La scuola apre mente e cuore alla realtà

Convegno dal titolo “LA SCUOLA APRE MENTE E CUORE ALLA REALTÀ?” che si terrà il prossimo 15 novembre a Milano, presso la sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e in video collegamento in altre città italiane. Il Convegno desidera riprendere i contenuti che Papa Francesco ha consegnato al mondo della scuola il 10 maggio u.s. in piazza san Pietro e si rivolge a tutti coloro che a vario titolo operano nella scuola.
 

DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

Prima lettura: Ezechiele 47,1-2.8-9.12

In quei giorni, [un uomo, il cui aspetto era come di bronzo,] mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare. Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno, fino alla porta esterna rivolta a oriente, e vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro. Mi disse: «Queste acque scorrono verso la regione orientale, scendono nell’Àraba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. Lungo il torrente, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina».

 

I capitoli 40-48 del libro di Ezechiele contengono la dettagliata e pignola descrizione del nuovo tempio, con l’indicazione delle misure e dei particolari della costruzione. Alla base di questa sezione, la cui lettura è piuttosto ostica, ci sarebbe secondo gli studiosi un’esperienza estatica di visione che il profeta racconta nel testo originale (40,1-2; 43,4-7a; 47,1-12), cui si sono poi aggiunte le altre parti.

      Il profeta, condotto in estasi su un alto monte nella terra di Israele, vede la città santa e la gloria del Signore entrare nel tempio, che aveva abbandonato, per abitarvi per sempre. Il brano che oggi commentiamo descrive gli effetti vivificanti della presenza del Signore.

      vv. 1-2-La presenza del Signore è fonte di benedizione: ciò è espresso con il simbolo dell’acqua, che purifica, disseta e da vita; ha la sua sorgente alla base del tempio e fluisce verso oriente e verso sud, nella valle del Cedron. Siamo nel quadro dell’Alleanza, che prevede benedizioni e maledizioni; ma l’alleanza ormai è definitiva, non c’è più possibilità di violare il patto, e rimane solo la benedizione.

      vv. 3-6a – L’abbondanza inesauribile della benedizione è efficacemente descritta con l’azione dell’angelo misuratore, che di mille cubiti in mille cubiti misura il fiume verso mezzogiorno. Alla fine il fiume è così in piena che è impossibile attraversarlo a guado: questo è il segno della preponderante vittoria della grazia. L’angelo ne sottolinea il significato, invitando il profeta veggente a leggere e interpretare il segno: «hai visto, figlio dell’uomo?».

      vv. 6b-7 – L’attenzione del profeta si sposta ora dall’acqua alle rive del fiume, dove sono visibili le conseguenze di questa sovrabbondanza della grazia: la vegetazione è lussureggiante sulle due sponde. Le acque che sgorgano dal santuario, in cui abita il Dio vivente, portano ovunque la vita; al giardino di Eden irrigato dal fiume che si divide in quattro rami (cf. Gn 2,10-14) si sostituisce ora la terra d’Israele, irrigata dalla benedizione

di Dio.

      vv. 8-9 – Nella spiegazione dell’angelo c’è la vittoria totale sulla morte: il fiume raggiunge infatti il Mar Morto, in cui nessuna vita è possibile, e ne risana le acque. Una grande quantità di pesci vivrà in quel mare grazie al fiume di vita che giunge ad alimentarlo.

      v. 12-11 versetto conclusivo del discorso fatto dall’angelo al profeta riassume la visione escatologica del trionfo della vita. Gli alberi da frutto perenni, che fruttificano ogni mese, rappresentano l’inesauribilità della grazia, che tutto vivifica, tutto nutre, tutto guarisce: l’immagine tornerà nell’Apocalisse, dove le foglie risanano le nazioni, in una visione universalistica in cui Israele e le genti sono accomunate nella Gerusalemme celeste (cf. Ap 22,2).

Seconda lettura: 1 Corinzi 3,9c-11.16-17

Fratelli, voi siete edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. 

 

Nel cap. 3 della prima lettera ai Corinti Paolo riprende l’argomento delle fazioni in cui si era divisa la comunità, divisione da lui già stigmatizzata nel primo capitolo (cf. 1Cor 1,13). Paolo si rifà all’immagine dell’edificio, sia per sottolineare l’idea di unità e armonia, sia per ridimensionare l’azione dei costruttori rispetto alla solidità del fondamento, che è Cristo.

      vv. 9b-l 1 – La comunità credente è il campo che Dio rende fecondo, è l’edificio che in Dio ha la sua stabilità. Per questo campo, per questa costruzione, Dio vuole dei collaboratori, la cui efficacia dipende dalla grazia. Paolo si propone come uno di questi collaboratori, con il giusto orgoglio della sua missione («come un saggio architetto»), la fedele consapevolezza che tutto dipende dalla grazia («secondo la grazia di Dio che mi è stata data»), e l’umiltà di riconoscersi uno tra gli altri («un altro poi vi costruisce sopra»). L’incarico viene da Dio, l’opera dell’architetto quindi sarà sottoposta al suo giudizio. Paolo è tranquillo: a lui spettava gettare le basi della comunità, con il primo annuncio del Vangelo, ed egli sa di avere posto correttamente il fondamento in Cristo. Al tempo stesso egli lancia un ammonimento agli altri che costruiranno sopra: devono fare attenzione a non staccarsi dall’unico fondamento possibile, quello esistente, Gesù Cristo.

      vv. 16-17 – L’edificio che corrisponde alla comunità credente è un edificio sacro, e viene chiamato tempio, abitato dallo Spirito di Dio. La gloria di Dio che abitava nel tempio di Gerusalemme abita ora nella Chiesa e nel cristiano. La comunità è quindi il tempio sacro che non deve essere distrutto, pena la punizione divina: le fazioni nella comunità di Corinto mettono in pericolo la sacralità della Chiesa, e i cristiani devono rendersi conto di essere responsabili di ciò che avviene.

Vangelo: Giovanni 2,13-22 

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.  Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».  Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 

Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 

 

Esegesi 

     Dopo un’introduzione che precisa tempo e luogo dell’azione (v 13) il brano si suddivide in due parti, ciascuna delle quali si conclude con una riflessione teologica dell’evangelista: la cacciata dei mercanti dal tempio (vv. 14-17) e la disputa con i giudei a proposito del tempio (vv. 18-22).

      Gesù ha iniziato la sua attività pubblica compiendo a Cana il primo segno e, dopo un soggiorno a Cafarnao, si reca a Gerusalemme per la Pasqua, come si conviene a un ebreo osservante.

      v. 13 – Giovanni è molto preciso nei dettagli, anche nell’indicazione geografica: Gesù sale da Cafarnao a Gerusalemme, ci sono infatti circa 1000 metri di dislivello fra le due città. Questa è la prima Pasqua delle tre che Giovanni ricorda (cf. 6,4; 11,55), specificando sempre che si tratta della festività ebraica «dei giudei».

      vv. 14-16 – La cosiddetta «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano alla fine della vita pubblica, è narrata invece da Giovanni all’inizio, quasi a dare subito l’impronta al ministero di Gesù e alla novità da lui portata.

      I venditori di animali e i cambiavalute sostavano nel recinto del tempio, dove vi era anche l’atrio «dei pagani» in cui potevano entrare anche i non ebrei. Svolgevano un compito necessario per coloro che si recavano al tempio per la Pasqua: chi veniva da lontano non poteva portare con sé gli animali per il sacrificio, e doveva acquistarli in loco; era inoltre necessario cambiare le monete romane, che non potevano essere impiegate per pagare la tassa del tempio in quanto recavano incisa l’immagine dell’imperatore. La severità di Gesù appare quindi a prima vista eccessiva ma l’episodio ha un valore simbolico nel presentare Gesù come un profeta preoccupato della purezza e dell’autenticità della fede. Ai profeti infatti si ispira il detto di Gesù (cf. Mal 3,1-4; Zac 14,21; Is 56,7).

      v. 17 – Il commento dell’evangelista è una interpretazione dei gesti e delle parole di Gesù, che i discepoli possono comprendere alla luce della Scrittura. Il Sal 69,10 qui citato viene letto come una profezia della passione di Gesù.

      vv. 18-20 – La seconda parte del brano, che forse all’origine era indipendente dall’episodio appena narrato, riporta una delle tante dispute fra Gesù e i giudei. Per Giovanni, i «giudei» sono genericamente gli avversari che si rifiutano di credere in Gesù, senza che in questo ci sia alcuna nota di antisemitismo. Coloro che si chiudono alla fede cercano sempre dimostrazioni, prove, segni; di solito Gesù rifiuta di dare un segno, perché la richiesta non nasce dalla fede, ma è provocatoria e insincera.

      Qui invece risponde addirittura con una sfida, che suscita un misto di scandalo e derisione. Il logion «distruggete questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere» è riportato nei Sinottici come la motivazione immediata della condanna di Gesù. Qui sembra che i giudei non lo prendano tanto sul serio, reagiscono con una domanda scettica «questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». La frase di Gesù è pronunziata nello stile dei profeti, è un oracolo sul nuovo tempio dell’era messianica e insieme un annuncio della sua passione e risurrezione. I giudei, chiusi alla fede, fraintendono e non possono cogliere l’annuncio profetico.

      Abbiamo qui anche una precisazione cronologica importante: poiché si sa, da Giuseppe Flavio, che la costruzione del tempio fu iniziata da Erode il Grande nel 20-19 a.C., si può datare questo episodio al 28 d.C., che corrisponde al 15° anno di Tiberio (ricordato in Lc 3,1).

      v. 22 – Quello che i giudei non potevano capire è spiegato dall’evangelista: parlava del santuario del suo corpo. Ma anche i discepoli non sono in grado di capire subito: dopo la risurrezione, ricordando le parole di Gesù e la testimonianza della Scrittura, comprenderanno e crederanno.

Meditazione

     La chiusura del testo tratto da Ezechiele rivela l’origine eletta dell’acqua miracolosa che porta vita e guarigione ovunque arrivi, anche nel deserto. Da sempre l’acqua è vettore di vita, specie in terre assetate come il Medio Oriente. Ma per il sacerdote Ezechiele, partecipe della caduta di Gerusalemme e della parziale distruzione del tempio, tutto ciò che esce dal “santuario”, cioè dal tempio stesso, è riempito della grazia di Dio ed è portatore della sua feconda benedizione. Dal cap. 40 del proprio libro, il profeta sta descrivendo il nuovo tempio e l’ordinamento del nuovo culto, come unico oggetto della propria visione.

      Dopo la distruzione della città, non vi può essere autentico ristabilimento se non c’è una dimora dove YHWH possa abitare in mezzo al suo popolo. Per questo l’ultima visione di Ezechiele concerne proprio la casa di Dio nella città santa. L’acqua sovrabbondante che sgorga è simbolo della funzione perenne e indispensabile del santuario. In mezzo alla città è sorgente benefica, cui nessuna forma di aridità o morte può resistere.

      Ciò che il profeta vede accadere una sola volta è, in realtà, l’ordinario significato di quel miracolo di immanenza per la somma Trascendenza che è la casa del Signore fra la gente che egli ha eletto come suo popolo. Non a caso, proprio dalla soglia del “Santo”, ossia dell’area che precedeva e circondava il “Santo dei Santi” sgorgano acque che attraversano l’atrio interno a destra dell’altare dirigendosi verso est, verso le regioni più desertiche e, idealmente, verso l’origine della luce solare, altra potentissima metafora per indicare il Dio datore di vita.

      Il testo di Ezechiele si chiude con un’immagine di grande rigoglio vegetale ripresa poi da Apocalisse. Il v. 12, attraverso l’idea di una foresta sempreverde che non conosce caduta di foglie e non cessa di produrre frutti a ogni mese, ci riporta al salmo 1, dove lo stesso è affermato del giusto in ascolto della parola di Dio. Gli alberi che crescono lungo la riva del fiume rivelano così il loro pieno significato: un popolo nuovo, fecondato dalla presenza irrigante di YHWH e intriso di una vita non soggetta ai mutamenti ciclici della natura. Senza la presenza tangibile e constatabile di Dio non potrebbe esservi, per l’uomo, alcuna speranza di fertilità e fecondità quanto ai frutti di opere buone. Il tempio era il segno di questa tangibile e constatabile presenza.

      Il vangelo sembra muoversi in direzione contraria rispetto alla prima lettura. Ormai, da quanto racconta Giovanni, il santuario non è più sorgente di acqua viva ma appare piuttosto come uno stagno che imputridisce. La sensazione che proviamo guardando al forte gesto che Gesù compie è questa. L’episodio è tanto scandaloso quanto urtante. Non c’è passo nel vangelo in cui Gesù usi una violenza così esplicita. A ciò aggiungiamo il luogo sacro in cui il gesto viene compiuto. Dal racconto della passione sappiamo quanta parte ebbe la polemica diretta che il Nazareno sviluppò a più riprese contro l’istituzione più sacra del suo popolo. Eppure questa pagina posta nel quarto vangelo non alla fine del ministero pubblico, ma all’inizio come pagina programmatica, segna una svolta radicale nell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Ogni edificio sacro, da quel momento, non può che assumere una funzione relativa. Perde il proprio valore sacramentale assoluto e viene a indicare come segno colui che solo è sorgente di acqua viva. La Pasqua di Gesù costituisce un passaggio tale da condurre al tramonto alcune classiche pretese dell’uomo religioso. Luoghi, oggetti, riti e abitudini rischiano perennemente di sconfinare nella magia, come se ciò che è divino potesse, al di là del libero contributo dell’uomo, coprire ogni genere di ambiguità. La casa del Padre è divenuta un mercato. Non cessa di essere dimora di Dio. Ma non per questo è esente da quella caricatura grottesca che a volte l’uomo religioso sa realizzare della propria fede. Il luogo dell’invocazione e della supplica, il luogo della gioia e del dolore viene profanato in nome dell’unico vero idolo che guida cuori e coscienze: il commercio.

      Lo scambio vitale che avviene tra Dio e l’uomo, per cui la creatura si consegna nelle mani del proprio Signore, è ormai ridotto a scambio di merci e monete. Serve un nuovo tempio che nella propria struttura sia vero sacramento del rapporto tra Dio e l’uomo. Questo luogo è il corpo di Cristo, come dice Giovanni, distrutto e ricostruito come il tempio di Gerusalemme, ma non da mani d’uomo, come ricorda la lettera agli Ebrei. Quel corpo è sacerdote, vittima e altare.

      Tutto è concentrato in un volto e in un evento: la Pasqua. La morte e risurrezione di Gesù diviene il crogiolo che purifica il culto dell’uomo e la sua offerta sacra. Ciò che non sa morire per risorgere, ciò in cui non brilla la potenza della risurrezione non può più essere veicolo tra l’Altissimo e la sua creatura. Il cristiano è cultura della Pasqua o non è discepolo del Signore. Sappiamo quanto ancora oggi siamo esposti alle ambiguità che il culto sempre contiene in sé. La nostra presenza nella casa di Dio ancora può avere a che fare con il commercio.

Preghiere e racconti

La Basilica Lateranense

      Quando l’imperatore romano Costantino si convertì alla religione cristiana, verso il 312, donò al papa Milziade il palazzo del Laterano, che egli aveva fatto costruire sul Celio per sua moglie Fausta. Verso il 320, vi aggiunse una chiesa, la chiesa del Laterano, la prima, per data e per dignità, di tutte le chiese d’Occidente. Essa è ritenuta madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe.

   Consacrata dal papa Silvestro il 9 novembre 324, col nome di basilica del Santo Salvatore, essa fu la prima chiesa in assoluto ad essere pubblicamente consacrata. Nel corso del XII secolo, per via del suo battistero, che è il più antico di Roma, fu dedicata a san Giovanni Battista; donde la sua corrente denominazione di basilica di San Giovanni in Laterano. Per più di dieci secoli, i papi ebbero la loro residenza nelle sue vicinanze e fra le sue mura si tennero duecentocinquanta concili, di cui cinque ecumenici. Semidistrutta dagli incendi, dalle guerre e dall’abbandono, venne ricostruita sotto il pontificato di Benedetto XIII e venne di nuovo consacrata nel 1726.

    Basilica e cattedrale di Roma, la prima di tutte le chiese del mondo, essa è il primo segno esteriore e sensibile della vittoria della fede cristiana sul paganesimo occidentale. Durante l’era delle persecuzioni, che si estende ai primi tre secoli della storia della Chiesa, ogni manifestazione di fede si rivelava pericolosa e perciò i cristiani non potevano celebrare il loro Dio apertamente. Per tutti i cristiani reduci dalle “catacombe”, la basilica del Laterano fu il luogo dove potevano finalmente adorare e celebrare pubblicamente Cristo Salvatore. Quell’edificio di pietre, costruito per onorare il Salvatore del mondo, era il simbolo della vittoria, fino ad allora nascosta, della testimonianza dei numerosi martiri. Segno tangibile del tempio spirituale che è il cuore del cristiano, esorta a rendere gloria a colui che si è fatto carne e che, morto e risorto, vive nell’eternità.

   L’anniversario della sua dedicazione, celebrato originariamente solo a Roma, si commemora da tutte le comunità di rito romano.

   Questa festa deve far sì che si rinnovi in noi l’amore e l’attaccamento a Cristo e alla sua Chiesa. Il mistero di Cristo, venuto “non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47), deve infiammare i nostri cuori, e la testimonianza delle nostre vite dedicate completamente al servizio del Signore e dei nostri fratelli potrà ricordare al mondo la forza dell’amore di Dio, meglio di quanto lo possa fare un edificio in pietra.

“Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18) 

   Il Vangelo di questa terza domenica di Quaresima riferisce – nella redazione di san Giovanni – il celebre episodio di Gesù che scaccia dal tempio di Gerusalemme i venditori di animali e i cambiamonete (cfr Gv 2,13-25). Il fatto, riportato da tutti gli Evangelisti, avvenne in prossimità della festa di Pasqua e destò grande impressione sia nella folla, sia nei discepoli. Come dobbiamo interpretare questo gesto di Gesù? Anzitutto va notato che esso non provocò alcuna repressione dei tutori dell’ordine pubblico, perché fu visto come una tipica azione profetica: i profeti infatti, a nome di Dio, denunciavano spesso abusi, e lo facevano a volte con gesti simbolici. Il problema, semmai, era la loro autorità. Ecco perché i Giudei chiesero a Gesù: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18), dimostraci che agisci veramente a nome di Dio.

   La cacciata dei venditori dal tempio è stata anche interpretata in senso politico-rivoluzionario, collocando Gesù nella linea del movimento degli zeloti. Questi erano, appunto, “zelanti” per la legge di Dio e pronti ad usare la violenza per farla rispettare. Ai tempi di Gesù attendevano un Messia che liberasse Israele dal dominio dei Romani. Ma Gesù deluse questa attesa, tanto che alcuni discepoli lo abbandonarono e Giuda Iscariota addirittura lo tradì. In realtà, è impossibile interpretare Gesù come un violento: la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza.

   Ascoltiamo allora le parole che Gesù disse compiendo quel gesto: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. E i discepoli allora si ricordarono che sta scritto in un Salmo: “Mi divora lo zelo per la tua casa” (69,10). Questo salmo è un’invocazione di aiuto in una situazione di estremo pericolo a causa dell’odio dei nemici: la situazione che Gesù vivrà nella sua passione. Lo zelo per il Padre e per la sua casa lo porterà fino alla croce: il suo è lo zelo dell’amore che paga di persona, non quello che vorrebbe servire Dio mediante la violenza. Infatti il “segno” che Gesù darà come prova della sua autorità sarà proprio la sua morte e risurrezione. “Distruggete questo tempio – disse – e in tre giorni lo farò risorgere”. E san Giovanni annota: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,20-21). Con la Pasqua di Gesù inizia un nuovo culto, il culto dell’amore, e un nuovo tempio che è Lui stesso, Cristo risorto, mediante il quale ogni credente può adorare Dio Padre “in spirito e verità” (Gv 4,23).

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 11.03.2012).

Con il battesimo siamo tutti diventati tempio di Dio

      Con gioia e letizia celebriamo oggi, fratelli carissimi, il giorno natalizio di questa chiesa: ma il tempio vivo è vero di Dio dobbiamo esserlo noi. Questo è vero senza dubbio. Tuttavia i popoli cristiani usano celebrare la solennità della chiesa matrice, poiché sanno che è proprio in essa che sono rinati spiritualmente.

Per la prima nascita noi eravamo coppe dell’ira di Dio; secondo nascita ci ha resi calici del suo amore misericordioso. La prima nascita ci ha portati alla morte; la seconda ci ha richiamati alla vita. Prima del battesimo tutti noi eravamo, o carissimi, tempio del diavolo. Dopo il battesimo abbiamo meritato di diventare tempio di Cristo. Se riflettiamo un pò più attentamente sulla salvezza della nostra anima, non avremo difficoltà a comprendere che siamo il vero e vivo tempio di Dio.

      «Dio non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo» (At 17, 24), o in case fatte di legno e di pietra, ma soprattutto nell’anima creata a sua immagine per mano dello stesso Autore delle cose. Il grande apostolo Paolo ha detto: «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1 Cor 3, 17). Poiché Cristo con la sua venuta ha cacciato il diavolo dal nostro cuore per prepararsi un tempio dentro di noi, cerchiamo di fare, col suo aiuto, quanto è in nostro potere, perché questo tempio non abbia a subire alcun danno per le nostre cattive azioni. Chiunque si comporta male, fa ingiuria a Cristo. Prima che Cristo ci redimesse, come ho già detto, noi eravamo abitazione del diavolo. In seguito abbiamo meritato di diventare la casa di Dio, solo perché egli si è degnato di fare di noi la sua dimora.

      Se dunque, o carissimi, vogliamo celebrare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Parlerò in modo che tutti mi possano comprendere: tutte le volte che veniamo in chiesa, riordiniamo le nostre anime così come vorremmo trovare il tempio di Dio. Vuoi trovare una basilica tutta splendente? Non macchiare la tua anima con le sozzure del peccato. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fa’ piuttosto in modo che in essa, come dice il Signore, risplenda la luce delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli. Come tu entri in questa chiesa, così Dio vuole entrare nella tua anima. Lo ha affermato egli stesso quando ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò (cfr. Lv 26, 11.12).

(SAN CESARIO DI ARLES, in Disc. 229, 1-3; CCL 104,905-908).

Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù

    «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore. Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace. Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio. Esso è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non è concesso ai malvagi.

   Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto. Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.

    Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce discorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella. Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te. Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23). Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.

    Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato. Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te. Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.

    (Imitazione di Cristo)

Preghiera 

Ti ringrazio, Signore,

perché le nostre chiese

sono come grandi famiglie.

Fa’ che il tuo spirito di riconciliazione,

Signore,

soffi su tutta la terra.

Fa’ che i cristiani vivano il tuo amore.

Noi ti lodiamo, Signore,

con le cattedrali d’Europa

con le offerte dell’America

e coi nostri canti africani di lode.

Ti ringraziamo, Signore,

perché in tutto il mondo

abbiamo dei fratelli.

Sii con loro che costruiscono la pace.

(Preghiera dall’Africa occidentale)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXXII A DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE (A)

Acquisto

[IN ALLESTIMENTO]

ANNALE

Rassegna annuale di studi
di Catechetica e Pedagogia Religiosa

«Annale. Rassegna annuale di studi di Catechetica e di Pedagogia Religiosa»

consta di quattro sezioni:

  1. Rassegna delle Riviste.
  2. Pubblicazioni catechistiche.
  3. Documenti.
  4. Notizie ed Indici.

La prima sezione prende in considerazione una sessantina di riviste – pubblicate in 10 lingue diverse (ceco, croato, francese, inglese, italiano, olandese, polacco, portoghese, spagnolo e tedesco) – in un totale approssimativo di 300 articoli.

Nella seconda si presentano una trentina di libri, scelti tra le pubblicazioni catechistiche.

La terza e quarta sezioni, più brevi, raccolgono alcuni dei documenti catechistici più significativi di ogni anno e, infine, diverse notizie sulle riviste catechetiche e di pedagogia religiosa. Il tutto si chiude con i diversi indici: nomi, voci, riviste e indice generale.

Alcune delle riviste prese in considerazione: «Lumen Vitae», «Catechesi», «Catechetische Bläter», «Revista de Catequese», «Religious Education», «Journal of Religious Education», «Sinite», «Teología y catequesis», «Katecheta», «Itinerarium», «British Journal of Religious Education», «Insegnare Religione», «Note di Pastorale Giovanile», «Third Millennium», «Rivista Lasalliana», «Evangelizzare», «Catequética», «Kristu Jyoti», «Mission Today», «The Sower», «Zeitschrift für Pädagogik und Theologie», «Rivista di Scienze dell’Educazione», «Orientamenti Pedagogici», «Actualidad Catequética», «Misión Joven», «Medellín», «Cesty Katecheze», Religionspädagogische Beiträge».



“Ripensare la comunicazione”: convegno della FSC

La Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale in occasione del proprio XXV, annuncia il programma del Convegno che si terrà presso la propria sedevenerdì 14 e sabato 15 novembre 2014. Titolo del convegno è: “Ripensare la Comunicazione: le teorie, le tecniche, le didattiche“.

In occasione del Convegno l’UPS conferirà a padre Federico Lombardi, sj, Direttore della Sala Stampa Vaticana, ilDottorato honoris causa in Scienze della Comunicazione sociale corrispondente al suo più recente nuovo indirizzo, quello in Comunicazione Pastorale.
Il Convegno prenderà avvio venerdì 14 novembre alle ore 9 con i saluti del prof. Mauro Mantovani (Decano), di mons. Claudio Maria Celli (Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali) e del prof. Carlo Nanni (Rettore Magnifico). Il programma della mattinata proseguirà con la Tavola rotonda dal titolo “Ripensare la comunicazione” introdotta e coordinata dal prof. Fabio Pasqualetti (FSC), alla quale interverranno il prof. Pier Cesare Rivoltella (Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano), la prof.ssa Maria Antonia Chinello (Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”) e il prof. Franco Lever (FSC).
Nel pomeriggio, dalle ore 14.30 alle 16.30, si svolgeranno 4 sessioni parallele, con i seguenti interventi: Presenza e utilizzo delle nuove tecnologie e del web nel mondo ecclesialeprof.ssa Rita Marchetti (Università degli Studi di Perugia); Media, tablet e smartphone a scuola. Come utilizzarli dentro e fuori la scuolaprof. Davide Parmigiani(Università degli Studi di Genova); Gli sviluppi attuali degli studi di Comunicazione negli USAprof. John Wauck (Pontificia Università della Santa Croce); Didattica e comunicazione: un rapporto prospettico, ma complessoprof. Pier Giuseppe Rossi(Università degli Studi di Macerata); Formazione continua degli insegnanti aperta, online e accessibile a tuttiprof. Pierpaolo Limone (Università degli Studi di Foggia);Comunicare la Chiesa nella rete: principi formativi e linee di azioneprof. Daniel Arasa(Pontificia Università della Santa Croce); “Comunicare la pace”: un’indagine sulla presenza del tema in vari curricoli universitariprof. Peter Gonsalves (FSC); “Fare” la Radio all’Università: proposta per un percorso didattico per la Radio Web in Facoltà,prof. Cosimo Alvati (FSC).
La seconda parte del pomeriggio di venerdì 14 novembre sarà invece dedicata alConferimento del Dottorato honoris causa in Scienze della Comunicazione sociale, indirizzo Comunicazione Pastorale, a P. Federico Lombardi. Interverranno: don Ángel Fernández Artime (Rettor Maggiore dei Salesiani e Gran Cancelliere dell’UPS), mons. Domenico Pompili (Direttore dell’Ufficio Nazionale di Comunicazione Sociale della CEI),P. Antonio Spadaro (Direttore de La Civiltà Cattolica), prof. Cosimo Alvati (FSC). Il neodottore terrà la sua lectio magistralis e dopo cena (ore 21-22) è prevista una serata in suo onore, aperta a tutti.
Questo il Programma del Convegno per la mattinata di sabato 15 novembre 2014: ore 9.00 – 9.20, Video-interviste ai partecipanti; ore 9.20 – 9.45, La FSC oggi. Breve presentazione di Young4young, del “Progetto Baragli” e di alcuni dei più significativi progetti della Facoltà; ore 9.45 – 10.45: intervento del prof. Mario Morcellini (La Sapienza Università di Roma) su Le sfide e le prospettive attuali della comunicazione; ore 11 – 11.45, Dialogo con i partecipanti, moderato dal prof. Fabio Pasqualetti (FSC), e Saluti conclusivi del prof. Mauro Mantovani (Decano). Alle ore 12 sarà celebratal’Eucaristia, presieduta da don Filiberto González Plascencia (Consigliere Generale dei Salesiani per la Comunicazione Sociale).

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI

Prima lettura: Giobbe 19,1.23-27a

Rispondendo Giobbe prese a dire: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro». 

 

Nella struttura generale del libro di Giobbe il breve tratto della lettura appartiene ai dialoghi tra Giobbe e i suoi amici e forma una parte del sesto poema di Giobbe in cui egli esprime la fede nel Redentore.

     Queste parole, destinate ad essere incise sulla roccia, costituiscono uno dei vertici di tutto il libro. Giobbe esprime la speranza che contraddice tutto ciò che egli ha appreso di Dio come suo accusatore e nemico, e che appare qui quale speranza contro ogni speranza. Giobbe esprime la convinzione ferma, la fede che l’atto finale della dolorosa vicenda che sta sperimentando sarà l’incontro con Dio che starà dalla sua parte.

     Il pensiero è presentato in modo enigmatico con uno stile misterioso, caratteristico dello stile e del vocabolario profetico. Questo testo, che dal punto di vista della critica testuale, della grammatica, della sintassi è uno dei più difficili e oscuri dell’antico testamento, poiché in esso vari termini hanno polivalenza semantica, che può dare luogo a grande diversità di interpretazioni, è famoso nella letteratura religiosa come espressione di fede.

     Diamo alcuni cenni: «il mio redentore è vivo». Il termine redentore indica una situazione giuridica di Israele: essa stabiliva che un membro della famiglia o della tribù era obbligato a rivendicare il diritto di un suo congiunto, pagando una somma per liberare uno schiavo, riscattando un terreno in vendita, uccidendo l’omicida del parente, la legislazione antica non ammetteva compensazione. L’obbligo della vendetta si basava sul legame di solidarietà. Il termine «redentore-goel» fu applicato anche a Dio in quanto vendicatore e difensore del suo popolo, di tutti i suoi membri, specialmente dei piccoli e degli oppressi.

     Giobbe è convinto che Dio o un suo rappresentante gli restituirà i diritti che egli aveva per la sua vita innocente. Il redentore è vivo, cioè possiede la vita come proprietà essenziale, vive e vivrà anche quando Giobbe sarà morto e avrà l’ultima parola, chiuderà la discussione circa la consapevolezza di Giobbe della propria innocenza. Negli ultimi giorni tale redentore si ergerà per pronunciare la sentenza come giudice supremo, come difensore e salvatore. È l’espressione della fede nel Dio vivente che apparirà alla fine dei tempi, libererà dalla morte e manifesterà la sua giustizia. È, in Giobbe, l’attesa della teofania finale.

     L’espressione: «Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro», vera croce degli interpreti, descrivono l’atto decisivo dello sperato esaudimento della preghiera e della giustificazione: essa è come un incontro di Giobbe con Dio cioè una nuova conoscenza di Dio da parte di Giobbe. «Senza la mia carne, vedrò Dio » è affermazione che può avere significato cultuale, equivalente a visitare il tempio, può indicare una teofania o una esperienza del favore divino, il godimento della pienezza della vita nella gioia dell’esaudimento e del ringraziamento. Giobbe è convinto che Dio lo dichiarerà giusto e sarà pienamente riconciliato con lui.

     Riletto alla luce della rivelazione cristiana questo testo esprime la fede e speranza della gioia della vita con Dio nella esistenza risorta. Perciò è stato scelto come lettura per la commemorazione dei defunti.

 

Seconda lettura: Romani 5,5-11

Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

       A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.

 

Il brano della lettera appartiene alla sua prima parte, dottrinale in cui l’apostolo espone il tema della salvezza mediante la fede. Il testo partendo dal suo inizio che tratta della speranza e della carità, indica il fondamento della fede nella salvezza definitiva, che ancora non possediamo.                                                    

     La speranza e la carità: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).

     La speranza, che ha origine dalla prova vissuta dai credenti nelle sofferenze, non inganna, perché la certezza di trovarsi ora e per l’avvenire nelle mani di Dio è tale che si distingue radicalmente dalla certezza terrena: questa non è altro che una incertezza mitigata; la speranza invece si fonda sulla fede sicura, quella fede nella realtà inattesa dell’amore di Dio che determina il presente e l’avvenire dei credenti; tale amore di Dio è quello con cui Dio ci ama, e di cui è pegno lo Spirito Santo con la sua attiva presenza nei credenti; in lui Dio ci ama, noi amiamo Dio e amiamo anche i nostri fratelli con lo stesso amore con cui Dio Padre ama il suo Figlio e noi; lo Spirito santo è principio dello stesso amore con cui Dio Padre ama il suo Figlio e noi; lo Spirito santo è principio di vita nuova che Dio ci dona. Con lo Spirito santo Dio ci dona il suo amore per noi e rende possibile il nostro amore per lui e per i fratelli.

     «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-10).

     Si ha qui una argomentazione che è anche una spiegazione di quanto è stato detto nel v. 5 sull’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo. L’idea è questa: la speranza non inganna perché lo Spirito di Dio, dato da Dio, produce nei nostri cuori, con la fede, una sovrabbondante certezza di essere amati da Dio; l’amore di Dio si mostra paragonandolo con l’amore che si osserva nei rapporti umani. Ora, nei rapporti umani: «a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto: forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene», mentre «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori. Cristo è morto per noi». Tale argomentazione viene ripetuta sinteticamente: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita». Viene così introdotto l’inno finale.

     Dossologia: «Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione» (Rm 5,11).

     Ciò che è stato detto fin qui ci spinge a ringraziare calorosamente Dio fin da ora. Gloriarsi è un atto che se viene compiuto rettamente, equivale a gloriarsi di Dio, a riconoscere e lodare Dio come causa unica di ogni salvezza; tale vanto può esserci attribuito soltanto «per il Signore nostro Gesù Cristo», cioè attraverso la mediazione del Signore glorificato.

 

Vangelo: Giovanni 6,37-40

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

 

Esegesi

     La lettura evangelica si trova nel capitolo sesto del vangelo di Giovanni. Tale capitolo appare come un dramma in quattro atti. Il primo atto è costituito dal racconto della moltiplicazione del pane (Gv 6,1-15); il secondo dalla venuta di Gesù sulle acque del lago verso i suoi discepoli (Gv 6,16-21); il terzo è il discorso di rivelazione (Gv 6,22-59); il quarto, attraverso la ripresa del parlare di Gesù, presenta l’effetto del suo precedente discorso sugli ascoltatori (Gv 6,60-71). Ciascuna di queste parti può a sua volta venire suddivisa.

     L’articolazione del grande discorso Gv 6,22-58 che occupa il posto centrale nel capitolo si svolge in sette sezioni; la prima introduce l’intero discorso (Gv 6,22-25); la seconda esprime l’esigenza da parte di Gesù di una comprensione più profonda dell’evento della moltiplicazione del pane e manifesta la richiesta da parte dei Giudei di un segno (Gv 6,26-30); la terza è la rivelazione sul pane del cielo, con citazione della scrittura e la interpretazione da parte di Gesù (Gv 6,31-35); la quarta espone la necessità della fede nella rivelazione (Gv 6,36-40); la quinta descrive il mormorare dei Giudei e propone il discorso di Gesù sulla incredulità e sulla fede (Gv 6,41-47); la sesta presenta l’autorivelazione del Signore come pane della vita disceso dal cielo (Gv 6,48-51 ab); la settima contiene le parole sulla carne e sul sangue di Gesù e conclude il discorso (Gv 6,51c-59).

     In questa composizione la quarta sezione, centrale 6,36-40, che costituisce la lettura, presenta una concentrazione di temi sparsi nelle altre sezioni e può essere vista come punto di riferimento sintetico dell’intero discorso.

            «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,37-40).

     Dopo di aver rivelato se stesso come pane della vita disceso dal cielo. Il discorso continua descrivendo e svolgendo il mistero della salvezza nel rapporto tra se stesso, il Padre e gli uomini, che della salvezza sono i destinatari «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori» (6,37). Ecco il concetto di dono espresso con il verbo dare; tale verbo prima di rivelare il rapporto tra Dio Padre e gli uomini, tra Gesù e gli uomini, rivela il rapporto tra il Padre e il Figlio. Il dare del Padre a Gesù è totale e Gesù ne ha piena consapevolezza.

     Il primo dei doni del Padre al Figlio, quello che li inaugura, li preannuncia, li precontiene è il dono dello Spirito (1,32-33), che viene dato senza misura (3,34). I singoli doni sono realtà salvifiche: il dono di essere fonte della vita e di giudicare (5,26-27), il dono delle opere e dell’opera (5,35; 17,4) il dono del comandamento (12,49) e del calice (18,11); il dono di tutto ciò che Gesù chiede al Padre nella preghiera (11,22), infine il dono della gloria (17,24). Il dono più caratteristico del Padre al Figlio è costituito dalle persone da salvare (17,2.6.9.24; 18,11).

     Nel nostro testo l’espressione «tutto ciò che il Padre mi dà», indica gli uomini nell’aspetto di collettività: è l’immagine del gregge dei credenti. L’espressione: «colui che viene a me» è designazione di chi crede in Gesù. Il Signore descrive la propria azione nei confronti del credente in lui con una espressione negativa: «io non lo caccerò fuori»; cacciare indica una esclusione dolorosa di qualcuno da una comunità; Gesù accoglie chi crede in lui e lo salva.

     Gli aspetti positivi dell’accoglienza da parte di Gesù qui non sono esplicitati, essi saranno descritti nel discorso sul rapporto tra il pastore e le pecore e nella preghiera sacerdotale: quelli che vanno a Gesù sono infatti mossi verso il Figlio dal Padre; perciò il Figlio non li respinge ma li accoglie e li custodisce (17,6-15). Osserviamo in questa rivelazione l’uso di una terminologia di movimento spaziale: venire a me, gettare o cacciare fuori, allontanare. Il significato è sempre in relazione a Gesù. Gesù è il centro verso cui tutti devono convergere per ottenere la salvezza.

     Nel mezzo di tutto questo sviluppo sta l’affermazione: «sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (6,38). Vi è rivelata l’origine di Gesù come discesa dal cielo, vi è rivelato lo scopo di tale discesa attraverso la negazione della propria volontà e l’affermazione del compimento della volontà del Padre. Il verbo discendere nel vangelo ha come soggetti principali lo Spirito e Gesù; il cielo, da cui proviene il movimento significato dal verbo «discendere» designa l’ambito di Dio; infatti dopo la preghiera che Gesù rivolge a Dio: «Padre glorifica il tuo nome» (12,28) accade questa risposta: «Venne una voce dal cielo: l’ho glorificato e lo glorificherò di nuovo» (12,28). La voce dal cielo appartiene al Padre. All’inizio del vangelo Giovanni vede «lo spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su Gesù» (1,32-33). Tale provenienza dal cielo dello Spirito manifesta la sua origine dal Padre. Il medesimo verbo designa Gesù; anzitutto come Figlio dell’uomo (3,13), poi come pane vivente (6,33.41.50.51.58). In intimo legame con queste affermazioni su se stesso pane vivente sta la rivelazione assoluta: «Sono disceso dal cielo» (6,42). Il cielo indicando il luogo di origine di Gesù donde egli viene e anche il suo punto di arrivo dove egli va è la designazione concreta di Dio Padre. I due verbi correlativi: discendere-salire sono una forma di manifestazione del mistero del Signore. L’espressione «discendere dal cielo» usata da Gesù per sé rivela il mistero dell’incarnazione del Figlio. La discesa dal cielo di Gesù è il farsi uomo del Figlio di Dio, che in quanto Verbo del Padre, Parola di Dio, è il pane che nutre coloro che lo accolgono con fede.

     Lo scopo dell’incarnazione viene indicato in modo duplice: negando di «fare la mia volontà» e affermando di fare la volontà del Padre. Quale sia la volontà del Padre nel presente testo viene ora dichiarato nelle due affermazioni che seguono le quali si completano a vicenda.

     «E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,39-40).

     Dio vi è designato come «colui che mi ha mandato» (6,39) e come «il Padre mio» (6,40). Il verbo «mandare» per lo più ha come soggetto Dio Padre in relazione a Gesù; vi sono due appellativi di Dio, uno completo: «il Padre che mi ha mandato», l’altro che omette il nome Padre: «colui che mi ha mandato». Questa formula della missione rivela l’unione intima tra Gesù e il Padre che lo invia, unione che sta al di sopra di ogni immaginazione umana e mostra Gesù e il Padre collocati in parità nella stessa sfera divina.

     All’espressione negativa: «non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (6,39) corrisponde quella positiva: «chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40). Da parte di Gesù «non perdere nulla o nessuno» di quelli che il Padre gli ha dato significa in forma negativa, il valore positivo della salvezza esplicitato con il possesso della vita eterna in 6,40.

La formula «lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,39.40), che conclude ambedue i versetti in modo eguale, manifesta l’aspetto futuro della vita eterna, sono così significati i due momenti dell’escatologia, attualità della salvezza nel presente della vita, compimento e pienezza nel futuro, a partire dall’ultimo giorno.

     Tale è il contenuto della volontà del Padre rivelato qui da Gesù: la salvezza mediante la fede degli uomini nel Figlio, l’accoglienza da parte di Gesù dei credenti in lui, il dono della vita eterna, la risurrezione finale. Tutto questo implica per Gesù l’ora del sacrificio, implica di bere il calice doloroso della passione.

     Questo tratto di vangelo, letto nella commemorazione dei defunti, rivolge il pensiero di fede alla certezza della risurrezione già presente in questa vita con la fede in Gesù, e pienamente compiuta nella vita futura con la partecipazione alla gloria della sua risurrezione. 

                      Meditazione                     

     La speranza e l’invocazione di Giobbe di una comunione con Dio dopo la morte (prima lettura) trova eco nella promessa di Gesù di risuscitare coloro che il Padre gli ha affidato (vangelo). La stessa morte di Gesù, vivificata dall’amore di Dio, è stata fattore di riconciliazione, di vittoria sul peccato, di vittoria della vita sulla morte (seconda lettura).

     «Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura». La morte, ricorda Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E l’insicurezza produce la paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la lettera agli Ebrei, sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte (Eb 2,15). E sentendoci città senza mura, cerchiamo di costruirci protezioni e difese che, mentre vogliono preservarci da morte in realtà ci allontanano dalla vita. E tanta parte della nostra vita passa in questo inganno. Le parole di Gesù nel vangelo non invitano ad atteggiamenti difensivi e di paura, ma alla fede, ad affidarsi al Signore, a credere in lui. «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 6,40); e ancora: «Chi crede in me, fosse anche morto, vivrà» ( Gv 11,25); «Chi crede ha la vita eterna» ( Gv 6,47). La fede in Cristo è il luogo della resurrezione.

     Quando la nostra persona si decide a un affidamento al Signore senza riserve, senza nulla da difendere, senza mura e baluardi, allora essa abita lo spazio della resurrezione e conosce l’amore e la speranza, l’audacia e la libertà che Gesù stesso ha vissuto. E Gesù ha vissuto le sue relazioni con gli altri sotto il segno del dono del Padre e del suo personale affidamento al Padre che è divenuto la sua consegna ai fratelli: gli altri sono ciò che il Padre gli ha dato (Gv 6,37.39) e di cui lui assume la responsabilità fino in fondo (Gv 13,1). Affidandosi al Padre egli non respinge da sé chi viene a lui, non rigetta, non si difende dagli altri, ma accoglie. Vivendo il primato della fede nel Padre che l’ha mandato, Gesù vive non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre, che è volontà di vita piena per ogni uomo. Una vita così vissuta, è una vita che integra la morte e la trasforma in amore, che è forza di resurrezione. Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore è la forza della resurrezione.

     Non vi è solo la paura della morte che ci porta a difenderci, ma anche e soprattutto la paura della vita, delle perdite che il vivere comporta, dei confronti impietosi con gli altri che ci conducono a chiuderci in noi e a vivere nel risentimento, nel timore che gli altri ci possano sottrarre qualcosa. Aver fede in Gesù Cristo significa fare dell’amore il luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita, e anzitutto della vita degli altri. In tutto questo ci vengono in aiuto le esperienze di morte che la vita ci fa fare. L’esperienza del lutto segna lo scacco del narcisismo e rivela la vanità del perseguire la volontà propria, del costruire barriere per difenderci dalla morte che la vita ci potrebbe recare. E ci può aprire, con la sua muta lezione, all’unica cosa necessaria e vitale: credere l’amore, vivere l’amore, fare della vita un atto di amore.

     La logica della resurrezione, espressa nei termini di non perdere nulla e nessuno di quanto il Padre ha dato al Figlio (Gv 6,39), è la logica dell’amore. Quella logica che spesso non è nostra perché noi sappiamo perdere l’altro, le relazioni, i doni ricevuti.

     Una comunità cristiana è fatta anche di una memoria condivisa e le persone che sono morte e che abitano la memoria di ciascuno, e che ciascuno coglie oggettivamente nella fede nel Cristo morto e risorto e porta nell’eucaristia, chiedono di rendere sempre più armonici i rapporti tra le membra del corpo affinché sia l’agape la linfa vitale che percorre e unifica il corpo comunitario e sia la gratitudine l’alveo in cui essa vive. Allora potrà avvenire forse anche a noi di morire nella gratitudine e nella benedizione, dando sostanza cristiana alla bella e antica immagine formulata dall’imperatore filosofo: «L’oliva matura cade benedicendo la terra che l’ha portata in sé e rendendo grazie all’albero che l’ha fatta crescere» (Marco Aurelio).

Preghiere e racconti

La morte non è la conclusione, ma un passaggio

Non dobbiamo rattristarci perché il Signore ha chiamato i nostri fratelli liberandoli da questo mondo; sappiamo infatti che non sono perduti, ma che ci hanno preceduto come usano fare quelli che partono in viaggio per terra o per mare. Dobbiamo provarne nostalgia, non piangere né vestirci con abiti neri dal momento che quelli che sono morti già hanno ricevuto vesti bianche. Non dobbiamo offrire ai non credenti l’occasione di rimproverarci meritatamente, a buon diritto, perché piangiamo come scomparsi e perduti quelli di cui diciamo che vivono presso Dio e non confermiamo con la testimonianza dei sentimenti del nostro cuore quella fede che proferiamo a parole, con la nostra voce. Tradiamo la nostra speranza e la nostra fede; quel che diciamo risulta falsità, finzione, artificio. Non serve a niente mostrare la virtù a parole e con i fatti demolire la verità. […] La morte non è la conclusione, ma un passaggio, un cammino temporaneo verso le realtà eterne.

      Chi non si affretta verso il meglio? Chi non desidererebbe essere trasformato, conformato a Cristo e ammesso alla dignità della grazia celeste? L’apostolo Paolo proclama: «La nostra cittadinanza è nei cieli da dove aspettiamo anche il Signore nostro Gesù Cristo che trasfigurerà il nostro misero corpo conformandolo al suo corpo glorioso» (Fil 3,20-21). E il Signore Cristo promette che questo avverrà anche a noi quando prega il Padre per noi affinché siamo con lui e viviamo nella gioia con lui nelle dimore eterne e nei regni celesti: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano con me dove sarò io e vedano la gloria che mi hai dato prima che il mondo fosse» (Gv 17,24). Chi deve andare nella dimora di Cristo, alla gloria celeste del regno, non deve rattristarsi e piangere ma piuttosto, secondo la promessa del Signore, forte della sua fede nella verità, deve gioire della sua partenza e del suo transito.

(CIPRIANO DI CARTAGINE, La morte 20.22, CCL III A, pp. 27-29).

L’albero generoso

C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni.

Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arrampicava sul suo tronco e dondolava attaccalo ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti eppoi, insieme, giocavano a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all’ombra dell’albero, mentre le fronde gli cantavano la ninna-nanna.

Il bambino amava l’albero con tutto il suo piccolo cuore.

E l’albero era felice.

Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l’albero rimaneva spesso solo.

Un giorno il bambino venne a vedere l’albero e l’albero gli disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi sugli alberi e per giocare», disse il bambino, «io voglio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace, rispose l’albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio. e va’ a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice».

Allora il bambino si arrampicò sull’albero, raccolse tutti i frutti e li portò via.

E l’albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritornare… E l’albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l’albero tremò di gioia e disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampicarmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa.

Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa» disse l’albero. «La mia casa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e costruirti una casa. Allora sarai felice».

Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per costruirsi una casa. E l’albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando ritornò, l’albero era così felice che riusciva a malapena a parlare.

«Avvicinati, bambino mio», mormorò «vieni a giocare».

«Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare», disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l’albero. «Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una barca per fuggire. E l’albero fu felice… ma non del tutto.

Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l’albero «ma non resta più niente da donarti… Non ho più frutti».

«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.

«Non ho più rami», continuò l’albero «non puoi più dondolarti».

«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami»,disse il bambino.

«Non ho più il tronco», disse l’albero. «Non puoi più arrampicarti».

«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.

«Sono desolato», sospirò l’albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa… ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto…».

«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».

«Ebbene», disse l’albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuole per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».

Così fece il bambino.

E l’albero fu felice.

(Shel Silverstein)

La morte

Il grande esegeta Riesenfeld ha scritto: «Dobbiamo considerare la morte come un tutto suddiviso in diversi momenti; ciò che accade al termine della vita terrena non è che il compimento finale di quanto abbiamo già subito in parte al momento del battesimo. Così, quando un giorno dovremo morire, quel fatto non conterrà niente di veramente nuovo per noi. Per analogia con la vita eterna, la morte, sia quella che è dietro di noi che quella che aspettiamo, riceve la sua impronta da ciò che accade sul Golgota. La morte appare in tutto il suo orrore in quanto giudizio dell’esistenza umana decaduta (cfr. Gv 12,31). Ma proprio allora la morte cessa una volta per tutte di presentarsi come qualcosa di definitivo e senza speranza (cfr. 1 Cor 15,55)» 

Io sono la risurrezione

Trovare una nuova vita attraverso la sofferenza e la morte: è questo il cuore della buona notizia. Gesù ha vissuto questa via di liberazione prima di noi e ne ha fatto il grande segno. Gli esseri umani hanno sempre la smania di vedere segni: eventi meravigliosi, straordinari, sensazionali che li possano distrarre un poco dalla dura realtà… Ci piacerebbe vedere qualcosa di meraviglioso, di eccezionale, che interrompa la vita ordinaria di tutti i giorni. In questo modo, anche se per un solo momento, possiamo giocare a nascondino. Ma a coloro che dicono: «Signore… vorremmo che tu ci facessi vedere un segno», Gesù risponde: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Da tutto questo, si può vedere quale sia il segno autentico: non un miracolo sensazionale ma la sofferenza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù. Il grande segno, che può essere compreso solo da coloro che sono disposti a seguire Gesù, è il segno di Giona, il quale volle anche lui fuggire dalla realtà, ma fu richiamato indietro da Dio perché adempisse il suo arduo compito fino in fondo. Guardare la sofferenza e la morte dritto in faccia e attraversarle con la speranza di una nuova vita data da Dio: è questo il segno di Gesù e di ogni essere umano che desidera vivere una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: il segno della sofferenza e della morte, ma anche della speranza di un totale rinnovamento.

(H.J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 117).

L’amore di Dio è più forte della morte

Anche se Gesù ha contrastato direttamente l’inclinazione umana a evitare la sofferenza e la morte, i suoi discepoli si resero conto che era meglio vivere la verità con occhi aperti che non vivere la loro vita nell’illusione.

La sofferenza e la morte appartengono alla via stretta di Gesù. Gesù non le glorifica, né le dichiara belle, buone o qualcosa da desiderare. Gesù non chiama all’eroismo o al sacrificio suicida. No, Gesù ci invita a guardare la realtà della nostra esistenza, e ci rivela che questa dura realtà è la strada da percorrere per arrivare a una nuova vita. Il nucleo del messaggio di Gesù è che la gioia e la pace non si possono mai raggiungere aggirando la sofferenza e la morte, ma soltanto affrontandole con coraggio.

Potremmo dire che in realtà, non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Chi, infatti, sfugge alla sofferenza e alla morte? Eppure c’è ancora una scelta.

Possiamo negare la realtà della vita, o possiamo affrontarla. Se la affrontiamo non da disperati, ma con gli occhi di Gesù, scopriamo che dove meno ce l’aspettiamo, è nascosto qualcosa che sostiene una promessa più forte della morte stessa. Gesù ha vissuto la sua vita con la sicurezza che l’amore di Dio è più forte della morte e che la morte non ha, quindi, l’ultima parola. Egli ci invita ad affrontare la realtà dolorosa della nostra esistenza con la stessa fiducia.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 118).

Preghiera           

Vieni tu da me, Signore,

e allora io potrò venire da te.

Portami a te

e solo allora potrò seguirti.

Donami il tuo cuore

e solo così potrò amarti.

Dammi la tua vita

e allora potrò morire per te.

Prendi nella tua risurrezione

tutta la mia morte

e sii mio,Signore, sii mio

affinché io sia tua in eterno.

(Silja Walter)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 XXXI COMM. DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI (A)

TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».

E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.  Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

L’inizio del capitolo 7 dell’Apocalisse vuole rispondere all’angosciosa domanda: Chi potrà resistere alla nuova grande tribolazione? La risposta viene attraverso visioni, parole e gesti simbolici.

     In una prima visione (Ap 7,1-8) si vedono gli angeli che trattengono i venti sterminatori ai quattro angoli della terra mentre un angelo, che porta il sigillo del Dio vivente, grida di fermare ogni distruzione, finché non siano segnati sulla fronte «i servi del nostro Dio».

     Il numero dei segnati è di 144.000. Tale numero è il quadrato di dodici moltiplicato per mille. Esso simbolicamente indica la totalità di Israele rappresentato dalle sue dodici tribù, da ognuna delle quali provengono coloro che sono segnati col sigillo divino; esse non hanno più riscontro nella realtà storica, ma conservano un significato teologico (cf i nomi delle 12 tribù scritti sulle porte della Gerusalemme che scende dal cielo, Ap 22,12). Da notare che nella menzione delle tribù non viene nominata quella di Dan, ma, pur di far risultare il numero 12, si nomina quella di Manasse, uno dei due figli di Giuseppe, quindi già compresa nella sua tribù.

     I segnati non saranno esentati dalla tribolazione, ma avranno Dio vicino a loro che li aiuterà a superarla. Tale insegnamento vale non solo per i figli di Israele, ma anche per i cristiani che con il battesimo («sigillo» è uno dei nomi dato al battesimo nelle chiese primitive) sono fatti partecipi dell’elezione divina riservata ad Israele.

     Dopo la scena del sigillo del Dio vivente una nuova visione si apre con l’apparizione di «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9). Lo sguardo ora è proiettato dalla terra al cielo, che si apre per mostrare coloro che hanno ormai superato le afflizioni della vita e «stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello». «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide — dice paradossalmente l’immagine — nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14).

     Mentre l’aver lavato le vesti nel sangue dell’Agnello allude sia al martirio cristiano sia al battesimo, la grande tribolazione allarga lo sguardo a tutti coloro che sono vittime della violenza, guerra, fame, pestilenza, persecuzione di ogni tipo, tutti quanti, senza distinzione di nazione, razza, popolo e lingua formano la moltitudine dei beati apparsa in vesti bianche e con una palma in mano (Ap 7,9).

     La moltitudine e le altre creature celesti intonano inni di lode a Dio (Ap 7,10-12).

Questa visione di benessere si può considerare la risposta all’angosciosa domanda: «Fino a quando, o Signore, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra fili abitanti della terra?» (Ap 6,10).

     Il Salmo responsoriale (23-24) nei primi due versetti innalza un inno di lode al Dio creatore, lode che attesta la fede nel Dio creatore e salvatore e che attraversa tutta la Bibbia. La terra e l’universo non sono un ammasso caotico di cose e i loro abitanti non sono sottomessi al caso, ma vivono secondo un progetto divino.

     Dal versetto 3 al 7 entriamo in una scena liturgica: la domanda: «Chi salirà il monte del Signore?» esprime l’esigenza di alcune caratteristiche necessario prima di accedere al culto del Signore. La risposta: «Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna» rispecchia la convinzione che ci deve essere grande coerenza fra il culto e la vita, che deve essere condotta quotidianamente secondo le esigenze dei precetti divini. Solo con l’integrità della vita (cf Sal 15.1-2) e una coscienza limpida lontana da ogni ipocrisia (cf Is 33,15-16) Israele può rendere culto al «Dio di Giacobbe», nella speranza che «otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza» (Sal 23-24,7). Tali indicazioni valgono anche per i cristiani.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.     

 

Dio ci ha amato per primo in modo gratuito e smisurato tanto da considerarci realmente suoi figli (1 Gv 3,1.2). La figliolanza divina in Cristo per mezzo dello Spirito dei discepoli di Gesù è ricordata più volte nel Nuovo Testamento in particolare nelle lettere paoline (cf ad es. Gal 3,26,4,5-7; Rm 8,14-17; Ef 1,5).

     Possiamo scoprire più in profondità l’atteggiamento paterno di Dio studiando nella Bibbia il suo comportamento verso Israele «figlio primogenito» (Es 4,22, cf Dt 14,1). Dio si mostra al tempo stesso padre e madre di Israele, lo richiama con severità quando sbaglia, ma non si dimentica mai di lui e lo riaccoglie e lo consola dopo i castighi. Le pagine profetiche lo ricordano continuamente.

     Essere stati chiamati da Dio ad essere figli adottivi comporta anche per noi, come per Israele, il dovere di obbedire ai comandamenti divini (cf 1Gv 5,2). Per ora infatti siamo già figli di Dio, ma come saremo «non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). Per ora dobbiamo vivere nella speranza, e purificare noi stessi ad imitazione di Gesù, il perfetto imitatore del Padre.

 

Vangelo: Matteo 5,1-12a 

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

  

Esegesi 

     Il brano di Vangelo è l’inizio della sezione di Matteo, che si è soliti chiamare «Discorso della montagna». Questo titolo deriva dall’indicazione del primo versetto: «Gesù salì sul monte». L’evangelista annota che Gesù sale, seguito dai discepoli, perché aveva visto «le folle». Si tratta quindi di un discorso rivolto a tutti coloro che desiderano ascoltarlo, non riservato alla piccola cerchia dei discepoli, che vivevano con lui. Gesù, prende la parola per «ammaestrare» (didaskein). Egli viene presentato nello svolgimento del compito di un rabbi, un maestro (didaskalos), come in numerosi altri passi dei Vangeli, dove apertamente Gesù è chiamato maestro (in 12 passi solo in Matteo; rabbi è appellativo caro a Giovanni: 1,38.49;4,31;20,16). Gesù insegna rifacendosi alle Scritture, Torâh (Pentateuco) e Profeti, che venivano letti e commentati ogni sabato in sinagoga, dove Gesù, dice l’evangelista Matteo, era solito «insegnare» (Mt 4,23).

     La serie delle beatitudini si snoda dal versetto 3 al 10, come appare dalla identica promessa per la prima beatitudine e l’ultima: «il regno dei cieli», mentre i versetti 11-12 riprendono in una nuova forma il versetto 10; sono un caso particolare di persecuzione.

     I versetti 3-10 sono composti di due parti completamente simmetriche (3-6; 7-10), che in greco hanno persino lo stesso numero di parole. Questo ci dice che siamo di fronte ad un brano molto elaborato e ritenuto molto importante dal redattore.

     Tutte le beatitudini sono accomunate dalla proclamazione che coloro che sono nelle condizioni descritte: poveri di spirito, «piangenti», miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia sono già ora beati, ma al tempo stesso sono fatti oggetto di una promessa futura, che devono attendere con fiducia.

     Tutte le beatitudini sono legate dall’atteggiamento di coloro che vengono esaltati: l’attesa di Dio di cui parla la prima beatitudine. Sono persone che si affidano completamente a Dio, interiorizzano la sua legge e la mettono in pratica, consapevoli che non avranno gloria e potenza terrena, ma piuttosto dovranno attendere la sofferenza e la persecuzione. La loro speranza è solo nel Signore.

     Tutte le beatitudini hanno un senso messianico e alludono a Gesù come Messia nascosto e sofferente, come appare chiaro nell’ultima beatitudine quella dei perseguitati. Già da Is 53 era previsto che il Messia dovesse soffrire, e questa stessa attesa è presente ai tempi di Gesù (cf Mc 8,31 ss). Si sa che i «giusti» devono soffrire»: lo dicono i salmi, meditano su questo «scandalo» i libri sapienziali (Giobbe e Qoelet) e ne chiedono con forza spiegazione a Dio. Se gli umili aspettano la signoria di Dio, la sua consolazione, la sua giustizia (Mt 5.3.4.6), questo significa che essi sono costantemente perseguitati, proprio per il fatto che sono giusti. Il Messia non avrà un destino diverso dal loro. I giorni del Messia, dice una tradizione ebraica, già presente ai tempi di Gesù saranno preceduti da un periodo di gravissime sofferenze, simili al travaglio per il parto, dopo il quale si instaurerà la sovranità di Dio, che ora si nasconde in coloro che sono umanamente disprezzati.

     In questo quadro unitario delle beatitudini si possono inserire i numerosissimi spunti esegetici, presentati da ogni versetto. Ne propongo solo qualcuno: nella prima beatitudine Luca usa solo l’appellativo di poveri, Matteo specifica «poveri in spirito». Questa espressione è simile a Is 57,15: «Io che abito in alto e nel santuario e presso coloro che sono affranti e umili nello spirito». Si tratta, di una condizione sociale di povertà, a cui dai tempi del Deuteroisaia appartenevano i «pii», che non si erano prostituiti con l’idolatria o il sincretismo dei culti pagani, a cui invece avevano aderito in gran parte le classi più elevate e i sacerdoti stessi. I «pii» ed i «giusti», sono per la Bibbia, coloro che imitano Dio, che è vicino a coloro che sono «affranti e umili nello spirito».

     «Possederanno la terra» della terza beatitudine sottolinea che, anche se il compimento della promessa di felicità sarà in un mondo futuro, esso ha una sua manifestazione terrena a cui l’opera degli «umili perseguitati» da il suo contributo. L’attesa messianica, che percorre questo brano, non è pura passività, ma è tesa a dare forza all’impegno per la giustizia.

     Per approfondire l’allusione messianica delle beatitudini, oltre a Isaia 53, già citato, bisogna leggere i vv. 4.5.6 nell’orizzonte di Isaia 61, che allude al Messia consolatore di ogni afflizione umana e portatore di un rinnovamento di vita già possibile in questo mondo.

     La «misericordia» caratterizza il giudizio di Dio (Mt 5,7). Di fronte al tribunale di Dio, il maestoso, il santo, non vale altro che la sua misericordia; nessuno può vantare pretese davanti a lui. L’Antico Testamento è pervaso da questa idea e una tradizione ebraica dice che Dio al momento stesso della creazione si «è spostato dal trono della giustizia a quello della misericordia». Gli uomini e le donne devono imitare Dio ed usare misericordia fra loro. Chi non usa misericordia, non la trova nemmeno in Dio (cf Gc 2,13); lo indica chiaramente il «Padre nostro» (Mt 18,21).

     Usare misericordia è una caratteristica divina (Lc 6,36), perciò «beato chi usa misericordia»: egli ha qualcosa del comportamento di Dio. Così vengono descritte le opere di misericordia in Mt 25,34ss, dove gli operatori stessi sono all’oscuro della profondità del significato della loro buona azione.

     «Beati i perseguitati per la giustizia», nel contesto del Vangelo di Matteo fa pensare alla figura del Battista, invitato da Gesù prima del suo battesimo ad adempiere con lui «ogni giustizia» (cf Mt 4,12) e che, mentre Gesù sta parlando, è in prigione (cf Mt 4,12) per aver seguito la «via della giustizia (Mt 21,32), vale a dire la via del Signore, dato che tutte le vie del Signore «sono giustizia» (Dt 32,4).

Meditazione

     Il brano di Vangelo è l’inizio della sezione di Matteo, che si è soliti chiamare «Discorso della montagna». Questo titolo deriva dall’indicazione del primo versetto: «Gesù salì sul monte». L’evangelista annota che Gesù sale, seguito dai discepoli, perché aveva visto «le folle». Si tratta quindi di un discorso rivolto a tutti coloro che desiderano ascoltarlo, non riservato alla piccola cerchia dei discepoli, che vivevano con lui. Gesù, prende la parola per «ammaestrare» (didaskein). Egli viene presentato nello svolgimento del compito di un rabbi, un maestro (didaskalos), come in numerosi altri passi dei Vangeli, dove apertamente Gesù è chiamato maestro (in 12 passi solo in Matteo; rabbi è appellativo caro a Giovanni: 1,38.49;4,31;20,16). Gesù insegna rifacendosi alle Scritture, Torâh (Pentateuco) e Profeti, che venivano letti e commentati ogni sabato in sinagoga, dove Gesù, dice l’evangelista Matteo, era solito «insegnare» (Mt 4,23).

     La serie delle beatitudini si snoda dal versetto 3 al 10, come appare dalla identica promessa per la prima beatitudine e l’ultima: «il regno dei cieli», mentre i versetti 11-12 riprendono in una nuova forma il versetto 10; sono un caso particolare di persecuzione.

     I versetti 3-10 sono composti di due parti completamente simmetriche (3-6; 7-10), che in greco hanno persino lo stesso numero di parole. Questo ci dice che siamo di fronte ad un brano molto elaborato e ritenuto molto importante dal redattore.

     Tutte le beatitudini sono accomunate dalla proclamazione che coloro che sono nelle condizioni descritte: poveri di spirito, «piangenti», miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia sono già ora beati, ma al tempo stesso sono fatti oggetto di una promessa futura, che devono attendere con fiducia.

     Tutte le beatitudini sono legate dall’atteggiamento di coloro che vengono esaltati: l’attesa di Dio di cui parla la prima beatitudine. Sono persone che si affidano completamente a Dio, interiorizzano la sua legge e la mettono in pratica, consapevoli che non avranno gloria e potenza terrena, ma piuttosto dovranno attendere la sofferenza e la persecuzione. La loro speranza è solo nel Signore.

     Tutte le beatitudini hanno un senso messianico e alludono a Gesù come Messia nascosto e sofferente, come appare chiaro nell’ultima beatitudine quella dei perseguitati. Già da Is 53 era previsto che il Messia dovesse soffrire, e questa stessa attesa è presente ai tempi di Gesù (cf Mc 8,31 ss). Si sa che i «giusti» devono soffrire»: lo dicono i salmi, meditano su questo «scandalo» i libri sapienziali (Giobbe e Qoelet) e ne chiedono con forza spiegazione a Dio. Se gli umili aspettano la signoria di Dio, la sua consolazione, la sua giustizia (Mt 5.3.4.6), questo significa che essi sono costantemente perseguitati, proprio per il fatto che sono giusti. Il Messia non avrà un destino diverso dal loro. I giorni del Messia, dice una tradizione ebraica, già presente ai tempi di Gesù saranno preceduti da un periodo di gravissime sofferenze, simili al travaglio per il parto, dopo il quale si instaurerà la sovranità di Dio, che ora si nasconde in coloro che sono umanamente disprezzati.

     In questo quadro unitario delle beatitudini si possono inserire i numerosissimi spunti esegetici, presentati da ogni versetto. Ne propongo solo qualcuno: nella prima beatitudine Luca usa solo l’appellativo di poveri, Matteo specifica «poveri in spirito». Questa espressione è simile a Is 57,15: «Io che abito in alto e nel santuario e presso coloro che sono affranti e umili nello spirito». Si tratta, di una condizione sociale di povertà, a cui dai tempi del Deuteroisaia appartenevano i «pii», che non si erano prostituiti con l’idolatria o il sincretismo dei culti pagani, a cui invece avevano aderito in gran parte le classi più elevate e i sacerdoti stessi. I «pii» ed i «giusti», sono per la Bibbia, coloro che imitano Dio, che è vicino a coloro che sono «affranti e umili nello spirito».

     «Possederanno la terra» della terza beatitudine sottolinea che, anche se il compimento della promessa di felicità sarà in un mondo futuro, esso ha una sua manifestazione terrena a cui l’opera degli «umili perseguitati» da il suo contributo. L’attesa messianica, che percorre questo brano, non è pura passività, ma è tesa a dare forza all’impegno per la giustizia.

     Per approfondire l’allusione messianica delle beatitudini, oltre a Isaia 53, già citato, bisogna leggere i vv. 4.5.6 nell’orizzonte di Isaia 61, che allude al Messia consolatore di ogni afflizione umana e portatore di un rinnovamento di vita già possibile in questo mondo.

     La «misericordia» caratterizza il giudizio di Dio (Mt 5,7). Di fronte al tribunale di Dio, il maestoso, il santo, non vale altro che la sua misericordia; nessuno può vantare pretese davanti a lui. L’Antico Testamento è pervaso da questa idea e una tradizione ebraica dice che Dio al momento stesso della creazione si «è spostato dal trono della giustizia a quello della misericordia». Gli uomini e le donne devono imitare Dio ed usare misericordia fra loro. Chi non usa misericordia, non la trova nemmeno in Dio (cf Gc 2,13); lo indica chiaramente il «Padre nostro» (Mt 18,21).

     Usare misericordia è una caratteristica divina (Lc 6,36), perciò «beato chi usa misericordia»: egli ha qualcosa del comportamento di Dio. Così vengono descritte le opere di misericordia in Mt 25,34ss, dove gli operatori stessi sono all’oscuro della profondità del significato della loro buona azione.

     «Beati i perseguitati per la giustizia», nel contesto del Vangelo di Matteo fa pensare alla figura del Battista, invitato da Gesù prima del suo battesimo ad adempiere con lui «ogni giustizia» (cf Mt 4,12) e che, mentre Gesù sta parlando, è in prigione (cf Mt 4,12) per aver seguito la «via della giustizia (Mt 21,32), vale a dire la via del Signore, dato che tutte le vie del Signore «sono giustizia» (Dt 32,4).

Preghiere e racconti

Un cuore puro

 “Ah, frate Leone, credimi  riprende Francesco  non preoccuparti tanto della purezza della tua anima. Volgi il tuo sguardo a Dio, ammiralo, gioisci di ciò che è nella sua santità; ringrazialo perché esiste. Questo significa, o mio giovane fratello, avere un cuore puro. E quando guardi a Dio in questo modo, non far più ritorno a te stesso, non chiederti più a che punto è il tuo rapporto con Dio. La tristezza di non essere perfetto e di scoprirsi peccatore è ancora un sentimento umano, troppo umano. Bisogna puntare lo sguardo più in alto, sempre più in alto; c’è Dio, ci sono l’immensità di Dio ed il suo inalterabile splendore. Il cuore puro è quello che non smette mai di adorare il Dio vivente e vero, che si interessa in modo profondo alla vita stessa di Dio e che è in grado, in mezzo a tutte le sue miserie, di vibrare dinanzi all’eterna innocenza e all’eterna gioia di Dio. Un cuore così è allo stesso tempo nudo e vestito: gli basta che Dio sia Dio. In questo soltanto trova tutta la sua pace, tutta la sua santità”.

“Dio però pretende da noi sforzi e fedeltà”, fa notare frate Leone.

“Sì, indubbiamente” replica Francesco; “ma la santità non è una realizzazione di sé e neppure una pienezza che ci si offre. È innanzitutto un vuoto che scopriamo e che accettiamo e che Dio viene a riempire nella misura in cui ci apriamo alla sua pienezza. Vedi, il nostro nulla, se lo accettiamo, diventa lo spazio libero in cui Dio può ancora creare. Il Signore non permette a nessuno di rubargli la gloria: egli è il Signore, l’Unico, il solo che è santo. Eppure prende per mano il povero, lo tira fuori dal fango e lo fa sedere tra i principi del suo popolo perché osservi la Sua gloria. Dio diventa così il cielo della sua anima. Contemplare la gloria di Dio, fra’ Leone, scoprire che Dio è Dio, eternamente Dio, al di là di quello che siamo o che possiamo essere, gioire pienamente di ciò che è, estasiarsi di fronte alla sua eterna giovinezza e ringraziarlo perché esiste, perché è infallibile nella sua misericordia: questa è l’esigenza più profonda di quell’amore che lo Spirito del Signore non smette mai di diffondere nei nostri cuori. Questo vuol dire avere un cuore puro. Ma tutta questa purezza non si raggiunge attraverso sforzi e sacrifici.”

“Come, allora?” chiede Leone.

“Bisogna semplicemente rinunciare a tutto di sé. Spazzare via ogni cosa, anche la stessa acuta percezione della nostra miseria. Fare tabula rasa, accettare di essere poveri, rinunciare a tutto ciò che è pesante, al peso stesso dei nostri errori. Vedere soltanto la gloria del Signore, lasciarsene irradiare. Dio è: questo basta. Il cuore diventa allora leggero, si sente diverso, come una rondine persa nello spazio immenso ed azzurro. È libero da ogni preoccupazione, da ogni inquietudine; il suo desiderio di perfezione è diventato pura e semplice volontà di Dio”.

(Eligio Leclerc, Sapienza di un povero, Bibl. Francescana, MI ’82).

Beato il popolo il cui Dio è il Signore

«Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3). Riconosco qui il segno distintivo, ben noto e glorioso, che il Figlio dell’uomo aveva rivelato prima di nascere nella carne per farsi riconoscere; quel segno che egli ci insegnò, una volta nato, ma ancora sconosciuto, a vedere applicato a lui. Dice: «Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha mandato ad annunciare l’evangelo ai poveri» (Lc 4,18; Is 61,1). Ecco che i poveri sono evangelizzati, ecco che l’evangelo del Regno è annunciato ai poveri: «Beati i poveri in spirito, perché è loro il regno dei cieli» (Mt 5,3). Beato inizio, colmo di una grazia nuova, del Nuovo Testamento: impegna l’uomo, anche il più infedele e il più pigro ad ascoltare e, più ancora, a darsi da fare, perché la beatitudine è promessa ai miseri, il regno dei cieli agli esiliati e ai bisognosi. […] A ragione il Signore, proclamando la beatitudine dei poveri, non dice: «Sarà loro il regno dei cieli», ma: «È loro». È loro non soltanto in forza di un diritto fermamente stabilito, ma anche perché ne possiedono una caparra sicura e ne fanno un ottimo uso; non soltanto perché questo regno è stato preparato per loro fin dalla fondazione del mondo (cfr. Mt 25,34), ma perché hanno già cominciato a entrare, in certa misura, in suo possesso, dal momento che portano già il tesoro celeste in vasi d’argilla (cfr. 2Cor 4,7), poiché hanno già Dio nel loro corpo e nel loro cuore (cfr. 1Cor 6,20). «Beato il popolo il cui Dio è il Signore» (Sal 32 [33], 12). Come sono vicini al regno quelli che già possiedono nel loro cuore questo Re di cui si è detto che servirlo è regnare. «Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, è magnifica la mia eredità» (Sal 15 [16], 6). Altri litighino per dividersi l’eredità di questo mondo; il Signore è la porzione della mia eredità e del mio calice (cfr. ibi 5). Combattano tra di loro, facciano a gara nell’essere i più miserabili; io non invidio loro nulla di tutto ciò che cercano. Io e l’anima mia avremo la nostra gioia nel Signore (cfr. Sal 103 [104], 34). O gloriosa eredità dei poveri! O beata ricchezza di quelli che non hanno nulla! Non soltanto tu ci doni tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma ci colmi anche di ogni gioia, poiché tu sei la misura sovrabbondante versata nel nostro seno.

(GUERRIC D’IGNY, Omelia per la festa di tutti i santi 1.6, SC 202, pp. 498; 510-512)

Tutti i santi

La Colletta della messa di questo giorno si rivolge al Signore chiedendogli «l’abbondanza della tua misericordia»: è questa la fonte della santificazione dell’uomo: la misericordia di Dio. La festa di tutti i santi è la celebrazione della vittoria della misericordia di Dio sul peccato e sulla debolezza dell’uomo. Le letture bibliche consentono di contemplare i santi del cielo, della prima e della nuova alleanza, riuniti attorno al Dio tre volte santo e all’Agnello, il Santo di Dio (Apocalisse). Esse si rivolgono anche ai santi della terra, i cristiani, chiamati a divenire ciò che sono vivendo in Cristo la loro figliolanza divina, e indicano la via della santificazione: fissare la speranza in Cristo (seconda lettura), vivere lo spirito delle beatitudini che è lo spirito di Gesù stesso mite, povero in spirito, misericordioso, operatore di pace (vangelo) . La santità è un cammino, non uno stato: sequela dell’Agnello (prima lettura), tensione dinamica tra ciò che siamo e ciò che saremo (I Gv), cammino quotidiano in cui sperimentare la comunione con Cristo, e dunque la beatitudine, anche nelle difficoltà (vangelo).

La comunione dei santi oggi celebrata ricorda ai cristiani che la santità ha una dimensione comunionale e comunitaria. Nel Nuovo Testamento «santi» è il nome dei cristiani chiamati a formare un solo corpo in Cristo separandosi dagli idoli, dalla mondanità (e separazione è il senso etimologico di santità), ed è dunque come corpo che essi devono narrare e testimoniare la santità. La luce della santità si riflette nella koinonía, nella comunione, cioè nella qualità dei rapporti che attraversano la comunità cristiana e che essa intrattiene con tutti gli uomini e le realtà storielle, che deve emergere. Questo è tanto più importante se si pensa che la tradizione occidentale ha individualizzato e moralizzato la santità.

Per la rivelazione cristiana, invece, il santo è l’uomo che, per grazia, riflette nella sua vita e nelle sue relazioni la luce di Dio, manifestatasi sul volto di Cristo e comunicata dallo Spirito santo.

«Nella vita dei nostri compagni di umanità più perfettamente trasformati a immagine di Cristo, Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In essi Dio stesso ci parla, ci dà un segno del suo regno, ci attira a sé con forza» (Lumen Gentium 50). I santi sono nostri fratelli in umanità, segnati anch’essa come noi, da fragilità e vulnerabilità: non dei senza-peccato, ma dei credenti nella misericordia di Dio più forte della loro pur potente debolezza. Si tratta dunque di essere umanamente santi, somigliantissimi a Colui che nella sua umanità ha narrato pienamente il volto di Dio. Non silhouette spirituali o anime devote e pie, ma uomini che con l’umile risolutezza che viene dalla consapevole accoglienza del dono di grazia, vivono la loro umanità in Cristo: questi i santi!

E se il testo evangelico suggerisce di declinare la santità come beatitudine, questa beatitudine non elimina ma suppone la sofferenza e la tribolazione. Afflitti, perseguitati, tribolati, i santi non solo sono vulnerabili, ma sono realmente vulnerati, feriti, e tuttavia «hanno trovato forza dalla loro debolezza» (cfr. Eb 11,34).

Ostacolo alla santità non è la debolezza in quanto tale, ma il negarla: assumendola di fronte al Signore santo e misericordioso, essa può divenire fortezza. La fortezza cristiana suppone la vulnerabilità. Al cuore di questa trasfigurazione della debolezza in forza vi è la fede che porta a vivere contraddizioni e prove come occasione di sequela dell’Agnello.

La prima portata delle beatitudini è cristologica: ciò che le beatitudini attribuiscono a uomini, in verità è ciò che è stato vissuto da Cristo e da lui, grazie allo Spirito che agisce nel credente, è comunicato agli uomini. Esse dunque non predicano rassegnazione, ma suscitano una speranza: le situazioni di afflizione e persecuzione non hanno l’ultima parola, non chiudono inesorabilmente l’uomo nel suo presente di miseria, ma gli aprono un futuro che incide profondamente sull’oggi.

Mirabile è Dio nei suoi santi

II profeta salmista dice: «Mirabile è Dio nei suoi santi», e aggiunge: «Egli darà potenza e forza al suo popolo» (Sal 68,36). Riflettete con la vostra intelligenza sulla potenza delle parole profetiche: a tutto il popolo – dice – Dio darà potenza e forza. Dio non fa preferenze di persona, ma è magnificato soltanto nei suoi santi. Come infatti il sole dall’alto doviziosamente effonde su tutti i suoi raggi, ma li vedono soltanto coloro che hanno occhi, e occhi non chiusi, e dalla luce pura godono coloro che, per la purezza dei loro occhi, hanno uno sguardo acuto, non indebolito dalla malattia, dall’offuscamento o da qualche male simile che abbia offeso i loro occhi, così dall’alto dei cieli Dio distribuisce a tutti la ricchezza del suo aiuto. Egli, infatti, è fonte di salvezza e di luce, da cui sgorgano misericordia e bontà. Non tutti indistintamente usufruiscono della grazia e della potenza che viene da là per ottenere forza e perfezione nella virtù e capacità di operare miracoli, ma coloro che hanno scelto il bene, e attraverso le loro opere danno prova di amore e di fede in Dio. Essi si sono allontanati completamente dalle vanità, si attengono fermamente ai comandi di Dio, con l’occhio della mente fisso sul sole di giustizia (cfr. Mt 3,20; Lc 1,78), Cristo.

Egli non solo invisibilmente tende dall’alto la sua mano salvatrice, ma rivolgendosi oggi a noi, dice: «Chi dunque avrà dichiarato di credere in me davanti agli uomini, anch’io dichiarerò di credere in lui davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32). Vi rendete conto che noi non siamo in grado di dichiarare con franchezza la nostra fede in Cristo senza la forza e la potenza che da lui proviene e che il nostro Signore Gesù Cristo non potrà parlare con franchezza di noi nel secolo futuro e non potrà presentarci e introdurci nella familiarità col Padre suo altissimo, senza che noi gliene diamo la possibilità? Volendo chiarire questo, non disse: Chi dunque dichiarerà di credere davanti agli uomini, ma: «Chi dunque avrà dichiarato di credere in me»; poiché soltanto in lui e con il suo aiuto è possibile dimostrare sinceramente la propria fede. E così ancora: «Anch’io dichiarerò di credere in lui»; e non ha detto: a lui, ma: «in lui», cioè attraverso la buona disposizione e la fermezza di colui che lo riconosce, di cui questi ha dato prova a motivo della sua fede […]. La chiesa di Cristo, onorando anche dopo la morte coloro che sono vissuti secondo Dio, ogni giorno dell’anno fa memoria dei santi che in quel giorno sono migrati da qui e da questa vita mortale, e propone ad esempio, per il nostro bene, la vita di ciascuno di essi e la loro fine, sia che si siano addormentati in pace, sia che abbiano concluso la loro vita col martirio […]. Vi prego, fratelli, presentiamo anche noi i nostri corpi e le nostre anime in modo che siano graditi a Dio, in questo giorno di festa, affinché, per intercessione dei santi, possiamo anche noi essere partecipi di quella festa e di quella gioia senza fine.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 25, PG 151,321B-324A; 329A; 332B).

Nella vita ordinaria

Che la tua vita non sia una vita sterile.

Sii utile.

Lascia traccia.

Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore.

Cancella, con la tua vita di apostolo l’impronta viscida e sudicia che i seminatori impuri dell’odio hanno lasciato.

E incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore…

Non vi è altra strada, figli miei:

o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai.

(J. Escrivà)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

TUTTI I SANTI 

La nuova sfida educativa è l’essere generativi

La relazione di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti inaugura il nuovo anno accademico all’Università Salesiana di Roma. Generatività, alterità e educazione, le parole chiave del loro discorso rivolto a studenti e docentiE’ la prima volta che il neo rettor maggiore dei salesiani Ángel Fernández Artime inaugura l’anno accademico dell’Università Pontificia Salesiana di Roma di cui ne è pure gran cancelliere. Un anno ricco di avvenimenti per l’ateneo salesiano che lo scorso 16 Agosto ha aperto i festeggiamenti per il bicentenario di San Giovanni Bosco e i settantacinque anni dalla fondazione della stessa università.

Quest’anno a tenere la prolusione ufficiale è stata eccezionalmente una coppia di sposi, genitori di sei figli ed entrambi docenti presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (una scelta non indifferente a conclusione di un cruciale Sinodo straordinario sulla famiglia). Chiara Giaccardi, sociologa e docente ordinario di media research e Mauro Magatti docente ordinario di sociologia della religione. Entrambi hanno riflettuto sul significato di “Generatività” anche alla luce della loro ultima pubblicazione intitolata “Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi“ (Feltrinelli, 2014).

La generatività nasce dall’ascolto. «La generatività è un incontro di idee – spiega Giaccardi – la capacità di leggere la realtà e gli stessi segni dei tempi ascoltando l’altro. Un ascolto che deve diventare il punto di partenza dell’azione educativa. L’alterità con la quale tutti i giorni ci incontriamo e ci scontriamo provoca un movimento di apertura e da questo scombussolamento si crea generatività. Questa parola ha la stessa radice di genio, generoso, radice ed indica la capacità di fare essere qualcosa avendo ascoltato e legato».

Dall’ipersoggettivismo all’”ecologia del cognitivo”. «Nella cultura contemporanea – aggiunge Magatti – abbiamo imparato che non esiste realtà senza soggetto ma abbiamo anche ridotto ogni forma di alterità di questa stessa realtà: l’abbiamo ridotta al nostro punto di vista tralasciando la dimensione collettiva e rendendola sempre più soggettiva, comoda a noi stessi: quell’ipersoggettivismo che non accumula niente. Abbiamo, invece, bisogno di una “ecologia del cognitivo”, ovvero il cercare di riflettere rispetto alla cultura contemporanea, come possiamo tornare e interpretare questa relazionalità senza temerla. Il filosofo Panikkar ci suggerisce una visione della realtà “cosmoteandrica”, ovvero inglobante tre aspetti. Il primo è il cosmo (la relazionalità con la natura e tutto ciò che ci circonda), il secondo è il Theós (il nostro rapporto con Dio e per i non credenti con il mistero) ed infine il terzo, andrica (la nostra relazione sociale con gli altri uomini). Ripartiamo, dunque, ristrutturando il nostro concetto di realtà, con la natura con Dio e con l’altro».

L’educazione è un’alleanza che deve coinvolgere. «Da docenti ma soprattutto da genitori – continua la Giaccardi – sappiamo che “educazione” è una parola che non ha nulla a che fare con il fornire risposte alla domande ma col tenerle vive le domande, tenere viva la curiosità e far gustare il bello. Troppo spesso siamo intrappolati in un modello educativo che si struttura come trasmissione ma l’educazione non è altro che un incontro tra alterità, un incontro nel quale si costruisce qualcosa di nuovo attraverso la relazione. L’educazione è un’alleanza in cui si genere qualcosa di nuovo e in cui tutti cambiano, sia l’educatore che l’educando. L’educazione non può non coinvolgere, nessuno in questa alleanza è soltanto spettatore».

L’opportunità del rafting generativo. «Tutti certamente conosciamo la visione di Bauman sulla modernità liquida – afferma Magatti. Viviamo in una società sempre in movimento, di un’esperienza che continua cambia e con essa cambia anche la vita. Non ha senso dunque avere nostalgia di una società solida perché forse un mondo solido non sarebbe stato capace di ospitare questi nuovi equilibri. E’ vero, una modernità liquida comporta tanti rischi ma in questa liquidità siamo invitati a fornire risposte positive. La vita non è ferma, ci muoviamo all’interno di un fiume come coloro che praticano quello sport in canoa chiamato “rafting”. Ma sappiamo che questo è un rafting generativo perché questa sperimentazione di disorientamento crea nuove opportunità e nuove idee, una nuova sfida».

I due docenti, in conclusione, rivolgendosi agli studenti hanno detto: «Ci auguriamo che questa idea di generatività possa essere una via per aiutare la nostra contemporaneità a fare un passo nell’esperienza della libertà contemporanea. Amare l’idea di libertà che è figlia della cristianità. Essere capaci di entrare in ascolto con il cosmo e con l’altro. Da questo punto di vista Don Bosco è stato uno dei più grandi “generativi” della storia».

Ermanno Giuca

“Una scuola italiana”

La scuola elementare Carlo Pisacane nel quartiere Torpignattara di Roma è stata sotto l’attenzione mediatica per il sovraffollamento di bambini “stranieri” in un quartiere che è stato uno dei primi ad accogliere le comunità straniere a Roma. Giulio Cederna e Angelo Loy raccontano le conseguenze di quest’attenzione con partecipazione e spontanea vivacità

I fatti hanno destato una larga attenzione mediatica. La scuola elementare “Carlo Pisacane” di Torpignattara, quartiere popolare di Roma, ha un’alta densità di popolazione scolastica di bambini non figli di italiani. Il quartiere ha una larga tradizione di accoglienza essendo stato il primo di Roma a dare ospitalità alle comunità di stranieri che arrivavano nella capitale. Davanti a questi fatti il tentativo degli insegnanti è quello di lavorare sulle diversità culturali in direzione di una integrazione con ogni conseguente beneficio sociale. Va detto che, nonostante possa apparire assurdo, bambini nati in Italia, sia pure da genitori stranieri, non vengono considerati italiani nonostante si esprimano in corretto italiano, e, all’occasione, in perfetto dialetto locale.

La protesta di una minoranza di genitori dei bambini alunni dell’istituto ha fatto scoppiare il caso del “Pisacane”. La ragione di questa protesta è che sono troppi i bambini stranieri nella scuola.

L’associazione Asinitas è stata chiamata a collaborare con le insegnanti. È nato un singolare esperimento di integrazione che coinvolge i bambini, le insegnanti e i genitori. Si dovrà mettere in scena il Mago di Oz, una storia che – non casualmente – presenta personaggi nei quali vibrano i sentimenti anche sotto le spoglie di un uomo di latta e capaci di risolvere i problemi anche se spaventapasseri senza cervello.

Il film di Giulio Cederna e Angelo Loy, nato con la collaborazione di Cecilia Batoli dell’associazione Asinitas, è la cronaca di questo percorso, è il racconto delle difficoltà della scuola davanti a queste proteste, ma anche quello delle storie che si incrociano frequentando la scuola “Pisacane” che appare un vero fortino sotto assedio nel quale emerge il coraggio e la determinazione del corpo insegnante.

Cederna e Loy raccontano con partecipazione la difficile realtà posta all’attenzione della cronaca e con altrettanta spontanea vivacità la messa in scena del racconto di Lyman Frank Baum. Una scuola italiana valorizza, attraverso i primi piani, i volti dei bambini, il racconto delle relazioni che i piccoli protagonisti sanno creare tra di loro o con gli adulti. Il film di Cederna e Loy si aggiunge, in positivo, al novero degli altri titoli che in questi ultimi due anni hanno esplorato i luoghi primari della cultura in Italia. Non vi è dubbio che dietro questa urgenza di raccontare la scuola esista un disagio da una parte, avvertito dalla sensibilità autoriale e la voglia, dall’altra, di rendere pubblica ogni vicenda, ma perfino la quotidianità come si è visto anche in questa edizione del festival. Non sarebbe altrimenti spiegabile la disponibilità dimostrata dall’intero corpo scolastico nei confronti di Marco Santarelli e anche degli stessi genitori nei confronti di Giulio Cederna e Angelo Loy. Ma soprattutto Una scuola italiana racconta un pezzo d’Italia che si riflette nelle aule scolastiche. Per questa ragione questo non è soltanto un film sulla scuola, ma soprattutto un lavoro che con straordinario equilibrio riporta la cronaca dentro il cinema. Cederna e Loy mostrano la vita dentro quella scuola e la vita non ha nazionalità.

Letture ad alta voce in classe per promuovere l’amore per i libri

Ha già raccolto importanti ed entusiastiche adesioni l’appello del ministro dei beni e delle attività culturali, Dario Franceschini, lanciato a Bologna, in occasione della presentazione di «Libriamoci», l’iniziativa promossa dai ministeri dei Beni culturali e dell’Istruzione e rivolta a tutte le scuole italiane, invitate a sospendere per tre giorni le lezioni e a dedicare le mattine del 29, 30 e 31 ottobre alla lettura di libri a voce alta, in classe. Franceschini aveva invitato «attori, registi scrittori, musicisti, editori, giornalisti, intellettuali e sindaci a dare la propria disponibilità» per andare in una scuola a declamare le loro pagine preferite o quelle segnalate dai ragazzi e dagli insegnanti in una scuola a leggere». Il primo a farsi avanti è stato Gino Paoli, cantante e presidente Siae. «Raccolgo con entusiasmo l’invito del ministro Dario Franceschini e do la mia disponibilità», ha detto il cantante. A lui si sono uniti autori Siae, giornalisti del Corriere della Sera e della Rai, rappresentanti di associazioni di artisti, del Salone del Libro di Torino. personaggi del mondo dell’editoria e dello spettacolo.

Il piacere di leggere

L’iniziativa «rivoluzionaria» punta a reclutare testimonial, scrittori, politici, attori, che sappiano trasmettere ai ragazzi il piacere di leggere. Tre giorni dedicati alla lettura nelle scuole per liberare la parola scritta da quel profumo di obbligo e dall’ossessione per la valutazione che spesso si percepiscono nelle aule. «Libriamoci» il titolo scelto per la manifestazione: «Un vero e proprio evento – ha detto Franceschini – su modello dei tanti festival del cinema, della letteratura e della filosofia, che attraggono folle, ma senza spostare di un’unità lo sparuto numero di lettori della Penisola». Libriamoci, invece, secondo il ministro potrà accendere anche in chi non frequenta assiduamente le pagine scritte la scintilla che lo potrà trasformare in lettore. «Soprattutto se si fa sistema», dice il ministro.

Il tempo della lettura

Una mobilitazione culturale che vuole anche «rivendicare la lentezza della lettura». «In un mondo che va sempre più veloce – ha detto Franceschini – questa è la chiave per far capire ai giovani il valore della lettura, che non può diventare veloce, non può essere multitasking, ma consente di usare per se stessi la risorsa in assoluto più limitata: il tempo». «Prendetevi del tempo per voi stessi – è l’esortazione del ministro -: se scoprite la lettura da giovani, poi non la mollate più».

Attori, scrittori, musicisti in classe

Ecco dunque che per spingere ad amare la pagina scritta, i ministeri dell’Istruzione e dei beni culturali promuovono nelle scuole di ogni ordine e grado giornate aperte alla lettura. Grazie alla collaborazione con il Corriere della Sera, la Conferenza delle Regioni, l’Anci, il salone internazionale del libro di Torino, Rai Fiction, la Fondazione Bellonci, nella tre giorni d’autunno entreranno nelle aule scrittori, attori, sportivi, musicisti e amministratori locali che leggeranno ad alta voce insieme agli studenti. «Si tratta di un’iniziativa che ha l’obiettivo di promuovere la lettura e trasmettere l’amore per i libri, non come un dovere ma come strumento per crescere come individui, che ci rende liberi» ha affermato Romano Montroni, presidente del Centro per il libro e la lettura.

#un amore di libro

Tra le iniziative collegate alla maratona di lettura tra i banchi, anche l’hashtag #unamoredilibro con cui il Corriere della Sera invita i lettori di ogni età a segnalare il libro che ha cambiato loro la vita; e l’iniziativa di Rai Fiction (che ha realizzato uno spot per ricordare che «un terzo delle fiction Rai nasce dai libri») che inserirà un riferimento a Libriamoci in una puntata di «Un posto al sole». È inoltre attivo un sito internet dedicato (www.ilmaggiodeilibri.it), dove le istituzioni scolastiche potranno prendere spunti per organizzare iniziative e attività nelle proprie scuole. Consigli e format di letture ad alta voce verranno diffusi anche sul web.

Patrimonio da condividere

Alla presentazione ufficiale, a Bologna, è intervenuto anche il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini: «Leggere libri ad alta voce e recitarli è un modo per condividere la visione del mondo degli autori – ha spiegato il ministro – e diventa un’azione collettiva per la condivisione di un patrimonio. La scuola è il luogo ideale per farlo». «Come diceva Don Milani – ha aggiunto Giannini – dobbiamo ridare la parola ai ragazzi. Capire un testo, imparare ad esprimersi, e a comprendere il mondo: questo li aiuta ad esercitare il loro diritto di parlare».

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#unamoredilibro: raccontaci il romanzo che ti ha cambiato la vita

Il 29, 30 e 31 ottobre sono le Giornate della lettura nelle scuole: i giornalisti del «Corriere» torneranno sui banchi per parlare del loro libro preferito. E dei vostri

Ragazzi, tenete a mente queste date: 29, 30 e 31 ottobre! Sono le tre Giornate della Lettura lanciate per la prima volta quest’anno dal Ministero dell’Istruzione d’accordo con quello dei Beni Culturali per promuovere l’amore per i libri nelle scuole. Il «Corriere della Sera» ha deciso di partecipare a questa iniziativa lanciando l’hashtag #unamoredilibro e invitando i lettori, siano essi studenti, insegnanti o genitori, a dare il proprio consiglio, a raccontarci il loro romanzo del cuore: non un compito a comando ma un esercizio libero e soprattutto sincero, quasi una confessione delle corde che quel libro è riuscito a toccare in voi, di come ha cambiato il vostro modo di porvi rispetto agli altri e magari a voi stessi. Perché è questo che fanno i libri, quando s’incontra quello giusto… Per partecipare basta iscriversi alla community di Passaparola di «Corriere» (solo per i maggiorenni) o postare il vostro consiglio su twitter con l’hashtag#unamoredilibro a partire dal 15 ottobre.

L’idea di #unamoredilibro nasce come evoluzione dell’iniziativa lanciata quest’estate dal Corriere Scuola con la sua «Biblioteca dei Ragazzi»: una raccolta di titoli (e di incipit) consigliati dalle firme del giornale da cui studenti e — perché no? — professori in cerca di uno spunto possono attingere liberamente. Si va dalle «Tigri di Mompracem» a «Orgoglio e pregiudizio», dall’«Isola del tesoro» all’«Uomo senza qualità», senza distinzioni fra alto e basso. Perché l’unica condizione richiesta ai giornalisti del Corriere è stata di essere fedeli ai propri ricordi, di fare un viaggio a ritroso per ricordare com’erano allora, quando fecero la conoscenza di Thomas Mann e Goethe, Calvino e Fenoglio, Hemingway e Camus. I loro suggerimenti di lettura così come quelli che arriveranno sul sito del Canale Scuola verranno letti e condivisi dai giornalisti del «Corriere della Sera» che parteciperanno attivamente alle tre Giornate della Lettura tornando per una volta sui banchi delle scuole di tutta Italia per confrontarsi con ragazzi e prof sui loro libri preferiti.

Oltre alla Biblioteca dei ragazzi, il «Corriere» mette a disposizione di studenti e professori la collana Bompiani «Storie dal Quotidiano», una serie di titoli scritti dai suoi giornalisti su temi centrali per l’educazione dei ragazzi alla responsabilità e alla cittadinanza attiva: dalla tutela dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico alla memoria della Shoah, dai valori dello sport alla scoperta dell’amore e alla sfida del bullismo, dai giovani migranti al genio scientifico e alla passione civile e politica dei grandi italiani come Rita Levi Montalcini e Piero Gobetti. Gli autori sono a disposizione anch’essi delle scuole per parlarne con ragazzi e docenti.