II DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18

In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».  Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

  Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.  L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

 

Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi. Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.

     Aspetti di esegesi

     Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito. Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2). Abramo esegue il volere divino.

     «Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).

     La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8). L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.

     Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio. All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza. È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà. Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.

     «L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).

     Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento. I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).

     «Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20). La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21). L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19). In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio. La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).

 Seconda lettura: Romani 8,31-34

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

 

La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13). Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.

     Aspetti di esegesi

     «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).

     L’insieme è un inno di fiducia. Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente. Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto. L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande. Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi. Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso. La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote. Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi. La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.

Vangelo: Marco 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.  Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 

Esegesi

   Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20). Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro. È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.

     Aspetti di esegesi

     Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù. Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio. Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.

     Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23). Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione. La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione. Gesù rimane identico mostrandosi glorioso. Lo splendore di Gesù è celeste. La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina. I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.

     «E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4). Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie. Essi discorrono con Gesù. Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).

     «Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati». Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6). È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.

     «Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre. La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.

     Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo. «E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).

     Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione. L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato. I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

Meditazione

Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita. In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito. Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio. E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana. Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato. Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino. Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio. È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.

Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli. È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù. Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33). La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino. È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29). Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.

Notiamo solo alcuni elementi del racconto. Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’. Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio. Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù. In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).

Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte. E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte. Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.

Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3). Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo. Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza. Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore. È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).

Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena. E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto. Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4). C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola. E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge. Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio. Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola. E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).

Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze. La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5). L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo. E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia. Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro. Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32). Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.

Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare. Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme. Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8). Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua. Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino. Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31). Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta. Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

 

L’immagine della domenica

 

Il ricordo di quello che si è visto

«Non si può restare sempre sulle vette,  bisogna ridiscendere….

A che pro, allora?

Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere  nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali, puoi vederle.

Nella discesa, non  le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene. Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto.

Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto.

Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere».

 (Renè Daumal)  

Preghiere e racconti

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.                                                    

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).

Domenica della Trasfigurazione

L’odierna domenica, la seconda di Quaresima, è detta della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2). Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un breve tempo, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza. San Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che diventavano chiare e trasparenti e luminose” (Ambiguum 10: PG 91, 1128 B).

Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, “apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Ma sant’Agostino commenta dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo; Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio nei Profeti” (Sermo De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491). Infatti, il Padre stesso proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5).

La Trasfigurazione non è un cambiamento di Gesù, ma è la rivelazione della sua divinità, “l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 357). Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come viene cantato in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”.

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 20.03.2011).

L’immagine tra luce e ombra

La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.

I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.

L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.

La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.

(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare.  Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).

Una sola tenda

Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole. Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno. Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso. Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.

Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21). Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto. Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva […].

Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui. San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano. Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia. Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto. Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui. Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui. Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia. Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione. Credeva fosse bene ciò che diceva. Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola». Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo. All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi. Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.

(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 576-578)

Riconoscere Cristo

Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte. C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle. Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità. Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge. Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.

La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura. Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro. Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.

(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).

Ancora e sempre sul monte di luce

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA II QUARESIMA ANNO B

Sussudio per la Quaresima

È online il sussidio per la Quaresima curato dall’Ufficio Liturgico Nazionale. Nella presentazione Mons. Nunzio Galantino valorizza il tema dell’umanesimo per collegare l’itinerario verso la Pasqua a quello che prepara il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze: “L’uomo nuovo, che a immagine di Cristo e con la forza dello Spirito edifica una umanità nuova, ci pone in piena sintonia con il Messaggio di papa Francesco per la Quaresima di quest’anno. L’uomo nuovo non si lascia impaludare nella “globalizzazione dell’indifferenza”, ma soffre con chi soffre, si apre alla fraternità responsabile, si getta con coraggio nelle sfide del presente”.

Ecco il testo della Presentazione del Segretario generale:

“Con fedeltà instancabile anche quest’anno risuonerà nella notte di Pasqua il lieto annuncio: «L’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con Cristo» (Rm 6,6).  Perciò in Lui «possiamo camminare anche noi in una vita nuova» (Rm 6,4). L’impegno di conversione della Quaresima che troverà il suo vertice nella celebrazione del Triduo Pasquale, ravvivando il fuoco dello Spirito Santo, dono del Risorto, rinvigorirà la nostra condizione di nuove creature.
L’uomo nuovo che si rinnova a immagine di Cristo (Col 3,10) è una potente ispirazione per la Chiesa di Dio che è in Italia, nell’anno che ci vede coinvolti nella preparazione e nella celebrazione del 5° Convegno ecclesiale di Firenze. Il nuovo umanesimo che cerchiamo e proponiamo trova in Cristo, crocifisso e risorto, la sua immagine, la sua origine, la sua meta. L’uomo nuovo che a immagine di Cristo e con la forza dello Spirito edifica una umanità nuova ci pone in piena sintonia con il messaggio di papa Francesco per la Quaresima di quest’anno. L’uomo nuovo non si lascia impaludare nella “globalizzazione dell’indifferenza”, ma soffre con chi soffre, si apre alla fraternità responsabile, si getta con coraggio nelle sfide del presente.
«Rinfrancate i vostri cuori» (Gc 5,8) è dunque il monito che accogliamo volentieri dal messaggio del Papa. Esso dà un tono di ottimismo e di fiducia, trasmette il coraggio necessario ad un profondo impegno di rinnovamento; il sottotitolo del sussidio (cf. Rm 6,6) orienta l’atteggiamento di gioiosa conversione sul versante del nuovo umanesimo, che nel cammino verso il Convegno ecclesiale di Firenze siamo invitati ad assumere con determinazione.
Auspico che, accolte con discernimento, alla luce dello Spirito, debitamente adattate alle situazioni particolari, le indicazioni del Sussidio possano aiutare le nostre comunità cristiane a promuovere concreti itinerari di umanizzazione e di evangelizzazione, perché a tutti sia annunciata la gioia del Vangelo.
Dalla liturgia celebrata e vissuta “in Spirito e Verità” le nostre comunità, radunate per fare viva memoria di Cristo Gesù crocifisso e risorto, possano attingere, come prega papa Francesco, «la santa audacia di  cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della bellezza che non si spegne» (Evangelii Gaudium, n. 288)”.

I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 9,8-15

Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne». 

 

L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico. Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in Abramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).

     In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo. Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf. Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato. Non farà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.

     Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.

     Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno. C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire. Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza. 

Seconda lettura: 1Pietro 3,18-22

Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.

 

La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento. Soprattutto il brano della liturgia odierna.

     I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecuzioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si trovavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.

     Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf. Mt 26,41). Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale. È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di entrare «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di sopra degli stessi Principati e delle Potenze. Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.

     Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza. A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.

     I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale rifiuto furono puniti.

     Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a determinarsi. Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico. Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p. 163).

Vangelo: Marco 1,12-15

In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di

Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». 

 

Esegesi

     Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa seguito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.

     Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione. Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.

     Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento inconfondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere. A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano rispondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze. Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare. L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».

     Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente. Dall’esperienza sinaitica il «deserto» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio. Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr. Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23). Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito. Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso. È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.

     I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia. In tutti i modi segnala la durata e ricorda il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana. Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza. Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verificare la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Num 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni impiegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).

     Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per verificare la scelta compiuta. Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentabatur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu un cimento sporadico, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto. Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.

     La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono all’Avversario del bene, a Satana. Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio noto ai suoi lettori. Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio. Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo. Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova esegesi. La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene comune. Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre. Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti. Deve capirlo e soprattutto accettarlo.

     Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menziona accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli». Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr. Is 11,6-9). Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf. Gv 1,51). Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.

     Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù. Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Battista. La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro. Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono. Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza. E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio. Molti profeti l’hanno preceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio. Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).

     Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea. Un richiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni. I fatti non si potevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture. Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitrariamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).

     I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro. Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avvenuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro. Il tutto equivaleva all’instaurazione del regno di Dio. Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo. Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.

     Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, riconoscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta. La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.

     Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili. Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio. Il regno porta la denominazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.

Meditazione

Nelle tre letture con cui la liturgia della Parola di questa prima domenica ci introduce nel tempo quaresimale (quel tempo che un antico inno chiama tempus acceptabile, tempo favorevole che deve essere accolto come momento di grazia nel cammino di conversione di ogni credente), c’è un forte richiamo al tema della alleanza, della comunione e della fedeltà di Dio all’uomo e al mondo che ha creato. Il segno dell’arco di Dio sulle nubi ricongiunge il cielo alla terra e ristabilisce quel legame interrotto dal peccato del primo uomo, Adamo. È una alleanza tra Dio e l’uomo e «con ogni essere che vive in ogni carne» (Gen 9,15).

Lo sguardo di speranza a cui l’arco sulle nubi orienta si spinge fino ad abbracciare ogni creatura e Dio stesso fissa il suo sguardo su questo segno di comunione per fare memoria della sua fedeltà: «Io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna… e non ci saranno più le acque… per distruggere ogni carne» (9,16.15).

La memoria dell’alleanza eterna assume nella storia della salvezza il volto di Gesù, il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo; nel racconto delle tentazioni Gesù si rivela come colui che, tentato nella sua carne di uomo, si affida totalmente alla parola del Padre e vince ogni idolatria, ristabilendo quell’armonia impressa da Dio nella sua creazione. La vittoria di Cristo sul male che tenta di distruggere ogni legame tra Dio e la sua creazione è radicale: raggiunge il luogo in cui questo male dimora, strappando da esso ogni creatura. La fedeltà di Dio all’uomo è così annunciata sino agli inferi (cfr. IPt 3,19-29). È il mistero pasquale del Cristo morto e risorto che la liturgia ci fa intravedere fin dall’inizio del cammino quaresimale; ma è il mistero a cui ogni credente partecipa mediante il battesimo, diventando segno di questa alleanza nuova ed eterna in Cristo.

Tra i tre testi scritturistici proposti dalla liturgia, certamente quello che maggiormente caratterizza la prima domenica di quaresima è il racconto delle tentazioni di Gesù. In questa prospettiva, l’icona cristologica che il racconto evangelico ci tratteggia è come uno squarcio sul cammino di sequela che il discepolo di Gesù è chiamato a rinnovare nel tempo quaresimale; collocare all’inizio di questo cammino il racconto delle tentazione, diventa allora un richiamo alla essenzialità e alla verità della propria scelta. Si è posti di fronte alla serietà dell’impegno battesimale, mediante la consapevolezza di ciò che quotidianamente comporta il vivere da figli in sintonia con la volontà del Padre; si è condotti dallo Spirito nel deserto per prendere coscienza di questa presenza misteriosa che guida i nostri passi ed educa la nostra libertà nelle scelte secondo Dio (il discernimento spirituale) ; si è invitati ad accogliere con umiltà la nostra debolezza, sapendo che essa è stata accolta e trasfigurata da Cristo stesso; si è messi in guardia da ogni forma di idolatria che intacca il servizio all’unico Signore e che rende la nostra vita divisa interiormente; si è educati a camminare pazientemente verso la Pasqua, accogliendo nel volto di Cristo tentato e nel volto di Cristo trasfigurato l’unica e inaudita bellezza del Dio che si dona all’uomo per strapparlo alla morte e comunicargli la vita.

Il ciclo delle letture dell’anno B ci presenta il racconto delle tentazioni secondo la versione di Marco. Lo scontro tra Gesù e lo spirito del male, narrato da Matteo e Luca attraverso una descrizione fortemente drammatica e mediante un martellante dialogo in cui si alternano le suggestioni diaboliche e i testi della Scrittura, è raccontato da Marco in due soli versetti. L’essenzialità della narrazione, spogliata di ogni elemento descrittivo, rende ancora più brusco il passaggio dalla esperienza di pienezza del battesimo (dopo aver udito la parola del Padre, «Tu sei il Figlio mio, l’amato», Gesù viene spinto «subito» nel deserto). E, d’altra parte, nei due versetti di Marco abbiamo tutti gli elementi necessari per definire questo ‘inaudito’ episodio del cammino di Gesù: lo Spirito che «lo sospinge nel deserto»; il deserto come luogo della prova; i quaranta giorni, come tempo di prova; la tentazione e il tentatore. Satana. In più Marco aggiunge: «(Gesù) stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano» (v. 13). Possiamo dire che in questa prospettiva il racconto diventa quasi una icona in cui ogni elemento acquista una portata simbolica, sia in rapporto a Gesù, sia in rapporto al lettore. Sottolineiamo alcuni elementi.

Anzitutto la collocazione dell’esperienza delle tentazioni tra il battesimo e l’inizio del ministero pubblico di Gesù appare significativa; diventa come lo squarcio iniziale di tutta la vicenda terrena di Cristo, il suo rapporto con il Regno e la sua relazione con quell’umanità di cui ha assunto totalmente la fragilità e la povertà. E qui possiamo anche comprendere, sotto un’altra angolatura, la collocazione delle tentazione subito dopo il battesimo. Al Giordano, Gesù si mescola ai peccatori che vanno da Giovanni per farsi battezzare; è appunto la solidarietà con l’uomo peccatore che si manifesta in modo drammatico proprio nel racconto delle tentazioni. Così collocata all’inizio del vangelo, l’esperienza del deserto appare non solo come il primo atto pubblico di Gesù (quasi un solenne ‘sì’ al Padre e all’uomo) , ma come il quadro entro il quale si svolgerà tutto il suo ministero, fino alla croce. Vediamo così che lo Spirito, donato al battesimo, non separa Gesù dalla storia e dalle sue ambiguità, dalle sue contraddizioni; al contrario, colloca Gesù all’interno della storia e all’interno della lotta che in essa si svolge. E proprio qui si rivela in profondità e nella totale trasparenza dalle ambiguità che affascinano l’uomo ciò che il Padre dice in Mc 1,11: «Tu sei il Figlio mio, l’amato». Inoltre, se teniamo presente la ricca simbologia biblica degli elementi del racconto (che ci rimanda al cammino di Israele nel deserto e all’ingresso nella terra promessa), allora possiamo scorgere nella successione battesimo – tentazioni nel deserto – proclamazione del Regno, una sorta di cammino in cui Gesù ripercorre la storia di Israele: passaggio attraverso le acque del Mar Rosso, permanenza nel deserto per quarant’anni, ingresso nella Terra promessa sotto la guida di Giosuè.

Pur nella loro scarna essenzialità descrittiva, i personaggi presentati da Marco ci rivelano ciò che avviene nell’esperienza della tentazione. Gesù è delineato come l’icona dell’uomo ‘spirituale’, che sa discernere secondo lo Spirito. E questo non perché è collocato in uno spazio immateriale e estraneo alla drammatica situazione umana, quasi sottratto alla fatica di ogni scelta o esente dalla prova, ma perché ci insegna a scegliere secondo Dio, donandoci i criteri per un reale discernimento ‘spirituale’. Gesù accetta la sfida della tentazione e attraverso di essa scopre in profondità la sua identità di Figlio di Dio, quel nome udito nella teofania del battesimo. Accanto a Gesù vi è la misteriosa presenza dello Spirito. È lui a condurre (a «sospingere», ekbalein) Gesù nel cuore stesso della lotta, nella solitudine del deserto, il luogo dell’esperienza della fragilità umana; qui, e non altrove, matura il discernimento e lo Spirito sta a fianco di Gesù in questo cammino, quasi a guidarlo per mano, facendosi presente nella forza della Parola donata come arma per combattere la suggestione diabolica (aspetto presente nei racconti di Luca e Matteo). E infine, di fronte a Gesù, vi è il tentatore, che Marco chiama Satana. Esso appare come la proposta alternativa alla parola di Dio, la contro-proposta subdola, affascinante, falsa, idolatrica, che abusa della debolezza dell’uomo, lo tenta nella sua carne per raggiungere il cuore. Satana vuole distruggere il rapporto confidenziale e obbedienziale tra uomo e Dio, presentare Dio come nemico dell’uomo, geloso della libertà e delle possibilità che gli sono offerte. E più l’immagine di Dio crea paura nell’uomo, più lo minaccia diventando ingombrante e soffocante, più il tentatore è sicuro della riuscita della sua opera: separare, creare un progetto contrario a Dio, illusorio, in cui l’uomo è schiavo del proprio idolo, vittima del suo «essere come Dio» (cfr. Gen 3,5).

Da questa esperienza Gesù non fugge: accettando la nostra umanità (e la fragilità di cui la tentazione è elemento costitutivo), in essa riporta la vittoria su ogni idolatria che mira a separare l’uomo da Dio. E Marco sottolinea, quasi visivamente, il frutto di questa vittoria: è l’armonia ristabilita tra il mondo creato e il mondo sovrumano, di cui Gesù, e in esso ogni uomo, è testimone.

Veramente «il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino». A noi non resta che entrare con Gesù in questo luogo di prova per lasciarci trasformare a sua immagine; non resta che accogliere l’invito «convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15).

L’immagine della domenica

 

Dall’immagine tesa

Dall’immagine tesa

vigilo l’istante

con imminenza di attesa –

e non aspetto nessuno:

nell’ombra accesa

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire;

verrà, se resisto,

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

 verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

 verrà a farmi certo

 del suo e mio tesoro,

 verrà come ristoro

 delle mie e sue pene,

 verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.

 Clemente Rebora 

Preghiere e racconti

The way

«Nei cinema c’è adesso un film intitolato The Way – “la Via” – in cui uno dei protagonisti è un attore ben conosciuto, Martin Sheen. Forse l’avete visto.

Lui recita la parte di un padre, il cui figlio estraniato muore mentre percorre il Cammino di Santiago di Compostela in Spagna. Il padre angosciato decide di portare a termine il pellegrinaggio al posto del figlio perduto. Egli è l’icona di un uomo secolare: compiaciuto di sé, sprezzante nei confronti di Dio e della religione, uno che si definisce un “ex–cattolico”, cinico verso la fede … ma che, nondimeno, incapace di negare che dentro di sé vi sia un interesse incontenibile di conoscere l’aldilà , una sete di qualcosa in più – anzi, un qualcuno di più – che cresce in lui lungo la strada.

Sì, potremmo prendere in prestito quello che gli apostoli dicono a Gesù nel Vangelo della Domenica scorsa: “tutti ti cercano”! E ti stanno cercando ancora oggi …»

(Card. Timothy Dolan, L’Annuncio del Vangelo oggi. Tra missio ad gentes e la nuova evangelizzazione, 17 febbraio 2012).

Il deserto nella città

Quando partii per il deserto avevo veramente lasciato tutto, com’è l’invito di Gesù: famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno… le mie idee che avevo su Dio e che tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.

E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in una idea e se avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui. Il mio maestro di noviziato mi continuava a dire: “Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all’Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare… contempla…”.

Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ancorato nelle mie idee.

Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare.

Mamma mia!

Lavorare nell’oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più. Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta.

Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca mi usciva solo qualche lamento.

L’unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà coi poveri, i veri poveri. Mi sentivo vicino a chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno durante l’estate.

Se per pregare era necessario un po’ di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda, ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orario. Non capivo più niente, meglio, incominciavo a capire le cose vere. Piangevo! […] E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io feci la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?

La preghiera passa nel cuore, non nella testa. […] Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.

Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa. Il dono che Dio fa di sé a chi gli offre la vita come di il Vangelo: “Chi perde la sua vita la troverà” (Matteo 10,39).

(Carlo CARRETTO, Il deserto nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1986, 29-33).

Le due vite

L’ansia, lo stress, la contemplazione, l’abbondanza di pesticidi e di prodotti tossici hanno snaturato i cicli biologici della nostra vita. La ricca, supertecnologica, superlibertaria società occidentale è arrivata al capolinea. È una società fatta di esseri disperati che vagano in un deserto popolato di oggetti e hanno in mente un solo concetto: il diritto alla felicità. Dove felicità significa, soprattutto, pieno assolvimento dei desideri, dei sogni, delle istanze di quella cosa piccola e spesso confusa che si chiama ego. E questa felicità è sempre qualcosa che deve ancora venire e che verrà, sempre e comunque, da qualcosa di esterno. […] Quello che la società ha fatto dimenticare a tutti è che la ricchezza della vita umana si manifesta nelle relazioni –  e nella capacità di fare progetti, di superare ostacoli. La nostra mente, col suo vortice continuo di parole, col suo saper costruire concetti sempre più complessi, ha cancellato la verità fondante della vita, la più semplice: ogni essere umano ha bisogno di essere accolto, amato e di amare.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 14-16)

Quaresima!

Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno,

prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera,

tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore

e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.

Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri,

ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.

Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera

un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.

Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno,

di avvertire quella fame profonda

che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia,

da tante brame che attraversano la nostra esistenza.

Strada antica, quella della Quaresima,

sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.

Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo,

con audacia e con gioia,

perché è un percorso di liberazione,

che ci conduce a sperimentare

la forza e la bellezza della Pasqua.

Deserto

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di signifi­cato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitut­to un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine di­menticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, sen­za piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabi­tato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto bibli­co non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’e­rosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piog­ge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escur­sioni termiche fra il giorno e la notte.

Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Nu­meri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’i­niziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dal­l’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cie­lo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b‑5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,8‑15). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fio­rirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1‑2). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che par­la). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e ri­ceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1‑14); è nel de­serto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19‑24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’ac­qua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel de­serto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa‑Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rin­novare l’alleanza nuziale…

Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra pro­messa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino fati­coso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come ten­tazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimane­re in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patisco­no la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo deser­tico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deu­teronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla cono­scenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11‑12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il de­serto come noviziato essenziale al suo ministero: il fac­cia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attac­cato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!

Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già espe­rienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la pau­ra che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della li­bertà. Una libertà che non è situata al termine del cam­mino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi baga­gli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fe­de: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e de­nunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deser­to per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abi­to lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.

Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il de­serto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del creden­te, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51). 

Soli nel deserto

      Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.  Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. Quando mia madre offre degli amaretti di Ladurée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgranocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse. Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.

(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139)

Il deserto

Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine. Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui. Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani. Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chiamato e abilitato dalla grazia. Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza addossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora  oggi più che mai . Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sappiamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore. Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profonda povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.

(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp. 9-20).

«Fuggi, taci e prega»

Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’imperatore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio. Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato». Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».

Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».

Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto. Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.

(H.J.M. NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).

Preghiera 

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.

È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte. Sono ancora così diviso!

Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.

Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita. So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.

La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni.

Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.

Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.

Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi. 

PER L’APPROFONDIMENTO

I DOMENICA DI QUARESIMA

A 30 ANNI DALL’INTESA: l’IRC nel cammino della Chiesa italiana

Il Convegno è rivolto ai direttori e responsabili diocesani e regionali per l’IRC e sarà l’occasione per una riflessione e un confronto sull’IRC a trent’anni dalla firma della prima Intesa (14 dicembre 1985).
Accanto a relazioni e testimonianze, ci saranno momenti di confronto e condivisione senza tralasciare il riferimento alla quotidianità dei problemi di ufficio.
Si svolgerà presso l’Hotel Holiday Inn a Rimini da lunedì 13 aprile a mercoledì 15 aprile 2015.
 

Tre passi per il rinnovamento

“L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano”. Lo scrive Papa Francesco nel Messaggio per la prossima Quaresima – dal titolo Rinfrancate i vostri cuori (Gc 5,8) – articolato su “tre passi da meditare” per un autentico rinnovamento: la Chiesa, le parrocchie e le comunità, il singolo fedele.
Il tempo quaresimale inizia il 18 febbraio, Mercoledì delle Ceneri.

L’esserci del vero educatore

Nessuno progredisce da solo, far spazio all’altro significa ricevere una luce nuova e diversa su ciò che siamo, sulle nostre intenzioni e sulle nostre disposizioni. Il cammino stesso, a quel punto, assume un altro ritmo e si trova anche la forza e la modalità per fermarsi e servire”. Mons. Nunzio Galantino è intervenuto martedì 10 febbraio nella Cattedrale di Trani, nel contesto del Convegno Nazionale di pastorale giovanile in corso a Brindisi.
Il Segretario generale ha tracciato un profilo del responsabile e dell’animatore di pastorale giovanile, nella responsabilità della progettazione educativa, che richiede un chiaro radicamento nel Vangelo e nell’esperienza ecclesiale.
“È davvero finito il tempo – ammesso che ci sia mai stato – in cui muoversi da soli, al di fuori di un orizzonte comune e di una progettualità – ha detto –. Quante volte un simile modo di operare ha portato a una pastorale di navigatori solitari, con le conseguenze che conosciamo bene: basta che se ne vada quel giovane sacerdote o quell’animatore e il gruppo giovanile si squama, rivelando che tante iniziative poggiavano soltanto sull’abilità del singolo, sulla sua intraprendenza, sul suo bisogno di costruire attorno a se stesso, derubando così i ragazzi della possibilità di un’appartenenza autentica, libera e solida…”.
La figura di Maria, nell’episodio della visitazione alla cugina Elisabetta, ha fatto da sfondo alla riflessione offerta da Mons. Gantino (in allegato).

VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Levitico 13,1-2.45-46

Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.

Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.  Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

 

I capitoli 11-15 del libro del Levitico, di cui fa parte questo brano sono chiamati dagli esegeti «codice di purità» (in parallelismo con i capitoli 17-26, chiamati «codice di santità»). Il nome è giustificato dal fatto che, in questa sezione, vengono elencate le realtà che avvicinavano a Dio (tutte racchiuse nel nome generico di «puro») e quelle che a Dio si oppongono o da Dio allontanano (come le malattie e la morte, ma anche fenomeni come il parto o fenomeni legati al ciclo della femminilità ecc.: queste vengono racchiuse nel nome generico di «impuro»). Anche la lebbra rientra in queste realtà negative, anzi vi entra in modo esemplare perché il termine ebraico che la definisce — negàh, «colpire» — è diventato sinonimo della «piaga» per eccellenza che allontana da Dio e mediante la quale Dio punisce.

     Bisogna, tuttavia, notare che presso l’antico Israele il concetto di lebbra era molto più ampio del nostro. Infatti, ogni malattia della pelle («arrossamento, pustola, macchia bianca») — e le stesse muffe dei muri delle case — venivano considerate come lebbra. Inoltre questa malattia conduceva a una totale esclusione dalla comunità. Questo spiega il particolare modo di vestire («vesti strappate, capo scoperto, coprirsi la barba») e l’obbligo di abitare fuori dall’accampamento o dall’abitato e di segnalare la propria presenza, per evitare di contagiare gli altri (il lebbroso deve gridare: «Impuro! Impuro!»).

Seconda lettura: 1Corinzi  10,31-11,1

Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.  Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

 

Il breve brano proposto contiene la conclusione della trattazione di alcuni problemi che assillavano la comunità cristiana di Corinto. Vivendo in ambiente pagano e idolatra, più in particolare i problemi riguardavano la partecipazione ai sacrifici pagani e all’eucaristia e il mangiare le carni offerte in sacrificio agli idoli (chiamate con termine greco «idolotìti» dal verbo thyo, «sacrificare»). Queste carni venivano distribuite e offerte come cibo nel banchetto che seguiva al sacrificio, ma venivano anche vendute nei mercati.

     Paolo dà questo consiglio: se il cristiano viene invitato a un banchetto e non e al corrente della provenienza delle carni che gli vengono offerte in cibo, ne può mangiare (al riguardo Paolo cita, come giustificazione il Salmo 24,1: «Del Signore è la terra e tutto ciò che contiene»). Se invece il cristiano sa che le carni provengono dai sacrifici offerti dai pagani agli idoli, se ne deve astenere. Ciò viene motivato dal fatto che si potrebbe dare occasione di scandalo a chi è ancora «debole» nella fede («Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio»).

     L’astensione dall’assumere queste carni è motivo per il cristiano di testimoniare apertamente la fede nell’unico vero Dio e di esprimere la sua opposizione al culto degli idoli, assai fiorente nella città di Corinto. Su tutto, però, deve prevalere il principio della ricerca di Dio e della sua gloria e non il proprio tornaconto: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». La vita, l’opera e il comportamento di Paolo stesso sono il modello di questa ricerca di Dio su tutto: «Così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo».

Vangelo: Marco 1,40-45

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.  E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».

Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.     

 

Esegesi 

     Lo sfondo del brano evangelico è quello della prima lettura, dedicata alla descrizione del significato negativo della lebbra all’interno della comunità israelitica e alle precauzioni da assumere nei suoi confronti. Ma lo sfondo è anche quello «teologico» del vangelo di Marco, nel quale i miracoli di Gesù vengono presentati con lo scopo di condurre i suoi contemporanei a riconoscere in lui il Figlio di Dio. Quanto allo sfondo biblico, è interessante notare come ancora ai tempi di Gesù fossero in vigore le norme del libro del Levitico, che per i lebbrosi contemplavano l’emarginazione, l’esclusione dalla comunità, un vestito e un comportamento particolari (vedi la prima lettura), cioè la morte civile e religiosa. Il leb-broso del vangelo infrange queste norme «andando» da Gesù, quindi rompendo l’isolamento. E Gesù stesso infrange queste norme, quando «tocca» il lebbroso. Toccare chi era colpito dalla lebbra, significava infatti essere dichiarato immondo, con conseguenze gravi per la vita religiosa.

     «Se vuoi, puoi purificarmi!»: il lebbroso ha la percezione che solo Gesù, con i poteri e l’autorità che sta dimostrando attraverso i miracoli, ha la capacità di guarirlo dalla lebbra. Nessun altro può restituirlo alla vita civile e quotidiana, perché la legge è rigorosissima. Questa percezione diventa fede quando, nel suo significato più profondo, la lebbra è vista come immagine del peccato, che emargina l’uomo da Dio e dalla comunità di fede. Solo Gesù ha la capacità di salvare. I verbi di miracolo («guarire, sanare») nei vangeli diventano perciò i verbi della fede («salvare, convertire a Dio»).

     «Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò»: con questi verbi appare in pienezza l’umanità di Gesù, che si ribella allo stato di emarginazione in cui venivano relegati i lebbrosi. È, questo, un progresso nel riconoscimento della dignità dell’uomo che versa nella malattia, un progresso che solo il vangelo può favorire e ancora oggi propone di fronte alle più svariate emarginazioni a cui viene condannato l’uomo debole, indifeso, ammalato.

     «Ammonendolo severamente»: Gesù ha la consapevolezza di aver trasgredito la legislazione del Levitico e per questo si dimostra severo con il destinatario del miracolo di guarigione. Ma ha pure la consapevolezza di aver ridato vita, gioia, felicità, comunità, casa, famiglia, affetti, a chi ingiustamente veniva emarginato. Gli esegeti — in riferimento anche a quanto è detto nel v. 14 («Guarda di non dire niente a nessuno») — vedono qui un’allusione al cosiddetto «segreto messianico». Gesù cioè non vuole essere riconosciuto Messia attraverso i gesti miracolosi che compie, ma soprattutto nell’umiliazione della croce.

     «Va’, invece, a mostrarti al sacerdote»: secondo le norme del Levitico (capitoli 13-14) erano i sacerdoti a stabilire la presenza della lebbra, a ratificare le norme da applicare nei confronti del lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione. Forse Gesù vuole anche far capire ai sacerdoti che la legislazione del Levitico ha ormai esaurito la propria funzione ed è tempo di chinarsi con più amore e compassione su chi soffre ed è emarginato.

Meditazione

      Il Vangelo di Marco continua ad accompagnarci di domenica in dome­nica per renderci partecipi della vita stessa di Gesù e del suo cammino per le strade del mondo. E ci mostrano il clima nuovo che nasceva al passaggio di Gesù. Era visibile una straordinaria corrente di misericor­dia che percorreva le strade di quella lontana periferia dell’Impero romano. Avvenivano cose che mai prima si erano viste. Il brano odierno si apre con una notazione asciutta e singolare per quel tempo: «Venne a Gesù un lebbroso». Era davvero strano che un lebbroso osasse avvici­narsi a qualcuno, visto che avevano l’obbligo di stare ben lontani dalla gente. Il libro del Levitico era categorico: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto, velato fino al labbro superiore, andrà gridando: Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (13,46). L’esclusione dalla convivenza con gli altri rendeva questa malat­tia ancor più terribile di quel che già appariva. I rabbini giungevano a considerare i lebbrosi come dei morti in vita, e ritenevano la loro guari­gione più improbabile della stessa risurrezione. Ecco perché appare strano che un lebbroso osi avvicinarsi a Gesù superando un’abissale distanza garantita dalla legge. Ma, da chi altro poteva andare? Tutti, protetti dalle disposizioni legali oltre che dalla paura del contagio, si tenevano ben lontani dai malati di lebbra. L’unico che non si compor­tava così era Gesù. I lebbrosi l’avevano capito e andavano da lui.

Quanti malati di «lebbra» ci sono anche oggi, vicino o lontano da noi! E non parlo tanto dei colpiti dalla lebbra vera e propria, peraltro facil­mente curabile, quanto di coloro che vedono la propria vita segnata irrimediabilmente dalla malattia senza neppure la speranza di poter sognare una vita migliore per il tempo che gli resta! E ancora oggi siamo in molti, in troppi, a fuggire da loro per paura di essere contagiati, oppu­re, come qualcuno dice, per non essere rattristati alla loro vista (e loro, che ci sono dentro, cosa dovrebbero dire?). Quei lebbrosi, contraria­mente a quel che normalmente accadeva, quando venivano a sapere che

stava per passare Gesù, superavano barriere di paura e di diffidenza e accorrevano da lui. Il giovane profeta di Nazareth creava un clima nuovo attorno a sé, una atmosfera piena di compassione e di misericordia che attraeva malati, peccatori, poveri, deboli, emarginati. Quel lebbroso, finalmente e chissà con quanta fatica, giunse accanto a Gesù e gli si gettò ai piedi. Non usò molte parole, non si mise a spiegare la sua malattia, disse semplicemente ma con fede: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Chiede di essere purificato, perché la lebbra rendeva «impuri», cioè lontani da Dio, impedendo ai lebbrosi di frequentare il tempio. Anche il contagio rendeva chi li avvicinava «impuri». Per questo la legge li obbligava a vive­re fuori dai luoghi abitati. Ma per Gesù niente è così grave e terribile da allontanare qualcuno definitivamente da Dio. Per questo egli mangia con i pubblicani e i peccatori. La richiesta del lebbroso è così più di una semplice guarigione corporale. Egli desidera essere reintegrato nella vita sociale e religiosa. L’esclusione e la disperazione di quel lebbroso si tra­sforma in fede, una fede semplice, ma vera.

Gesù «ne ebbe compassione». «Avere compassione» è un atteggia­mento che in Marco viene riferito soltanto a Gesù (cfr. 6,34; 8,2; 9,22): È, potremmo dire, la caratteristica di Gesù verso il bisogno della gente. Poi Gesù «stese la mano, lo toccò». Lo stendere la mano (meglio che «tese la mano», secondo la nuova traduzione CEI) è un’azione propria di Dio o di un suo inviato, che nel Primo Testamento interviene per liberare il suo popolo dalla schiavitù e dalla morte (cfr. Es 8,1.12; 9,22; 10,12; 15,12…). Gesù non rifugge dal contatto. Ricordiamoci che tocca­re un lebbroso significava diventare impuri, essere contaminati. Gesù non teme il contagio, anzi lo vince con la vicinanza, con il proprio rap­porto personale, andando ben oltre la mentalità che stava dietro la paura del contagio. Ed ecco la volontà di Gesù, espressa direttamente: «Lo voglio, sii purificato». Volontà che gli uomini stiano saldi nell’ami­cizia con Dio, liberati dalla malattia e dal peccato, guariti, purificati: di nuovo amici e alleati di Dio. Di fronte a Gesù niente è impuro perché egli stesso ristabilisce la comunione con la vita, con Dio. Lo aveva ben capito l’apostolo Paolo che, scrivendo ai Corinti circa la partecipazione a pasti in cui si mangiava carne sacrificata agli idoli e ben conoscendo la legge di Israele, sottolinea che niente davanti a Dio è impuro, anche se non tutto giova. Tutto ciò che è contrario a Dio, espresso nella con­cezione religiosa di allora in ciò che è impuro, viene combattuto, elimi­nato, sgomberato per lasciare spazio. Quell’uomo fu subito purificato. Ma Gesù, in modo strano, non vuole che quell’uomo divulghi il fatto. E ne vediamo subito dopo il motivo, perché in verità il lebbroso, con­travvenendo all’ordine di Gesù, diventa il primo missionario, il primo che parla del Vangelo del regno, quella parola che guarisce e salva e dà agli uomini la possibilità di tornare in alleanza con Dio. Infatti la conseguenza è che «Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti». Gesù, avvicinando e toccando quel lebbroso, si è assunto la sua impurità e finisce per vivere come lui, in luoghi deserti. Quanto è grande la compassione del Signore, che si assume il male degli uomini perché la volontà unica di Dio è il bene, la vita, e non l’esclusione!

Ma niente può fermare la volontà di salvezza di Dio. La conclusione del testo, «Venivano a lui da ogni parte», mostra che questo racconto si conclude ma non segna una fine, bensì un inizio per tutti coloro che vengono da Gesù. Ecco superata la legge, il divieto. Per lui è vietato entrare, e allora da ogni dove vengono a lui. Cosa può impedire alla forza di Dio di trasmettersi, di guarire, di salvare, di dare nuova vita agli uomini? Ora che il tramite, Gesù stesso, è così perfettamente immedesimato persino con i più disperati fra essi? Niente può fermare la forza del Vangelo del regno, che vive nella compassione di Gesù.

La scena evangelica spinge tutti noi ad incontrare e ascoltare, a toccare e sentire il grande bisogno di salvezza che hanno i milioni di «lebbrosi» che ancora oggi vivono ai margini della vita; a volte sono popoli interi a giacere in questa incredibile situazione. È scandaloso accettare di convivere con la morte, con le stragi, con la paura del contatto e del contagio con chi è malato, povero e sconfitto. La compassione di Gesù non è solo un fatto puntuale, relativo ad un caso o all’altro, magari a quello che suscita più facilmente emozioni anche perché ben propagandato. Gesù, con la sua risposta, ci mostra qual è la sua volontà sulla lebbra e sul male, qualunque esso sia: «Lo voglio, guarisci!». Sì, la volontà di Dio è chiarissima: lottare contro ogni genere di male. Siamo davvero lontani da quella convinzione piuttosto diffusa che attribuisce a Dio la decisione di distribuire il male agli uomini a secondo del loro peccato. Nulla è più estraneo dal Vangelo. Oggi, forse ancor più di ieri, abbiamo bisogno di un «uomo» che cammini in mezzo a noi come Gesù sapeva fare. Ma non è questa la vocazione stessa della Chiesa e di ogni credente anche in questo secolo così segnato dal male?

L’immagine della domenica

 

IL MURO

«Avverto il mio vicino di là dal colle

 e un giorno ci vediamo per percorrere

il confine e fra noi rifare il muro.

[…] Là dove è il muro un muro non ci serve:

lui ha tutto a pineta, e io ho un frutteto di meli.

 I miei alberi mai sconfineranno

per mangiare le sue pigne, glielo dico.

Ma lui: «Buoni confini fanno buoni vicini».

La primavera mi rende insofferente, qualcosa

vorrei fargli capire: «Ma perché

fanno buoni vicini? Forse dove

stanno le mucche: ma qui non ce ne sono.

Prima di fare un muro dovrei chiedermi

quello che intendo riparare o escludere,

e a chi potrei recar danno.

Qualcosa c’è che non sopporta un muro

che lo vuole abbattuto».

(R. Frost, Rabberciare un muro, in Idem, Conoscenza della notte e altre poesie, tr. G. Giudici, Mondadori, Milano 21994, pp. 55-57).

 Preghiere e racconti

I dieci lebbrosi

I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole

tutti guariti, mostrandosi la pelle sana

liberati dall’immonda raganella

che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.

Uno solo si gira, inquieto di camminare

fra due ombre: una dietro di lui

come i nove compagni e l’altra

leggera, davanti a lui, già calante

come se il suo dorso restasse rischiarato

dall’oriente, lo sguardo intravisto

che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti

– la Vita che si dona, dimenticata dalla vita

che segue e ricomincia. Dov’era il miracolo

prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.

Gli altri nove sono lontano. Allora, lui decide

di risalire il fiume della strada.

(J.P. Lemaire, La rotta)

La sofferenza come maestra

 Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.

Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla. 

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).

«Se vuoi, puoi purificarmi!»

Chi supplica la volontà, non dubita del potere.

E stendendo la mano Gesù lo toccò e disse: «Lo voglio: sii mondato». E sull’istante fu mondato dalla sua lebbra (Mt 8,3). Appena il Signore stende la mano, subito la lebbra scompare. Ma osserva anche quanto sia umile e immune da vanità la sua risposta. Il lebbroso aveva detto: «Se tu vuoi», e il Signore risponde: «Lo voglio». Il lebbroso aveva detto: «Puoi mondarmi», e il Signore replica dicendo: «Sii mondato». Non dobbiamo congiungere le due parti della risposta, come credono molti latini, che leggono: «Ti voglio mondare»; dobbiamo tenerle separate, sicché egli prima dice: «Lo voglio», e poi, dando un ordine: «Sii mondato».

E Gesù disse: «Guardati dal dirlo ad alcuno» (Mt 8,4). E, in verità, che necessità aveva il lebbroso di fare tanti discorsi sulla sua guarigione, quando il suo corpo guarito parlava per lui?

«Ma va’, mostrati ai sacerdoti e presenta l’offerta che Mosè ha prescritto, affinché serva a loro di testimonianza» (Mt 8,4). Per varie ragioni lo manda ai sacerdoti. In primo luogo, per un atto di umiltà, affinché cioè il lebbroso risanato rendesse onore ai sacerdoti: era infatti prescritto dalla legge che coloro che venivano mondati dalla lebbra presentassero un’offerta ai sacerdoti. Poi perché i sacerdoti, vedendo che il lebbroso era stato mondato, potessero credere al Salvatore, oppure si rifiutassero di farlo: se avessero creduto sarebbero stati salvi; se si fossero rifiutati di farlo, la loro colpa sarebbe stata senza attenuanti. E infine perché si rendessero conto che egli non infrangeva la legge, cosa di cui tanto spesso lo accusavano.

(SAN GIROLAMO (+ 419/420), Commento al Vangelo di Matteo I, 8,2-4, in GIROLAMO, Commento al Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova Editrice, 1969, 63-64).

Dalla Leggenda Maggiore

Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.

San Francesco, la fede e la vista dei lebbrosi

Nel “Testamento” redatto (o meglio dettato) da Francesco, si trova una frase che pare essere la chiave di comprensione della vita di questo giovane: «Quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e con essi usai misericordia»(Cf. Fonti Francescane, Padova 2004, n. 110).

«E ciò che mi sembrava amaro  continua il testo  mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo». Ciò che fece scattare la conversione di Francesco fu dunque la vista dei lebbrosi. Egli si lasciò condurre dal Signore, e ciò che prima gli appariva ripugnante gli si cambiò in dolcezza. Da questa storia emerge un’altra immagine di Dio che è un’altra immagine dell’uomo. Quando è in crisi l’immagine di Dio è in crisi l’uomo, e viceversa. Dobbiamo dunque alimentare la nostra fede sposando la causa degli ultimi, come fece otto secoli fa Francesco, e non per semplice carità cristiana e nemmeno soltanto per un senso di giustizia. La nostra unica giustizia non è altro che Cristo, che ci sprona e ci possiede. Il nostro senso di giustizia, infatti, è sempre storicamente determinato e, quando l’avessimo realizzato, ci troveremmo magari a essere oppressori degli ultimi (ieri lebbrosi soltanto, oggi lebbrosi ammalati di AIDS). La nostra immagine di giustizia è una nostra via, ma le vie della giustizia di Dio non sono le nostre vie. La nostra via, e qui è sempre Paolo a ricordarlo, è il Cristo «crocifisso per la sua debolezza» (2Cor 13,4), perciò io devo compiacermi «nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Restituire a Dio la sua santità, abolendo le immagini letterarie o scientifiche che presumono di tradurlo, non vuol dire cadere in un fideismo cieco. Chi parla di Dio con sicurezza da professore è potenzialmente un uomo iniquo. Solo se c’è adorazione, tremore, incapacità a volte di dire chi è Dio se non vedendolo nell’aspetto repellente del lebbroso, allora c’è anche rispetto per l’uomo. Francesco trovò la fede, e quindi la verità, sotto la santità e la durezza della croce, nel volto sfigurato dei malati. Ritrovare la fede, dunque, significa, sul piano storico, farsi garanti della libertà e della vita della persona; abolire tutte le barriere, tutte le discriminazioni consumate sulla stessa vita umana nello sterile e misero dibattito su ciò che è vita e ciò che vita non è; riconoscere che vita è sinonimo di giovinezza perenne dello spirito, indipendentemente dagli anni o dalla condizione fisica o sociale, respingendo le catalogazioni che rendono ancora così disumana la nostra società postmoderna.

Da persone come Paolo e Francesco inizia un discorso che va lasciato al silenzio di ognuno, ma che non può risolversi se non in un rinnovato impegno ad adoperarsi perché cambi questa società e sia non un luogo di divisioni e di conflitti, ma di unione nel Cristo, segno di unità tra tutti gli uomini. Non di competizione e conflittualità parlano Paolo e Francesco, ma di animazione cristiana interna al cammino storico fino alle prospettive che superano miti e dualismi e si identificano con l’eterna comunione con quel Dio che sarà un giorno Tutto in tutti.

(Franco CAREGLIO, San Paolo e San Francesco, giovani per i secoli, in «Paulus» (2009) 2).

Coraggio, fratello che soffri

Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.

Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

(Don Tonino Bello)

Che significato ha una malattia nel corso della vita?

Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.

Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radici, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.

Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabilmente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soccombe?

Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distruzione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.

Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può crescere anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.                                    

Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre?

(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130)

Insegnaci a non amare solo noi stessi

Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi,

a non amare soltanto i nostri cari,

a non amare soltanto quelli che ci amano.

Insegnaci a pensare agli altri,

ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.

Concedici la grazia di capire che in ogni istante,

mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te,

ci sono milioni di esseri umani,

che pure sono tuoi figli e nostri fratelli,

che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame,

che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.

Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo;

e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.

Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.

(Raoul Follereau)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO B

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7

Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».

Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è destinato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).

     Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al versetto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope. Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili. Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fondamentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dall’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui. Il «vedere» di Giobbe e di Dio.

     Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente alternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio. «L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1). Il paragone della vita è il servizio militare (cf. Gb 14,14) duro, senza possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato. A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf. Gb 14,6) e lo schiavo. La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf. Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dallo schiavo (Gb 7,2). Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).

     Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti. Egli insiste sull’insonnia. La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica. Le ore della notte sembrano interminabili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo conforto. La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf. 3,6, 9,25).

     Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf. 19,20; Ab 3,16). La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo. Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio,  come il responsabile ultimo della vita. A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita umana. Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, perché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale. Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10). L’immagine del vedere è molto insistente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).

    

Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23

Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!  Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. 

Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense materiali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa. Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire. Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

     Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi. E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce. Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf. 1Ts 2.9).

     Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predicare. Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, senza nessuna imposizione. Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno. Paolo dunque proclama di essersi messo in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto delle loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22). Il Vangelo non va predicato e basta. Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo accettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).

Vangelo: Marco 1,29-39

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».  E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

 

Esegesi 

     La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guarigione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf. Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf. Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf. Mt 4,23).

     Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo familiare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.

     Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf. 1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.

     Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione. I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suocera, che del resto rimane nell’anonimato.

     Il verbo puresso, avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.

     Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano». In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda alla febbre di lasciarla.

     La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre. Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.

     Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».

     Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neutro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».

     «Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.

     Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due termini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».

     Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34). È ricorrente in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità. Vengono tacitati i demoni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37). Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9). Soltanto con la risurrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente. Tale teoria risale a W. Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formulata da questo autore.

     Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo. Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare. Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35). Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la preghiera di Gesù. Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21). Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12). Mentre è un’altra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf. Lc 9, 28-29). A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).                                         

     Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che seguiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio. Possiamo pensare, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’opera finora compiuta secondo il volere del Padre. Tale opera è predicare. I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf. Mc 1,15).

     Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).

     «E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf. 1,34; 7,29; 16,9). È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predicazione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno della vicinanza del regno di Dio (cf. Mt 12,28).

Meditazione

L’evangelista Marco apre il suo Vangelo narrando la prima giornata di Gesù a Cafarnao. È come una giornata tipo di Gesù. E ci appare subito molto diversa dalle nostre giornate, segnate spesso dalla monotonia, dalla tristezza, dalla banalità, e talora dal nonsenso. Altre volte invece è la durezza e la drammaticità della vita a prendere il sopravvento. E sen­tiamo vere anche per noi le parole scritte nel libro di Giobbe: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?» (Gb 7,1). Se poi il nostro sguardo si allarga verso coloro che sono più direttamente toccati dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla malattia e dalla guerra, il lamento di Giobbe assu­me un valore ancor più tragico: «A me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba… Ricordati che un soffio è la mia vita; il mio occhio non rivedrà più il bene» (7, 6-7). La vita degli uomini è davvero dura, ci dice questo brano della Scrittura. Lo constatiamo soprattutto di questo tempi, in cui la crisi economica colpisce tanti, soprattutto i più poveri. Ebbene, la «giornata di Cafarnao», potremmo dire, quella che oggi ci è stata annunciata dal Vangelo, entra dentro le nostre giornate per infondervi forza ed ener­gia, quasi come il lievito che messo nella pasta la fermenta tutta.

Dopo aver scacciato uno spirito impuro da un poveretto mentre si trovava nella sinagoga di Cafarnao, Gesù si reca nella casa di Simone e Andrea, dove probabilmente come altre volte cercava un po’ di tran­quillità e di pace. Ma non fa in tempo ad entrare in casa che subito gli prospettano un caso: la suocera di Simone è febbricitante. Senza frap­porre tempo Gesù si avvicina a lei e la guarisce; non dice nessuna paro­la, neppure una preghiera, la prende per mano e la fa alzare. E una narrazione semplice che contiene però tutta la forza vittoriosa di Gesù contro il male. Non è solo un caso che l’evangelista per indicare la gua­rigione della donna usi lo stesso verbo che usa per la resurrezione di Gesù (Mc 16,6). La risposta della donna — «essa li serviva» — non è un semplice gesto di grata cortesia, ma la «diaconia» (questo è il verbo usato per indicare quello che la donna si è messa a fare), ossia il servizio al Signore e ai fratelli. In questa guarigione sono in certo modo presen-ti tutte le altre, sia quelle che Gesù farà nel corso della sua vita terrena sia quelle dei discepoli di allora e di ogni tempo. Infatti, subito l’evangelista allarga la scena e passa dalla guarigione di una singola persona alle guarigioni di tanti. Non siamo più nella casa di Simone, ma alla porta della città. In un giorno Gesù è entrato in ogni luogo di vita: la sinagoga, luogo della preghiera, la casa, la porta della città, luogo dell’incontro. Il Vangelo di Gesù non ha confini. Egli va ovunque, non solo da coloro che se lo aspettano o che lo conoscono. Gesù è venuto a lottare contro il male, contro ogni tipo di male, sia fisico che mentale-psichico, con la su parola e la sua opera. Emerge già qui, nella prima pagina del Vangelo, e così deve essere nella vita della Chiesa, quella «compassione» per i deboli, per i malati, per i poveri, per le folle stanche e sfinite di cui spesso sentiremo parlare nei Vangeli delle prossime domeniche e che riassume in certo modo tutta la missione di Gesù.

Viene spontaneo pensare ai milioni di persone colpite dalla guerra, dalla fame che vagano cercando una porta a cui bussare, e constatare con indicibile tristezza che sempre più spesso il loro durissimo pellegrinaggio è stroncato dalla ferrea chiusura di tutte le porte delle case degli uomini. E come non pensare anche alle porte delle nostre chiese par-rocchiali e chiedersi: sono le loro porte come quella della casa di Cafarnao? Riescono le nostre chiese ancora a radunare davanti a sé tutta la città? e se, come più spesso accade, sono approdo di speranza per poveri e disperati sanno, quelle porte, aprirsi per consolare e guarire? come vengono trattati quei mendicanti che si fermano davanti alle porte per chiedere l’elemosina?

E c’è anche un altro interrogativo che ci riguarda personalmente: non siamo noi tutti, chi in un modo chi un altro, tutti malati? San Girolamo, commentando questo brano evangelico, non esita a dire che ciascuno di noi è malato, febbricitante: «Quando sono colto dall’ira, ho la febbre; anzi, ogni vizio è febbre». Tutti siamo malati e febbricitanti, quindi bisognosi di affollarci davanti alla porta della casa del Signore. E il Vangelo non sembra neppure chiedere una particolare chiarezza di coscienza. Tutta quella folla non sapeva bene cosa ci fosse dietro quella porta, ma certo aveva riposto solo in quel luogo la sua speranza; del resto tutte le altre porte erano rimaste chiuse. Ora in tanti speravano che di lì uscisse un aiuto, qualcuno che li sollevasse dalla condizione triste in cui versavano. L’evangelista dice che Gesù ne guarì molti. E quando tutti erano andati via, guariti e rincuorati, Gesù continuò la sua giornata. Noi ci saremmo forse ritirati stanchi ma orgogliosi e soddisfatti. Gesù uscì e si recò in un luogo appartato, per pregare. Quel momento era, in verità, il culmine e la fonte di tutte le sue giornate, di tutto ciò che faceva. Era la sua prima e fondamentale opera. E possiamo allora immaginare la preghiera notturna di Gesù dopo che, per un giorno intero, aveva toccato con mano le angosce e le speranze di tanta gente. L’intimità con il Padre non era una fuga dal mondo e dalla vita per godersi finalmente un po’ di tranquillità, che pure sarebbe stata ben meritata. Molto più verosimilmente tali incontri erano colloqui appassionati (forse anche drammatici) tra il Figlio e il Padre sulla mis­sione che aveva ricevuto, sulle condizioni del mondo, sulla salvezza di tutti coloro che Gesù aveva incontrato e su quella degli altri che avreb­be dovuto e voluto incontrare ancora. Questo può spiegare la sua rea­zione quando i discepoli, dopo averlo raggiunto, gli dicono che tutti lo cercano: «Andiamocene altrove, — risponde — nei villaggi vicini, perché io predichi anche là». Gesù non si ferma in una sola casa, in un solo gruppo, in un clan, in una sola nazione; e non esce da una sola porta. Egli vuole visitare tutte le case e tutte le città, perché ovunque c’è biso­gno del Vangelo. E vuole che i discepoli, di ieri e di oggi, non si chiu­dano in una sterile autoreferenzialità, ma sentano l’urgenza di conti­nuare a comunicare il vangelo ovunque nel mondo.

Lo capì bene Paolo: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!». La comunicazione del Vangelo è una responsabilità da sem­pre affidata ad ogni singolo credente e ad ogni singola comunità cristia­na. E forse è proprio questa responsabilità la medicina che ci fa alzare dalle febbri dell’egocentrismo e che ci permette di aiutare e guarire chiunque ha bisogno di salvezza. Una Chiesa senza missione, senza annuncio del Vangelo, è una Chiesa autoreferenziale, che parla sempre di se stessa e a se stessa, ed è destinata ad inaridirsi. Quel «guai» non è una minaccia, ma un monito sì, perché nella Bibbia il «guai» è usato per i lamenti funebri. Una comunità che non vive la passione missiona­ria, si celebra già il suo funerale. Paolo lo sapeva bene, perché aveva esperimentato su di sé la forza del vangelo del Signore morto e risorto. Per questo l’apostolo «si è fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno». Questa fu la sua vita, che per noi rimane una domanda e una sfida. 

 L’immagine della domenica

 

La notte

In una notte oscura,

con ansie, dal mio amor tutta infiammata,

oh, sorte fortunata!,

stando la mia casa al sonno abbandonata.

Al buio e più sicura,

per la segreta scala, travestita,

oh, sorte fortunata!,

al buio e ben celata,

stando la mia casa al sonno abbandonata.

(Giovanni delle Croce, Salita al Monte Carmelo, strofe 1-2).

Preghiere e racconti

Non passate oltre davanti alla sofferenza umana

«Cari giovani, che l’amore di Dio per noi aumenti la vostra gioia e vi spinga a rimanere vicini ai meno favoriti.

Voi che siete molto sensibili all’idea di condividere la vita con gli altri, non passate oltre davanti alla sofferenza umana, dove Dio vi attende affinché offriate il meglio di voi stessi: la vostra capacità di amare e di compatire. Le diverse forme di sofferenza che, lungo la Via Crucis, sono sfilate davanti ai nostri occhi sono chiamate del Signore per edificare la vita seguendo le sue orme e fare di noi i segni della sua consolazione e salvezza. «Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente  questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso». Auspico che sappiamo accogliere queste lezioni e metterle in pratica. Volgiamo lo sguardo perciò a Cristo, appeso sul ruvido legno, e chiediamogli che ci insegni questa sapienza misteriosa della croce, grazie alla quale l’uomo vive».

 (Viaggio apostolico di sua santità Benedetto XVI a Madrid (Spagna) in occasione della XXVI Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto 2011). Via crucis con i giovani nella Plaza de Cibeles – Madrid, 19 agosto 2011).

Amare le domande, vivere le risposte

Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato. A questo proposito, rileggo spesso il consiglio del poeta Rainer Maria Rilke:

“..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle. Il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora. Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.

 (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).

Diventare l’amato – Spezzato

La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a distanza, ignorarla, aggirarla o negarla. La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non dovrebbe esserci. È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.

Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se favorirla può sembrare a prima vista masochismo. Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore. Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “essere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa. Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).

Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese

Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.

Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.

La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.

“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in un’intervista telefonica. “Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.

Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.

Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.

Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura. “Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per contribuire alla società”.

Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.

La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006. Il porporato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.

“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’. Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato. “Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.

“Ora penso ‘Perché non io?’. Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.

Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.

Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.

(Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina. Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946. E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955. E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991. Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006).

La prospettiva della sofferenza e della morte

Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speranza di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.

Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà. È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare. Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi. Gesù è il «Dio che soffre con noi». Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologicamente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario. Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non esporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri. È per questo che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica meglio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.

L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare queste sofferenze in un mezzo di liberazione. Probabilmente conosci bene le obiezioni sollevate da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio. Come può Dio amare davvero il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inutile?

I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivide le loro sofferenze. In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà. E loro compagno nella sofferenza. Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino. Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta. È solidale con loro. Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).

«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano»

Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39). Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto. E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amorevolmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).

Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).

È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento. Anzi, non solo torna la salute, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata. Per dirla con linguaggio figurato, le membra che avevano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf. Rm 6,19).

(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang. Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commento al Vangelo di Marco. Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol. 1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p. 61-63).

Dammi coraggio

Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.

Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.

Non darmi alleati nella lotta della vita… eccetto la forza che mi proviene da te.

Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.

Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo;

ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

Preghiera per il servizio

Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo. Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia. Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza. Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOM TEMP ORD ANNO B

 

«Ripensare l’orizzonte educativo dell’IRC»

I giorni 14 e 15 del prossimo mese di marzo se celebrerà all’Università Pontificia Salesiana (Piazza Ateneo Salesiano, 1 – 0013 ROMA) il convegno di aggiornamento, tanto per docenti di religione come per responsabili regionali e diocesani dell’IRC, sul tema del «Ripensare l’orizzonte educativo dell’IRC».  L’«Istituto di Catechetica» della Facoltà di Scienze dell’Educazione promuove questo convegno con l’obiettivo di fare il punto sulla situazione attuale dell’insegnamento della religione e confrontarla con l’orizzonte educativo proprio dell’IRC.

Altre informazioni:

Identità, obiettivo, programma e «note organizzative» del Convegno.

Dépliant del Convegno

Testo orientativo di base per il Convegno:

–      Leggere: Introduzione e sommario del libro.

–      Acquistare: LAS

 

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