX, Friburgi Br., Herder & Co., 1924, 640.

9 Si tratta in realtà dell’Ambrosiaster, il commento all’epistolario paolino, una volta attribuito ad Ambrogio; da Erasmo in poi se ne è scoperta la falsa attribuzione.

10 CT IX, cit., 644; 650; 652; 656 s; 665; CT III/1, Acta del cardinal G. Paleotti, Freiburgi Br., Herder & Co., 1931, 696 s.

11 CT IX, cit., 675: Agostino, s., De fide et operibus 19. Ma l’arcivescovo di Rossano ha mostrato che il passo di Agostino si può interpretare anche in modo opposto sulla base di altre opere (ivi, 646).  

12 CT IX, cit., 645 s; 651; 656 s; 664; CT III/1, cit., 696 s; 702.

13 CT IX, cit., 686.

14 PG 72, 380D: Non enim repudii libellus apud Deum matrimonium solvit, sed mala agendi ratio; cfr B. Petrà, Divorzio e nuove nozze nella tradizione greca. Un’altra via, Assisi, Cittadella, 2014, 113-115.

15 PG 61, 154 s; cfr H. Crouzel, L’église primitive face au divorce. Du premier au cinquième siècle, Paris, Beauchesne, 1971, 195-201.

16 PG  32, 727 e 732: Ep. 2 ad Anfilochio, cap. 35 e 48; il termine è syngn?m? [dignus venia], perché possa comunicarsi nella Chiesa; cfr C. Vogel, «La législation actuelle sur le fiançailles, le mariage et le divorce dans le royaume de Grèce», in Istina 7 (1961-1962) 174, nota 148, per il quale il passo di Basilio non è così chiaro da fondare una ragione di divorzio.

17 «Se qualcuno dirà che la sacrosanta romana Chiesa cattolica e apostolica, che è maestra di tutte le altre, ha sbagliato o sbaglia quando ha insegnato e insegna che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio dell’altro coniuge, e che l’uno e l’altro coniuge, o almeno quello innocente, che non ha causato l’adulterio, non possa contrarre un nuovo matrimonio, vivente l’altro coniuge, e che commette adulterio chi, dopo il ripudio dell’adultera, sposi un’altra, e così pure la donna che, dopo il ripudio del marito adultero, sposi un altro, sia anatema» (CT IX, cit., 686).

18 Ivi; S. Ehses, nell’edizione critica, nota che nei diari del Massarelli, il meticoloso segretario del Concilio, non si fa parola della petizione e, a suo parere, intenzionalmente (ivi, nota 3).

19 Cfr A. Palmieri, Il rito per le seconde nozze nella Chiesa Greco-Ortodossa, Bari, Ecumenica, 2007.

20 CT IX, cit., 687.

21 Ivi, 790.

22 Ivi, 688.

23 Ivi, 689: nell’edizione critica si danno in nota i testi dei Padri.

24 Ivi, 709.

25 Ivi, 721 s.

26 Ivi, 731: absque occultatione veritatis.

27 Ivi: falsa, in quanto si tratta dell’Ambrosiaster.

28 Ivi, 721.

29 H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, IV/2, Il terzo periodo e la conclusione. Superamento della crisi per opera del Morone, chiusura e conferma, Brescia, Morcelliana, 20102, 160.

30 CT IX, cit., 747; cfr A. C. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico, cit., 50.

31 CT IX, cit., 973: Petentes humiliter, quod eis liceret, in suis ritibus, fidei non contrariis, permanere. 

32 Cfr C. Marucci, Parole di Gesù sul divorzio. Ricerche scritturistiche previe ad un ripensamento teologico, canonistico e pastorale della dottrina cattolica della indissolubilità del matrimonio, Brescia, Morcelliana, 1982.

33 CT IX, cit., 409 s.

34 F. Hauck – S. Schulz, πóρνη, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, X, Brescia, Paideia, 1447-1488.

35 Cfr Tb 8,7: «Non per prostituzione io prendo questa mia sorella, ma secondo verità»; si veda il commento del testo in A. Tosato, «Su di una norma matrimoniale 4QD», in Id., Matrimonio e famiglia nell’antico Israele e nella Chiesa primitiva, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2013, 203 s. La porneia che Tobia dice di evitare non è una generica «lussuria», ma l’insieme delle trasgressioni della legge matrimoniale. Perciò egli dice di sposarla «secondo verità», e non per «prostituzione  [= z?nût/porneia]». 

36 A. Tosato, «Su di una norma matrimoniale 4QD», cit., 206, nota 39.

37 La traduzione Cei del 2008 riporta in modo preciso l’eccezione sia in Mt 5,32 sia in 19,9: «… eccetto in caso di unione illegittima».

38 CT IX, cit., 409. Cfr Origene, In Matth 19,23: Iam vero contra Scripturae legem, mulieri vivente viro nubere quidam Ecclesiae rectores permiserunt, agentes contra id, quod scriptum est: «Mulier alligata est» etc. [1 Cor 7,39] (PG 13,1246).

39 Corsivo nostro.

40 CT IX, cit., 760; H. Denzinger – P. Hünermann, Enchiridion Symbolorum, Bologna, Edb, 200940, 738; si veda in loco la nota 1 al n. 1807. Vi allude Pio XI nell’enciclica Casti Connubii del 31 dicembre 1930.

41 Lutero sosteneva che né il Papa né i vescovi erano competenti in materia di matrimonio: cfr De captivitate Babylonica Ecclesiae praeludium, Weimar, Hermann Böhlau, 1888, 550-560.

42 In Oriente, in linea di principio, le seconde nozze sono concesse dal vescovo solo al coniuge che non è responsabile del fallimento del matrimonio, dopo un processo canonico o civile e un lasso di tempo di almeno un anno. Va detto che il rito per le seconde e terze nozze è più un rito penitenziale che una benedizione, ma consente in seguito di ricevere l’Eucaristia. Occorre ricordare che la Chiesa ortodossa è sempre stata severissima nei confronti delle quarte nozze. La condanna si basa su un’omelia di san Gregorio di Nazianzo, che dichiara lecite le prime nozze, tollerate le seconde, illegali le terze, «costume da porci» le altre (cfr PG 36,292). 

43 Per oikonomia si intende l’ordine salvifico di Dio, il Padre che ha a cuore i suoi figli, e insieme una pastorale che si modelli sulla lode resa all’amministratore (oikonomos) della Chiesa pieno di misericordia (cfr Lc 16,8), che incarna lo spirito del vero Pastore, il quale conosce e chiama ciascuno per nome e, se una pecora si smarrisce, lascia le novantanove nell’ovile in cerca dell’unica pecora smarrita, finché non la ritrovi (Mt 18,12-13; Lc 15,4-6). Cfr B. Häring, Pastorale dei divorziati, Bologna, Edb, 2013 (or. 1989), 51-63.

44 Cfr B. Petrà, Divorzio e nuove nozze nella tradizione greca. Un’altra via, cit., 129-135.

45 Cfr N. Van Der Wal, «Aspetti dell’evoluzione storica nel diritto e nella dottrina. L’influenza del diritto profano sulla concezione ecclesiastica del matrimonio nell’oriente», in Concilium 6 (1970) 869-875, in particolare 874.

46 Cfr G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Roma, Aracne, 2013 (or. 1977), 265-361.

47 Cfr I. Gill, Concilium Florentinum. Documenta et Scriptores, V/2, Roma, PIO, 1953, 468-471.

 

© Civiltà Cattolica pag.19-32

 

XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 25,6-10a

Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.

Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre.

  Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.

  Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, poiché la mano del Signore si poserà su questo monte». 

 

I capitoli 24-27 costituiscono una raccolta di oracoli apocalittici, di epoca post-esilica, inseriti nel libro di Isaia. Vi si descrive in particolare il banchetto che celebra l’intronizzazione del Signore.

v. 6 – Il banchetto simboleggia la salvezza universale realizzata nel regno dei cieli.

Il monte Sion sarà il luogo di questa celebrazione universale: il Signore preparerà il banchetto, descritto con immagini colorite ed esuberanti, per tutti i popoli.

v. 7 – La festa escatologica segnerà anche la definitiva e universale rivelazione del Signore: il velo che rendeva ciechi i popoli e la coltre che nascondeva la verità alle nazioni sono rimossi. «Il re presenta i suoi regali durante il banchetto: prima i popoli non vedevano il Signore, perché erano ciechi: ora il Signore stesso scopre i loro occhi perché possano conoscerlo» (L. ALONSO SCHÖKEL).

v. 8 – «Apocalisse» significa «rivelazione», e oracolo apocalittico non è sinonimo di catastrofe ma di salvezza. Il Signore vince la morte, vince il dolore e le lacrime; la parola del Signore farà cessare l’infelicità del popolo: l’oracolo sarà ripreso in Ap 7,17; 21,4.

vv. 9-10a – Segue il canto del popolo salvato, che esulta nel Signore e proclama le sue lodi.

 

Seconda lettura: Filippesi 4,12-14.19-20 

 Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.

Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.  Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

     Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

     Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il Vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo.

     In chiusura della lettera Paolo ha parole toccanti di gratitudine nei confronti dei Filippesi per la premura che hanno dimostrato nei suoi confronti.

     Tuttavia, egli ribadisce di non pretendere nulla: le tribolazioni e soprattutto una vita spesa al servizio del Vangelo gli hanno insegnato a far fronte a tutto, forte solo dell’aiuto di Colui che mi dà la forza.

     v. 12 – Per due volte ripete «so vivere»; il terzo verbo, «sono allenato», era usato per i riti di iniziazione. L’oggetto — le circostanze che Paolo ha imparato ad affrontare — sono indicate da una serie di infiniti. Paolo è stato iniziato a tutti i misteri della vita, le vicissitudini della realtà quotidiana sono state come riti di iniziazione che lo hanno reso capace di far fronte a tutto.

     v. 13 – L’apostolo qualifica la propria autosufficienza: «tutto questo» (ciò che ha elencato nel versetto precedente), posso affrontarlo grazie al Signore. Il segreto della sua indipendenza è la dipendenza da un altro, viene dal trovarsi in unione vitale con Colui che mi dà forza.

     v. 14 – Ed ecco cosa possono fare di buono e giusto i Filippesi: diventare partners di Paolo, prendendo parte alle sue tribolazioni.

     vv. 19-20 – Nei due ultimi versetti (seguono i saluti e il commiato) Paolo ripete il verbo «colmare» (pleroun) e la parola «bisogno» (chreia) che ha adoperato più sopra (vv. 16 e 18): là per dire che i Filippesi hanno dato a Paolo ciò che gli era necessario, qui per dire che Dio colmerà di doni i Filippesi per ogni loro bisogno. L’espressione «il mio Dio» è rara in Paolo. La conclusione è una doxologia.

 

Vangelo: Matteo 21,1-14 

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:  «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.

Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.

  Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.  Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.  Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Esegesi

     Siamo nell’ultimo periodo del ministero di Gesù, la sua predicazione in Gerusalemme, dall’ingresso festoso e trionfale nella città (21,1-10) alla Pasqua.

     L’evangelista raggruppa qui una serie di parabole che più si avvicinano al tema del giudizio, sviluppato poi nel cap. 25 (i due figli, i vignaioli omicidi, il banchetto di nozze; più avanti, le dieci vergini e i talenti).

     Le tre parabole del primo gruppo sono poste in crescendo e legate fra loro: nella prima e nella seconda si parla di «vigna», nella seconda e nella terza di invio dei servi. Sono introdotte dalla domanda sull’autorità di Gesù (21,23), alla quale Gesù non risponde apertamente, ma appunto in parabole.

     Nella prima Gesù si riferisce al Battista: «non gli avete creduto». È un verdetto di colpevolezza nei confronti di coloro che non hanno riconosciuto ciò in cui «i pubblicani e le prostitute… hanno creduto» (21,32). La seconda parabola parla di Gesù, il Figlio inviato per ultimo, e della pena inflitta su indicazione degli stessi ascoltatori (cf. 21,40-41): «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produrrà frutti»  (21,43). Infine, la terza parla dei discepoli, e raffigura l’esecuzione della pena. Il culmine si ha con l’ammonizione alla comunità, su cui pende la possibilità di questo destino di condanna (22,11-14).

     La parte conclusiva (11-14) dove si parla dell’abito nuziale, che manca nel parallelo di Luca, costituiva forse originariamente una parabola autonoma, introdotta dal v. 2. Si evita con questa ipotesi l’incongruenza di pretendere che invitati improvvisati e casuali dovessero avere l’abito adatto (l’usanza di fornire l’abito agli ospiti non è attestata per i tempi di Gesù); inoltre si usano vocaboli diversi per indicare i «servi» (douloi, vv. 3-10; diakonoi, v. 13). Le due parabole — dell’invito rifiutato e dell’abito nuziale — sarebbero poi state unificate nella figura complessiva del «re» che prepara le «nozze» del «figlio»: diventa chiaro sia il riferimento al giudizio finale e all’età della salvezza (il banchetto del regno), sia al compimento in Gesù (il Figlio).

     I servi mandati a chiamare gli ospiti, specialmente per il secondo invito quando il banchetto è già pronto, sono per Matteo i discepoli che invitano nel nome di Gesù. Il rifiuto opposto dagli invitati è netto fin dal primo momento e senza scuse né motivi: «non volevano venire» (v. 3); solo in seguito si dice che, non essendo venuti, badavano ai propri affari.

     I vv. 6-7 mostrano un crescendo che aggrava in maniera quasi incomprensibile l’accaduto, e che manca nella versione lucana: alcuni uccidono i servi, il re fa uccidere gli assassini e addirittura incendiare la loro città (al singolare!). Subito dopo (senza citare «il re») giudica indegni i primi invitati e manda i servi a cercare altra gente. Si pensa che i vv. 6-7 siano un’interpolazione successiva, che risente dell’eco degli eventi del 70 d.C. e indica la persecuzione dei messaggeri di Gesù e il giudizio di Dio su Gerusalemme. Furono probabilmente aggiunti dopo l’unificazione delle due parabole; vi si parla infatti di un re, mentre la parabola degli invitati non fa pensare a un re che invita altri capi di città, ma semplicemente a un uomo ricco che invita suoi pari (cf. il parallelo di Luca).

     I servi escono infine a chiamare «cattivi e buoni» e la sala si riempie.

     La parabola dell’abito nuziale (vv. 2.11-14) qui inserita è un monito alla comunità. Essa indica il rifiuto di Gesù da parte di Israele, e avverte la comunità di non fare la stessa cosa. «Invitare» è detto con il verbo kaleô, che significa «chiamare»: è Dio che chiama alla salvezza.

     La parabola dell’abito mostra che i chiamati al banchetto del regno non possono restare come prima, ma assumono un nuovo modo di essere: il battezzato è un «uomo nuovo» (Col 3,10), «indossa Cristo» (Gal 3,27), come dice Paolo.

     Il finale (v. 14) mette in guardia dalla falsa sicurezza di chi pensa di avere già in tasca la salvezza: «chi è chiamato da Dio non può mai considerare questa vocazione un ‘possesso’ acquisito, ma deve viverla giorno per giorno» (Eduard SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 391). Non si può così ridurre il significato della parabola a una sostituzione della predicazione a Israele con la predicazione ai pagani: l’evangelista vuole ricordare ai discepoli di Gesù che l’accettazione dell’invito e il battesimo devono continuare a caratterizzare tutta la vita del cristiano, perché possa restare seduto al banchetto.

 

Meditazione

     La prospettiva escatologica traversa la prima lettura e il vangelo: Isaia intravede la fine della morte e Matteo il giudizio finale (soprattutto in Mt 22,13).

     Le immagini utilizzate per evocare l’evento finale, il Regno, l’atto con cui Dio mette fine alla storia compiendo la storia, sono umane, umanissime: banchetto e nozze. La realtà più divina è espressa con le immagini più umane: convivialità e nuzialità, cibo e eros.

     Sono immagini che al loro cuore hanno la relazione, l’incontro, l’amore, la celebrazione della vita attorno a una tavola e nell’abbraccio nuziale. La vita spirituale cristiana si realizza non con un distanziamento dall’umano, quasi che questa fosse la via per divenire più spirituali, ma come un fare ciò che Dio stesso ha fatto: divenire umani, assumere la propria umanità come compito da realizzare.

     L’immagine profetica del Dio che ammannisce un banchetto per tutti i popoli, preparando cibi succulenti e grasse vivande, rinvia all’amore di Dio per l’umanità. Preparare da mangiare per qualcuno significa amarlo, significa dirgli: «Io voglio che tu viva», «Io non voglio che tu muoia». Ma se il nostro cibarci ci fa vivere, ma non ci libera dal morire, Isaia aggiunge che Dio «eliminerà la morte», anzi, letteralmente, «divorerà la morte», «inghiottirà la morte» (Is 25,8). Il Dio che prepara da mangiare per tutti i popoli compie una promessa di vita per l’umanità intera, vita che sarà «per sempre» (Is 25,8). Il banchetto preparato dal Dio che divora la morte, un banchetto in cui il mangiare è anche una liberazione dalla morte, è simbolo di una realtà altra da quella terrena, una realtà in cui Dio regna, non l’uomo. Di questa realtà è figura e preannuncio l’eucaristia.

     La parabola evangelica è una sorta di visione teologica di una fase della storia della salvezza. Essa parla allegoricamente dell’evento pasquale messianico (le nozze del figlio del re: v. 2), del rifiuto opposto ai missionari cristiani da parte di Israele (gli invitati indifferenti o violenti fino all’omicidio: vv. 3-6), della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. (il re irato che fa perire gli uccisori e incendia la loro città: v. 7), dell’estensione della missione cristiana ai pagani (gli invitati che si trovano ai crocicchi delle vie: vv. 8-10), del giudizio che incombe sulla chiesa stessa e sui nuovi invitati (l’uomo che non ha l’abito nuziale: v. 11-13). La chiesa, come Israele, è situata nell’orizzonte del giudizio.

     La parabola è giocata sulla dialettica tra dono e responsabilità. L’invito è gratuito, ma impegna chi lo riceve e gli chiede di farsene rispondente. L’abito nuziale significa il prezzo della grazia. C’è una risposta che il chiamato è tenuto a dare all’invito gratuito, una sinergia in cui deve entrare. Molti sono gli ostacoli che l’uomo oppone alla chiamata. Anzitutto, la non volontà: «non volevano venire» (v. 3). Non basta essere invitati, occorre voler rispondere, mettere la propria volontà a servizio della chiamata. La trascuratezza e la superficialità di chi non stima adeguatamente il dono ricevuto, non ne coglie la preziosità e si rinchiude nei propri orizzonti ristretti, nei propri affari (v. 5). L’aggressività e la violenza di chi nell’invito rivolto o nel dono ricevuto vede solo l’intrusione, non la libertà e la liberalità, condannandosi alla reattività e alla ribellione. La non adesione di chi risponde all’invito senza corrispondervi in verità, senza lasciarsene mutare, senza entrare in una reale conversione (vv. 11-12).

     Uno dei nemici più insidiosi e diffusi della fede, più temibile anche dell’ateismo e dell’opposizione aperta, è l’indifferenza. Ben espressa nel v. 5 dal disinteresse, dal non far conto dell’invito ricevuto, dal non dargli alcun peso e dal preferirgli la routine quotidiana, le piccole occupazioni, i propri affari, il proprio interesse. L’indifferenza mette il credente in una crisi particolarmente acuta perché dice l’insignificanza e l’irrilevanza della vita di fede. Ma nella misura in cui il credente stesso cade nell’individualismo e nella gelosa difesa del proprio interesse e nel culto del profitto, anch’egli svuota la propria vita di fede, mostrando di non avere indossato l’abito nuziale.

 

Preghiere e racconti

Gustate tutti il banchetto della fede

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

La festa nel castello

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati.

Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: “Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”. Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “Un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!” Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.

Se siamo a volte scontenti del mondo, è perché troppi portano solo acqua, aspettando che siano gli altri a portare il vino.

L’abito nuziale

Il giorno in cui il re entra per vedere i commensali è il giorno del giudizio. Dio viene a visitare i cristiani che sono invitati alla tavola delle sacre Scritture. Essi sono tranquilli nella fede e prendono parte al banchetto degli insegnamenti celesti. Oppure è il giorno della prova. Il Signore si degna di mettere alla prova la sua Chiesa, per vedere chi ha la fede, chi presenta opere degne della chiamata del Cristo. L’abito nuziale è la vera fede, quella che passa attraverso Gesù Cristo e la sua santità. È di essa che parla l’apostolo: «Spogliatevi dell’uomo vecchio con le sue azioni» (Col 3,9)…

Chi vuole essere di Cristo faccia le opere di Cristo. Se non vuole fare le opere di Cristo, non venga al Cristo.

(Omelia greca anonima e incompleta del V secolo)

Il Re e la sua gente

II Re invitando al banchetto

persone di alto rango

fa loro l’onore di un messaggio

di suo pugno.

Siccome non si affrettano

il Re manda ancora a dire

non quale signore li onori

ma quali grandi pietanze.

Ora ognuno si inventa una scusa

uno va a vedere la sua terra

l’altro prova una coppia

di animali da tiro.

Strana scusa quando un Re

invita alla sua tavola

l’avere a che fare con la stalla

o con i propri trasporti.

Uno rifiuta per orgoglio

un altro per pigrizia

uno teme il rango dell’altezza

l’altro il suo buon piacere.

E dandosi l’aria

[di essere] al di sopra dell’invito

ciascuno sotto la sua maschera evita

l’occhio regale e chiaro

temendo che un così grande Signore

esiga che egli tolga

almeno il sudiciume delle sue colpe

per fargli onore.

Il Re ordina alla sua gente

di radunare in fretta

le prostitute all’angolo delle piazze

e gli indigenti

che seduti in cerchio a mensa

nessuna questione di precedenza

si tengono alla sua presenza

meglio di baroni.

(P. Emmanuel, Evangeliario)

Qual è l’abito di nozze?

Qual è l’abito di nozze? Eccolo: «Il fine del precetto è la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1 Tm 1,5).[…] Se non avrò la carità, anche distribuire elemosine ai poveri, giungere a confessare il nome di Cristo fino a versare il sangue, arrivare a subire il fuoco, tutto questo può essere fatto anche per amore della gloria, e allora è inutile. Poiché queste cose possono diventare inutili perché fatte per amore della gloria e non in virtù della carità colma dell’amore di Dio, l’apostolo Paolo le ricorda; ascoltale: «Se distribuissi tutti i miei beni ai poveri e consegnerò il mio corpo perché sia bruciato, ma non avrò la carità, non mi gioverà a nulla» (l Cor 13,3). Ecco l’abito di nozze! Interrogate voi stessi. Se lo avete, starete sicuri al banchetto del Signore. Nell’essere umano esistono due impulsi: la carità e il desiderio disordinato. Nasca in te la carità, se non è ancora nata; e se già è nata, venga allevata, nutrita, cresca. Il desiderio disordinato in questa vita non può essere eliminato del tutto «poiché se diremo di non avere peccati, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8); nella misura in cui vi è in noi il desiderio disordinato, non siamo senza peccato. Cresca allora la carità, diminuisca il desiderio disordinato affinché quella, cioè la carità, venga portata un giorno ad essere perfetta e il desiderio disordinato venga annientato. Indossate l’abito delle nozze, parlo a voi che non l’avete ancora. Già siete dentro la chiesa, già vi siete accostati al banchetto e non avete ancora l’abito da indossare in onore dello sposo, perché cercate ancora i vostri interessi e non quelli di Cristo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 90,6, NBA XXX/2, pp. 106-108).

 La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165, 167).

La vostra fede sia forte

La vostra fede sia forte;

non tentenni, non vacilli dinanzi ai dubbi,

alle incertezze che sistemi filosofici

o correnti di moda vorrebbero suggerirvi.

La vostra fede sia gioiosa,

perché basata sulla consapevolezza

di possedere un dono divino.

Quando pregate e dialogate con Dio

e quando vi intrattenete con gli uomini,

manifestate la letizia

di questo invidiabile possesso.

La vostra fede sia operosa;

si manifesti e si concretizzi

nella carità fattiva e generosa verso i fratelli

che vivono accasciati nella pena e nel bisogno;

si manifesti nella vostra serena adesione

all’insegnamento della Chiesa,

madre e maestra di verità;

si esprima nella vostra disponibilità

a tutte le iniziative di apostolato,

alle quali siete invitati a partecipare

per la dilatazione e la costruzione

del regno di Cristo.

(Giovanni Paolo II)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXVIII DOM TEMP ORDINARIO (A)

Ricostruire l’umanità della religione

L’orizzonte educativo dell’esperienza religiosa

Un libro per ripensare il senso della religione nella vita e nell’educazione. L’opera di José Luis Moral apre una nuova tappa nello studio del rapporto tra l’educazione e la religione – è più specificamente nella riflessione sull’«IRC – che porta avanti l’«Istituto di Catechetica» (Facoltà di Scienze dell’Educazione – Università Pontificia Salesiana di Roma). Si tratta di un primo passo, al quale seguirà una nuova pubblicazione: «Incontrare Gesù. L’orizzonte educativo dell’esperienza religiosa cristiana».

Leggere: («Introduzione» e «Sommario» del libro)

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