Comunicazione e misericordia

Nel suo messaggio per la 50° Giornata mondiale per le comunicazioni sociali, Papa Francesco, nell’anno del Giubileo straordinario, invita a riflettere sul rapporto tra comunicazione e misericordia.
Per comprendere meglio e concretizzare le numerose indicazioni che il Papa offre nel suo Messaggio, l’Associazione WebCattolici Italiani (WeCa), in collaborazione con l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, propone dal 30 marzo al 4 maggio 2016 sei incontri in diretta streaming con esperti in materia di educazione, politica, società e pastorale, sullo stile degli incontri de “La Rete: come viverla?” trasmessi nel 2014. 

Questi sei brevi ‘dialoghi’, condotti dal giornalista di TV2000 Fabio Bolzetta, serviranno a capire come, sull?esempio di Papa Francesco, sia possibile rendere più autentica ogni nostra comunicazione.
Ecco, data per data, i nomi degli ospiti (ulteriori dettagli nell’allegato a questa pagina): 

30 marzo
“Comunicare significa condividere”, Pier Cesare Rivoltella, CREMIT – Università Cattolica del Sacro Cuore
» VIDEO » Sintesi dell’incontro
 
6 aprile
“Tra cyber-bullismo e cyber-educazione“, Maria Filomia – Università di Perugia
» VIDEO » Sintesi dell’incontro

13 aprile 
“Comunicazione politica e opinione pubblica”,  con Paolo Mancini – Università di Perugia
» VIDEO  » Sintesi dell’incontro
 
20 aprile
“Cittadinanza digitale: responsabilità e bene comune”, con Luigi Ceccarini – Università di Urbino
» VIDEO  » Sintesi dell’incontro
 
27 aprile
“Un’etica possibile per una comunicazione che cambia” con Adriano Fabris – Università di Pisa
» VIDEO  » Sintesi dell’incontro
 
4 maggio
“Comunicare la fede tra i cristiani del 2016” con suor Maria Antonia Chinello – Pontifica Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium
» Link al prossimo incontro

Gli incontri, accessibili a tutti, sono una preziosa opportunità di approfondimento e di formazione per gli operatori di pastorale nelle diocesi, nelle associazioni e nelle parrocchie, per insegnanti ed educatori, per chi è impegnato nella politica e nel terzo settore e per tutti coloro che a vario titolo si spendono nel mondo della comunicazione.

Gli incontri saranno trasmessi in diretta streaming sul canale Youtube www.youtube.com/webcattolici, sul sito www.weca.it e su quello della Gmcs2016, sulla pagina Facebook www.facebook.com/webcattolici.
L’appuntamento è per ogni mercoledì, da Pasqua fino alla Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.
Ogni incontro inizierà alle ore 18.30 per concludersi alle 18.55.
È possibile intervenire in diretta inviando domande all’indirizzo incontri@webcattolici.it, commentando sulla pagina Facebook di WeCa e su Twitter con l’hashtag #incontriweca.
Non serve alcuna prenotazione: è utile però manifestare il proprio interesse inviando una mail all?indirizzoincontri@webcattolici.it per venire informati durante tutta la durata della proposta.
Tutti i dialoghi saranno resi immediatamente disponibili dopo la loro messa in onda sul sito e sui profili social di WeCa per poter essere seguiti in differita.

È tempo di una “ecologia integrale”

«Il dato prevalente è che il lavoro in Italia manca». Parte da questa constatazione il Messaggio per il 1° maggio firmato dalla Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro della CEI.
Il tempo di crisi che stiamo attraversando rischia di rendere tutti incapaci «di fermarci e tendere la mano a chi è rimasto indietro» scivolando «nel disinteresse per il destino dei nostri fratelli».
Oggi più che mai – secondo i Vescovi – «c’è quindi bisogno di educare al lavoro», che «deve tornare a essere luogo umanizzante, uno spazio nel quale comprendiamo il nostro compito di cristiani, entrando in relazione profonda con Dio, con noi stessi, con i nostri fratelli e con il creato».
La dimensione educativa del lavoro – si legge ancora nel testo – «va ritrovata anche all’interno delle istituzioni formative, facendo in modo che scuola e lavoro siano due esperienze che si intrecciano e interagiscono: i giovani devono poter fare esperienze professionali il prima possibile, così da non trovarsi impreparati una volta terminati gli studi».
L’ultima denuncia è quella della profonde disuguaglianze tra il Nord e il Sud del Paese: «senza un Meridione sottratto alla povertà e alla dittatura della criminalità organizzata – è la conclusione del Messaggio – non può esserci un Centro-Nord prospero».

Guarda le iniziative diocesane per la festa dei lavoratori.

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Atti 1,1-11

 

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». 

 

I primi tre versetti del libro degli Atti lo collegano strettamente al terzo vangelo: ne riassumono infatti il contenuto e ripetono il nome del personaggio a cui ambedue i libri sono dedicati: Teofilo (che può essere il nome di un personaggio storico o può essere soltanto il titolo dato al prototipo del cristiano: l’amico di Dio). Il riassunto del terzo vangelo qui proposto si sofferma soprattutto (nell’intero versetto 3) sul fatto che gli Apostoli sperimentarono a lungo e in maniera pienamente convincente che Cristo era tornato a vivere, dopo la sua passione e morte (cioè, era risorto): infatti era apparso a loro ripetutamente, istruendoli sul regno di Dio. L’espressione «per quaranta giorni» deve avere qui un valore simbolico: deve voler significare che l’esperienza del Cristo risorto fu bensì limitata e conclusa nel tempo, ma sufficiente perché agli Apostoli fosse dato un insegnamento pieno sulla missione a loro affidata.

     Nei vv. 4.8 sono quasi condensati, in un unico episodio, il lungo rapporto intercorso tra Gesù risorto e gli Undici e l’insegnamento che essi da lui ricevettero. L’espressione «mentre si trovava a tavola con essi» contiene forse una allusione alla verità indiscutibile della sua risurrezione (non era un fantasma!) e alla familiarità conviviale con cui il risorto si intratteneva con i suoi. Elemento importante dell’insegnamento di Gesù risorto è considerato quello che riguarda lo Spirito Santo, il quale con la sua forza avrebbe portato a compimento la loro formazione di discepoli. Altro elemento importantissimo di quell’insegnamento è

l’orizzonte universale della missione affidata agli Undici da Gesù: «di me sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra». L’universalità di questa prospettiva è presentata con grande decisione, tale da far apparire quasi insignificante il desiderio di conoscere i tempi e i momenti della ricostruzione del regno di Israele; quel desiderio è destinato quasi ad annegare nella vastità dei disegni del Padre.

     I versi 9-11 contengono diversi messaggi tra loro coordinati. Il primo è che Gesù ha concluso la sua presenza visibile sulla terra, essendo rientrato nel modo di essere proprio di Dio, come suggerisce la frase: «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (la nube è infatti, nell’Antico Testamento, il nascondiglio e insieme il segno della presenza di Dio). Un altro insegnamento è che ormai la testimonianza su Gesù e del suo vangelo è affidata esclusivamente ai suoi discepoli: questo sembra vogliano suggerire i due misteriosi uomini in bianche vesti, che li invitano a non restarsene lì incantati a cercare con lo sguardo colui che fu elevato in alto. Un ultimo insegnamento è che quel Gesù che non è più visibile con gli occhi, tornerà un giorno e sarà di nuovo visibile, nella sua veste di giudice supremo e universale.

 

Seconda lettura: Ebrei 9,24-28; 10,19-23

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso. 

 

La lettera agli Ebrei, nel brano che costituisce la nostra seconda lettura, pur non facendo alcun riferimento al racconto del libro degli Atti che include il fatto dell’ascensione del Signore, sembra che ne illustri il profondo significato teologico.

     Come nel libro degli Atti, anche qui è detto che Gesù «è entrato… nel cielo… per comparire ora al cospetto di Dio» (9,24). Per poter approfondire il significato dell’ingresso di Gesù nel cielo, che era un elemento comune della predicazione nella Chiesa primitiva, l’ignoto autore della lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra la persona di Gesù e le pratiche cultuali degli Ebrei, concentrate nel tempio di Gerusalemme. In particolare, qui sembra evocata la festa dell’Espiazione, quella che oggi è per gli ebrei, accanto alla Pasqua, una delle feste religiose più importanti, col nome di jôm Kippùr. Elemento centrale di questa celebrazione era quello che si può chiamare il rito del sangue: il sommo sacerdote, passando oltre il velo che separava il luogo santissimo dalla zona del sacrificio, ungeva il coperchio dell’Arca (detto in ebraico kappòret e tradotto con il termine propiziatorio) con il sangue del vitello e del capro offerti quel giorno in sacrificio per l’espiazione dei peccati dello stesso sacerdote e di tutti gli israeliti (Vedi Levitico, 16). Nella nostra lettura, Gesù Cristo è visto come il celebrante di una nuova festa dell’Espiazione: egli è penetrato nel cielo stesso portando il proprio sangue, quello sgorgato dalla sua persona, e ha ottenuto una volta per tutte di togliere i peccati di molti. Conseguenza grandiosa di questi fatti è che si è aperta una via nuova e vivente, la persona stessa di Gesù Cristo immolatasi per il mondo intero, che consente anche a noi di entrare nel santuario, cioè nella casa di Dio. Perché questo accada è però necessario avere il cuore purificato e il corpo lavato con acqua pura, nella luce della fede e nella professione della speranza: il che vuol dire avere accolto la testimonianza della predicazione apostolica ed essere entrati a far parte della Chiesa voluta da Gesù.

 

Vangelo: Luca 24,46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

 

Esegesi 

     Chi pensasse di trovare nel vangelo di Luca il racconto circostanziato dell’ascensione al cielo di Gesù, così come in certi apocrifi è raccontata l’ascensione di altri personaggi biblici, resterebbe deluso. Al fatto in se stesso il testo evangelico dedica solo queste parole: «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Queste parole appartengono alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l’intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un’intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.

     Come si vede, il tema che riempie tutta la durata di questo specialissimo giorno è quello della risurrezione del Signore Gesù, che si conclude con il mandato, affidato agli Undici, di testimoniarla «sino ai confini della terra».

     Diamo qui di seguito il senso globale del brano conclusivo del terzo vangelo, che costituisce la nostra lettura evangelica, senza indugiare sull’analisi dettagliata delle sue singole frasi.

     Poiché Gesù Cristo è realmente risorto, la sua passione e la sua morte non sono e non debbono considerarsi una sconfitta, ma una vittoria sul peccato, sicché a tutti è adesso accessibile il perdono dei peccati. E se il peccato è stato sconfitto non c’è più ragione che l’umanità continui a camminare nella strada della sua rovina, ma può cambiare strada, può dare inizio alla propria conversione. È per l’appunto questa la missione che Gesù intende affidare ai suoi discepoli: egli vuole che essi siano i suoi testimoni. Cominciando da Gerusalemme, la loro testimonianza dovrà arrivare a tutte le genti. A tutte le nazioni della terra, a tutti i popoli, dovrà arrivare la lieta notizia di Gesù Cristo, che ha predicato il vangelo e per questo è stato inchiodato sulla croce ed è morto, ma il terzo giorno è risorto. Per intraprendere questa missione, i discepoli di Gesù hanno però bisogno di una forza dall’alto, hanno bisogno cioè che scenda su di loro la forza dello Spirito Santo, secondo la promessa già fatta ai profeti per gli ultimi tempi. Dopo aver raccomandato loro di restare in Gerusalemme fino alla discesa dello Spirito, con un’ultima benedizione, Gesù «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». La testimonianza della risurrezione poteva così essere completata con quest’ultimo elemento: l’ingresso di Gesù nella vita divina del cielo. Egli dunque non doveva essere considerato assente o lontano dalla vita degli uomini sulla terra, ma doveva essere considerato sempre vicino quanto Dio lo è a tutta la sua creazione.

    L’immagine della domenica

Zaanse schans….Olanda  –   2016

 

C‘è un altro mondo

Il suo tempo non è il nostro tempo, il suo spazio non è il nostro spazio; ma c’è. Non si può situarlo, né assegnargli una localizzazione in alcun posto del nostro universo sensibile: le sue leggi non sono le nostre leggi; ma c’è.

lo l’ho visto, con lo sguardo dello spirito, slanciarsi, quale ‘folgorazione silenziosa’, trascendenza che si dona. […] C’è quasi contraddizione permanente a parlare di quest’altro mondo, che è qui e che è là, come del «regno dei cieli» del vangelo, che può rendersi intelligibile senza parole e visibile senza figure, che sorprende totalmente senza confondere; ma c’è. È verso quest’altro mondo in cui si innesta la risurrezione dei corpi che tutti noi andiamo; […] Non è in una forma eterea che entreremo, ma nel pieno cuore della vita stessa, e vi faremo l’esperienza di quella gioia inaudita che si moltiplica di tutta la felicità che dispensa attorno a sé, e del mistero centrale dell’effusione divina.

(A. FROSSARD, C’è un altro mondo, Torino 1976, 142s.).

 Meditazione 

     La liturgia della parola della solennità odierna ci presenta due racconti del medesimo avvenimento – lo staccarsi definitivo di Gesù, in modo fisico, da questa terra e dai discepoli – narrati dallo stesso autore. Ciò è dovuto alla grande maestria letteraria e teologica dell’evangelista Luca, non certo a una svista! La differenza che salta maggiormente agli occhi è la cronologia: nel brano evangelico l’ascensione avviene la sera stessa di Pasqua (dato storicamente inverosimile, dal momento che nel racconto dei due discepoli di Emmaus siamo già a sera inoltrata), mentre negli Atti degli apostoli si situa alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni. Tale diversità si spiega a partire da una diversa prospettiva teologica: nell’evangelo tutta l’attenzione è concentrata su Gesù e sulla novità che il giorno di Pasqua porta, non c’è più tempo e spazio per narrare dei discepoli ed è Gesù che domina l’ultima scena; negli Atti degli apostoli è la comunità dei discepoli che diviene soggetto, il tempo è più disteso e si sviluppa il cammino della Chiesa.

     Comunque sia, il fatto si svolge a Gerusalemme, meta del pellegrinaggio terreno di Gesù (cfr. Lc 9,51 ss.) e luogo della sua morte e risurrezione. Lo spazio più sacro della città santa è il tempio, con cui si apre (cfr. 1,8 ss.) e si chiude il racconto evangelico. Ma ora è Gesù stesso il tempio, il luogo dove abita la presenza di Dio e noi siamo portati, insieme con lui, alla destra dell’Altissimo!

     Gerusalemme è anche il luogo dove scenderà lo Spirito santo (cfr. Lc 24,49; At 1,5), che i discepoli devono attendere: si compie l’ultima e principale promessa di Gesù, che introduce alla comunione trinitaria e che abilita alla missione tra le genti. L’Ascensione è pertanto momento di passaggio, di attesa tra la Pasqua e la Pentecoste: c’è il tempo per prepararsi a rendere testimonianza al Signore risorto, che ora siede nei cieli.

     Ma qual è dunque il messaggio, l’incarico a cui sono chiamati i discepoli «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8)? «La conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47), la possibilità per ogni uomo di veder rinascere la propria esistenza, di vederla segnata dalla misericordia affinché a tutti si rechi nuovamente misericordia. Il contenuto del messaggio sembra semplice, seppur straordinario; ciononostante, perfino in quel momento, regna l’incomprensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). Quanta fatica a staccarsi dai propri progetti, quale conversione chiede tenere insieme il nostro mondo con quello di Dio…

     È lo stesso Gesù a guidare il gruppo nel momento del distacco. Come i patriarchi, si separa da loro mediante la benedizione, un ultimo gesto di sostegno e vicinanza che sostituisce le parole. Se la prima reazione dei discepoli è quella dello sconcerto, della perplessità, del disorientamento, forse anche della nostalgia – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1,11) – subito subentra l’azione missionaria e della preghiera, da svolgersi nella lode (cfr. Lc 24,53) e nell’attesa del ritorno del Signore: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). Non c’è pertanto un distacco radicale, una separazione: la tristezza che aveva caratterizzato i discepoli nell’ultima sera trascorsa insieme a Gesù viene rimpiazzata dalla le-tizia di saperlo non nel regno dei morti ma dei viventi, di Dio! Ecco perché l’ultimo gesto nei confronti di Gesù è quello della prostrazione – unico caso in tutto il vangelo di Luca – attraverso il quale si riconosce la divinità del Signore.

     Mi sembra estremamente significativo che il Signore Gesù introduca i discepoli alla predicazione missionaria mediante il richiamo alle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (Lc 24,46). Nonostante siano compiute, le Scritture restano determinanti per interpretare e conoscere sempre meglio la persona di Gesù: sono il compagno di viaggio dell’autentico discepolo del Signore. 

Preghiere e racconti

Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”. Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai? Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai? “La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”. Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile. L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”. Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione. E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”. Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore? Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore. “L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”. L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”. Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo. Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro. Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori. E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo. Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende. Scrive P. Tillich: “Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale. Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione. Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”. E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.

(Angelo Casati, in www.sullasoglia.it)

Trasfigurati dalla speranza

Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore; chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima.  Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare.  La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo.  Questa gente, si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli: Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo. C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana. Quella, per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”.  Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient  des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo. Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza.

(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll. VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).

Racconto

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.

Guardarsi dentro

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

Il cielo

«Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione».

(Joseph Ratzinger [BENEDETTO XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11)

«[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando  in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita».

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla spianata di Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso – col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA VII ASCENSIONE C

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 15,1-2.22-29

 

In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

 

 

La liturgia della Parola di questo tempo di Pasqua (anno C) sceglie solitamente per la Prima Lettura brani degli Atti degli Apostoli. Ciò perché in questi brani sono raccontati fatti della chiesa primitiva: così nel tempo di Pasqua si ri-presenta — a livello della liturgia — la nascita della chiesa. Questa nascita è frutto e risultato della risurrezione del Signore. Siccome Egli è risorto, i dodici discepoli e le donne si radunano di nuovo attorno a Lui. Alla fine del tempo pasquale, la solennità di Pentecoste ci fa rivivere la discesa dello Spirito Santo, che realizza e guida la Chiesa.

     Rilievi storico-esegetici

— Nel brano odierno si fa riferimento ad una grave crisi che sta scuotendo la chiesa primitiva. I cristiani che provengono dal mondo giudaico mettono ancora in pratica la legge giudaica e praticano la liturgia del mondo giudaico (la Torah). Il motivo di questa linea di condotta era duplice: primo, il fatto che Gesù stesso aveva ottemperato alla Torah e partecipato alle celebrazioni liturgiche del giudaismo, dato che era un Ebreo: lo stesso avevano fatto gli Apostoli e le donne insieme a Maria Madre di Gesù; secondo, la legge era stata anche rivelata da Dio: era parola e comandamento di Dio. Come la si poteva disattendere? Ecco perché i cristiani venuti dal giudaismo sostenevano che anche i cristiani che provenivano dal mondo pagano fossero tenuti ad osservare la legge giudaica (divina!).

— I primi cristiani, provenienti da ambito non giudaico vivevano ad Antiochia (nella Siria attuale), nella Cilicia (sud-est della Turchia attuale) ed un’altra area dell’Oriente. Essi avvertivano una certa perplessità davanti al fatto di dover osservare precetti biblici del giudaismo: Paolo e Barnaba, infatti, che li avevano portati alla fede cristiana, non ne avevano proprio parlato.

— L’importanza della nostra lettura (decurtata fortemente e privata di una parte notevole: mancano i vv. 3-21) è la seguente: Pietro, Paolo e Barnaba, alla luce della loro fede in Gesù Cristo, ritenevano che ad eccezione di alcune direttive importanti (ad es. il Decalogo), molti comandamenti non avevano se non valore provvisorio, limitato al mondo giudaico, ed erano sostituiti dalla fede in Gesù (Paolo aveva mostrato ciò specialmente nella Lettera ai Galati). Ma questo punto di vista non era chiaro per tutti. Molti lo rifiutavano, specie tra i cristiani della Chiesa Madre di Gerusalemme. Nella lettura noi vediamo come la Chiesa sia

concorde nell’esprimere il suo giusto punto di vista. Certo, Luca ha semplificato le lunghe e dure controversie nel racconto degli Atti. È probabile che ci fosse un clima animato e teso, più che una pacifica, lineare discussione.

     Ma l’importante, qui, è il fatto che emerge: sin dall’inizio alla chiesa si presentarono questioni nuove e imprevedibili, alle quali nessuno sapeva dare subito una risposta. Tuttavia, lo Spirito Santo, l’impegno degli Apostoli e di tutta quanta la Chiesa fecero sì che si approdasse ad una vera e giusta soluzione.

 

Seconda lettura: Apocalisse 21,10-14.22-23

 

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello.

 

 

Com’è noto, la struttura del libro dell’Apocalisse è caratterizzata dalla serie di sette settenari (7 chiese, 7 sigilli, 7 trombe, 7 visioni, 7 coppe e ancora 7 visioni…). La nostra pericope si colloca all’interno dell’ultimo settenario, che rappresenta, in certo senso, la conclusione di tutta la vicenda della Parola di Dio, da Abramo agli eventi finali. In questo settenario, il cap. 21 descrive la settima visione, quella in cui Giovanni contempla il realizzarsi della profezia di Is 65,17: «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente». In realtà, Giovanni vede una creazione trasfigurata, si direbbe in continuità con l’antica creazione, dove però non c’è più il mare (simbolo del male e della forza che fa resistenza alla liberazione dell’esodo…). Nel brano di questa domenica si riportano solo alcuni versetti di questa visione conclusiva, quelli che riguardano la Gerusalemme celeste.

     Chiavi di lettura

     È estremamente arduo entrare nei dettagli simbolici della visione e spiegarli singolarmente. Preferiamo offrire al lettore alcune chiavi di lettura, che chiariscano il senso teologico della descrizione.

     — Prima chiave di lettura: il compimento delle profezie. Ezechiele, nei cc. 40-48 descrive dettagliatamente il Tempio nuovo che sorgerà nella Gerusalemme escatologica. Questa città avrà un nome emblematico: «Il Signore è là» (Ez 48,35). Inoltre Isaia 60 rivolge una promessa a Gerusalemme: «Alzati, rivestiti di luce, perché… su di te risplende il Signore la sua Gloria appare su di te» (vv. 1-2). Quanto era promesso e annunciato come realtà futura dai profeti, ora Giovanni lo contempla come realtà presente. Questa Gerusalemme rappresenta la nuova umanità redenta, intimamente legata a Gesù Cristo, essendo la sposa dell’Agnello (21,9).

Seconda chiave di lettura: ecclesiologica. I fondamenti di questa città celeste sono 12, come in Ezechiele, ma Giovanni precisa che sono i nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello. I Dodici prolungano e realizzano l’unità del popolo di Dio formato dalle dodici tribù. Nel realizzare il suo disegno di salvezza. Dio vuole un accordo profondo ed un progresso all’insegna della continuità. La Chiesa non è che il punto di approdo del cammino del popolo di Israele. La chiesa non è massa di umanità anonima e priva di relazioni. La città ha la sua compattezza e le sue strutture; in essa gli individui sono legati da vincoli, conoscenze, interessi comuni, formando una comunità gioiosa e fraterna.

Terza chiave di lettura: ecumenica. La struttura della città è orientata, in mirabile simmetria, secondo i quattro punti cardinali: oriente, occidente, settentrione e meridione (tre porte per ogni punto cardinale, v. 13). La Chiesa di Dio non è una società chiusa, ripiegata sulla fruizione dei suoi privilegi (la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello, v. 23). La salvezza di cui essa gode si apre a tutta l’umanità e a tutto l’universo. Si potrebbe inoltre osservare che le iniziali dei quattro punti o coordinate universali (anatolé, dysis, àrktos, mesembría) formano esattamente il nome Adam il capostipite di tutta quanta l’umanità. Tutto il genere umano, fino agli estremi confini della terra, è chiamato ad accedere attraverso quelle porte e integrarsi nella luminosa società dei santi.

 

Vangelo: Giovanni 14,23-29

 

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate». 

 

Esegesi

     La pericope è desunta dai cosiddetti «Discorsi di addio» di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Si tratta di un complesso di insegnamenti (cc. 13-17) che l’Evangelista avrebbe raccolti da vari momenti del ministero di Gesù e posti sulle sue labbra nel momento più solenne della sua missione terrena (quando passa dalla sua esistenza terrena a quella celeste), una specie di testamento spirituale che illumina in retrospettiva tutto il senso della vita e dell’opera di Gesù. Nella nostra lettura è presentato lo Spirito Consolatore, inviato dal Padre, in preparazione alla ormai vicina Pentecoste.

     Annotazioni

     — «Se uno mi ama, osserverà la mia parola… (v. 23). Questa verità, qui enunciata in termini positivi, viene poi ribadita in termini negativiChi non mi ama, non osserva le mie parole», v. 24) e ripresa più avanti: «Se mi amaste, vi rallegrereste…» (v. 28). Questo amore, di cui parla Gesù, deve possedere due condizioni o prove di autenticità: 1. chi ama Gesù, osserva le sue parole, vale a dire vive di esse; 2. chi ama Gesù si rallegra che Gesù vada al Padre, cioè sia nella gloria, perché lì Egli si trova nella «casa del Padre» anche in quanto uomo.

     — «Vedremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Chi ama Gesù e vive, cioè realizza pienamente, le sue parole, diventa un tempio, nel quale dimora Dio. L’inabitazione di Dio nell’anima degli uomini costituisce uno dei doni più grandi che Dio possa elargire a noi sulla terra. In modo misterioso l’anima diventa «cielo sulla terra».

     — «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome…» (vv. 25-26). Dal greco (paráclétos): non solo nel senso dell’avvocato che difende gli uomini, ma anche nel senso di colui che parla e intercede in loro favore. «Paraclito» nel senso che noi siamo sostenuti e protetti da lui.

     — «Vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26). Lo Spirito Santo ci proteggerà perché ci farà capire la parola di Gesù, che non è altro che la parola stessa del Padre (v. 24). Svolgerà questo compito dando calore, forza e intelligibilità a tale parola nella nostra vita. Riporta alla memoria quella parola, non come qualcosa di dimenticato, ma come realtà riscoperta a livello più profondo di fede e di gioia cristiana.

     — «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (v. 27). Il prezioso bene della pace è dono di Gesù, è lui che ce lo lascia. Dove c’è Dio, ivi è la pace. Questa pace, intimamente commessa con la presenza di Dio, può sussistere anche in mezzo agli assalti o alle insidie del male, anche in mezzo alle sofferenze. Spesso i Santi parlano dell’esperienza di questa pace profonda, che nessuno al mondo può toglierci.

     —«Vado e tornerò da voi…» (vv. 28-29). Gesù non si sottrae che al contatto materiale, corporeo con noi. Ma egli ritornerà in due modi: primo, con lo Spirito Santo; secondo, alla fine dei tempi come Risorto nella sua gloria.

 

L’immagine della domenica

 

Andremo alla casa del Signore

Mi rallegrai quando mi dissero:

«Andremo alla casa del Signore».

E ora i nostri piedi

sono nell’interno delle tue porte,

Gerusalemme!

Gerusalemme costruita come città,

in sé ben compatta!

Là salivano le tribù, le tribù del Signore,

secondo il precetto dato a Israele

di lodarvi il nome del Signore.

Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio,

i seggi della casa di Davide.

Augurate la pace a Gerusalemme:

vivano in prosperità quanti ti amano!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore,

nostro Dio, chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121)

Montes de Oca – Villafranca (Cammino di Santiago) – 2007

 

 Meditazione

     La prima e la seconda lettura di questa sesta domenica di Pasqua ci offrono due immagini simboliche di Gerusalemme. Nel racconto degli Atti è la sede di un incontro, che la tradizione successiva definirà ‘concilio di Gerusalemme’, attraverso il quale la prima comunità cristiana dovrà assumere una decisione fondamentale per la sua storia successiva: se imporre o meno ai cristiani provenienti dal mondo pagano l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della legge mosaica. Il brano dell’Apocalisse ci porta invece a contemplare già la Gerusalemme celeste, che viene da Dio e risplende della sua gloria. Una

città perfetta, aperta a tutte le tribù di Israele (ma è un linguaggio simbolico per affermare che tutti i popoli della terra vi trovano ospitalità come nella loro vera patria). Anche le me-diazioni di ogni tipo – quelle religiose come il tempio, quelle cosmiche come il sole e la luna – vengono meno, poiché cedono il passo all’immediatezza della presenza di Dio e dell’Agnello, simbolo con il quale l’Apocalisse allude sempre al Signore Gesù crocifisso e risorto. Dio e l’Agnello sono il suo tempio e la sua luce. Se ora noi abbiamo bisogno di segni per incontrare il mistero di Dio e percepire la sua presenza nella nostra storia, allora potremo contemplare Dio faccia a faccia, senza più mediazioni. Se ora abbiamo bisogno di essere illuminati per camminare verso Dio, allora sarà Dio stesso a farsi nostra luce. Se ora

viviamo la nostra appartenenza ecclesiale come luogo di distinzione tra coloro che credono e coloro che non credono o vivono altre appartenenze religiose, allora scopriremo Gerusalemme come luogo di incontro di tutti i popoli. La città, infatti, ha porte aperte verso ogni punto cardinale; da ogni confine della terra i popoli vi giungeranno e potranno accedervi, come ricorda anche il salmo responsoriale:

Ti lodino i popoli, o Dio,

ti lodino i popoli tutti.

La terra ha dato il suo frutto.

Ci benedica Dio, il nostro Dio,

ci benedica Dio e lo temano

tutti i confini della terra (Sal 66,6-8).

     L’Apocalisse stessa, nei versetti che seguono immediatamente quelli proclamati dal lezionario liturgico, insiste nel descrivere queste porte sempre aperte e verso tutti: «le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (vv. 24-26). Nella città non potrà entrare niente di falso e di impuro, ma «solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (v. 27). È lui, infatti, l’Agnello, la vera porta, in virtù del suo mistero pasquale. La sua mediazione salvifica si rende presente nella storia attraverso la comunità cristiana, fondata sulla testimonianza apostolica dei Dodici, che porta a compimento l’elezione di Israele e delle sue tribù. I nomi delle Dodici tribù sono infatti scritti sopra le dodici porte, così come i nomi dei Dodici apostoli sui dodici basamenti della città santa. Il simbolismo è ricco, complesso, ma affascinante: la salvezza di Dio, attraverso l’elezione di Israele e della Chiesa, si apre – come queste porte rivolte a oriente e a settentrione, a mezzogiorno e a occidente – per accogliere tutti i popoli, secondo la promessa di Gesù custodita nei vangeli: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (Lc 13,29).

     Proprio perché la vera porta è l’Agnello, e nella sua Pasqua la salvezza di Dio può essere annunciata a tutte le genti, la comunità storica di Gerusalemme giunge a decidere, nel discernimento guidato dallo Spirito Santo (cfr. At 15,28), che non è necessario imporre la circoncisione ai convertiti dal paganesimo. Infatti, afferma Pietro nella riunione di Gerusalemme (in un passo che la lettura liturgica omette): «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro» (v. 11). Per la sua grazia, non per altro.

     Queste due immagini di Gerusalemme, che le prime due letture dell’eucaristia ci offrono, evocano in fondo la Chiesa in tutto il suo mistero. È una comunità che cammina nella storia, come ci ricordano gli Atti, e in questa sua dimensione è attraversata da tensioni e visioni differenti, sempre impegnata in un faticoso discernimento spirituale della volontà di Dio, chiamata a decisioni che possono anche mutare nel tempo e adattarsi a differenti contesti storici e culturali. Nello stesso tempo, annuncia l’Apocalisse, c’è una dimensione misterica della Chiesa, un suo scendere dall’alto e dal mistero di Dio, che già la abita e la trasfigura nella sua luce, per renderla «una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,11). È soprattutto per farne sacramento di salvezza per tutti i popoli, nonostante tutti i suoi l imiti storici.

     Noi siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste per scoprire – ma solo a condizione di essere già per via, protesi verso la meta – che è Gerusalemme stessa a scendere verso di noi in tutta la sua bellezza, per compiere il nostro desiderio e il nostro pellegrinaggio. In questo cammino, come ci ricorda Gesù nell’evangelo di Giovanni, dobbiamo portare con noi un bagaglio sobrio, essenziale ma indispensabile. Innanzitutto una parola da osservare e custodire, o meglio, quella parola che è Gesù stesso come rivelazione definitiva del Padre. Dimorando in lui e nel suo amore siamo certi di essere già in comunione con il Padre, anche nel tempo del nostro pellegrinaggio. A consentirci di rimanere nella Parola c’è il dono dello Spirito Santo – il secondo bene essenziale da portare con sé – che ci insegna ogni cosa ricordando tutto ciò che il Signore Gesù ci ha detto. Quello dello Spirito è un insegnare ricordando, consentendoci di approfondire la rivelazione di Gesù e anche di discernere nella sua luce le decisioni da assumere di volta in volta, di fronte ai problemi che man mano insorgono lungo il cammino. Appunto come accade nel concilio di Gerusalemme, quando le decisioni vengono prese sulla base di quanto «è parso bene allo Spirito Santo e a noi» (v. 28). Un terzo bene da portare con sé è la pace donata dal Signore, che vince ogni turbamento e timore. 

     Non mancano infatti lungo la via rischi, pericoli, ostilità, scelte coraggiose da assumere. Tutto può però essere affrontato senza paura, nella pace che è dono del Signore e non del mondo, e che dunque possiamo accogliere se siamo disponibili a una comunione con il Signore che ci converte dalle logiche mondane per farci aderire sempre di più al suo stesso ‘sentire’.

     Preparando in questo modo il bagaglio per il viaggio ci si accorge tuttavia che si porta con sé un bene infinitamente più grande: la presenza stessa di Dio che cammina con noi e in noi. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Già lungo il cammino si gusta anticipatamente ciò che ci attende al suo compimento: il Padre e il Figlio abitano in noi così come il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello abitano nel cuore della Gerusalemme celeste.

Preghiere e racconti 

«Quando lo Spirito Santo verrà, v’insegnerà ogni cosa» (Gv 14,26).

Cari figli, non si tratta qui di come questa o quella guerra sarà composta, o se il grano crescerà bene. No, no, figli, non così. Ma quell’«ogni cosa» significa tutte le cose che ci sono necessario per una vera vita divina e per una segreta conoscenza della verità e della malvagità della natura. Seguite Dio e camminate per la santa e retta via, cosa che certe persone non fanno: quando Dio le vuole dentro, esse escono e quando le vuole fuori, entrano; ed è tutta una cosa a rovescio. Queste sono «tutte le cose», tutte le cose che ci sono necessarie interiormente ed esteriormente, sono il conoscere profondamente e intimamente, puramente e chiaramente i nostri difetti, l’annientamento di noi stessi, grandi rimproveri per come restiamo lontani dalla verità e dannosamente ci attacchiamo alle piccole cose.

Lo Spirito Santo c’insegna a inabissarci in una profonda umiltà e a raggiungere una totale sottomissione a Dio e a tutte le creature. Questa è una scienza in cui sono racchiuse tutte le scienze di cui si ha bisogno per la vera santità. Questa sarebbe vera umiltà, senza commenti, non a parole o in apparenza, ma reale e profonda. Possiamo noi disporci in tal modo che ci venga dato in verità lo Spirito Santo! In ciò Dio ci aiuti. Amen.

(GIOVANNI TAULERO, I sermoni, Milano, 1997, 233s.). 

Lo Spirito di Dio

Senza lo Spirito Santo, se, cioè, lo Spirito non ci plasma interiormente e noi non ricorriamo a lui abitualmente, praticamente può darsi che camminiamo al passo di Gesù Cristo, ma non con il suo cuore. Lo Spirito ci rende conformi nell’intimo al vangelo di Gesù Cristo e ci rende capaci di annunziarlo esternamente (con la vita). Il vento del Signore, lo Spirito Santo, passa su di noi e deve imprimere ai nostri atti un certo dinamismo che gli è proprio, uno stimolo cui la nostra volontà non rimane estranea, ma che la trascende. Dio ci donerà lo Spirito Santo nella misura in cui accoglieremo la Parola, ovunque la sentiremo.

Dovrebbe esserci in noi una sola realtà, una sola verità, uno Spirito onnipotente che si impossessi di tutta la nostra vita, per agire in essa, secondo le circostanze, come spirito di carità, spinto di pazienza, spirito di dolcezza, ma che è l’unico Spirito, lo Spirito di Dio. Tutti i nostri atti dovrebbero essere la continuazione di una medesima incarnazione. Bisognerebbe che consegnassimo tutte le nostre azioni allo Spirito che è in noi, in modo tale che si possa riconoscere in ciascuna di esse il suo volto. Lo Spirito non chiede che questo. Non è venuto in noi per riposarsi; egli è infaticabile, insaziabile nell’agire; una sola cosa può impedirglielo: il fatto che noi, con la nostra cattiva volontà, non glielo permettiamo, oppure non gli accordiamo abbastanza fiducia e non siamo fino in fondo convinti che egli ha una sola cosa da fare: agire. Se lo lasciassimo fare, lo Spirito sarebbe assolutamente instancabile e di tutto si servirebbe. Basta un nulla a spegnere un focherello, mentre un fuoco avvampante consuma ogni cosa. Se noi fossimo gente di fede, potremmo consegnare allo Spirito tutte le azioni della giornata, qualunque siano: le trasformerebbe in vita.

(M. DELBRÊL, Indivisibile amore. Frammenti di lettere, Casale Monferrato, 1994, 43-45, passim).

Preghiera per la pace

Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali, così che non ancora tutti i popoli hanno potuto stringerle fraternamente fra loro;

 Signore, noi siamo oggi tanto armati come non lo siamo mai stati nei secoli prima d’ora, e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forse anche l’umanità;

Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l’equilibrio crudele della economia di tante Nazioni potenti sul mercato delle armi alle Nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali;

 Signore, noi abbiamo lasciato che rinascessero in noi le ideologie, che rendono nemici gli uomini fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l’odio di classe, l’orgoglio nazionalista, l’esclusivismo razziale, le emulazioni tribali, gli egoismi commerciali, gli individualismi gaudenti e indifferenti verso i bisogni altrui;

 Signore, noi ogni giorno ascoltiamo angosciati e impotenti le notizie di guerre ancora accese nel mondo;

 Signore, è vero! Noi non camminiamo rettamente! Signore, guarda tuttavia ai nostri sforzi, inadeguati, ma sinceri, per la pace nel mondo! Vi sono istituzioni magnifiche e internazionali; vi sono propositi per il disarmo e la trattativa;

 Signore, vi sono soprattutto tante tombe che stringono il cuore, famiglie spezzate dalle guerre, dai conflitti, dalle repressioni capitali; donne che piangono, bambini che muoiono; profughi e prigionieri accasciati sotto il peso della solitudine e della sofferenza; e vi sono tanti giovani che insorgono perché la giustizia sia promossa e la concordia sia legge delle nuove generazioni;

 Signore, Tu lo sai, vi sono anime buone che operano il bene in silenzio, coraggiosamente, disinteressatamente e che pregano con cuore pentito e con cuore innocente; vi sono cristiani, e quanti, o Signore, nel mondo che vogliono seguire il Tuo Vangelo e professano il sacrificio e l’amore;

 Signore, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.

 (Paolo VI)

Porremo la nostra dimora presso di lui

Io e il Padre, dice il Figlio, verremo a lui, cioè all’uomo santo, e porremo la nostra dimora presso di lui (Gv 14,23) […] E l’Apostolo dice chiaramente che Cristo abita per la fede nei nostri cuori (Ef 3,l7). Non fa meraviglia se il Signore Gesù è lieto di abitare [nell’anima], che è come un cielo per la cui conquista ha lottato e per la quale non si è limitato, come per gli altri cieli, a dire una parola perché essi fossero creati. Dopo le sue fatiche, manifestò il suo desiderio e disse: Questo è il mio riposo per sempre; qui abiterò poiché l’ho scelto [Sal 131 (132),14]. E beata colei alla quale è detto: Vieni, mia eletta, e porrò in te il mio trono (Ct 2,10-13).

Perché ora sei triste, anima mia, e perché gemi su di me? Pensi di trovare anche tu un posto per il Signore dentro di te? [cfr. Sal 41 (42),6] E quale posto in noi è degno di una tale gloria ed è in grado di accogliere la sua maestà? Potessi almeno adorarlo nel luogo dove si sono fermati i suoi passi! Chi mi darà di poter almeno seguire le tracce di un’anima santa che si è scelta come sua dimora? Se potesse degnarsi di infondere nella mia anima l’unzione della sua misericordia e così stenderla come una tenda, la quale quando viene unta, si dilata, perché anch’io possa dire: Ho corso per la via dei tuoi comandamenti quando tu hai dilatato il mio cuore [Sal 118 (119), 32], potrò forse anch’io mostrare in me stesso se non una grande sala tutta pronta, dove possa mettersi a tavola con i suoi discepoli, almeno un posticino ove possa adagiare la testa (cfr. Mt 8,20). Guardo da lontano quelli veramente beati di cui è detto: Abiterò in loro e con loro camminerò (2Cor 6,16) […]

È necessario che l’anima cresca e si dilati per poter contenere Dio. Ora, la sua larghezza corrisponde al suo amore, come dice l’Apostolo: Dilatatevi nella carità (2Cor 6,13). Infatti, poiché l’anima, essendo spirito, non ha affatto quantità, tuttavia la grazia le dona ciò che non ha la natura. Essa infatti cresce, ma spiritualmente; cresce non nella sostanza, ma nella virtù; cresce anche nella gloria; cresce, infine, e progredisce fino a formare l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cfr. Ef 4,13); cresce anche come tempio santo del Signore. La quantità di ciascuna anima corrisponde alla misura della sua carità in modo tale che è grande quando ha una grande carità, piccola quando ne ha poca, se non ne ha affatto è nulla, come dice Paolo: Se non ho la carità, non sono niente (ICor 13,12).

(BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico 27,8-10, PL 183,918-919).

Preghiera

Signore Gesù, tu chiedi l’amore

come condizione

per l’inabitazione della Trinità,

l’amore che è adesione alla tua Parola.

Ma come possiamo amarti

se non siamo dentro la logica del tuo amore?

Se non sentiamo in noi il fuoco

di questo amore grande e misterioso

che supera ogni limite

e sa affrontare ogni avversità?

Noi non possiamo produrre tale amore,

possiamo solo accoglierlo come dono.

Aiutaci a saperci guardare dentro,

per scorgere in noi la presenza del tuo amore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

Dio a modo mio

Che rapporto hanno i giovani con la fede?

Quali sono le loro credenze e i loro atteggiamenti nei confronti della religione?

Come hanno vissuto l’esperienza della iniziazione cristiana, quali ricordi hanno del ‘catechismo’?

Sappiamo che molti di loro, dopo la cresima, abbandonano la Chiesa: quali ne sono i motivi? E quali esperienze e cammini possono portare a un riavvicinamento?

A queste a ad altre domande hanno risposto centocinquanta giovani, ragazze e ragazzi tra i diciannove e i ventinove anni, tutti battezzati, residenti in piccole e grandi località del Nord, Centro e Sud di Italia, con diverso titolo di studio.

Cinquanta tra coloro che si sono dichiarati credenti nella prima fase della ricerca, promossa dall’ente fondatore dell’Università Cattolica Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, sono stati di nuovo intervistati e hanno raccontato – per la prima volta nel nostro Paese con tale estensione e profondità di indagine – la loro esperienza di fede e il loro vissuto religioso, rilevando un interessante spaccato di questa intima dimensione della vita, delle sue luci e delle sue ombre.

Curatori

Rita Bichi, professore ordinario di sociologia presso la facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, insegna Sociologia generale, Metodologia della ricerca sociale e Modelli di pensiero delle Scienze sociali.

Paola Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, si occupa di temi educativi ed è pubblicista. Come membro del Comitato di Indirizzo dell’Istituto Toniolo, segua la realizzazione del Progetto Giovani.

Da Famiglia cristiana

All’inizio è decisiva la famiglia che orienta il percorso di fede attraverso la tradizionale iniziazione cristiana (Battesimo, Prima Comunione e Cresima). Tra i 14 e i 16 anni, subito dopo la Cresima, c’è un distacco che è quasi fisiologico e riguarda la stragrande maggioranza. Intorno ai 25 c’è un possibile ripensamento. L’idea di Dio? Personalizzata, fai da te, di proprietà del singolo. La fede deve incidere sulla vita concreta e sui rapporti con il prossimo altrimenti non ha senso. Inoltre, non si conosce bene la dottrina come, ad esempio, la differenza tra “Cristianesimo” e “Cattolicesimo”. Il primo è considerato sinonimo di bontà, vicinanza agli altri, amore per il prossimo e assume una valenza sociale, mentre il secondo è percepito come sinonimo di “istituzione”. I cattolici invece  sono percepiti come “bacchettoni”. Papa Francesco, infine, è considerato decisivo per rinnovare il messaggio e visto come una sorta di “salvatore” della religiosità e della Chiesa dopo gli scandali recenti.

Ecco, in sintesi, la fede dei giovani italiani, i cosiddetti Millennials, che secondo gli ultimi studi del Censis hanno fra i 18 e i 34 anni, lavorano e vivono per conto proprio ma arrivano a fine mese solo grazie all’aiuto regolare dei genitori. La fotografia è stata scattata da un’indagine accurata condotta dall’Istituto Giuseppe Toniolo, ente fondatore dell’Università Cattolica, che ha intervistato in due fasi centocinquanta giovani, ragazze e ragazzi tra i diciannove e i ventinove anni, tutti battezzati, residenti in piccole e grandi città del Nord, Centro e Sud Italia, con diverso titolo di studio. Cinquanta tra coloro che si sono dichiarati credenti nella prima fase sono stati di nuovo intervistati e hanno raccontato la loro esperienza di fede e il loro vissuto religioso. Ne è uscito uno spaccato interessante raccolto nel volume Dio a modo mio – Giovani e fede in Italia (pp. 224, euro 18) che Vita e Pensiero manda in libreria da giovedì 29 ottobre e di cui Famiglia Cristiana pubblica un estratto (scaricabile qui sotto).

I percorsi di fede dei giovani: da quello standard ai cattolici convinti

La ricerca, curata da Rita Bichi, professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Paola Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica, mette in evidenza l’esistenza di un percorso di fede largamente maggioritario e che viene definito standard. I giovani che appartengono a questo segmento si definiscono cattolici in ricerca. Poi sono emersi altri quattro profili che si discostano da quello standard. Il primo riguarda “atei e non credenti” («che non sono molti e sono divisi tra loro», precisa Bichi) ed è caratterizzato da un distacco traumatico e da un riavvicinamento impossibile. Il secondo riguarda i cosiddetti “critici in ricerca e agnostici” dove la pratica è assente, il distacco è stato di tipo intellettuale, il riavvicinamento possibile. Il terzo ancora su “atei e non credenti” dove il riavvicinamento non è ricercato. Al quarto profilo appartengono i “cattolici convinti” dove i distacchi sono assenti e irrilevanti, i riavvicinamenti già compiuti e non problematici. Come nota la ricercatrice Cristina Pasqualini «i cattolici convinti sono ormai una minoranza, rappresentano lo standard del passato e non più quello del presente».

La professoressa Rita Bichi che insieme a Paola Bignardi ha curato il rapporto

Non è una generazione incredula  

La ricerca smentisce diversi luoghi comuni sui giovani che ormai sono entrati a far parte della narrazione corrente. Anzitutto, dimostra che non è affatto possibile parlare di una generazione incredula o, peggio, senza Dio e senza valori: «La metafora della liquidità ha preso il sopravvento e tutto viene giudicato sotto questa lente spesso fuorviante», spiega Bichi. «La ricerca di Dio e della dimensione religiosa c’è anche oggi dentro i giovani anche se in forme diverse dal passato».

Smentito anche il vecchio cliché “Gesù Cristo sì, Chiesa no”. «In realtà la situazione è più complessa», dice Bichi, «le questioni dottrinali non solo non riescono ad arrivare ai giovani come messaggio ma non fanno  emergere in primo piano neppure la figura di Gesù. Il linguaggio di chi comunica con loro dovrebbe cambiare  o avvicinarsi di più al mondo giovanile e questo a volte la Chiesa non riesce a farlo».
Il ruolo della famiglia, infine, è fondamentale all’inizio e poi scompare almeno nel racconti dei ragazzi. «Essa è importante come agenzia che socializza la religione come tradizione: chiesa, messa, catechismo», dice Bichi. «Anche se al suo interno ci sono alcune figure come la madre e la nonna che sono particolarmente rilevanti nella prima formazione della fede dei giovani. Bisogna chiedersi chi socializzerà la religione nelle generazioni future». E questo meriterebbe una ricerca a parte.

Che fede emerge da quest’indagine, dunque? «Una fede che c’è ma che ha bisogno di crescere», afferma la professore Bichi, «o meglio: che sarebbe necessario far crescere. Come un germoglio che fa fatica a fiorire»    

 

 

Paola Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, si occupa di temi educativi ed è pubblicista. Come membro del Comitato di Indirizzo dell’Istituto Toniolo, segue la realizzazione del Progetto Giovani.

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 14,21-27

 

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.   

 

Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio. Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.

     Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett. confermare) nella fede i discepoli. «Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf. At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13). Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf. Lc 22,32).

     Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli. Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.

     Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni». È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare. Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno. Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…

     Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio. Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede. Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf. At 14,27).

 

Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5 

 

Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.  Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

 

 

La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni. Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio. I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione. Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.

     Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova. Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi». Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf. 66,22). «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».

     La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova». In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio». La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso. Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica. Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.

     La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf. Is 52,1; 61,10).

     Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile. Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda». Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto. La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare. La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.

     Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf. Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).

 

Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-3 

 

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

 

Esegesi 

     Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.

     Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito. In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.

     La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria. I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf. Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;). Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54). C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre. «Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). «Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).

     Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione. Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre. Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita». «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.

     «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova. La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.

     Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (teknía). Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf. Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.

 

L’immagine della domenica

 

 Amare i nemici

Ai nostri più accaniti oppositori noi rispondiamo così: faremo fronte alla vostra capacità di infliggere sofferenze, con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli e noi vi ameremo ancora. Ma siamo convinti che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Gesù ha eternamente ragione. La storia è piena delle ossa di popoli che rifiutarono di ascoltarlo.

(Martin Luther King)

Spiaggia di Fregene (litorale laziale) – Italia – 2011

 

 

 Meditazione 

La pericope evangelica che la liturgia propone nella quinta domenica di Pasqua dell’anno C’ è, come sempre, tolta dal suo contesto biblico per ‘rivivere’ in un nuovo contesto che è quello liturgico. Senza contraddire il contesto biblico, cerchiamo di far risuonare questo testo di Giovanni all’interno della celebrazione pasquale che la Chiesa vive nei Cinquanta giorni, i quali costituiscono un unico grande giorno di festa.

Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani. Quello che ci viene qui narrato è dunque uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo ‘istituzionale’ le comunità locali — e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Ecco un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.

Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (seconda lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo. 

Ecco: faccio nuove tutte le cose!

L’Apocalisse riprende un’immagine molto bella, già usata in precedenza per parlare della fine della storia (cfr. Ap 7,17): Dio che asciuga ogni lacrima dal volto dell’umanità. E aggiunge qui un elenco di situazioni concrete che alla fine e nel fine della storia non ci saranno: «Non vi sarà più morte né lutto e grida e dolore» (Ap 21,5). Le lacrime che saranno asciugate non sono quelle dei grandi eventi della storia, ma quelle dei lutti e delle tribolazioni che ogni uomo e ogni donna hanno vissuto nella loro concreta esistenza.

Nel fine e nella fine della storia, nel disegno di Dio, queste realtà non ci sono più. Dio non le ha mai volute e alla fine della storia le cancella, perché il suo desiderio originario alla fine non può che vincere contro ogni ‘nemico’. Il brano termina con un’affermazione che ci proietta nel testo evangelico: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». La storia conoscerà una svolta, ma tale svolta è opera di Dio. A partire da questo annuncio, spostiamo la nostra attenzione sul brano evangelico, per contemplare come, dove e quando quest’azione di Dio trova conferma, quando la Parola di Dio si dimostra degna di fede/fedele e veritiera (cfr. Ap 21,5).

Anche il testo del Vangelo parla di una ‘cosa nuova’, un comandamento nuovo, che Gesù dona ai suoi discepoli. In realtà non si tratta di una novità dal punto di vista del contenuto: il comando dell’amore è già presente nell’Antico Testamento sia in riferimento a Dio (Dt 6,5), sia in riferimento al prossimo (Lv 19,18.34). La novità sta nel ‘come’. Si tratta di un comando, ‘amatevi’, che interessa l’avvenire, fondato sopra un fatto avvenuto nel passato: ‘come io ho amato voi’. L’amore dei discepoli è possibile perché sono stati preceduti dall’amore di Gesù: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). In Gv 15,9 Gesù descriverà così qual è l’amore con il quale egli ha amato i discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È in questo amore, con il quale il Padre ha amato Gesù e che Gesù a sua volta ha indirizzato verso i suoi discepoli, che i discepoli stessi devono ‘rimanere’.

La novità di questo comandamento, allora, è la novità della Pasqua, nella quale Dio crea qualcosa di nuovo proprio in Gesù, primogenito dell’umanità e terra nuova che l’Apocalisse canta con stupore. Anche se collocato in un discorso di Gesù ambientato nella cena che ha preceduto la passione e quindi la Pasqua, questo testo, come ogni testo dei vangeli, viene trasfigurato dalla luce pasquale. Ma ci dice anche qualcosa di più circa la ‘novità’ che è stata resa possibile dalla Pasqua di Gesù e che ‘oggi’ la Chiesa può celebrare nel suo cammino nella storia dell’umanità.

Gloria, sequela, amore

Nel brano si susseguono tre temi molto significativi — la gloria, la sequela, il comandamento dell’amore — che corrispondono nel testo a suddivisioni ben riconoscibili, e anche a una scansione temporale ben precisa.

La gloria. Nell’Antico Testamento la ‘gloria’ — termine che in ebraico indica la ‘pesantezza’, la ‘consistenza’ — è il manifestarsi di Dio nella storia. La gloria è la presenza di Dio visibile nella storia dell’umanità. Nel testo di Giovanni si parla del Padre che è glorificato in Gesù e di Gesù che è glorificato da parte del Padre. In Gesù, nella sua Pasqua, continua dunque il medesimo ‘stile’ del Dio dell’Esodo, un Dio che agisce nella storia in favore del suo popolo e dell’umanità. Questo primo tema fa riferimento al tempo della Pasqua di Gesù.

La sequela. Il secondo tema è quello del seguire il Signore. Su esso sembra che ci sia incomprensione tra il maestro e i suoi (cfr. 13,36-38). Gesù afferma che ora i discepoli non lo possono seguire dove egli va, sulla sua via (Gv 13,33.36) e il v. 36 è ancora più chiaro: ora i discepoli non possono seguire Gesù. Lo potranno fare però in un secondo momento, dopo la sua Pasqua. Non possono amarsi vicendevolmente come Gesù li ha amati prima che egli li abbia amati fino alla fine (Gv 13,1). Devono accettare questo suo gesto estremo di amore per poter diventare capaci di essere veramente suoi discepoli e di seguirlo. Il tempo di cui si sta parlando è il presente dei discepoli, prima della Pasqua di Gesù.

Il comandamento dell’amore. Ora si capisce perché Gesù introduca a questo punto il tema del comandamento nuovo. Gesù indica qui la via che i discepoli devono percorrere per poterlo seguire, per andare dove lui va, cioè verso la Pasqua: è l’amore fino alla fine, a somiglianza del suo. Prima della Pasqua questo amore è ‘sconosciuto’ ai loro occhi e non sono in grado di percorrere quella via. Solo dopo, dopo la Pasqua di Gesù e il dono dello Spirito, potranno essere veramente discepoli.

La sequela non è frutto dell’impegno dei discepoli, ma è quella ‘cosa nuova’, quella via nel deserto che Dio ha aperto nella storia dell’umanità. Senza la strada aperta da Dio in Gesù, che è la via (Gv 14,6), non ci può essere sequela autentica. Allora questa parola di Gesù è situata in un ‘terzo tempo’, che viene dopo la sua Pasqua e il dono dello Spirito, e condurrà i discepoli alla verità tutta intera. È il tempo della Chiesa.

Preghiere e racconti 

La nostalgia dell’Eterno

Come le rondini che a metà agosto cominciano a venir prese dalla febbre migratoria e al crepuscolo con alte strida in gruppi ahimè sempre più piccoli si richiamano e si raccolgono sui fili, così anche noi, a un certo punto della nostra vita, possiamo sentire lo stimolo di prendere il volo.

Al di là del mare, un altro mondo ci chiama.

Non l’abbiamo mai visto, non abbiamo in mano un contratto che ci garantisca l’approdo, non sappiamo neppure se le nostre forze saranno sufficienti. Forse una notte, sfiniti, verremo inghiottiti dai flutti.

Eppure, partiamo lo stesso.

Come i piccoli rondinotti nati in Italia, già al primo volo intorno al nido hanno nostalgia dell’Africa, così noi, nelle parti più segrete del cuore, custodiamo sempre la nostalgia della voce dell’Eterno che ci chiama. 

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015,127)

Affamati d’amore

Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza. La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.

(Madre Teresa di Calcutta)

«Vi do un comandamento nuovo».

Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].

E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).

Ama con umiltà e rispetto

La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.

(Thomas Merton).

 «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22,37-39).

 Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento. Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole. Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo. Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.

Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo. In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi. L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite. È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore. Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.

(H.J.M.NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista,  Brescia, 1998, 82s.).

Cogliere il mistero di Dio

Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.

(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).

Cercare la verità…amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

 

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio Mazzi, Preghiere di un prete di strada).

 

L’amore basta all’amore

Quando l’amore ti chiama, seguilo,

anche se ha vie ripide e dure.

Quando dalle sue ali ne sarai avvolto,

abbandonati a lui;

anche se la sua lama potrà ferirti.

Quando ti parla, credigli,

anche se la sua voce potrà disperdere i tuoi sogni.

Perché più l’amore ti colpirà,

più tu maturerai.

Perché l’amore non deve dar nulla, se non se stesso,

né coglier nulla, se non da se stesso.

Perché amarsi l’un l’altro,

non è far dell’amore una prigione.

Perché l’amore non possiede, né deve essere posseduto.

Perché l’amore basta all’amore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DI PASQUA C

“Progetto educativo e IRC”

ultimi giorni d’iscrizione

IMPORTANTE: siamo giunti al numero di 50 iscritti autorizzati dal MIUR. Si accettano altre iscrizioni, in lista d’attesa, ma non viene garantito il finanziamento.

L’Istituto di Catechetica della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana sviluppa una pianificazione triennale attorno all’insegnamento della religione nella scuola, di cui è in svolgimento la seconda annualità, nella quale rientra l’iniziativa del presente Corso.

 

La tematica generale del triennio – “Educazione, apprendimento e insegnamento della religione” – è incentrata sull’attività di insegnamento scolastico della religione, accostata con attenzione particolare ad aggiornate questioni scolastiche (relative appunto all’apprendimento) e nel quadro generale di riflessione pedagogica, in modo da offrire un qualificato contributo al decennio in corso, dedicato all’educazione.

La prima annualità della pianificazione è stata dedicata ad osservare la situazione dell’istruzione religiosa (sul triplo versante degli studenti, dei docenti e della disciplina) e a sottolinearne le prospettive educative.

La seconda annualità concentra l’attenzione sulle due situazioni dell’educazione e dell’apprendimento, sempre riferite all’insegnamento della religione. La finalità è quella di tematizzarne in maniera aggiornata la differenza e complementarità, sia in un quadro pedagogico generale, sia in un approccio didattico specifico, per cogliere risorse, apporti, problemi e limiti.

Il tema del Corso residenziale 2016 (“Progetto educativo e IRC”), risponde alla logica del percorso formativo, poiché cerca di evidenziare come il lavoro scolastico –  e quindi l’insegnamento della religione – si muova in un orizzonte di relazioni educative, che vedono protagonisti allievi, insegnanti e la disciplina stessa.

L’insegnamento della religione può svolgere un ruolo originale e critico in un quadro scolastico che va modificandosi e pone l’accento in maniera esigente su questioni a cui viene dato un nome nuovo, ma che non sempre sono novità in senso assoluto. Ecco perché la prospettiva è quella dell’educar-ci nelle situazioni tipicamente scolastiche, facendo eco al tema del Convegno IRC, realizzato nel mese di marzo 2016.

 

2. Obiettivo

Il Corso intende qualificare competenze educativo-didattiche degli Insegnanti di Religione in conformità con quanto indicato dall’Intesa (nn. 4.1. e 4.7.) e dai nuovi profili propri dell’IRC (DPR 11.02.2010; CM 70/03.08.2012; Nota MIUR 31.10.2012), in vista di un attento servizio dell’IRC all’evoluzione della scuola italiana e della pedagogia religiosa.

Si tratta quindi di identificare alcune sfide educative per la scuola e l’IRC e a questo scopo saranno orientate le lezioni frontali, i laboratori e il lavoro on-line attraverso apposita piattaforma organizzata all’interno della Rivista gestita dall’Istituto di Catechetica (www.rivistadipedagogiareligiosa.unisal.it).

 

3. Destinatari

            Insegnati di Religione Cattolica di ogni Ordine e Grado scolastico, provenienti da tutte le Diocesi italiane. Questi riceveranno dall’Università Pontificia Salesiana apposita certificazione di frequenza e partecipazione ai fini dell’aggiornamento professionale e riconoscimento da parte del MIUR.

 

4. Metodo

            Il metodo proposto è quello affinato in molti anni di attività di formazione continua per Insegnanti di Religione. Il tempo di 48 ore verrà ripartito in sei giorni residenziali ed assegnato a lezioni frontali e laboratori. A completamento del lavoro in presenza sono previste inoltre 12 ore di lavoro individuale su piattaforma on-line (nella propria sede).

            Le Lezioni frontali, tenute da Docenti e Ricercatori, offriranno uno sviluppo del tema del Corso, secondo i criteri scientifici propri delle aree epistemologica, pedagogica, didattica, biblica, teologica; saranno completate dall’approfondimento diretto in sessione plenaria, secondo modalità consone all’argomento, stabilite dai vari Relatori.

            I Laboratori, guidati da Insegnanti di Religione in servizio, esperti della Disciplina, hanno l’obiettivo di favorire l’approfondimento dei contenuti, a partire da una lettura appropriata delle situazioni scolastiche (Scuola dell’Infanzia/Scuola Primaria – Scuola Secondaria 1° Grado/2° Grado), e di accrescere la competenza teorico-pratica dei docenti, valorizzando il confronto professionale e portando ad una sintesi finale, in cui ogni Ordine di scuola porterà un contributo al tema del Corso.

            Di seguito si offre una descrizione dettagliata ed esaustiva delle modalità di realizzazione del Corso.

 

5. Programma

Giornate di Lavoro

Domenica 3 luglio

18:00 – Inaugurazione del Corso

20:00 – Cena

Lunedì 4 luglio

08.30 – Introduzione

09:00 – R1. J.L. Moral – Il progetto dell’umanizzazione nella scuola

10:30 – Intervallo

11:00 – R2. C. Carnevale – Progetto educativo IRC nelle Indicazioni Nazionali

13:00 – Pranzo

15:00 – Laboratorio

16:30 – Intervallo

17:00 – Laboratorio

20:00 – Cena

Martedì 5 luglio

08.30 – Introduzione

09:00 – R3. M Pellerey – Progettare e sviluppare un curricolo pedagogico-didattico per competenze

10:30 – Intervallo

11:00 – R4. D. Grządziel – Prospettiva antropologica della progettazione educativa e didattica. Analisi critica di alcuni elementi della progettazione

13:00 – Pranzo

15:00 – Laboratorio

16:30 – Intervallo

17:00 – Laboratorio

20:00 – Cena

Mercoledì 6 luglio

08.30 – Introduzione

09:00 – R5. C. Pastore – Costanti educative nella Bibbia

10:30 – Intervallo

11:00 – R6. U. Montisci – Lettura teologico-pastorale del valore educativo della “misericordia”

13:00 – Pranzo

15:00 – Laboratorio esterno: visita culturale

20:00 – Cena

Giovedì 7 luglio

08.30 – Introduzione

09:00 – R7. Z. Formella –Progettare l’intervento psico-educativo sulla base della teoria ecologica di Urie Bronfenbrenner

10:30 – Intervallo

11:00 – R8. G. Cursio – Progetto educativo: sviluppare cambiamento negli studenti

13:00 – Pranzo

15:00 – Laboratorio

16:30 – Intervallo

17:00 – Laboratorio

20:00 – Cena

Venerdì 8 luglio

08.30 – Introduzione

09:00 – R9. M Wierzbicki – Valutare le competenze: linee di interpretazione dell’esperienza religiosa

10:30 – Intervallo

11:00 – R10. G. Usai – L’IRC nel quadro dell’educazione religiosa

13:00 – Pranzo

15:00 – Laboratorio

16:30 – Intervallo

17:00 – Laboratorio

20:00 – Cena

21:00 – Valutazione del Corso

Sabato 9 luglio

08:30 – Introduzione

09:00 – Report conclusivo dei Laboratori

11:00 – Intervallo

11:30 – Conclusione del Corso

13:00 – Pranzo

 

6. Relatori

  • Cristina Carnevale, Insegnante di Religione Scuola Primaria – Roma, Ricercatrice campo educativo/didattico.
  • Giuseppe Cursio, Insegnante di Religione Scuola Secondaria 2° Grado – Roma, Ricercatore campo educativo/didattico.
  • Zbigniew Formella, docente di Psicologia dell’Educazione presso l’UPS.
  • Dariusz Grządziel, docente di Pedagogia Generale presso l’UPS.
  • José Luis Moral, docente di Pedagogia religiosa presso l’UPS.
  • Ubaldo Montisci, docente di Teologia dell’educazione presso l’UPS.
  • Corrado Pastore, docente di Pastorale e Catechesi biblica presso l’UPS.
  • Michele Pellerey, docente emerito di Pedagogia generale presso l’UPS.
  • Giampaolo Usai, Docente Invitato per Pastorale Scolastica – UPS Roma/Insegnante di Religione Scuola Secondaria di 1° Grado – Roma.
  • Mirosław Stanisław Wierzbicki, docente di Pedagogia religiosa presso l’UPS.

7. Coordinatori Laboratori:

Usai Giampaolo, Insegnante di Religione Scuola Secondaria di 1° Grado

Cristina Carnevale, Insegnante di Religione Scuola Primaria.

Giuseppe Cursio, Insegnante di Religione Scuola Secondaria 2° Grado.

Maria Pinella Etzi, Insegnante di Religione Scuola Secondaria 1° Grado.

Renata Gianni, Insegnante di Religione Scuola Secondaria 2° Grado.

 

8. Sede del Corso

Hotel Santa Chiara

Via dei Colli, 50

53042 Chianciano Terme (SI)

 

Il Corso è organizzato ai sensi delle Direttive Ministeriali n. 305 (art. 2 comma 7) dell’1 luglio 1996, n. 156 (art. 1 comma 2) del 26 marzo 1998.

Ai sensi dell’art. 14 comma 1, 2 e 7 del CCNL, rientra nelle iniziative di formazione e aggiornamento progettate e realizzate dalle Agenzie di Formazione riconosciute dal MIUR.

Ai partecipanti sarà rilasciato un attestato di partecipazione. 

 

È stata chiesta l’Autorizzazione alla CEI nel mese di marzo 2016. La  CEI ha introdotto il Progetto al MIUR alla fine dello stesso mese di marzo 2016.

Abbiamo richiesto il finanziamento per 50 persone.

L’Iter presso il MIUR è già iniziato e l’approvazione anche del finanziamento è prevista per fine maggio – inizio giugno 2016.

 

Iscrizioni e informazioni

Segreteria Istituto di Catechetica

Università Pontificia Salesiana

Piazza Ateneo Salesiano, 1

00139 Roma.

Tel. 06 87290651 — 06 87290808

Fax 06 87290.656 

E-mail: catechetica@unisal.it

 Orario di ufficio: Martedì e Giovedì, dalle 8.30 alle 12.00 ore.

 

„ Le iscrizioni al Convegno devono pervenire via Fax o Mail entro il 20 giugno 2016 alla Segreteria dell’Istituto di Catechetica, mediante:

  • Invio della Scheda di Iscrizione elaborata in tutte le sue parti. Si prega di non scrivere a matita.
  • La richiesta di alloggio presso la struttura di Chianciano Terme viene fatta dall’Istituto di Catechetica.
 

SCARICA IL Depliant- CorsoEstivoIRC.2016

“Amoris laetitia”

Lo scorso 8 aprile si è tenuta la Conferenza Stampa per la presentazione dell’Esortazione Apostolica post-sinodale del Santo Padre Francesco “Amoris laetitia”, sull’amore nella famiglia.
  

Intervento del Card. Lorenzo Baldisseri

Intervento del Card. Christoph Schönborn, O.P.

Intervento dei coniugi Prof. Francesco Miano e Prof.ssa Giuseppina De Simone

Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si tiene la Conferenza Stampa di presentazione dell’Esortazione Apostolica post-sinodale del Santo Padre Francesco “Amoris laetitia”, sull’amore nella famiglia.

Intervengono l’Em.mo Card. Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi; l’Em.mo Card. Christoph Schönborn, O.P., Arcivescovo di Wien; i coniugi Prof. Francesco Miano, Docente di Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e Prof.ssa Giuseppina De Simone in Miano, Docente di Filosofia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli; S.E. Mons. Fabio Fabene, Sotto-Segretario del Sinodo dei Vescovi.

Riportiamo di seguito i testi degli interventi del Cardinale Baldisseri, del Cardinale Schönborn e dei coniugi Miano:

Intervento del Card. Lorenzo Baldisseri

Testo in lingua italiana

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua francese

Testo in lingua italiana

Nel Giubileo della Misericordia

Sono lieto e onorato di presentare oggi l’Esortazione Apostolica Post-sinodale Amoris laetitia che Papa Francesco ha firmato il 19 marzo scorso, Solennità di San Giuseppe, e che oggi si rende pubblica. Anzitutto mi è gradito esprimere viva riconoscenza al Santo Padre, per aver donato alla Chiesa il prezioso documento sull’amore nella famiglia. Ringrazio inoltre tutti coloro che a vario titolo hanno offerto il loro contributo; in particolare i Padri sinodali delle due Assemblee, il Relatore Generale e al Segretario Speciale, il Pontificio Consiglio per la famiglia e il suo Presidente.

È significativo che Amoris laetitia esca in pieno Giubileo della Misericordia: il testo vi fa riferimento tre volte e cita direttamente la Bolla di Indizione sei volte. Il documento corona il lavoro biennale del Sinodo, la cui grande riflessione ha investito tutte le dimensioni dell’istituto familiare, che oggi risente di una forte crisi nel mondo intero. Le società umane, segnate da conflitti e violenze, hanno bisogno di riconciliazione e di perdono a cominciare dal loro nucleo vitale: la famiglia. Il Giubileo della misericordia è davvero una buona notizia per le famiglie di ogni continente, specialmente per quelle ferite e umiliate.

Il titolo

Il titolo Amoris laetitia è in piena continuità con l’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium: dalla gioia del Vangelo alla gioia dell’amore nella famiglia. Il cammino sinodale ha presentato la bellezza della famiglia parlando dell’amore: esso costituisce il fondamento dell’istituto familiare, perché Dio è amore tra Persone, è Trinità e non solitudine. In questo documento il Santo Padre approfondisce il «Vangelo del matrimonio e della famiglia» (AL, 89) e offre concreti orientamenti pastorali che, nella continuità, acquistano un valore e una dinamica nuova.

«L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro» (AL, 4) – scrive il Santo Padre, riprendendo la figura geometrica già impiegata in Evangelii gaudium (cf. 236). Infatti, il risultato del lavoro sinodale dei Padri raccoglie la pluralità delle esperienze e dei punti di vista delle Chiese particolari. Il confronto tra opinioni diverse è avvenuto con libertà e franchezza, che ha permesso di pervenire ad un risultato quasi unanimemente condiviso.

Il principio secondo il quale «il tempo è superiore allo spazio» (EG, 222-225; AL, 3, 261) indica che occorre tempo ed esistono modalità diverse mediante le quali trovare soluzioni più adatte alle differenti situazioni. Al riguardo, l’Esortazione dice: «Nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano» (AL, 3). Ad esempio, il testo fa riferimento a tre situazioni emblematiche in cui il trascorrere del tempo è necessario: nella preparazione al matrimonio (cf. AL, 205-216); nell’educazione dei figli (cf. AL, 261); nel superamento del lutto in famiglia (cf. AL, 255).

La chiave di lettura

In pieno accordo con il tempo giubilare che la Chiesa sta vivendo, l’adeguata chiave di lettura del documento è «la logica della misericordia pastorale» (AL, 307-312). Il Santo Padre afferma chiaramente la dottrina sul matrimonio e la famiglia, specialmente nel cap. III, e la propone come ideale irrinunciabile. Riferendosi ai giovani, egli afferma: «Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza. […] Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» (AL, 307). D’altra parte, il papa non dimentica di rivolgere la sua attenzione alle fragilità delle famiglie e persino al loro fallimento, e riprende un passo di Evangelii gaudium (n. 44): «“senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno”, lasciando spazio alla “misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile”» (AL, 308).

La struttura

L’Esortazione è composta di nove capitoli, suddivisi in 325 numeri, con 391 note, e la preghiera finale alla Santa Famiglia. Il Santo Padre spiega lo sviluppo del documento (cf. AL, 6): l’ouverture, ispirata alla Sacra Scrittura (cap. I), dà il tono adeguato al documento, per passare poi a considerare la situazione attuale delle famiglie (cap. II), alla luce dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia (cap. III). All’amore nel matrimonio (cap. IV), che diventa fecondo nella famiglia (cap. V), spetta il posto centrale nel documento. Seguono alcuni orientamenti pastorali per costruire famiglie solide e feconde, secondo il piano di Dio (cap. VI), e per fortificare l’educazione dei figli (cap. VII). Il capitolo VIII è un invito alla misericordia e al discernimento pastorale di fronte a situazioni che non rispondono pienamente all’ideale che il Signore propone. L’Esortazione si conclude con alcune linee di spiritualità familiare (cap. IX).

Nell’introduzione, Papa Francesco stesso spiega la ragione della inevitabile estensione del testo. La riflessione del cammino sinodale ha fatto sì che l’Esortazione Apostolica post-sinodale comprendesse non solo le questioni strettamente inerenti alla famiglia, ma anche molti e diversi temi. La lunghezza e l’articolazione del testo richiede una lettura non affrettata, non necessariamente continua, anche a seconda dell’interesse dei diversi lettori (cf. AL, 7).

Le fonti

Amoris laetitia è una ulteriore eminente espressione del pontificato di papa Francesco; rappresenta una splendida sintesi e proiezione verso ulteriori orizzonti. La base fondamentale dell’Esortazione è costituita dai documenti conclusivi delle due Assemblee sinodali sulla famiglia: 52 citazioni della Relatio Synodi 2014 e 84 della Relatio finalis 2015, per un totale di 136. In tal modo il Santo Padre attribuisce una grande importanza al lavoro collegiale e sinodale, accogliendolo e integrandolo.

Inoltre, il testo è corredato di numerosi riferimenti ai Padri della Chiesa (San Leone Magno e Sant’Agostino), ai teologi medioevali e moderni (San Tommaso, citato 19 volte; San Domenico; Beato Giordano di Sassonia; Alessandro di Hales; Sant’Ignazio di Loyola, 3 volte; San Roberto Bellarmino; San Giovanni della Croce); agli autori contemporanei (Joseph Pieper, Antonin Sertillanges, Gabriel Marcel, Erich Fromm, Santa Teresa di Lisieux, Dietrich Bonhoeffer, Jorge Luis Borges, Octavio Paz, Mario Benedetti, Martin Luther King). Tra i documenti pontifici dei predecessori vengono citati, ad esempio: Casti connubii di Pio XI; Mystici Corpori Christi di Pio XII; Humanae vitae del Beato Paolo VI (2 volte + 4 volte in altri documenti citati nel testo); le Catechesi sull’amore umano (23 volte) e Familiaris consortio (21 volte + 6) di San Giovanni Paolo II; Deus Caritas Est di Benedetto XVI (9 volte + 1). Il Concilio Vaticano II viene citato ben 22 volte + 6; il Catechismo della Chiesa Cattolica 13 volte + 2. Inoltre, oltre a 16 + 1 citazioni di Evangelii gaudium, spiccano le Catechesi sulla famiglia di papa Francesco pronunciate in occasione delle udienze generali, che vengono citate 50 volte. Infine, vengono citati 12 volte altri Documenti della Santa Sede e 10 volte Documenti di Conferenze Episcopali.

Degne di nota sono le espressioni che il Santo Padre usa per attribuire rilevanza al lavoro condotto per due anni dai Vescovi di tutto il mondo con le loro Chiese, quando dice: «sostengo» (AL, 297), «accolgo» (AL, 299), «considero molto appropriato» (AL, 302). Sono una ventina le volte in cui nel testo l’Autore si riferisce esplicitamente al Sinodo o ai Padri sinodali.

Alcuni punti salienti

1) Il documento porge uno sguardo positivo sulla bellezza dell’amore coniugale e sulla famiglia, in un’epoca di crisi globale di cui soffrono principalmente le famiglie. Lo spazio dedicato all’amore e alla sua fecondità, in particolare nei capitoli IV-V, rappresenta un contributo originale, sia per il contenuto generale sia per il modo di esporlo. Ogni espressione dell’amore nell’inno alla carità di San Paolo (cf. 1Cor 13,4-7) è una meditazione spirituale ed esistenziale per la vita degli sposi, tratteggiata con sapiente introspezione, propria di un’esperta guida spirituale, che conduce alla crescita nella carità coniugale.

2) Al Vescovo è affidato il compito di condurre il Popolo di Dio, sull’esempio di Gesù buon Pastore che «chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori» (Gv 10,3). Il servizio pastorale del Vescovo comporta anche l’esercizio del potere giudiziale che, attraverso i due Motu Proprio Mitis iudex Dominus Iesus e Mitis et misericors Iesus, il Santo Padre ha così definito: «Attraverso di essi ho anche voluto “rendere evidente che lo stesso Vescovo nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati”» (AL, 244). Ne consegue che il Vescovo, attraverso presbiteri e operatori pastorali adeguatamente preparati, disponga servizi appropriati per coloro che sono in condizioni di disagio familiare, di crisi e di fallimento.

3) Come ogni pastore, Papa Francesco rivolge la sua sollecitudine paterna alla «innumerevole varietà di situazioni concrete» (AL, 300). Pertanto, egli afferma: «è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (ib.). Dal momento che – come il Sinodo ha affermato – «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi», occorre procedere con «un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (ib.).

I battezzati che vivono in una seconda unione devono essere integrati e non esclusi. L’Esortazione al riguardo è molto chiara: «La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate […] possano essere superate» (AL, 299).

Per accompagnare e integrare le persone che vivono in situazioni cosiddette “irregolari” è necessario che i pastori le guardino in faccia una per una. Il documento dice: «I presbiteri hanno il compito di “accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo”» (AL, 300). In questo processo di discernimento «sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio» (ib.).

Il discernimento avviene attraverso il «colloquio col sacerdote, in foro interno, [che] concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (ib.).

4) Nella prospettiva del compimento dell’ideale del matrimonio, l’Esortazione ha innanzitutto messo in grande rilievo la preparazione dei fidanzati al sacramento, al fine di fornire «loro gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e iniziare con una certa solidità la vita familiare» (AL, 207). Il Papa afferma che, in questa preparazione, occorre attingere alle «convinzioni dottrinali» e alle «preziose risorse spirituali» della Chiesa, come anche ricorrere a «percorsi pratici, consigli ben incarnati, strategie prese dall’esperienza, orientamenti psicologici» (AL, 211).

L’Esortazione indica, inoltre, la necessità che questo cammino prosegua anche dopo la celebrazione, specialmente nei primi anni di vita coniugale. Ai giovani sposi il Papa ricorda che «il matrimonio non può intendersi come qualcosa di concluso. […] Lo sguardo si rivolge al futuro che bisogna costruire giorno per giorno con la grazia di Dio» (AL, 218).

5) Il documento ricorda che «i Padri hanno anche considerato la situazione particolare di un matrimonio solo civile o, fatte salve le differenze, persino di una semplice convivenza in cui, “quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio”» (AL, 293).

6) Nell’accompagnare le fragilità e curare le ferite, il principio della gradualità nella pastorale riflette la pedagogia divina: come Dio si prende cura di tutti i suoi figli, a cominciare dai più deboli e lontani, così «la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto» (AL, 78), poiché tutti devono essere integrati nella vita della comunità ecclesiale (cf. AL, 297). Il Papa afferma, infatti, che «nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!» (ib.).

Non limitandosi alle situazioni cosiddette “irregolari”, l’Esortazione, quindi, dischiude l’ampio orizzonte della grazia immeritata e della misericordia incondizionata per «tutti, in qualunque situazione si trovino» (ib.).

Di fronte ai grandi avvenimenti che sconvolgono il mondo odierno, si scopre la grandezza di Dio e il suo amore per l’uomo che, ferito costantemente, ha bisogno di essere accolto e curato da Cristo, buon samaritano dell’umanità. Dalla consapevolezza che Dio offre e regala misericordia e che «la città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione» (CV, 6), emerge la necessità di oltrepassare l’orizzonte umano della giustizia con uno scatto, un salto in avanti. Questo viene soltanto dall’amore, che diventa misericordioso dinanzi alle fragilità umane, ed è capace di infondere coraggio e speranza. In tale contesto si colloca l’Esortazione Apostolica, che con questa espressione tocca il cuore del Vangelo e risana quello dell’uomo ferito: «la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (AL, 311).

SCARICA:

Esortazione-apostolica: amoris-laetitia

Eucaristia. Iniziazione alla celebrazione nella catechesi e nella liturgia

La celebrazione dell’Eucaristia è al centro di una rinnovata considerazione pastorale, che coinvolge l’intero movimento catechistico e l’azione educativa alla fede compiuta dalle comunità cristiane. Don Walter Ruspi riprende l’intera presentazione dell’Eucaristia, quale la catechesi italiana ha sviluppato dopo il Concilio Vaticano II, nel diversi Catechismi della Conferenza Episcopale Italiana e nella liturgia rinnovata e adattata ai fanciulli, per facilitare una rinnovata attenzione a questa fondamentale centralità per la vita cristiana.

Questa centralità è chiamata a realizzarsi attraverso un’indispensabile iniziazione-partecipazione liturgica, perché sia un processo educativo che introduca ad un autentico incontro con la Persona di Gesù: è la prospettiva nella quale si muove questo studio, con un itinerario inedito e originale.

Si deve per altro costatare come la maggioranza dei battezzati ha interrotto il rapporto con l’Eucaristia o lo vive saltuariamente; tanti genitori chiedono il Battesimo per i propri figli, ma non si preoccupano poi di introdurli gradualmente all’Eucaristia domenicale, vivendola con loro. Di fronte alla diffusa disaffezione di molti cristiani nei confronti dell’Eucaristia domenicale, non possiamo non chiederci: questi fatti sono semplicemente il frutto del venir meno dell’autenticità della fede cristiana o sono anche la conseguenza di un qualche aspetto carente della nostra pastorale e delle nostre celebrazioni?

La centralità della questione educativa porta così ad affrontare la problematica di alcuni punti nevralgici: la comunità cristiana intera è il soggetto e il luogo dell’iniziazione, l’itinerario della fede centrato sul “primo annuncio”, l’esperienza sacramentale che vede il suo culmine nell’Eucaristia, i linguaggi e i simboli capaci di comunicare e di accogliere nella comunità ogni presenza portatrice di divers-abilità e, infine, il linguaggio simbolico delle nuove generazioni.
Come migliorare la qualità delle celebrazioni eucaristiche? È importante, afferma Benedetto XVI, che «i Pastori si impegnino in quella catechesi “mistagogica”, tanto cara ai Padri della Chiesa, che aiuta a scoprire le valenze dei gesti e delle parole della Liturgia, aiutando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l’intera loro esistenza». Oggi serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini.

Come comportarsi circa la partecipazione all’Eucaristia domenicale dei fanciulli? L’accesso all’Eucaristia deve essere preceduto da un itinerario che orienti gradualmente alla piena partecipazione. Questo itinerario graduale implica una particolare educazione anche catechistica alla liturgia, utilizzando soprattutto il ricco patrimonio celebrativo che la liturgia cristiana stessa già offre (es. tempi e colori liturgici, simboli e luoghi, preghiere e canti ecc.). Questo impone alle parrocchie di curare in modo particolare queste celebrazioni, riprendendo le indicazioni e le proposte del Direttorio per le Messe con la partecipazione dei fanciulli.

Si tratta allora di rileggere alcune indicazioni del messale e suggerire possibili attenzioni, che non sono ricette infallibili, ma suggerimenti che partono dalle indicazioni e dall’esperienza. Il Direttorio della Sacra Congregazione per il Culto divino si propone come scopo “che nella celebrazione dell’Eucaristia i fanciulli possano con gioia serena andare insieme incontro a Cristo e con lui stare alla presenza del Padre” (n. 55). “Coloro pertanto che rivestono un compito educativo, dovranno concordemente ed efficacemente adoperarsi perché i fanciulli…facciano esperienza concreta di valori umani, che sono sottesi alla celebrazione eucaristica” (n. 9).