XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2Samuele 12,7-10.13

In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta». Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».

 

 

Il pentimento di Davide, riportato dal brano, è la tappa conclusiva della storia del suo peccato e dell’intervento di Dio che lo guida verso il pentimento. Ciò che Davide aveva commesso – l’adulterio, il tentativo di nasconderlo, la decisione di far morire Uria, l’accoglienza di Betsabea nella reggia – era stato un male agli occhi del Signore. Solo l’intervento di Dio poteva ristabilire nella sua bellezza e potenza vitale la relazione personale che si era rotta tra i due. E Dio aiuta Davide a ritornare in se stesso. «Lo libera facendo presa, nella sua infinita bontà e finezza psicologica, sui suoi sentimenti migliori: la lealtà, il bisogno di difendere la giustizia […]. Rivolge il suo appello non a Davide peccatore, bensì a Davide giusto, leale, e per questo riesce» (C.M. Martini).             

     Il profeta Natan, attraverso un racconto semplice ricostruito sulla trama della vicenda di Davide, aiuta il re a rileggere, con distacco e oggettività, la propria vicenda personale, quindi lo porta a rientrare in sé e lo restituisce alla sua personale verità con un coraggioso passaggio: «Tu sei quell’uomo!», proprio quello che tu hai giudicato meritevole di morte. A questo punto prende Davide come per mano e lo aiuta a ripercorrere tutta la sua storia segnata da tanti interventi di benevolenza divina.       

     La sintesi riportata richiama il testo di Isaia sulle cure del Signore per la sua vigna e tutta la serie dei benefici di Dio in favore del suo popolo che rispose con ingratitudine e infedeltà (cfr. Is 5,1-7). Le parole di Natan giungono al cuore dell’uomo Davide che non si difende, ma confessa: «Ho peccato contro il Signore!». Quasi un’eco del «sono nudo» di Adamo (Gen 3,10)! Questa confessione restaura tutta la statura spirituale di Davide e lo libera da quel groviglio di menzogna e infedeltà nel quale si era sempre più intricato volendosi liberare da solo. Il pentimento di Davide è grande: c’è tutto il suo cuore contrito, c’è l’infrangersi di tutte le sue resistenze e un’esperienza molto concreta di abbassamento interiore. Su questo volto dell’umiltà umana – non acquisita, ma subita e accolta – scende il perdono del Signore, che libera Davide dalla morte: «Tu non morirai».       

 

Seconda lettura: Galati 2,16.19-21  

 

Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano. 

 

Lo stralcio della lettera ai Galati ci offre una sintesi del ‘vangelo’ di Paolo. Potremmo rileggerlo a partire dal suo nucleo centrale: «Cristo vive in me», per trovare qui espressa l’autentica vita cristiana e la profonda esperienza religiosa di Paolo: una vita vissuta al di sopra dell’io naturale, segnata dalla presenza e irruzione di Dio nell’uomo. È la vita nuova che trae la sua origine dal battesimo e la sua risorgente energia dall’adesione fiduciosa della fede nell’amore con cui Gesù abbraccia ogni uomo. Ecco il battesimo: morire alla legge, cioè sottrarsi alla sua influenza, al suo dominio, e morire dunque al passato, all’uomo esteriore, al peccato, per vivere per Dio, cioè consacrato a Dio. Ed ecco la fede: l’uomo viene giustificato, cioè reso moralmente retto davanti a Dio e capace di agire come tale, non dalle opere della legge, ma dalla salvezza operata da Gesù Cristo. La fede è – per così dire – la porta di accesso a Gesù salvatore; è quell’atteggiamento con cui l’uomo accoglie la rivelazione divina manifestata in Gesù Cristo e risponde dedicando a lui tutta la propria vita. Questa giustificazione è dunque un dono gratuito di Dio che cambia dal di dentro la vita dell’uomo entrato in contatto con Cristo mediante la fede e il battesimo.

     In virtù di questo contatto tra Cristo e il credente si opera come uno scambio reciproco, una simbiosi. È la vita di Cristo che si realizza nel credente, ma non nel senso che Cristo diventa il soggetto delle azioni umane. Il soggetto resta sempre il credente, con la sua vita di carne, tutta umana, con il peso delle sue debolezze, fragilità, della sua miseria, ma sulla quale si innesta un principio di vita superiore, che è Cristo stesso. La comprensione di questa verità operata dalla fede nell’inabitazione di Cristo trasforma, rinnovandola, la vita dell’uomo, fino a compenetrarne la coscienza psicologica.

 Vangelo: Luca 7,36-8,3

 

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.             

 

Esegesi

     Nel brano evangelico due personaggi si impongono alla nostra attenzione interiore: Simone, il fariseo, simbolo dell’uomo giusto, autosufficiente, controllato, che rispetta la legge ma ha il cuore indurito all’amore, e una peccatrice la cui storia ci è ignota, mentre ci è noto il suo stato interiore di conversione, il suo cuore pentito, frantumato.

     I gesti di questa donna racchiudono tutte le sfumature della gratitudine. L’andare diretta verso Gesù, il prostrarsi ai suoi piedi (gesto tipico di chi ha visto salvata la propria vita), lo sciogliersi dei capelli in segno di umiliazione, il versare il profumo (segno di gioia, di abbondanza, di amore e consacrazione), e poi le lacrime e i baci: tutte espressioni che parlano di accoglienza e di vita. Questa donna dice così l’autentico stare dell’uomo davanti a Dio: nessuna giustificazione e tanta gratitudine; pronuncia così l’amen della sua fede nel perdono di Gesù e del suo amore che accetta di lasciarsi amare.

     Tra il fariseo e la peccatrice sta Gesù, il vero profeta, che conosce i disegni di Dio e sa leggere nel cuore degli uomini. Gesù vede il disprezzo e la freddezza del cuore di Simone, il suo sentirsi giusto e credere che l’amore di Dio può essere meritato. Il suo peccato è tutto qui: voler meritare l’amore di Dio che è per essenza pura gratuità. Potremmo chiamarlo «un peccato di prostituzione nei confronti di Dio» (S. Fausti). Nel cuore della donna, probabilmente una prostituta, Gesù coglie invece l’apertura e l’accoglienza al dono dell’amore che si manifesta pienamente nel perdono. La donna si lascia amare, cioè perdonare, e il suo amare di più è effetto e causa insieme del perdono. Amore e perdono si alimentano a vicenda: la donna ama in quanto perdonata e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono.

     Il cristianesimo è questo amore per Gesù, la fede che salva è apertura alla salvezza portata da Gesù. La conversione più profonda è dunque il semplice riconoscersi bisognosi del perdono. La donna si pone come uno specchio non solo, per Simone, ma anche per tutti noi ogni volta che abbiamo difficoltà a piegarci fino ai piedi di Gesù: solo chi è piccolo e a terra può toccare i piedi del messaggero che porta il lieto annuncio della salvezza e della pace.

L’immagine della domenica

 

TU CI AMI PER PRIMO, SEMPRE

Noi parliamo di te

come se ci avessi amati per primo

una volta sola.

Invece, continuamente,

di giorno in giorno,

tu ci ami per primo.

Quando al mattino mi sveglio

ed elevo il mio spirito a te,

tu sei il primo,

tu mi ami per primo.

Se mi alzo all’alba

ed immediatamente elevo a te

il mio spirito e la mia preghiera,

tu mi precedi.

Tu mi hai già amato per primo.

È sempre così.

E noi ingrati,

che parliamo come se

tu ci avessi amato per primo

una volta sola.

(Sören Kierkegaard)

Cascata delle Marmore (Umbria) – 2009

 

 Meditazione

     «Ho peccato contro il Signore!… Il Signore ha rimosso il tuo peccato» (2Sam 12,13). Questo essenziale dialogo tra Davide e il profeta Natan, in cui sono messi di fronte l’uomo peccatore e il Dio ricco di misericordia, potrebbe riassumere il tema che attraversa la liturgia della Parola di questa domenica. E infatti, quasi come una eco dell’annuncio rivolto dal profeta al re peccatore, ci giungono le parole che chiudono il racconto della peccatrice perdonata da Gesù, tramandatoci dall’evangelista Luca: «I tuoi peccati sono perdonati… va’ in pace» (Lc 7,48.50).

L’accostamento di questi due testi della Scrittura, proposto dalla liturgia, ha realmente la forza di una rivelazione del volto di Dio che permette all’uomo di ritrovare la verità della sua vita nell’orizzonte infinito del perdono che ricrea e che apre quel cammino nella pace che il peccato aveva interrotto. Lo sguardo di compassione che Dio posa sull’uomo che ha il coraggio di riconoscere la sua colpa (come Davide e come la donna peccatrice) è più forte della morsa del peccato e solo chi sperimenta su di sé questo sguardo di misericordia donato nella assoluta gratuità, può intraprendere l’avventura di un amore senza più riserve. È il paradosso di un amore che sgorga dal perdono e di un perdono che può essere donato e accolto solo da chi ama. Gesù, rivolgendosi a Simone, ma parlando di quella donna che con i suoi gesti ha rivelato tutta la sua miseria e tutto il suo amore per Lui, dice: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47). Chi non ha il coraggio di riconoscersi nella estrema nudità e fragilità in cui l’esperienza del peccato lo pone di fronte al Dio infinitamente compassionevole, non riuscirà mai ad entrare nello spazio della gratuità; di fronte agli altri sarà come il fariseo Simone, duro nel giudizio, illuso di saper discernere il cuore dell’uomo, ma di fatto cieco e incapace di guardare l’altro con occhi di misericordia.

     Il racconto di Luca, sul quale ci soffermiamo brevemente, è davvero una icona da contemplare. Si resta profondamente colpiti dai contrasti che caratterizzano la dinamica di questo brano evangelico: una giustizia e una rettitudine che non riescono a varcare la soglia della gratuità (il fariseo), un grande peccato che si trasforma in un grande amore, parole non dette e parole sussurrate dietro le quali l’uomo si nasconde, e gesti forse ambigui ma attraverso i quali si ha il coraggio di compromettersi e di esprimere tutta la forza dell’amore. E poi in questo brano tutto è eccessivo: il peccato, il perdono, l’amore, i gesti, i silenzi, gli sguardi. Veramente si deve riconoscere che Luca ha saputo esprimere stupendamente il paradosso della gratuità e soprattutto il paradosso di una conversione che sa trasformare un desiderio appassionato in una porta aperta all’amore di Cristo.

Con un linguaggio sorprendente, Giovanni Climaco così descrive questa ‘conversione’ dall’eros all’agape, questa apertura della dimensione affettiva, attraverso cui noi amiamo, alla charitas Christi di cui è protagonista la peccatrice: «Ho visto anime impure che si gettavano nell’eros fisico fino al parossismo. È stata proprio la loro esperienza di tale eros a portarli al capovolgimento interiore. Allora concentrarono il loro eros sul Signore. Oltrepassando il timore, cercavano di amare Dio con un desiderio insaziabile. Ecco perché Cristo, parlando della casta prostituta, non ha detto che ella aveva avuto paura, ma che aveva molto amato, e che aveva potuto superare agevolmente l’amore con l’amore» (Scala del paradiso, 5,54).

     La forza di questo racconto sta nel contrasto tra due modi di rapportarsi a Dio e agli altri, espressi proprio dagli atteggiamenti del fariseo che invita a pranzo Gesù e della peccatrice che improvvisamente irrompe nella sala e compie verso Gesù dei gesti imbarazzanti e inauditi per Simone e gli altri invitati. Questa donna è conosciuta come una peccatrice (7,37) e ciò che compie sembra essere risucchiato in questa situazione di vita moralmente scandalosa. Così appare allo sguardo di Simone. E infatti quella donna, senza dare alcuna spiegazione, senza presentarsi, senza dire una parola, inizia a compiere dei gesti così inau-diti da gettare tutti nello sconcerto. Tutti, ma non Gesù, il quale la lascia fare, perché quella donna è venuta per lui ed è lui che vuole incontrare. Ogni suo gesto sprigiona il desiderio di questo incontro. Stando «dietro presso i piedi di Gesù» (v. 38), quella donna sembra quasi voler deporre tutta la miseria della sua vita ai piedi di chi ha la forza di risollevarla. E «piangendo cominciò a bagnarli di lacrime» (v. 38): quelle lacrime che dai suoi occhi scendono sui piedi di Gesù sono le lacrime di chi finalmente ha saputo porsi di fronte alla verità della sua vita e ora può vivere un momento di liberazione. E poi si mette ad asciugare i piedi di Gesù «con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (v. 38): le lacrime, segno del pentimento, confondendosi con il profumo dell’unguento, diventano il segno più limpido del suo amore per Gesù. Questa immagine eccessiva di amore turba il fariseo Simone e quasi in contrasto con la passione espressa dalla donna nei suoi gesti, c’è la freddezza nel giudizio che quest’uomo, giusto e retto, esprime nel suo cuore: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (v. 39). Parole di condanna non solo per la donna, ma anche per Gesù: è un profeta che di fatto non sa discernere e donare il giudizio di Dio!

     È sorprendente notare come tutto ciò che quella donna compie è sotto lo sguardo di ognuno, mentre il giudizio di Simone è formulato nel segreto, nel cuore. Eppure, ad un certo punto tutto viene messo allo scoperto e rivelato nella verità. E questo avviene quando Gesù, attraverso una parabola, risponde a quei tanti interrogativi e giudizi che Simone (e forse anche tutti gli altri invitati) aveva formulato nel cuore e non aveva osato far affiorare sulla labbra. «Simone, ho da dirti qualcosa….» (v. 40): nel momento in cui Gesù pronuncia questa parola e poi racconta la storia dei due debitori, uno con un ‘grande’ debito da restituire e uno con un ‘piccolo’ debito, due debitori ugualmente perdonati, ecco che Simone è obbligato a confrontarsi con la donna, a convenire il suo sguardo su di lei, a vedere nei gesti che ha fatto il segno di un amore senza limiti, a misurare su di essi la piccolezza della sua giustizia, ad allargare gli orizzonti del suo sguardo per andare oltre le apparenze, a cambiare il suo modo di interpretare l’agire di Dio verso il peccatore. È lui il piccolo debi-tore che è rimasto intrappolato solo nella logica del dovere e non ha saputo, come quella donna, avventurarsi nello spazio senza limiti della gratuità, della sovrabbondanza e dell’eccesso dell’amore. Queste stupende parole di Isacco il Siro possono offrire un commento alle parole che Gesù rivolge al fariseo (cfr. vv. 44.47): «La giustizia è la rettitudine di una eguale misura che dà a chiunque in modo eguale, che non adatta la sua retribuzione a nulla, badando a ciò che ha sotto agli occhi. La misericordia invece, è una passione mossa dalla bontà, che si piega su tutto con indulgenza. Non retribuisce colui che merita il male, né colui che merita il bene, ma dà in abbondanza il doppio… È misericordioso colui che fa misericordia al suo prossimo, non solo con i doni, ma che, anche quando sente e vede qualcosa che causa sofferenza a qualcuno, soffre nel suo cuore un incendio; e ancora, quando riceve uno schiaffo da suo fratello, non si ribella e non gli rende il contraccambio neppure con la parola, ma ne soffre nel suo pensiero».

     «Simone, ho da dirti qualcosa…» (v. 40). Ciò che avviene in quella sala, attorno a quella tavola, è la parabola che Gesù vuole ora raccontare anche a ciascuno di noi. E ce la racconta perché anche noi abbiamo bisogno di comprendere che cosa significano perdono e misericordia, che cosa significano gratuità e rischio di amare, giustizia e compassione. Questa parabola ci è narrata per rispondere ai tanti interrogativi del nostro cuore: come Simone anche noi tratteniamo nel profondo del nostro cuore pensieri e domande che temiamo di porre al giudizio del Signore Gesù, per paura di essere smentiti. Gesù ce la racconta per aprire il nostro sguardo interiore a discernere ciò che va oltre le apparenze, per renderci capaci di perdono e di misericordia. Gesù ci racconta questa parabola perché anche noi, troppe volte, siamo come Simone.

 Preghiere e racconti

Presenta a Dio una preghiera fatta carne

L’amore di Dio, uscito alla ricerca dei peccatori, ci è annunciato da una donna peccatrice. Rivolgendosi a lei, Cristo invita all’amore tutti noi; in lei attirava al suo perdono tutti i peccatori.

Parlava a lei soltanto, ma invitava la creazione intera a divenire partecipe della sua misericordia. Nessun altro l’ha convinto a tenderle la mano perché si accostasse al perdono. Soltanto il suo amore per colei che ha plasmato l’ha convinto […]. Il pastore è disceso dal cielo verso la pecora perduta, per riprendere, in casa di Simone, colei che il lupo astuto aveva rapito. A casa di Simone ha trovato colei che cercava […]. La peccatrice con le sue parole prega Gesù come suo creatore. Le sue parole, benché non siano state scritte, si lasciano indovinare dai suoi gesti. Colei che con le sue lacrime bagna i piedi di Gesù, li asciuga con i suoi capelli e versa su di essi un profumo di grande valore, non può che dire parole corrispondenti ai suoi gesti. Presenta a Dio una preghiera fatta carne; manifestando la sua umiltà, testimonia la sua fiducia in lui […]. Gesù non parla subito e, quando parla, dice una parola soltanto, ma con questa parola, distrugge il peccato, annienta le colpe, scaccia la trasgressione, accorda il perdono, sradica il peccato, fa germogliare la giustizia. Il suo perdono apparve all’improvviso dentro alla sua anima e ne scacciò le tenebre del peccato; la donna fu guarita, si riprese e, risanata, ritrovò la forza […]. E perché tutto questo accada anche a te, renditi conto che il tuo peccato è grande, ma che disperare del perdono perché il tuo peccato ti sembra troppo grande è bestemmiare contro Dio e fare torto a se stessi. Il Signore ti ha promesso di perdonare i tuoi peccati per quanto grandi siano e tu ribatti che non gli credi, gli dici:  «II mio peccato è troppo grande perché tu lo perdoni. Tu non puoi guarirmi dalle mie malattie»? Fermati e grida con il profeta: «Signore, ho peccato contro di te» (2Sam 12,13) e subito ti risponderà: «Ti ho perdonato il tuo peccato; non morirai».

(Omelie anonime sulla peccatrice 1,4.26. 28, in L’Orient syrien 7 (1962), pp. 179; 189; 193; 195).

Naturale e artificiale

La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.

Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.

Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.

Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.

Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.

Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.

Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113).

Lasciatela libera

Lasciatela libera di fare quello che desidera, perché è l’amore che la ispira.

Lasciatela libera: lei mi conosce attraverso l’amore e sa ciò che desidero e ciò di cui ho bisogno.

Lasciatela libera di annunciarmi: è piena di amore e di entusiasmo…

Lasciatela libera: lei realizzerà con me soltanto opere di bellezza, opere che saranno un’effusione di amore. In realtà ho bisogno solo di questo ministero, un bisogno urgente. Perché il mondo per il quale io ho dato la vita muore senza festa e senza acqua, senza luogo di adorazione e senza canto, senza danza e senza colori, senza speranza e senza giardino.

E’ di questo ministero che ho bisogno: non avete letto che, mentre asciugava i miei piedi con i suoi capelli, tutta la casa si riempiva di profumo?

Ad essa ho inviato il mio Spirito perché mi chiami, mi desideri, perché attenda con ansia la mia venuta. Lasciatela, lasciatela libera di fare.

(Maria Teresa Porcile Santiso, La donna spazio di salvezza, EDB, Bologna 1996, 348-349).

Il valore della gratuità

«A sprecare la vita per Cristo, cioè il valore della gratuità, così lontana dall’utilitarismo corrente.

In un epoca in cui prevalgono la produttività e l’efficientismo, il valore della gratuità non è tramontato. Come a Betania una donna ruppe il vaso d’alabastro per versare il profumo sul capo di Gesù, così il certosino “spreca” la sua vita per Cristo e il profumo di questa vita donata si può diffondere in tutta la Chiesa e nel mondo.

…Tutti si scandalizzano: il profumo poteva essere venduto, il ricavato offerto ai poveri. Ma quel gesto apparentemente illogico è in realtà una testimonianza di amore. E perciò Gesù dice a chi la rimprovera: “Lasciatela in pace, perché tormentarla? Questa donna ha fatto una buona azione verso di me”.

L’amore vero non conosce misure e non ha la preoccupazione del contraccambio. Un amore che pretende un corrispettivo è un amore verso se stessi più che verso l’altro. L’amore verso Dio non può che essere gratuito, perché Lui ci ama gratuitamente.

Cosa c’è di più utile e di più giusto per l’uomo se non amare Dio?

La vera utilità, per lui, non è ciò che si vede e che si può ottenere subito, ma l’amore per Dio, perché Lui è l’unico bene che può riempire il cuore dell’uomo. “Donarsi senza aspettare nulla in cambio, questo è il nostro ideale. Perché la nostra vita vuol essere un dono d’amore e l’amore autentico è sempre gratuito”».

(Enzo Romeo, I solitari di Dio. Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 15).

Il profumo che deve riempire la casa

L’unguento che Maria spande è il simbolo della comunione nuziale con Gesù espresso dalla comunità cristiana. Celebriamo la chiamata delle nostre comunità cristiane, rappresentate da Maria di Betania, alla comunione totale con Gesù, datore di vita. È lui che trasforma quello che sarebbe dovuto essere il banchetto funebre in memoria di Lazzaro in un banchetto di gioia. È lui che tramuta il fetore insopportabile di un morto “quadriduano” nel profumo che inonda la casa di letizia. È lui che protesta contro tutti i Giuda della terra, i quali considerano sprecato l’unguento prezioso della intimità con Dio e oppongono i poveri al Signore. È lui che rifiuta la “praticità” di tutti coloro che preferiscono l’efficienza del denaro a ogni estasi di amore, e riducono malinconicamente in valuta monetaria anche ciò che non ha prezzo. È lui, insomma, che dobbiamo ricercare nella preghiera d’abbandono, nell’esperienza contemplativa e nella consuetudine di vita.

Il Signore ci preservi dall’errore di Giuda il quale, insensibile al profumo del nardo, avverte solo il tintinnare dei soldi, e, invece che percepire la lucentezza dell’olio, si lascia sedurre dallo scintillo dell’argento. Qual è questo profumo d’unguento di cui dobbiamo riempire la casa, e qual è questo buon profumo di Cristo che dobbiamo diffondere nel mondo? Il profumo che deve riempire la casa è la comunione. Naturalmente, come quello comprato da Maria di Betania, l’olio della comunione ha un prezzo carissimo. E noi dobbiamo pagarlo, senza sconti, con tanta preghiera, anche perché non è un prodotto commerciale in vendita nelle nostre profumerie, né è frutto dei nostri sforzi titanici. È dono di Dio che dobbiamo implorare senza stancarci. Ma l’otterremo, ne sono certo; e il suo profumo riempirà tutta la nostra Chiesa”.

(A. Bello, Lessico di comunione, Terlizzi, 1991, 69-75).  

Gli idoli

Un papà aveva passato la cera sulla carrozzeria dell’automobile e ora la strofinava accuratamente per renderla splendente. Il figlio lo aiutava, passando lo straccio sui paraurti.

“Vedi, ragazzo mio, l’auto è un capitale della famiglia. Dobbiamo dedicarle cure, attenzioni e tempo” diceva il padre.

“Certo, papà”.

Un momento di silenzio.

“Allora io non sono un capitale della famiglia” mormorò piano il figlio.

“Perché?”

“Tu non hai mai tempo per me!”

Da’ gratuitamente

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

La propria interiorità

A proposito di differenza verso se stessi, sono celebri le spietate autoanalisi di sant’Agostino che nelle Confessioni si dichiara “terra di miseria” (regio egestatis), dice di “provare disgusto” di se stesso (displicere mibi), e non teme di esplicitare questo suo sentimento dicendo che la sua anima, “coperta di piaghe, si proietta fuori di sé, miseramente bramosa di sfregarsi al contatto con le cose sensibili […]. Inquinavo così la fonte dell’amicizia con le sozzure della concupiscenza e ne oscuravo il candore con le tenebre della libidine, e tuttavia, sporco e volgare, smaniavo dalla vanità di apparire elegante e raffinato”. Ecco di che cosa è capace il sé, non solo di sporcarsi ma anche di pretendere di essere pulito. Ancora Agostino: “La volontà traviata genera la passione, e la soggezione alla passione genera l’abitudine, e il cedimento all’abitudine genera la necessità. Con questa specie di anelli agganciati l’un l’latro – perciò ho parlato di catena – mi teneva avvinghiato una dura schiavitù”.

Prima di Agostino era stato l’apostolo Paolo a presentare un severo giudizio sulla propria interiorità, in un brano che è opportuno citare diffusamente perché ha segnato nel profondo la storia della coscienza occidentale: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me” (Romani 7,15-21).

(Vito MANCUSO, La vita autentica, Milano, Raffaello Cortina Ed., 2009, 105-106)

Preghiera

Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.

Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.

Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)

X DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 17,17-24

 

In quei giorni, il figlio della padrona di casa, [la vedova di Sarepta di Sidòne,] si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che egli cessò di respirare. Allora lei disse a Elìa: «Che cosa c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?». Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto. Quindi invocò il Signore: «Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo». Il Signore ascoltò la voce di Elìa; la vita del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Elìa prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elìa disse: «Guarda! Tuo figlio vive». La donna disse a Elìa: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità».

 

 

La pericope che narra la rianimazione del figlio della vedova di Zarepta è parte del “Ciclo di Elia” (1Re 17 — 2Re 2), un insieme di capitoli poco unitario ma che ha l’intento di narrare la vita del profeta attraverso una serie di racconti, alcuni dei quali miracolosi. Il contesto storico nel quale si inserisce anche il nostro brano testimonia la forte polemica che la fede yahwista — e in modo speciale la teologia deuteronomista — devono intrat­tenere contro i culti naturalistici e particolarmente baa­lici che tentavano ancora gli israeliti.

     Elia è l’uomo di Dio che testimonia con la propria vita il giudizio di YHWH. Per questo motivo la vedova, alla quale è appena morto il figlio, reagisce con aggressività («Che c’è tra me e te, o uomo di Dio?»: v. 18) alla presen­za del profeta: questi le ‘rinnova il ricordo’ del suo pec­cato. Il profeta, infatti, come uomo di Dio, rende attuale la presenza di Dio che rivela l’iniquità e fa prendere co­scienza delle colpe commesse. Inoltre il rimprovero che la vedova muove a Elia di avergli fatto morire il figlio rivela quel ‘principio della retribuzione’ molto radicato nella mentalità israelita, secondo il quale non c’è pecca­to che non sia accompagnato da un castigo. A tale prin­cipio si opporranno in modo deciso Geremia ed Ezechie­le (cfr. Ez 14,12; 18; Ger 31,29s.: «In quei giorni non si dirà più: i padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati. Ma ognuno morirà per la propria iniquità»).

     Il miracolo della rianimazione compiuto da Elia con un’azione simbolica quasi magica e con la parola sarà il segno per la vedova della veracità della parola e dell’a­zione profetica di Elia, oltreché la dimostrazione che il Dio della vita è YHWH e non Baal, il Dio vero è YHWH e non Baal. Il brano termina non a caso con una confes­sione di fede della vedova: «Ora veramente so che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (v. 24). Nel discorso nella sinagoga (Lc 4,17-27), Gesù parlerà della vedova di Zarepta come esemplare nell’accoglienza della grazia offerta.

 

Seconda lettura:  Galati 1,11-19 

 

Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.

 

 

Nel contesto del severo ammonimento ai Galati, che si sono lasciati traviare da annunciatori d’un falso vangelo, Paolo rivendica l’autorevolezza del proprio annuncio ricorrendo a un’appassionata e commossa rievocazione della propria storia. È la vita stessa di Paolo, in un certo senso, a garantire che il vangelo da lui annunziato non è di origine umana, ma gli è stato rivelato direttamente da Gesù Cristo. E Paolo non nasconde nulla 

della sua vita: non nasconde lo zelo con cui ha perseguitato la chiesa di Dio e, tanto più, non nasconde l’azione di Dio nella sua esistenza, dalla elezione fin dal grembo materno, alla chiamata per grazia, alla scelta che Dio fa di lui come evangelizzatore del suo Figlio tra i pagani.

Ovviamente quando Paolo parla di questa rivelazione ‘diretta’ non vuole necessariamente intendere di aver ricevuto, sulla via di Damasco, tutto in una volta il ‘deposito della fede’. In altri testi, infatti, riprende i termini del racconto eucaristico, per esempio, o del kérygma pasquale così come li ha ricevuti ad Antiochia o a Gerusalemme (cfr. 1 Cor 11,23ss.; 15,1ss.). È più probabile che Paolo in questo contesto si riferisca alla rivelazione d’un nucleo kerigmatico che riguarda la giustificazione di Dio in Gesù Cristo per la fede e non per le opere della Legge. È questa rivelazione la buona novella che gli ha sconvolto la vita.

Resta il fatto che, pur con l’assoluta certezza dell’ori­gine divina del suo vangelo, sale a Gerusalemme per vi­sitare Cefa, ritenendo la comunione nella fede con chi era stato apostolo prima di lui, e testimone della vita, morte e risurrezione di Cristo, una condizione indispen­sabile dell’evangelizzazione. Quattordici anni dopo, Pao­lo ritornerà a Gerusalemme per esporre a Pietro, Giaco­mo e Giovanni il vangelo che predicava ai pagani, per non trovarsi «nel rischio di correre o di aver corso inva­no» (Gal 2,2).

 

Vangelo: Luca 7,11-17

 

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

 

Esegesi

      Oggi è un piccolo villaggio l’antica città di Naim , ai piedi dell’Hermon, a sud-est di Nazaret. Quasi sulla strada che vi conduce, ancora oggi è possibile scorgere delle tombe scavate nella roccia. È facile pensare che lì era diretto il feretro di cui parla Luca nel brano evangelico di oggi.

1)  La porta della città

Un figlio unico di madre vedova viene condotto alla sepoltura accompagnato da molta folla.

Alla porta della città, questa folla si incontra con un’altra folla che segue Gesù e i suoi discepoli. Chi entra, chi esce. Chi segue il morto, chi l’«Autore della vita», come Pietro chiama Gesù. Tra la vita e la morte c’è una porta. Alla porta c’è Gesù, che attende. Egli è la risurrezione e la vita, chi crede in lui anche se muore, vive.

2) Molta gente

La moltitudine di gente che sta con Gesù e la moltitudine che sta col giovane morto simboleggiano i due schieramenti che appariranno alla destra e alla sinistra del Giudice, nel giudizio universale.

Una è formata dalla moltitudine dei morti, l’altra dalla moltitudine dei vivi in Cristo. Dopo il giudizio si chiuderà per sempre una porta che separerà i figli della perdizione dai figli della risurrezione.

La rivelazione dice che sono molti coloro che seguono la strada larga che conduce alla morte, ed è una «moltitudine immensa» quella che segue l’Agnello, che è Via, Verità e Vita.

3) Figlio unico

Tale era il giovane condotto alla sepoltura. Egli è un simbolo. Di fronte al giudizio di Dio, infatti, ciascuno di noi è »unico» e solo. E tuttavia siamo insieme con una «folla» di fratelli santi che possono accompagnarci all’incontro con Gesù.

Quando siamo »morti» solo spiritualmente, cioè durante la vita ter­rena, beati noi se siamo accompagnati all’incontro con Cristo, perché solo lui può farci rivivere e farci sfuggire alla «seconda morte», come si esprime san Francesco.

Ma purtroppo c’è anche una moltitudine di gente intorno a noi che può farci allontanare dall’Autore della vita.

4) La madre vedova

San Luca accenna alla «compassione» di Gesù per la «madre vedova», che accompagnava suo figlio alla tomba: «vedendola — scrive l’evangeli­sta — il Signore ne ebbe compassione».

Il pensiero di Gesù dovette andare a Maria, vedova di Giuseppe, quando seguirà il suo «unico Figlio» dal Calvario alla tomba scavata nella roccia.

Allora non ci sarà nessuno a fermare il feretro e a consolare sua Madre, dicendole «Non piangere».

5) «Non piangere!»

Come si può dire «non piangere» a una madre vedova che perde l’u­nico figlio?

Quante volte si dicono parole vuote a coloro che soffrono, non sa­pendo cosa fare per dar loro consolazione.

Ma Gesù non dice parole vane; egli sa cosa sta per fare. Solo lui può consolarci quando il nostro cuore langue!

6) Si avvicinò e toccò la bara

La donna che da anni soffriva per il flusso di sangue pensò: se riu­scirò a toccare il suo mantello, guarirò». Lo toccò e fu guarita.

Una forza di vita usciva sempre dalla persona del Figlio di Dio:

quando toccava i ciechi, quanto toccava i lebbrosi, quando toccava i morti.

Ora tocca solo la bara, per toccare poi il giovane morto.

Fortunato quel giovane, che i portatori si fermarono al tocco di Gesù: «accostatosi, toccò la bara, mentre i portatori si fermarono». Se non si fossero fermati, il giovane sarebbe rimasto morto.

Anche questo simboleggia il tocco di Gesù alla «bara» che ci circonda. Gesù tocca la nostra bara ogni volta che sentiamo con le orecchie una parola santa e un buon consiglio, ogni volta che siamo sfiorati da un sacerdote, ogni volta che i nostri occhi guardano una chiesa o una tomba: beati noi se ci fermiamo nella nostra corsa verso morte! Gesù sta per mostrarsi a noi!

7) «Ragazzo, dico a te, àlzati!»

Gesù non disse «rivivi», così come a Lazzaro disse solo: «Lazzaro, vieni fuori».

Ma per «alzarsi» e per «venire fuori», un morto deve essere già vivo.

Gli spettatori gridarono al miracolo quando videro Lazzaro «venire fuori», e il giovane «alzarsi». Ma Gesù, in ambedue i casi, aveva già fatto il suo intervento miracoloso e amoroso, perché Gesù precede sempre i nostri desideri.

Fa pensare che i tre miracoli di risurrezione dai morti — nel vangelo — riguardano dei giovani, ivi compresa una fanciulla.

Ciò fa riflettere sull’assurdità della morte, che stronca chi è nato per vivere; sull’imparzialità della morte, che miete come, dove e quando vuole; sulla fragilità della morte di fronte al Salvatore, che la vince come, dove e quando vuole.

Un giorno, anch’egli giovane Uomo-Dio, la vincerà dopo tre giorni di lotta, e la vincerà per sempre e per tutti quando egli stesso ha stabilito.

8) Il morto si mise seduto e cominciò a parlare

La fanciulla dodicenne fu presa per mano, e Gesù la fece alzare. Lazzaro e il giovane ascoltano la voce della Vita — quasi vento che passa su alberi inariditi e li copre di fiori — e riprendono a vivere!…

Il giovane si alza a sedere, quasi a voler insegnare qualcosa dal fondo della bara. Infatti «cominciò a parlare».

Ma un morto insegna anche senza parlare!

9) Lo restituì a sua madre

Oltrepassata la porta della città e la porta della vita, il giovane ap­parteneva ormai non più alla madre ma al Signore che gli era venuto incontro. E il Signore lo restituisce alla madre che l’aveva perduto.

Poi venne un giorno in cui il giovane morì di nuovo e anche Gesù era morto. Ma ambedue riaprirono gli occhi alla vita eterna.

Quando morì la seconda volta, il giovane, Lazzaro e la fanciulla, fu­rono consegnati da Gesù al Padre di tutti.

10) Timore e gloria

La folla non ebbe timore della morte ma del mistero della vita che distrugge la morte per il volere di un «grande profeta è sorto tra noi». Ma il timore si trasforma ma subito in gioia e in inno di gloria per Dio che «ha visitato il suo popolo».

La gente percepisce che Dio visita il suo popolo non quando arriva la morte che è stipendio del peccato, ma quando dona la vita.

 L’immagine della domenica

 

Vetrata del Nuovo Santuario del Divino Amore – Roma 2016

 

 La vita

Con uno stile poetico, ma con echi drammatici, il melanconico Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, rivolge invano alla luna il più importante dei suoi interrogativi, che è quello di sapere qual è il vantaggio del vivere e perché gli uomini si ostinano a farsi protagonisti di questo cerchio mortale che è la continuità della vita stessa: 

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale? […]

Nasce l’uomo a fatica

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell’esser nato. […]

Ma perché dare al sole

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?

 

Meditazione

      C’erano due cortei, quel giorno, alla porta di Naim: il corteo della vita e il corteo della morte. Il primo rappre­sentato da Gesù con i suoi discepoli, il secondo dalla po­vera vedova che piange il figlio morto «con molta gente»; ma è soprattutto questo secondo contesto che attira l’at­tenzione e avvolge d’amarezza l’intera scena.

Anche la nostra esistenza è spesso attraversata da questi due cortei: c’è la vita che si afferma in noi, come un istinto che sembra invincibile; ma facciamo ogni giorno esperienza anche di morte, in noi e attorno a noi, in molti modi. Anzi, come quel giorno a Naim è la morte, ancor oggi, che si pone al centro dell’attenzione, spesso togliendoci la pace e facendoci dimenticare tutto il resto, la vita che scorre al presente e quella che ci è promessa nel futuro.

La commozione di Gesù di fronte alle lacrime della vedova è per noi consolantissima speranza: ci dice che il Signore vede la nostra condizione e si commuove, che le sue «viscere di misericordia» non restano insensibili di fronte alla nostra miseria, che egli può trasformare i nostri cortei funebri in danze di lode a lui, autore della vita. Per questo egli può chiederci di «non piangere». E se restituisce la vita al giovane allora la speranza diviene certezza, la certezza che la sua tenerezza ci può restituire «il figlio morto», la gioia della vita, l’amore tradito, la speranza delusa, la fede smarrita.

Tutto questo, in realtà, non è forse già successo nel nostro passato? Quante volte Dio ci ha visitato! Perché continuiamo ancora con le nostre processioni funebri? È amaro e rivolto anche a noi il lamento di Gesù su Gerusalemme: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace… ma non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,42.44). Beati noi, invece, se sapremo lasciarci incontrare alla porta di Naim, per finirla una buona volta con i nostri lamenti e intonare il canto della vita…

 

Preghiere e racconti

Viscere delle sue viscere

Anche se c’è peccato grave, che non può essere lavato da voi stessi con le lacrime del vostro pentimento, pianga per voi questa madre, la Chiesa, che interviene per ciascuno dei suoi figli come una madre vedova per figli unici; essa infatti compatisce, con una sofferenza spirituale che le è connaturale, quando vede i suoi figli spinti verso la morte da vizi funesti. Noi siamo le viscere delle sue viscere, poiché esistono anche viscere spirituali. Paolo le aveva, lui che diceva: «Sì, fratello! Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; da’ questo sollievo al mio cuore in Cristo!» (Fm 20). Noi siamo le viscere della Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo, fatti con la sua carne e con le sue ossa. Pianga dunque, la tenera madre, e la assista la folla; non solo una folla, ma una folla numerosa compatisca la buona madre. Allora voi vi rialzerete dalla morte, sarete liberati dal sepolcro; i ministri della vostra morte si fermeranno, voi comincerete a dire parole di vita; tutti temeranno, poiché per l’esempio di uno solo molti saranno ristabiliti; e, inoltre, loderanno Dio per averci accordato simili rimedi per evitare la morte.

(Ambrogio, Trattato sul Vangelo di Luca, I,93)

La sofferenza di Dio

Alle porte di Naim, Gesù ha «le viscere scosse» dal dolore di una vedova che accompagna alla sepoltura il suo unico figlio. Dice: «Non piangere», e poi risuscita il giovane. Ma, alla tomba di Lazzaro, egli piange, vedendo piangere Maria e i giudei che l’accompagnavano. Perché queste lacrime?, si chiede Newman. Tenerezza spontanea dell’amico, orrore del «soffio della tomba», che in seguito dovrà inghiottire nuovamente Lazzaro: il miracolo che egli com­pie è «una tregua, non una risurrezione». Ma c’è di più: qui Dio stes­so si trova faccia a faccia con la sua propria morte.

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio)

O Madre dei dolori

O Madre dei dolori è il tuo figlio che muore così

e l’Ufficio della flagellazione comincia

e le tue piaghe sono i sacri ornamenti che tu indossi

per la celebrazione del tuo martirio…

Il freddo scivola dolcemente sulla tua croce,

il serpente del primo giorno, l’eternità che si dispiega.

Mia Madre è lì ai tuoi piedi, persa nel sogno del suo figlio

e il No le sale in gola, l’urlo della bestia che sanguina

nel suo figlio offerto, partorendo

di nuovo il corpo minuto della sua angoscia,

il suo figlio di tenebre,

questo viso affilato d’ombra che si nutre

al suo stesso Giardino

con il singhiozzo come un diamante nelle sue dita.

Madre tutta fiorita del tuo dolore

ecco la ghirlanda sgualcita dei suoi occhi attorno a te,

la corolla fremente dei suoi pianti che si apre,

le orde illuminate di tutti i nostri morti attorno ai suoi polsi

ecco le sue lacrime che inchiodano la sua carne sul Legno

ecco la spada del suo Grido sulla tua bocca chiusa

ecco il suo cuore già becchettato dagli uccelli neri

della Collera.

(J. Cayrol, Canto funebre in memoria di Jean Gruber)

Preghiera

Ti benedico, Signore, Dio d’Israele, perché hai visitato e redento il tuo popolo. Ti benedico, Signore, perché hai mutato il mio lamento in danza e la mia veste di sacco in abito di gioia. Ti benedico, Signore, perché non resti indifferente davanti alla mia vita, e mi doni quella misericordia che nasce dalle tue viscere di madre. Ti bene­dico, perché ripenso a ogni giorno della mia storia; ri­penso a ogni volta che mi hai detto «Non piangere!», e io non ho più pianto, e ho visto la vita, e ho visto te che mi ridonavi la vita. Grazie, mio Dio!

Ma ti chiedo anche perdono perché molte di più sono state le volte in cui non ti ho saputo riconoscere tra le misteriose pieghe della mia storia, quando in particola­re mi hai nutrito con pane di lacrime per rivelare in me i segni della tua gloria, o quando mi hai associato al mi­stero della tua morte perché la tua vita risplendesse nelle mie membra. Ti chiedo perdono se in quei momen­ti ho avuto timore della tua opera e ho dubitato della tua promessa di vita. Ora so che quello era il tempo in cui mi hai visitato…

Tu, Padre, che sei il consolatore degli afflitti, tu che il­lumini il mistero della vita e della morte, fammi dono ogni mattino della tua visita, fino al giorno in cui chie­derai anche a me, come chiedesti al tuo Figlio, il dono totale della vita. Allora, nella gioia dello Spirito, vivrò per sempre accanto a te.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER APPROFONDIRE:

 X DOMENICA TEMPO ORD (C)

CORPO E SANGUE DI CRISTO

Prima lettura: Genesi 14,18-20

 

In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». E [Abramo] diede a lui la decima di tutto. 

 

Il tema della benedizione ritorna nel brano della Genesi. A pronunciarla è il re di Salem, di cui non conosciamo altro che il nome, Melchisedek. Egli, dice il testo «offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole». Abramo era appena ritornato secondo il racconto di Gn 14, dalla vittoria contro i quattro re che avevano in precedenza sconfitto le città del mar Morto e catturato suo nipote Lot. Il re Melchisedek, che come era allora frequente consuetudine ricopriva pure a carica sacerdotale, portò come ristoro ai vincitori, alla cui testa era Abramo, pane e vino. Le parole di benedizione rivolte ad Abramo suonano dunque come un riconoscimento del suo ruolo nell’aver liberato il campo da pericolosi nemici. Ciò che ci riguarda maggiormente, però, è lo schema della benedizione. Da una parte c’è Dio che benedice, in quanto egli è creatore del mondo, ossia fa essere le cose che esistono; questa è la benedizione costitutiva o discendente. Dall’altra c’è

la benedizione e la lode che l’uomo eleva a Dio, detta dichiarativa o ascendente, perché  chi ha riconosciuto di essere stato beneficato da Dio, lo ringrazia. Quindi Abramo, considerando Melchisedek superiore a sé e intendendo manifestare la propria gratitudine nei confronti di Dio cede la decima a questo re. 

L’inserimento di questo brano nella liturgia del Corpus Domini si può giustificare solo a partire dall’interpretazione che ne hanno fatto i Padri della Chiesa, sulla scia di ciò che era trapelato nel Nuovo Testamento. Infatti diversi dei Padri hanno inteso l’offerta del pane e del vino come una prefigurazione dell’Eucaristia e Melchisedek, che ci viene presentato «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita» (Eb 7,3), quindi eterno, come la prefigurazione del sacerdozio messianico, superiore a quello di Aronne.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
       

 

Ma è il brano della prima lettera ai Corinzi che, in modo inequivocabile, ci riallaccia con la viva tradizione delle comunità dell’epoca apostolica. L’apostolo Paolo così introduce l’argomento: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso». E questa trasmissione viene espressa con il significativo verbo paradidomi, da cui viene anche

l’idea di paradosis, ossia di una vera e propria consegna effettuata da una generazione a un altra, o da una persona a un’altra, in questo caso autorevolissima come il Signore. Paolo, dunque, è conscio di comunicare non qualcosa di suo, bensì qualcosa che appartiene al grande «patrimonio» che Gesù stesso ha lasciato ai suoi discepoli. Il problema posto riguarda perciò la sostanza di quel «vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete m quella forma in cui ve l’ho annunziato» (1Cor 15,1).

     Di conseguenza, la fedeltà alla «tradizione» si fonde con la fedeltà alla «comunione». Nell’Eucaristia raccontata da Paolo si riprendono tutti gli specifici motivi fondamentali, a partire dal contesto, che è quello della cena precedente la passione e morte di Gesù. Vi viene rievocato il momento amaro del tradimento con lo stesso verbo paradidomi, quasi a voler intendere che la «consegna» di fare il memoriale dell’Eucaristia passa attraverso l’inevitabile «consegna» alla morte. Si prosegue con l’atto del prendere il pane, gesto familiare, da capofamiglia, che prelude al ringraziare (eucharistesas), cioè al benedire il datore di ogni dono, il Padre. Il pane, poi, viene spezzato per essere condiviso, per essere fonte di solidarietà e comunione. Infine, vengono riferite le parole che spiegano i gesti. «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Anche riguardo al calice del vino le parole ne illuminano il senso: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Troppo difficile è il compito di commentare tali parole: c’è il senso dell’offerta, del sacrificio di colui che si fa «spezzare» la carne e «versare» il sangue per l’umanità che ama, inclusa quell’umanità che si sta preparando a consegnarlo alla morte; c’è il senso dell’alleanza del ricucire uno strappo che si sarebbe sempre più approfondito senza l’iniziativa divina di andare incontro all’umanità; c’è il senso del dover costantemente «far memoria» di tutto ciò, perché siamo stati comprati a caro prezzo (cf. 1Cor 6,20). Il mistero eucaristico si trasforma allora in una ricapitolazione della storia, nella quale viene riproposta in continuazione l’alleanza d’amore di Dio, in vista dell’evento finale, la venuta ultima di Gesù Cristo.

 

Vangelo: Luca 9,11-17 

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

 

Esegesi

     La pericope evangelica proposta dalla liturgia ci presenta subito un Gesù impegnato nella predicazione e nelle guarigioni. Non è facile entrare nel clima del brano se non diamo uno sguardo al contesto in cui è inserito. Infatti la moltiplicazione dei pani si trova quasi alla fine del periodo di attività in Galilea, quando Gesù stava maturando la decisione

di dirigersi verso la capitale, Gerusalemme: «Mentre si compivano i giorni della sua ascensione, indurì la faccia di dirigersi a Gerusalemme» (Lc 9,51). Il senso letterale del versetto ci rende bene la ferma determinazione di Gesù, «perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33). Quasi a volersi congedare dalla Galilea, egli inviò i Dodici ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi, assegnando loro persino il potere di scacciare i demoni (9,1-2). Al loro ritorno, gli apostoli riferirono in dettaglio a Gesù ciò che avevano operato durante la missione. Egli «allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsaida» (9,10), perché essi avevano bisogno di riposare. Ma furono intercettati dalla folla, che costrinse Gesù a cambiare programma e a trascurare gli stanchi missionari. E quindi fu direttamente lui che si occupò di parlare del regno di Dio e di guarire quanti avevano bisogno di cure (9,11), come se la folla, dopo aver ascoltato gli apostoli desiderasse andare alla fonte dell’annuncio.

     In verità, l’annuncio del regno di Dio era stata la preoccupazione di Gesù fin dal primo momento. E anche la folla, fin dal principio, lo seguiva senza stancarsi e dargli un attimo di respiro. In 4,42-44 mentre cercava un luogo isolato, venne raggiunto dalla folla che non voleva lasciarlo andare via. Ma egli evitò di fermarsi, perché il regno doveva essere annunziato anche ad altre città. In 8,1, dopo aver perdonato la donna peccatrice e aver insegnato la misericordia al fariseo Simone, ritornò alla sua consueta attività di predicazione del regno e in 8,10 si dedicò a istruire in modo più particolareggiato gli apostoli. Infine al capitolo 9 associò gli apostoli all’opera di evangelizzazione, mai disgiunta dalla realizzazione dei segni delle guarigioni e degli esorcismi. Riguardo alla folla, poi, in 5,1 si dice addirittura che «la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio»; in 6,17-19 si parla di gente che veniva ad ascoltarlo e a essere guarita, o anche solo a toccarlo, proveniente non solo dalla Galilea e dalla Giudea, ma persino da Tiro e Sidone, città pagane della Fenicia; in 8,4, la parabola del seminatore viene raccontata «poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città»; in 8,40, infine, troviamo persino che «al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui».

     Gesù quindi si mostrava molto disponibile nei confronti della folla, comprendendo benissimo il bisogno che essa aveva di parola di Dio e di sollievo dalla sofferenza. Ma tale disponibilità si dimostrò davvero eccezionale in questo caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Al v. 12 comincia un dialogo: gli apostoli, poiché stava tramontando, invitarono Gesù a congedare gli astanti per permettere a ciascuno di loro di procurarsi del cibo, in quanto il luogo in cui si trovavano era solitario. Essi non si sarebbero mai aspettati la risposta di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare» (9,13). Erano cinquemila uomini e nel passo parallelo del Vangelo di Giovanni l’apostolo Filippo fa una stima approssimativa della cifra necessaria a comprare pane per tutti: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa ricevere un pezzo» (Gv 6,7); a disposizione c’erano soltanto cinque pani e due pesci e l’eventuale spesa da affrontare era quindi insostenibile.

     Qui emerge un dato molto importante: gli apostoli, che erano stati protagonisti della missione con i compiti onorevoli di predicare, guarire e cacciare i demoni, vennero coinvolti nel servizio umile di dar da mangiare a quella folla. Gesù — dice il Vangelo — «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (9,16). Il nutrimento passa quindi attraverso le mani dei discepoli, che davvero offrono da mangiare a quella moltitudine, forse senza nemmeno rendersi conto del tutto della “straordinarietà” del fatto. Lungi dal pretendere di spiegare o razionalizzare il segno — ipotizzando che ognuno aveva delle provviste e che le condivide con gli altri, per cui il vero “miracolo” sarebbe la condivisione — occorre prendere sul serio il racconto evangelico e ammettere che Gesù abbia realmente potuto moltiplicare il poco cibo disponibile.

     Se conosciamo bene Gesù, non ci meraviglia che abbia avuto compassione di quella folla affamata, dopo che per un giorno intero aveva seguito i suoi insegnamenti e aveva assistito ai suoi segni. Infatti, l’evangelista Luca ci presenta un’immagine di Gesù sinceramente sollecito delle necessità della gente, fossero anche quelle corporali. Ma il testo ci suggerisce un’altra traccia ancora: le azioni descritte in 9,16 sono le stesse che Gesù compie in 22,19, nell’istituzione dell’Eucaristia, e in 24,30, durante la cena di Emmaus. Il Vangelo di Luca, però, ci stimola a non ritenere la moltiplicazione dei pani e dei pesci un miracolo che solo Gesù poteva realizzare. Il coinvolgimento degli apostoli è infatti senz’altro significativo, in relazione al fatto che il regno di Dio dev’essere servito con la predicazione, con i segni, ma anche con l’umile servizio del distribuire quel pane necessario a vivere e a rinvigorire le membra; il pane che può dare all’uomo l’opportunità di alzare i propri occhi al cielo e benedire il Padre; il pane che dev’essere gustato con gioia nella fraternità e semplicità; il pane, che crea compagnia e comunione in questo pellegrinaggio terrestre. Perciò in questa maniera il pane delle nostre tavole può acquistare un significato più pregnante che quello di semplice alimento e, di conseguenza, il pane eucaristico può essere considerato sempre più per quello che è: pane-corpo di Cristo, offerto per ringraziamento e benedizione.

 

L’immagine della domenica

 

Il Dio nell’ostensorio

Cantavano le donne lungo il muro inchiodato

quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento,

palpitante e nudo come un bambino che corre

inseguito da sette torelli capitali.

Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.

Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.

O Forma consacrata, vertice dei fiori,

dove tutti gli angoli prendono luci fisse,

dove numero e bocca costruiscono un presente

corpo di luce umana con muscoli di farina!

O Forma limitata per esprimere concreta

moltitudine di luci e clamore ascoltato!

O neve circondata da timpani di musica!

O fiamma crepitante sopra tutte le vene!

(F. García Lorca)

 

 Meditazione 

     La festa del Corpus Domini, che la Chiesa colloca immediatamente dopo il tempo pasquale, ci fa riandare a quel mistero eucaristico la cui memoria è già stata celebrata con particolare solennità il giorno del Giovedì santo. La celebrazione odierna assume dunque i caratteri di una ulteriore ‘meditazione’, quasi una sosta contemplativa intorno al mistero centrale della fede cristiana, un mistero che è al cuore stesso della vita della Chiesa. È in questa direzione che sembra orientarci l’orazione iniziale: «Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue…». Se il corpo e il sangue del Signore si offrono a noi anzitutto come cibo e bevanda di vita, essi sono anche un mistero da ‘adorare’; cioè da circondare di tutta la venerazione e la riconoscenza, lo stupore e l’amore che esso richiede. Nella consapevolezza che tale dono eccede sempre la nostra capacità di recezione e le nostre possibilità di comprensione.

     È significativo che al centro di questa festa troviamo una realtà così umana, così concreta, così ‘materiale’ oseremmo dire, come quella del «corpo e sangue». Corpo e sangue che dicono tutto il mistero dell’incarnazione, tutta l’umanità nostra, debole e fragile, assunta pienamente dal Signore Gesù. Corpo e sangue assunti e donati fino all’ultimo «per noi uomini e per la nostra salvezza», come recita il Credo. L’apostolo Paolo, raccontando l’istituzione dell’eucaristia nella notte della cena pasquale (seconda lettura), ce lo ricorda in modo esplicito: «Il Signore Gesù… prese del pane… e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi..”. Allo stesso modo… prese anche il calice…» (1Cor 11,23-25).

     La prima lettura pone l’accento sull’offerta del pane e del vino da parte di Melchìsedek, singolare figura di sacerdote che fa la sua improvvisa comparsa all’interno delle vicende del patriarca Abramo. Partendo dalla lettura che ne fa la Lettera agli Ebrei (soprattutto nel cap. 7), la Chiesa ha sempre considerato questo episodio una prefigurazione dell’eucaristia. «Pane e vino» sono doni che rimandano, in ultima istanza, a uno dei bisogni primari e vitali dell’uomo: il soddisfacimento della sua fame. Sappiamo che l’uomo è essenzialmente un essere che ha fame, e non solo di cibo. La sua fame va ben al di là del pezzo di pane che può momentaneamente e parzialmente colmarla. Essa abita nel profondo del suo cuore come desiderio, conscio o inconscio, di qualcosa che può venire da Dio solo. Come afferma Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2010. «Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio». È Dio che nutre l’uomo, anzi è Dio stesso che si fa suo nutrimento in quel pane e in quel vino che riceviamo ogni giorno dalle sue mani come «cibo di vita eterna» e «bevanda di salvezza» (rito di offertorio della liturgia eucaristica).

     Il racconto della moltiplicazione dei pani nella versione dell’evangelista Luca (vangelo) ci parla del mirabile e inatteso nutrimento di una folla affamata che, desiderosa di ascoltare Gesù e farsi curare dalle proprie malattie (v. 11 ), lo segue fin nel bel mezzo di un deserto. Al di là del prodigio in sé, ciò che attira la nostra attenzione – soprattutto se leggiamo l’episodio nel contesto della festa liturgica odierna – è il modo con cui si conclude la narrazione: «Tutti mangiarono a sazietà…» (v. 17). È questa sensazione di sazietà che rimane nelle nostre orecchie (e un po’ anche nel nostro corpo) dopo aver ascoltato questa parola. Una fame saziata: ecco cosa ci vuol comunicare il racconto. Già dai tempi della Prima Alleanza il Signore aveva promesso di saziare la fame del suo popolo – unica condizione richiesta: spalancare la propria bocca! -: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80/81,11). L’antifona d’ingresso della presente celebrazione riprende le parole conclusive dello stesso salmo: «Il Signore ha nutrito il suo popolo con fior di frumento, lo ha saziato con miele della roccia» (Sal 80/81,17). Dio non ha altra volontà che saziare la nostra fame. Possiamo dire che è il suo grande desiderio. A patto però di intendere bene cosa sono quel «fior di frumento» e quel «miele della roccia»…

     In un altro deserto (o forse lo stesso?) Gesù si era rifiutato di trarre pane dalla pietra, come subdolamente gli suggeriva il tentatore (cfr. Lc 4,3). Perché ora dunque compie (moltiplicando un pugno di pani e pesci là dove – essendo deserto – non poteva trovare che pietre) ciò che un tempo aveva categoricamente negato di fare? Al diavolo aveva risposto: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4), ora però non ricusa di donare – e in modo sovrabbondante – anche quell’umile pane a una moltitudine di gente stanca e affamata. Egli sa che l’uomo ha bisogno anche di pane per vivere, purché quel pane sia ricevuto come segno di un’accoglienza amorosa («Le folle lo seguirono. Egli le accolse…»: v. 11) e diventi capace di dire tutta la logica di una vita data in dono («Voi stessi date loro da mangiare»: v. 13), come è stata la vita stessa di Gesù. Per questo il racconto della moltiplicazione dei pani (così come il racconto dell’ultima cena e quello della cena di Emmaus, dove si narra di un pane ‘spezzato’) è una grande e profonda rivelazione della persona di Gesù. Erode, poco prima, si era chiesto: «Chi è dunque costui?» (Lc 9,9) e Gesù, quasi riprendendo la domanda, risponde donando del pane, simbolo e prefigurazione di quel pane che si farà lui stesso cuocendo nel forno della croce, per diventare nostro cibo in ogni eucaristia.

     «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», domandiamo nella preghiera del Padre nostro. Ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere lo chiediamo a Dio, consapevoli che solo ricevendolo dalle sue mani come dono gratuito esso può soddisfare la nostra più autentica fame di vita. Solo là dove desiderio di Dio e bisogno dell’uomo (bisogno vero, nell’ordine di ciò che più vale nella vita) si incontrano, può nascere un orizzonte nuovo dove trovano casa l’accoglienza grata dei doni ricevuti e la premurosa condivisione che quei doni portano inscritto nella loro stessa natura.

 

Preghiere e racconti

La festa del Corpus Domini

Il Vangelo ci propone il racconto del miracolo dei pani (Lc 9,11-17); vorrei soffermarmi su un aspetto che sempre mi colpisce e mi fa riflettere. Siamo sulla riva del lago di Galilea, la sera si avvicina; Gesù si preoccupa per la gente che da tante ore sta con Lui: sono migliaia, e hanno fame. Che fare? Anche i discepoli si pongono il problema, e dicono a Gesù: «Congeda la folla» perché vada nei villaggi vicini per trovare da mangiare. Gesù invece dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13). I discepoli rimangono sconcertati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci», come dire: appena il necessario per noi.

Gesù sa bene che cosa fare, ma vuole coinvolgere i suoi discepoli, vuole educarli. Quello dei discepoli è l’atteggiamento umano, che cerca la soluzione più realistica, che non crei troppi problemi: Congeda la folla – dicono -, ciascuno si arrangi come può, del resto hai fatto già tanto per loro: hai predicato, hai guarito i malati… Congeda la folla!

L’atteggiamento di Gesù è nettamente diverso, ed è dettato dalla sua unione con il Padre e dalla compassione per la gente, quella pietà di Gesù verso tutti noi: Gesù sente i nostri problemi, sente le nostre debolezze, sente i nostri bisogni. Di fronte a quei cinque pani, Gesù pensa: ecco la provvidenza! Da questo poco, Dio può tirar fuori il necessario per tutti. Gesù si fida totalmente del Padre celeste, sa che a Lui tutto è possibile. Perciò dice ai discepoli di far sedere la gente a gruppi di cinquanta – non è casuale questo, perché questo significa che non sono più una folla, ma diventano comunità, nutrite dal pane di Dio. Poi prende quei pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione – è chiaro il riferimento all’Eucaristia –, poi li spezza e comincia a darli ai discepoli, e i discepoli li distribuiscono… e i pani e i pesci non finiscono, non finiscono! Ecco il miracolo: più che una moltiplicazione è una condivisione, animata dalla fede e dalla preghiera. Mangiarono tutti e ne avanzò: è il segno di Gesù, pane di Dio per l’umanità.

I discepoli videro, ma non colsero bene il messaggio. Furono presi, come la folla, dall’entusiasmo del successo. Ancora una volta seguirono la logica umana e non quella di Dio, che è quella del servizio, dell’amore, della fede. La festa del Corpus Domini ci chiede di convertirci alla fede nella Provvidenza, di saper condividere il poco che siamo e che abbiamo, e non chiuderci mai in noi stessi. Chiediamo alla nostra Madre Maria di aiutarci in questa conversione, per seguire veramente di più quel Gesù che adoriamo nell’Eucaristia. Così sia.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, Piazza San Pietro, Domenica, 2 giugno 2013).

Il miracolo della moltiplicazione dei pani

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove nel popolo di Dio si da ascolto alla Scrittura della quale Gesù ha fornito l’esegesi messianica e, quindi, laddove si rispetta la Scrittura e si obbedisce alla sua parola che trova espressione attuale nell’assemblea della comunità. Ciò significa: laddove si vive tutta la vita quotidiana all’insegna della volontà di Dio […].

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove si celebra il banchetto messianico, al quale Gesù ha voluto invitare proprio tutti, i giusti e i peccatori, i sani e i malati, gli invitati della prima ora e quelli che se ne stanno a guardare, cioè laddove sia resa possibile, in continuazione, l’integrazione e l’unanimità di coloro che vogliono mettersi al servizio della costruzione del popolo di Dio. Ciò significa: laddove al convivium, cioè al banchetto dell’eucaristia, corrisponde di nuovo il convivere, cioè la convivenza dei credenti che precede e segue l’eucaristia e trova la sua sintesi festosa nella celebrazione di settimana in settimana, da una festa all’altra.

Il miracolo della moltiplicazione dei pani si compie laddove è vitale la fede che l’uomo non vive di solo pane ma, in primo luogo, della parola di Dio, della sua promessa e della volontà di Colui che si è creato un popolo da portare in una terra dove scorrono latte e miele. Ciò significa che il miracolo accade anche laddove i credenti osano dar prova della propria fede e metterla alla prova.

(R. PESCH, Il miracolo della moltiplicazione dei pani. C’è una soluzione per la fame nel mondo?, Brescia, 1997, 182ss.).

La prima comunione

Benedetto XVI presiede nel pomeriggio di sabato 15 ottobre 2005, in piazza San Pietro, lo speciale incontro di catechesi con i bambini di prima comunione, al quale partecipano oltre 150.000 persone tra fanciulli, genitori, catechisti e sacerdoti. Dopo la proclamazione della Liturgia della Parola, il Santo Padre risponde alle domande rivoltegli da sette bambini. Questi sono alcuni brani del testo del “dialogo” tra il Papa e i piccoli. 

Andrea: «Caro Papa, quale ricordo hai del giorno della tua prima comunione?».

Innanzitutto vorrei dire grazie per questa festa della fede che mi offrite, per la vostra presenza e la vostra gioia. Ringrazio e saluto per l’abbraccio che ho avuto da alcuni di voi, un abbraccio che simbolicamente vale per voi tutti, naturalmente. Quanto alla domanda, mi ricordo bene del giorno della mia prima comunione. Era una bella domenica di marzo del 1936, quindi 69 anni fa.

Era un giorno di sole, la chiesa molto bella, la musica, erano tante le belle cose delle quali mi ricordo. Eravamo una trentina di ragazzi e di ragazze del nostro piccolo paese, di non più di 500 abitanti.

Ma nel centro dei miei ricordi gioiosi e belli sta questo pensiero – la stessa cosa è già stata detta dal vostro portavoce – che ho capito che Gesù è entrato nel mio cuore, ha fatto visita proprio a me. E con Gesù Dio stesso è con me. E che questo è un dono di amore che realmente vale più di tutto il resto che può essere dato dalla vita; e così sono stato realmente pieno di una grande gioia perché Gesù era venuto da me. E ho capito che adesso cominciava una nuova tappa della mia vita, avevo 9 anni, e che adesso era importante rimanere fedele a questo incontro, a questa Comunione. Ho promesso al Signore, per quanto potevo: «Io vorrei essere sempre con te» e l’ho pregato: «Ma sii soprattutto tu con me». E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili. E così questa gioia della prima comunione era un inizio di un cammino fatto insieme. Spero che, anche per tutti voi, la prima comunione che avete ricevuto in quest’Anno dell’Eucaristia sia l’inizio di un’amicizia per tutta la vita con Gesù. Inizio di un cammino insieme perché andando con Gesù andiamo bene e la vita diventa buona. 

Andrea: «La mia catechista, preparandomi al giorno della mia prima comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell’Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!».

Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l’abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere, ecc… Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L’elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione, ecc… Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: così possiamo capire che Gesù è presente. Come ho detto, proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti. Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene. 

Alessandro: «A cosa serve andare alla santa Messa e ricevere la comunione per la vita di tutti i giorni?».                

Serve per trovare il centro della vita. Noi la viviamo in mezzo a tante cose. E le persone che non vanno in chiesa non sanno che a loro manca proprio Gesù. Sentono però che manca qualcosa nella loro vita. Se Dio resta assente nella mia vita, se Gesù è assente dalla mia vita, mi manca una guida, mi manca un’amicizia essenziale, mi manca anche una gioia che è importante per la vita. La forza anche di crescere come uomo, di superare i miei vizi e di maturare umanamente. Quindi, non vediamo subito l’effetto dell’essere con Gesù quando andiamo alla comunione; lo si vede col tempo. Come anche, nel corso delle settimane, degli anni, si sente sempre più l’assenza di Dio, l’assenza di Gesù. È una lacuna fondamentale e distruttiva. Potrei adesso facilmente parlare dei Paesi dove l’ateismo ha governato per anni; come ne sono risultate distrutte le anime, e anche la terra; e così possiamo vedere che è importante, anzi, direi, fondamentale, nutrirsi di Gesù nella comunione. È Lui che ci da la luce, ci offre la guida per la nostra vita, una guida della quale abbiamo bisogno.

 Anna: «Caro Papa, ci puoi spiegare cosa voleva dire Gesù quando ha detto alla gente che lo seguiva: “lo sono il pane della vita?».

Allora, dobbiamo forse innanzitutto chiarire che cos’è il pane. Noi abbiamo oggi una cucina raffinata e ricca di diversissimi cibi, ma nelle situazioni più semplici il pane è il fondamento della nutrizione e se Gesù si chiama il pane della vita, il pane è, diciamo, la sigla, un’abbreviazione per tutto il nutrimento. E come abbiamo bisogno di nutrirci corporalmente per vivere, così anche lo spirito, l’anima in noi, la volontà, ha bisogno di nutrirsi. Noi, come persone umane, non abbiamo solo un corpo, ma anche un’anima; siamo persone pensanti con una volontà, un’intelligenza, e dobbiamo nutrire anche lo spirito, l’anima, perché possa maturare, perché possa realmente arrivare alla sua pienezza. E, quindi, se Gesù dice: «Io sono il pane della vita», vuol dire che Gesù stesso è questo nutrimento della nostra anima, dell’uomo interiore del quale abbiamo bisogno, perché anche l’anima deve nutrirsi. E non bastano le cose tecniche, pur tanto importanti. Abbiamo bisogno proprio di questa amicizia di Dio, che ci aiuta a prendere le decisioni giuste. Abbiamo bisogno di maturare umanamente. Con altre parole. Gesù ci nutre così che diventiamo realmente persone mature e la nostra vita diventa buona. 

Adriano: «Santo Padre, ci hanno detto che oggi faremo l’adorazione eucaristica. Che cosa è? Come si fa? Ce lo puoi spiegare? Grazie».

Allora, che cos’è l’adorazione, come si fa, lo vedremo subito, perché tutto è ben preparato: faremo delle preghiere, dei canti, la genuflessione e siamo così davanti a Gesù. Ma, naturalmente, la tua domanda esige una risposta più profonda: non solo come fare, ma che cosa è l’adorazione. Io direi: adorazione è riconoscere che Gesù è mio Signore, che Gesù mi mostra la via da prendere, mi fa capire che vivo bene soltanto se conosco la strada indicata da Lui, solo se seguo la via che Lui mi mostra. Quindi, adorare è dire: «Gesù, io sono tuo e ti seguo nella mia vita, non vorrei mai perdere questa amicizia, questa comunione con te». Potrei anche dire che l’adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: «Io sono tuo e, ti prego, sii anche tu sempre con me».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 91-96).

Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete

Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai credenti: «Voi siete il corpo di Cristo e sue membra» (1Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sull’altare del Signore è posto il mistero delle vostre vite. Ricevete il vostro mistero. A ciò che siete, rispondete: «Amen» e, rispondendo lo sottoscrivete. Senti dire: «Corpo di Cristo» e rispondi: «Amen». Sii membro del corpo di Cristo perché il tuo Amen sia vero. Perché il corpo di Cristo nel pane? Non vogliamo dire niente di nostro, ascoltiamo sempre lo stesso Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: «Pur essendo molti, formiamo un solo pane e un solo corpo» (1Cor 10,17). Comprendete e gioite. Unità, verità, fede, carità. «Un solo pane»: chi è quest’unico pane? «Pur essendo molti formiamo un solo corpo». Ricordate che il pane non è formato da un solo chicco di grano, ma da molti […] Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete. Questo ha detto l’Apostolo a riguardo del pane. E ci ha fatto capire con sufficiente chiarezza ciò che dobbiamo intendere riguardo al calice, anche se non lo ha detto esplicitamente. Perché ci sia la forma visibile del pane vengono impastati molti chicchi di grano fino a formare una cosa sola ed è come se avvenisse quanto la santa Scrittura dice dei credenti: «Avevano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32); così avviene anche per il vino. Fratelli, pensate a come si fa il vino. Molti acini pendono dal grappolo, ma il succo degli acini si fonde in un tutto. Così Cristo Signore ci ha voluto dare un simbolo di noi tutti, ha voluto che facessimo parte di lui e ha consacrato sulla sua tavola il sacramento della nostra pace e unità. Chi riceve il sacramento dell’unità e non conserva il vincolo della pace, non riceve il sacramento a sua salvezza ma una testimonianza a suo danno.

(AGOSTINO, Discorsi 272,1, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 1042-1044).

Il pane che ci unisce

Nello spezzare il pane insieme noi affermiamo la nostra condizione spezzata, anziché negare la sua realtà. Diventiamo più consapevoli che mai di essere presi, messi a parte come testimoni di Dio; di essere benedetti dalle parole e dagli atti della grazia; di essere spezzati, non per vendetta o per crudeltà, ma al fine di diventare un pane che può essere dato come cibo agli altri. Quando due, tre, dieci, cento o mille persone mangiano unite alla vita spezzata e versata di Cristo, esse scoprono che la loro stessa vita è parte di quell’unica vita e si riconoscono così a vicenda come fratelli e sorelle.

Vi sono pochi luoghi rimasti al mondo dove la nostra comune umanità può essere elevata e celebrata, ma ogni volta che ci riuniamo attorno ai semplici segni del pane e del vino noi abbattiamo molti muri e cogliamo un barlume delle intenzioni di Dio per la famiglia umana. E ogni volta che questo accade, siamo chiamati a preoccuparci maggiormente non soltanto del benessere dell’altro, ma anche del benessere di tutti nel mondo. Lo spezzare il pane dunque… ci mette in contatto con coloro il cui corpo e la cui mente è stata spezzata dall’oppressione e dalla tortura e la cui vita viene distrutta nelle prigioni di questo mondo. Ci mette in contatto con gli uomini, le donne e i bambini la cui bellezza fisica, mentale e spirituale rimane invisibile a causa della mancanza di cibo e di riparo…

Queste relazioni ci rendono davvero «uniti nel pane» e ci sfidano a operare con tutte le nostre energie per il pane quotidiano di tutti. In questo modo il nostro pregare insieme diventa un appello all’azione.

(Henri J.M. NOUWEN, Compassion, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 197-198).

Preghiera

Non ci sei. Non si vede il tuo Volto.

Ci sei. I tuoi raggi si spargono in mille direzioni.

Sei la Presenza nascosta.

Presenza sempre nascosta e sempre manifesta,

Mistero Affascinante

verso il quale convergono tutte le aspirazioni.

Sei il più lontano e il più vicino di tutto.

Sei sostanzialmente presente

nel mio essere intero.

Tu mi penetri, mi avvolgi, mi ami.

Sei intorno a me e dentro di me.

Con la tua Presenza attiva raggiungi

le zone più remote e più profonde

della mia intimità.

Con la tua forza vivificante

penetri tutto quanto sono e ho.

Prendimi tutto intero,

e fa’ di me una viva trasparenza

del tuo Essere e del tuo Amore,

o Signore amatissimo!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

CORPUS DOMINI

 

Oltre le Diseguaglianze.

Ruolo delle Donne e Religioni, in Oriente e in Occidente

La sessione intende esplorare, alla luce del più recente dibattito teorico e delle evidenze empiriche a livello internazionale e nazionale, come la dimensione di genere si intrecci con quella religiosa, intervenendo nella definizione identitaria, nei processi di inclusione (o esclusione) delle donne e degli uomini sia nei diversi ambiti delle società nazionali sia al livello globale. L’uso delle categorie analitiche dei «generi» e delle «sessualità» impongono una revisione profonda dal punto di vista storico, teorico e critico dei rapporti tra società e religione anche a seguito dei recenti flussi migratori che sollecitano le ricercatrici e i ricercatori ad interrogarsi sulle diverse esperienze religiose diasporiche che si incontrano, negoziano e si rielaborano nello spazio europeo.

La dimensione religiosa nei processi educativi.

Le sfide del pluralismo tra indifferenza e riconoscimento

Il workshop intende esplorare, nello scenario europeo e nella società italiana, come la variabile “diversità religiosa” intervenga nei diversi contesti educativi (dalla famiglia alla scuola, dall’associazionismo ai media, ecc.), alla luce del più recente dibattito teorico e delle evidenze empiriche.

Si segnalano alcuni interrogativi per orientare la discussione: Quale ruolo svolge l’educazione religiosa nella più ampia educazione alla cittadinanza? Quale tutela per il pluralismo religioso nelle istituzioni scolastico-formative oggi? Che lezione apprendere dalla consolidata esperienza di progetti educativi di dialogo interculturale e interreligioso?

Quale il ruolo svolto dall’associazionismo nei processi di socializzazione religiosa? In che modo si intrecciano identità etniche e appartenenze religiose nelle nuove generazioni? Quale relazioni dei diversi contesti educativi con l’Islam?

VISUALIZZA DEPLIANT:

La dimensione religiosa nei processi educativi. Le sfide del pluralismo tra indifferenza e riconoscimento

 

“Giustizia e pace si baceranno”

Cos’è il Festival

Il Festival Biblico ha l’obiettivo di far risuonare le Scritture attraverso diversi linguaggi, nei luoghi frequentati dalle persone.
Ha il compito di attualizzare le Scritture per tradurle nella vita quotidiana. È un laboratorio culturale che si rivolge a tutti.
 
Una rassegna dove cultura e spiritualità si fondono
Il Festival Biblico “traduce” la Bibbia attraverso performance artistico-musicali, conversazioni e approfondimenti, mostre e installazioni, anche seguendo canoni non convenzionali e mirando ad avvicinare l’uomo alle Scritture – a prescindere dal proprio credo – per destare le coscienze e provocare un dibattito improntato al bene comune.
È un’esperienza che parla di emozioni, scambio, riflessioni, intenti e relazioni. Che parla di uomini e di Scritture e di quell’incontro tra loro che porta alla ricerca profonda di senso, ai quesiti fondamentali della vita.
La rassegna è articolata nei luoghi di incontro della gente (piazze, strade, chiese, musei…), per coinvolgere un numero sempre più ampio di famiglie, giovani, imprese, istituzioni, comunità religiose e non, organizzazioni culturali, e per generare impatti socioculturali positivi nella società, riportando una traduzione del messaggio biblico aperta e attuale.
 
Un progetto culturale diffuso
Cuore dell’evento è Vicenza, città che ha dato vita all’intero percorso e partecipa con il suo centro storico e con molte sedi della diocesi: Arzignano, Bassano del Grappa, Caldogno, Chiampo, Isola Vicentina, Marola, Montecchio Maggiore, Nove, Piazzola sul Brenta, Quinto Vicentino, San Pietro in Gu, Schio e Valdagno.
Dal 2005 a oggi l’esperienza si è estesa alle città di Verona, Padova, Rovigo e Trento. Un allargamento naturale di ciò che si caratterizza, ogni anno di più, come un evento generativo: di pensiero, di relazioni e di cammino di comunità.
A livello mediatico, la rassegna è diventata da tempo un festival di respiro nazionale molto seguito.
Centinaia di soggetti (religiosi, culturali, imprenditoriali, istituzionali e dei media) trovano nel Festival un denominatore comune di valori, interrogante e coinvolgente, aperto e dialogante, capace di attrarre le positività, le competenze, i talenti e le saggezze che persone di buona volontà mettono a disposizione per divenire comunità, nell’essere e nell’agire.
 
Un Festival che si rivolge a tutti
Adulti e bambini. Studiosi e inesperti. Credenti e non credenti. Che la scoperta della Bibbia avvenga per fede oppure per curiosità, magari per il gusto del bello espresso nell’arte sacra o attratti dal gioco, l’importante è che l’uomo di oggi incontri il Libro che, pur affondando le sue radici lontano dal nostro tempo, rimane tuttavia Parola viva e interpellante.
A quanti si lasciano incuriosire e coinvolgere, il Festival offre la possibilità di confrontarsi con una sinfonia di libri nei quali le microstorie personali e collettive si intrecciano con la storia della salvezza fra Dio e l’umanità. Se è vero che ogni libro assomiglia a uno specchio dell’anima nel quale l’uomo viene rivelato a se stesso, tanto più la lettura della Bibbia può aiutare a ri-trovarsi fin nella profondità della propria interiorità. Arricchisce culturalmente, certo, ma può trasformarsi in una occasione di cambiamento personale. Improvviso e sorprendente.
 

Tema 2016

 

«Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono.»
(Giovanni Paolo II)
 

Ogni anno il Festival sceglie un tema significativo del sentire comune, di un’esigenza valoriale e di discussione forte. Ogni edizione è un nuovo viaggio, diverso dai precedenti. Ecco il tema che animerà la XII edizione del Festival Biblico:

Giustizia e Pace si baceranno
Il titolo scelto per l’edizione 2016 è estratto dal Salmo 85,11 ‘Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno’. Un tema che, attraverso la figura-icona di San Francesco, patrono dell’ecologia ma anche paladino di sentieri di pace, prosegue idealmente il cammino della scorsa edizione sul tema ambiente e cura, e si inserisce nella riflessione dell’anno giubilare.
La Pace – intesa non solo come assenza di guerra – è la più grande questione del nostro tempo. Essa è anche giustizia e dignità umana e passa attraverso la misericordia, che è amore gratuito offerto a chi ha sbagliato. Da questo parte la riflessione del Festival Biblico sulla pace come bene comune fondamentale: la Pace colta nei suoi paradossi, all’interno delle emergenze contemporanee e delle conflittualità sociali, nelle crisi personali e, infine, attraverso la misericordia, come atteggiamento in grado di suscitare la pace nell’intreccio di giustizia e perdono.

Emergono così un polo personale e uno sociale e politico, che definiscono la pace come questione locale e globale, individuale e psicologica, presente e futura con attenzione alla memoria della pace ferita. Lo specifico della pace biblica è l’aspetto personale integrale, ma le pagine della Scrittura fanno emergere anche l’altra polarità fondamentale, cioè la pace come dono di Dio, che l’uomo da sé non può ottenere totalmente. La pace si definisce come un compito sempre a venire. Inoltre le pagine bibliche fanno emergere, soprattutto nelle vicende dei profeti e dello stesso Gesù, il paradosso di una pace per cui bisogna lottare.
 
Le città
Ognuna delle città partecipanti si distingue per un proprio carattere e approccio al tema:
Verona, l’originalità. Dalla mongolfiera adorna di disegni alla Bibbia letta durante una gita in canoa sull’Adige. La Diocesi di Verona declina il tema della rassegna in eventi che riescono a far incontrare le Scritture in modo originale e divertente. Nel cuore della città, durante la manifestazione, alcuni ristoranti ospitano sapori e aromi dell’Antico e Nuovo Testamento, realizzando varianti di “Piatto Biblico”, pietanza preparata secondo le tradizioni culinarie locali.
Padova, il futuro. Bambini, tecnologie e nuovi scenari. La diocesi di Padova privilegia convegni internazionali, nuove tecnologie e eventi per bambini. Un connubio che la pone sempre con uno sguardo avanti a cui sa affiancare grandi eventi di musica e di teatro.
Rovigo, il dialogo. Scienza, fede, ecumenismo, teatro sono alcuni tra i linguaggi attivati a Rovigo, per un’alchimia che privilegia contaminazioni, aggregazione sociale e sorpresa in una città dalle mille potenzialità.
Trento, le arti. Ultima arrivata nel progetto, Trento ha scelto l’esperienza Festival Biblico per allargare i propri confini culturali regionali e lo ha fatto puntando su eventi di qualità che uniscono riflessioni profonde alle arti, cinema e teatro.
 
 
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IL FESTIVAL BIBLICO 2016 NEL SEGNO DI SAN FRANCESCO

“Giustizia e pace si baceranno”: è questo il tema scelto per la XII edizione del Festival Biblico, la rassegna culturale sulle Scritture promossa dalla Diocesi di Vicenza e dalla Società San Paolo. 

Dal 19 al 29 maggio 2016, i palazzi, le piazze e le vie di Vicenza, Padova, Verona, Rovigo e Trento, si animeranno, a partire dai molteplici significati della Bibbia. «Il titolo della XII edizione è estratto dal Salmo 85,11 “Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno”, che ci piace molto – spiegano i presidenti, don Roberto Tommasi e don Ampelio Crema –. A fare da collante ideale tra l’edizione di quest’anno e la precedente, è la figura di Francesco d’Assisi, patrono dell’ecologia, ma anche paladino di sentieri di pace. Questo tema ci sembrava il successore perfetto di quello dello scorso anno e la pace, intesa non solo come assenza di guerra, è la più grande questione del nostro tempo».  

A questo proposito, il Coordinamento nazionale degli Enti locali per la pace e i diritti umani, il Centro di Ateneo per i diritti umani e la Cattedra Unesco diritti umani, democrazia e pace dell’Università di Padova, e la Rete della PerugiAssisi, sono da tempo impegnati nella campagna per il riconoscimento internazionale del diritto alla pace come diritto umano fondamentale, condizione necessaria per tutti gli altri diritti umani. 
«Se c’è la pace – continua don Crema -, c’è possibilità di vita buona per tutti. Se non c’è, non c’è possibilità di vita buona per nessuno. La pace è anche giustizia e dignità umana e passa attraverso la misericordia, che è amore gratuito che viene offerto a chi ha sbagliato, tra l’altro al centro dell’anno giubilare indetto da papa Francesco. Siamo consapevoli che la pace è un affare impegnativo e forse anche un po’ rischioso, ma compito delle Sacre Scritture è anche quello di indurre noi tutti a profonde riflessioni». 

Il Festival Biblico 2016 intende offrire una lettura del tema della pace che tenga insieme i vari aspetti nelle diverse forme: bibliche, esegetiche, antropologiche, letterarie, artistiche, musicali e archeologiche indagando, attraverso cinque percorsi culturali, non solo l’aspetto più scontato, quello socio-politico, ma cercando di far emergere questioni locali e globali, individuali e psicologiche, presenti e future, con attenzione alla memoria della pace ferita e a testimonianze importanti. I percorsi sono cinque: Esegesi, teologia e percorsi biblici (Pace come dono/compito); Uomo e società (Pace, giustizia, perdono); Spettacoli e arti (Armonie e caos); Guerre e pace (Testimoni di pace); Luoghi della memoria (Pace in cammino).  

SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura: Proverbi 8,22-31

 

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo». 

 

Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18). Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica. La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36). Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera. Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.

     La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio. Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v. 22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf. Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv. 24s). Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v. 23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v. 22). «Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.

     La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio. «Io ero là» (v. 26) non significa di per sé una presenza attiva. Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v. 30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona». E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v. 31). Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.

     Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità. Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui. Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4). E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.

 

Seconda lettura: Romani 5,1-5

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

 

Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8. Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.

     Prima (vv. 1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita. A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita. È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf. Rm 8 ed Ef 1,3-14).

     Poi (vv. 3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza. Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede. Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.

     Infine (v. 5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone. Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo. Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf. Rm 8,15-16.22-24,26-27).

 

Vangelo: Giovanni 16,12-15

 

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

 

Esegesi 

     In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo. Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf. Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna). Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.

     Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi. Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso. Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi. E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore. Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.

     Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi. È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso). Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito… prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.

     L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi. Essa passa per l’opera del Figlio. Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio». Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito. E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.

L’immagine della domenica

 

 

II mistero della Trinità e del Verbo incarnato

Mentre un quieto silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso,

la tua parola onnipotente dal cielo, dai troni regali, come inflessibile guerriero

si slanciò in mezzo alla terra votata alla morte, portando, come spada acuta,

l’irrevocabile tuo decreto.

(Sp 18, 14-16)

Meditazione 

Solennità della Santissima Trinità. Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18). Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda… Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma è Gesù stesso, la nostra via (cfr. Gv 14,6) per eccellenza, che ci abilita e anzi ci stimola a questa ricerca. È possiamo cercare di addentrarci nel segreto della vita intima di Dio a partire dal brano evangelico dell’evangelista Giovanni, tratto dai cosiddetti ‘discorsi d’addio’ – che giustamente qualcuno ha definito ‘discorsi di arrivederci’, in quanto sono finalizzati a nuovo incontro tra noi e Gesù. In questi dialoghi con i suoi discepoli, pronunciati poche ore prima della tragica conclusione della sua esistenza, Gesù ha raccolto i desideri, le preoccupazioni, le consegne e le parole che maggiormente gli stavano a cuore. E se queste espressioni ci vengono presentate a un altissimo livello di densità e di profondità – così come è per ogni testamento – siamo allora invitati a moltiplicare la nostra attenzione e la nostra ricerca. Anche la colletta di questa eucaristia ci esorta affinché «nella pazienza e nella speranza, possiamo giungere alla piena conoscenza di te, che sei amore, verità e vita».

I quattro versetti (Gv 16,12-15) del brano evangelico si aprono con la disincantata affermazione di Gesù ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (v. 12). Troppi fatti avvenuti nelle ultime ore, troppe parole ancora da rielaborare: troppo… di tutto! Capita a chiunque, in momenti particolarmente densi, di non avere più ‘spazio’ per accogliere altre indicazioni e stimoli dalla vita: ci vuole una pausa e uno stacco. Ma… se non ora, quando?

Gesù non ha più tempo! Il suo tempo, la sua ‘ora’ (cfr. Gv 2,4) è ormai imminente! È stupefacente osservare la signoria con cui Gesù allora apre all’azione dello «Spirito della verità» (v. 13) e richiama la perfetta comunione tra Lui e il Padre: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (v. 15). Gesù appare perfettamente padrone della situazione e del tempo, non introduce ‘a denti stretti’ il Padre e lo Spirito, quasi a rincalzo e a delega di una sua incapacità a compiere tutto quanto si era prefissato. No, egli sa bene – potremmo dire per esperienza diretta e costante – che è divino non solo il donare ma anche il ricevere, l’offrire come anche l’accogliere. Questo è forse il tratto che ci colpisce maggiormente: la piena condivisione di intenti e di operazioni all’interno della Trinità, condivisione che diviene simbolo e modello per la Chiesa e per ogni compagine umana. L’amore si alimenta in un incessante dare e ricevere e Dio stesso vive così! Un vero leader non fa tutto da solo ma cerca collaborazione e apre volentieri lo spazio all’azione di altri, che completano la sua opera, approfondendola e cogliendone tutte le implicazioni (cfr. vv. 13-14). Non c’è traccia di alcuna forma di durezza, rigidità o autosufficienza: Gesù coinvolge in questo circolo addirittura i suoi discepoli, prolungando l’azione della Trinità stessa! C’è da rimanere stupiti e quasi disorientati da tanta stima e generosità!

Il brano della Lettera ai Romani che costituisce la seconda lettura liturgica riprende la medesima immagine: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (5,5). C’è un dono che ci raggiunge e, se accettiamo di accoglierlo con riconoscenza, ci abilita a un’azione missionaria capace di renderci forti e maturi perfino nelle tribolazioni (cfr. vv. 3-4). La delizia di Dio (cfr. Pr 8,30-31; prima lettura), del Padre, del Figlio, dello Spirito santo risulta allora essere quella di coinvolgere in questa dinamica d’amore ogni essere umano, svelandoci in tal modo la elementare e gioiosa essenza della propria intimità. Domandiamo ancora al Dio uno e trino lo stupore e il coraggio di partecipare in pienezza «a questa grazia nella quale ci troviamo» (Rm 5,2).

Preghiere e racconti

Racconto

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

La mia vita

Sul suo stemma vengono conservati le teste di due mori incoronati, che da circa mille anni, figurano di regola nello stemma dei vescovi di Frisinga. Non è ben chiaro il loro significato, ma per lui sono (Cf. E. BIANCO, Benedetto XVI lavoratore nella vigna, 57.) “l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe” (J. RATZINGER, La mia vita, 120-121). La conchiglia è per Ratzinger anzitutto il segno dell’identità dei pellegrini in cammino. Ma essa ricorda a Ratzinger anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello attorno al ministero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino mentre giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare per travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto che questa buca poteva contenere l’acqua del mare, quanto la sua ragione poteva afferrare il mistero di Dio (Cf. J. RATZINGER, La mia vita, 121). “Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza”.

(J. RATZINGER, La mia vita, 121).

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

 (PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Solennità della Santissima Trinità, Domenica, 26 maggio 2013)

Gloria tibi Trinitas!

Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini. L’analogia è quella del teatro.

Pensiamo al teatro, ad un dramma. Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena.

Quanto i tre fanno può essere espresso dai verbi seguenti:

L’Autore genera, concepisce, esprime, formula.

L’Attore incarna, rende vivo, realizza, presta alla parola dell’autore presenza e azione.

Il Regista ispira, suggerisce, dirige, orchestra, armonizza.

Pensiamo ad un dramma in cui i tre sono coinvolti allo stesso modo: perché l’attore è la persona più cara per l’autore, perché nell’attore persona e ruolo coincidono, il dramma cioè è qualcosa in cui non si recita ma si vive, chi fa la parte del re è re davvero, non si muore per finta, ma con vero spargimento di sangue.

La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore. Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena.

Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito.

Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.

Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.

Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza.

La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.

Il Padre non troneggia immobile, giudice sopra il dramma. Il suo testo è il suo stesso piegarsi sulla sua creatura.

L’Attore, il Figlio è ciò che di più caro il Padre abbia. In lui persona e ruolo coincidono perfettamente, non c’è neppure un minuto in cui reciti, vive! Muore e risorge realmente.

Lo Spirito Santo sa cogliere perfettamente lo spirito del testo: è lui! È allo Spirito che il Padre affida il suo testo, è all’interpretazione e alla guida dello Spirito che il Figlio si affida per tradurre in vita il testo.

Che il mondo lo voglia o no il suo dramma è dramma trinitario, dramma dell’amore puro dono di sé.

Noi cristiani lo sappiamo, e sappiamo che sta qui il senso vero, ultimo della vita.

Sta a noi lasciarci coinvolgere fino in fondo e portare questo nella vita di ogni giorno.

Gloria tibi Trinitas!

 Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

Dio è Amore

Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?

Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.

La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.

La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore.

Il patto di Dio

Dio ha fatto un patto con noi. Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi. In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà. Dio è un Dio-per-noi. Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza. In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi. Dio è un Dio-con-noi. Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo. Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto. Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio. Dio è Dio-in-noi. Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.

(Henri J.M. NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).

Preghiera

Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito,

che sei il termine eccedente del mio desiderio

e la fonte inesauribile del mio stupore.

Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia

per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta,

che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.

Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.

Lode a te che mi avvolgi nella tua nube

e in essa mi sveli il tuo mistero,

che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.

Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.

Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione

e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.

Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione

seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.

Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.

Lode a te che sei il mio Tutto.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

TRINITÀ 

L’incontro con Gesù di Nazaret. Orizzonte educativo dell’esperienza cristiana

Questo incontro con Gesù di Nazaret, benché presenti al suo interno questioni teologiche e religiose, si muove in funzione del rapporto fra l’esperienza e l’educazione o, meglio ancora, cerca di segnalare quei dinamismi e processi che, arricchiti dalla relazione con il Nazareno, conducono a un’autentica crescita e maturazione della persona. L’assunto, pur essendo fondamentale nella vita cristiana, non ha ottenuto una sufficiente attenzione da parte degli studiosi. Non è una questione certamente semplice. Si tratta di un argomento complicato anzitutto perché la relazione attuale con Gesù sarà sempre un qualcosa di inconsueto: l’incontro non è un mero ricordo, come quello che dedichiamo ai grandi personaggi della storia; non è neanche il rapporto normale che possiamo avere con le persone vive del nostro ambiente. A ciò possiamo aggiungere anche un’altra piccola complicazione: la vita e le parole del Nazareno sono inevitabilmente oggetto di una lettura e comprensione diverse a seconda della socio-cultura di ogni momento storico. Ebbene, presupposti di questo genere determinano le scelte tematiche e metodologiche del testo. Riguardo le prime, si deve garantire, da una parte, il realismo; dall’altra, la consistenza e significatività dell’incontro e del rapporto odierni con Gesù, il Cristo. Ecco perché le seconde: il metodo dell’analisi interdisciplinare ed ermeneutico (antropologia, educazione e teologia sono gli ambiti fondamentali del dialogo interdisciplinare); e la scelta delle «categorie-guida» (Incontrocredibilità e radicamento esperienzialeIncarnazioneragionevolezza e aggancio antropologicoRelazionesenso salvifico verifica prassica).

In definitiva, ogni esperienza relativa all’incontro e al rapporto con Gesù di Nazaret, il Cristo, deve essere considerata e va educata all’interno dei dinamismi della crescita personale e comunitaria. Tale conclusione è decisiva proprio perché tuttora una delle questioni principali della pastorale e della catechesi consiste nel considerare se e in quale misura l’educazione alla fede sia intimamente connessa alla maturazione umana oppure se si tratta di due realtà diverse, autonome, quando non addirittura contrapposte.

José Luis Moral, attualmente professore nella Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, è stato Direttore dell’Istituto Superiore di Teologia «Don Bosco» di Madrid e della rivista di pastorale giovanile «Misión Joven». Alcune delle sue ultime pubblicazioni: Ciudadanos y cristianos. Reconstrucción de la Teología Pastoral como Teología de la Praxis Cristiana (Madrid, 2007); Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione (Leumann, 2007); Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo (Leumann, 2008); Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani (Leumann, 2010). Questo «incontro con Gesù di Nazaret» si pone in continuità con un’altra pubblicazione precedente (Ricostruire l’umanità della religione, Las, Roma 2014) dove si cercava di delineare alcuni tratti fondamentali dell’«orizzonte educativo dell’esperienza religiosa».

L’incontro con Gesù di Nazareth pdf

Comunicazione e Misericordia: un incontro fecondo

Interventi, contributi, approfondimenti sul tema della 50ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali
 
 
 
 
 
    Il decalogo del buon comunicatore

Nel suo Messaggio per la GMCS2016, Papa Francesco dà alcune indicazioni precise per rendere fecondo l’incontro tra comunicazione e misericordia. Alessandro Gisotti, vicecaporedattore della Radio Vaticana, le ha riassunte in un decalogo. 

 

    A servizio della fratellanza

Da 50 anni, con i Messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, la Chiesa ricorda che la comunicazione “serve a creare legami prima ancora che a veicolare messaggi”. La riflessione di don Alessio Graziani, direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali di Vicenza. 

 

    Dare spazio a ciò che inferno non è

Il direttore di Tv2000, Lucio Brunelli, condivide con l’agenzia Sir e con tutti noi la sua personale riflessione in vista della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il Messaggio, afferma, “entra in modo puntuale nei meccanismi malati dell’informazione” e ci indica una via d’uscita possibile.

 

    Toccare la nuda terra, comunicare con il Cielo

Anticipiamo la riflessione che don Marco Sanavio, Direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Padova, ha preparato, in vista della 50ª Giornata mondiale della comunicazioni sociali, per il numero del settimanale diocesano “La Difesa del Popolo” in uscita il 5 maggio.

 

    Via l’odio dalle nostre parole

“Far diventare il nostro linguaggio, sia ecclesiale sia professionale sia quotidiano, veicolo di misericordia”. È questa una delle sfide lanciate dal Messaggio per la GMCS 2016: la riflessione di don Fabrizio Casazza, direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali di Alessandria. 

 

    Comunicare in modo performativo

Quando si parla di misericordia non basta semplicemente ‘dire’ qualcosa, ma occorre fare quello che si dice. A partire dal Messaggio per la Gmcs 2016, il professor Adriano Fabris ci spiega cosa significa comunicare la misericordia e come farlo in maniera buona ed efficace. 

 

    È online il video-commento del Copercom

Il Copercom ha prodotto, con il sostegno dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, un video ispirato al Messaggio del Papa per la prossima Gmcs. La riflessione è stata affidata a Stefania Falasca, editorialista di “Avvenire”. Il video è di Marco Calvarese.

 

    Ripensare la responsabilità

I media digitali e sociali hanno portato alla nascita dello “spettautore”. Educare al pensiero critico dunque non basta più. Secondo il massmediologo Pier Cesare Rivoltella, occorre ripensare la responsabilità, nell’accezione “attiva” messa in luce dal Messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali. 

 

    Medium e messaggio di comunicazione autentica

Con la misericordia, la comunicazione “si arricchisce di una dimensione nuova: il movimento verticale del chinarsi di Dio, che trasforma una lontananza radicale in prossimità”. Lo sottolinea la sociologa Chiara Giaccardi che approfondisce implicazioni e prospettive di questa “icona rivoluzionaria”.

 

    L’isola della misericordia

Gianfranco Rosi si racconta a TV2000. Ecco come nasce “Fuocoammare”, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino, un film che punta i riflettori su Lampedusa, crocevia di morte e vita, dolore e speranza. Simbolo di accoglienza e solidarietà, nel mare dell’indifferenza. 

 

    Cecile: una persona speciale

Per Cecile, 21 anni, la misericordia non solo può essere raccontata con le note di una canzone, ma è un’esperienza concreta, è un volto. Reduce da Sanremo, dove si è presentata tra i Giovani con il brano “N.E.G.R.A.”, la cantante si racconta ai microfoni di In Blu Radio. 

 

    Irene Fornaciari: nei panni degli altri

“Le canzoni non cambiano il mondo, ma aiutano a riflettere”. Con “Blu”, Irene Fornaciari, ha portato al Festival di Sanremo il dramma dei migranti. Ai microfoni di InBlu Radio spiega come anche con un brano musicale si possa sensibilizzare. E parlare di misericordia. 

 

    Enrico Ruggeri: la poesia della ‘pietas’

Anche nella musica c’è spazio per comunicare la misericordia. O meglio “quella che i latini chiamavano ‘pietas’, cioè l’attenzione e pietosa solidarietà verso quelli che rimangono indietro”, dice Enrico Ruggeri, cantautore di successo ai microfoni di InBlu Radio. 

 

    Col coraggio delle nostre idee

Avvenire ha chiesto al Presidente della FISC, Francesco Zanotti, una riflessione sul Messaggio per la GMCS. Ve lo proponiamo. “Essere ‘per’ e non ‘contro’. Parlare in positivo, evitare il sensazionalismo tanto per sbalordire. Per adottare questi atteggiamenti ci vuole coraggio”

 

    Tony Renis: “La misericordia fa star bene”

InBlu Radio ha raccolto la riflessione di Tony Renis, celebre cantautore, attore e produttore discografico italiano, sul tema della prossima GMCS. “Papa Francesco – ha detto Renis – insegna la misericordia perché lui per primo lo è: dobbiamo sforzarci di essere misericordiosi perché la misericordia ci rende più umani e ci fa sentire meglio…”

 

Per agire .. 

Proposte operative per leggere il tema della 50ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali con gli occhi del cinema e della musica, della letteratura e dell’arte.

    Spiritualità e misericordia 2.0

Mercoledì 4 maggio, alle 18.30, ultimo appuntamento del ciclo organizzato insieme a WeCa. Suor Maria Antonia Chinello, della Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione “Auxilium”, rifletterà su come comunicare la fede tra i cristiani di oggi, nell’ambiente digitale.

 

    Resistere, pazientemente

Kolia, che con la sua dignità resiste alle aggressioni dei potenti senza perdere la speranza, è il protagonista di Leviathan (2015), il film scelto dalla Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI – Fondazione Ente dello Spettacolo per riflettere sull’opera di misericordia “Sopportare pazientemente le persone moleste”. 

 

    Formarsi alla comunicazione e alla misericordia

Ascolto, confronto e pratica: anche quest’anno il Messaggio per la GMCS sarà al centro delle Giornate Salesiane di Comunicazione. L’iniziativa, giunta alla quinta edizione, si svolgerà il 29 e il 30 aprile all’Università Pontificia Salesiana di Roma. 

 

    In un film, il coraggio del perdono

“Philomena” (2013) di Stephen Frears, è l’incisivo ritratto di una donna resa libera dalla fede, scelto dalla Commissione Nazionale Valutazione Film – Fondazione Ente dello Spettacolo per riflettere sull’opera di misericordia “Perdonare le offese ricevute”.

 

    “Buone maniere” online: quinta diretta WeCa

Mercoledì 27 aprile, alle 18.30, quinto appuntamento del ciclo organizzato insieme a WeCa. Il prof. Adriano Fabris dell’Università di Pisa discuterà con noi sull’etica in rete: principi di “buona educazione”, per un web pienamente umano.

 

    Il Messaggio in un videoclip

È disponibile online “Comunicazione e misericordia”, il video lanciato in occasione della Settimana della comunicazione, l’evento promosso dalla Famiglia Paolina in programma dal primo all’otto maggio nella diocesi di Arezzo-Cortona-San Sepolcro. 

 

    Cittadinanza digitale: terza diretta Weca

Mercoledì 20 aprile, alle 18.30, quarto appuntamento del ciclo organizzato insieme a WeCa. Il prof. Luigi Ceccarini dell’Università di Urbino si soffermerà sul tema della cittadinanza digitale, con un particolare riferimento al bene comune nel cyberspazio. 

 

    Gli spazi della misericordia

Sul canale Youtube dell’Università Gregoriana è disponibile il video della conferenza tenuta dalla dott.ssa Maria Teresa Gigliozzi, ricercatore di Storia dell’arte medievale all’Università degli Studi di Macerata, sul tema “La ‘Casa di Dio’: gli spazi della misericordia nell’architettura medievale”.

 

    La via dell’inclusione

Una vita accanto agli ultimi: il ritratto di Jorge Mario Bergoglio in “Chiamatemi Francesco” (2015), scelto dalla Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI – Fondazione Ente dello Spettacolo per riflettere sull’opera di misericordia “Consolare gli afflitti”. 

 

    I tempi della misericordia

Ultimo appuntamento con “Vedere l’invisibile”, l’iniziativa promossa dalla Pontificia Università Gregoriana per scoprire come l’arte cristiana può condurci al senso profondo delle cose. Il 18 aprile è in programma la conferenza della prof.ssa Barbara Aniello di cui diamo qualche anticipazione. 

 

    Il potere della comunicazione politica

Mercoledì 13 aprile, alle 18.30, terzo appuntamento del ciclo organizzato insieme a WeCa. Il prof. Paolo Mancini dell’Università di Perugia approfondirà i temi della comunicazione politica e dell’opinione pubblica. 

 

    Misericordia e cultura

Raccontare le opere di misericordia spirituale. È l’obiettivo del ciclo di incontri organizzato a Brescia in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il 12 aprile il primo appuntamento su “consigliare i dubbiosi”. 

 

    Resistere allo smarrimento sociale

La storia di Thierry e la sua lotta per la dignità in un mondo del lavoro sempre più spietato sono al centro del film La legge del mercato (2015) di Stéphane Brizé proposto dalla Commissione Nazionale Valutazione Film – Fondazione Ente dello Spettacolo per riflettere sull’opera di misericordia “ammonire i peccatori”. 

 

    Dal silenzio… al canto del Miserere

Nuovo appuntamento con “Vedere l’invisibile”, l’iniziativa promossa dalla Pontificia Università Gregoriana per scoprire come l’arte cristiana può condurci al senso profondo delle cose. L’11 aprile è in programma la conferenza del Prof. Giorgio Monari, che qui anticipa qualche idea.

 

    La concretezza della misericordia

Né ideologia né speculazione filosofica: per comprendere meglio cosa è la misericordia e quanto ha a che fare con la vita reale, Alessandro Zaccuri ci guida alla scoperta di due testi del cardinale Walter Kasper. 

 

PENTECOSTE

Prima lettura: Atti 2,1-11

 

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

 

L’azione formativa di Gesù sulla comunità apostolica era sostanzialmente completata. Mancava però un elemento, certo non trascurabile, per conferire organicità, profondità, pienezza di vedute e forza di azione. Gesù stesso lo aveva richiamato, esigendo dagli apostoli di non muoversi da Gerusalemme prima del compimento della promessa (cf. At 1,4). In modo esplicito, poi, aveva parlato della forza dello Spirito Santo che li avrebbe resi testimoni a Gerusalemme e nel mondo intero (cf. v. 8).

     Luca ci regala nel secondo capitolo degli Atti due splendide icone, quella dello Spirito (2,1-13) e quella della Parola (2,14-41). La seconda dipende in modo determinante dalla prima: lo Spirito è la forza aggregante che fa di vari gruppi una comunità; la Parola è il dono che la comunità ha il compito di vivere e di comunicare agli altri. La lettura odierna si interessa della prima parte del capitolo, composta da una introduzione, con soggetto e luogo (v. 1), dalla rappresentazione del fatto e delle sue conseguenze sugli interessati (vv. 2-4), e, infine, dall’effetto su scala mondiale (vv. 5-11).

     Il giorno di pentecoste segna il compimento della formazione data da Gesù. La piccola e timorosa comunità ecclesiale sta riunita insieme. Possiamo ritenere che sia la stessa, vista precedentemente raccolta in preghiera e formata da apostoli e laici, da uomini e donne (cf. At 1,14). «Mentre stava compiendosi il giorno…» indica, più che una conclusione (sono appena le ore 9 del mattino), un compimento, come ben suggerisce il verbo greco, symplêroô, allusione al compimento di una storia di promesse e di attese (cf. Lc 9,51).

     L’esperienza dello Spirito avviene mediante i segni teofanici del vento e del fuoco che vengono dal cielo; non si tratta di suggestione umana, bensì di dono dall’alto. L’esperienza è soprattutto interiore, ma c’è bisogno di un riscontro esteriore che documenti la nuova realtà (cf. il caso del paralitico di Mt 9,l-8). Ecco allora il «parlare in altre lingue». Forse per questo nuovo parlare in lingue si propone l’immagine di «lingue come di fuoco». A detta di Fabris, questa immagine è suggerita dalla tradizione giudaica circa il dono della legge o della parola al Sinai. Secondo una tradizione testimoniata da Filone e dai Targumim, la voce di Dio si divise in più lingue (Tg Dt 32,2), addirittura in 70 lingue perché tutte le nazioni potessero comprendere. Luca vuole dire che TUTTI sono ora abilitati dal dono dello Spirito ad essere profeti. La vera identità della comunità non si fonda sulla legge, ma sul comune dono ricevuto E sarà questo dono che permetterà di penetrare la legge e di viverla dall’interno realizzando la profezia di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-28.

     Che sia finito il tempo di gruppi elitari, lo si capisce dal concetto di totalità, ben espresso mediante un elenco di diversi gruppi di giudei che provenendo da varie parti, sentono un solo linguaggio. Si incontra infatti una lista di 13 popoli e paesi che Luca riporta per sottolineare, secondo la geografia imperiale dell’epoca, il senso di universalità. La lista è divisa in tre parti. Dapprima compare un gruppo di tre popoli che si trovano oltre il confine orientale dell’impero: «Siamo parti, medi ed elamiti» segue un secondo gruppo con nove regioni: «abitanti della Mesopotamia…»; un terzo gruppo si differenzia dai precedenti presentandosi così: «Romani qui residenti». Si distingue poi tra «Giudei e proséliti» (differenze etnico-religiose) e «cretesi e arabi», equivalente alla distinzione tra «abitanti delle isole e della terra ferma» (differenza culturale). Come si può osservare, la linea geografica si è mossa dall’area mediorientale per arrestarsi a Roma, dopo essere passata per le zone intermedie che collegano idealmente Gerusalemme con Roma. In quel giorno a Gerusalemme sono convocati i rappresentanti dei futuri cristiani. Insomma, il dono dello Spirito arriva a tutti.

     Lo Spinto non restituisce agli uomini un identico linguaggio ma permette agli apostoli di parlare a individui di ogni lingua e di essere da loro compresi. Si scorge l’intento universalistico della Chiesa che hanno dalla sua origine. Sa missione di portare a tutti i popoli il messaggio del suo Signore.

     Lo Spirito dono del Padre richiesto da Gesù, ha pure una sua ‘sacramentalità’ che la prima lettura si impegna a registrare. Non si tratta di una ‘fotografia’, ma neppure di un vago simbolo. Il testo registra dei fatti arricchiti da quella comprensione piena che permette di cogliere la sostanzialità degli eventi. Una fotografia mostra senza spiegare un simbolo spiega senza mostrare. Dalla combinazione nascono le pagine evangeliche e di tutto il N.T.: felice connubio tra storia e teologia (cf. Dei Verbum, 19).

Seconda lettura: Romani 8,8-17

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

 

Il cap. 7 si chiudeva con una angosciosa domanda alla ricerca di un liberatore e contemporaneamente con la serena speranza di poterlo trovare in Cristo: a lui veniva indirizzata una preghiera di ringraziamento. Il cap. 8 dà spessore storico-teologico a tale speranza ed ha come tema la nuova condizione esistenziale del credente, ormai liberato dalla potenza del peccato, dalla morte e della legge e in tensione, sotto la guida e la mozione dello Spirito, verso la pienezza della redenzione.

     Lo Spirito è il centro focale del cap. 8: lo si nota anche statisticamente perché ritorna 20 volte in questo capitolo su un totale di 32 in tutta la lettera. Qui, tra l’altro, è posto in antitesi con la carne. L’antitesi Spirito-carne contiene diverse varianti (cf. vv. 4.5.6.8-9.12.13) le quali indicano che la contrapposizione abbraccia l’essere, l’agire, il vivere, l’orientamento, il pensare dell’uomo. Siamo quindi in presenza di determinazioni centrali, essenziali, tanto importanti da determinare il presente e anche il futuro (cf. v. 13).

     L’antitesi paolina non deve essere confusa o assimilata con altre che potrebbero sembrare simili, mentre sono in realtà profondamente diverse. Il mondo greco, per esempio, conosceva l’antitesi tra anima e corpo, la prima spirituale e immateriale, il secondo concreto e materiale. Paolo si orienta molto diversamente: per lui l’antitesi ha carattere dinamico, esistenziale e coglie l’uomo come unità psicofisica e non come composto, alla maniera greca. Per Paolo lo Spirito e la carne sono due opposti dinamismi che orientano radicalmente tutta la vita. Inoltre lo Spirito non rappresenta una possibilità autonoma dell’uomo, un pos-sesso che si ritrova fin dalla nascita solo perché si è uomini, ma è un dono di Dio.

     È di questo dono che bisogna vivere, per non essere debitori alla carne, principio della prassi egocentrica. Paolo ricorda la scelta fatta dai cristiani di Roma e illustra, in modo chiaro, la dimensione trinitaria della vita: «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (v. 9). Non avere lo Spirito equivale a privarsi del dono di Dio, della sua stessa vita, che al v. 10 riprende il nome di ‘giustificazione’, tema ampiamente trattato nei capitoli precedenti. Ora lo stesso tema si arricchisce, sia contenutisticamente perché, si comprende l’azione dello Spirito, sia linguisticamente, perché si introduce il concetto di ‘vita’ (cf. v. 11). Quello di vita è un termine facilmente comprensibile che illustra ulteriormente quello meno comune di giustificazione.

     Dopo aver trattato dell’antitesi Spirito-carne, prende avvio il tema della figliolanza divina che si spinge fino al v. 30 (ben oltre il brano liturgico). L’esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. È la vita dinamica, ancora in fase di sviluppo come si vede dal tema dell’attesa, ma già orientata verso la meta. Il v. 14 e la tesi teologica che regge tutto il brano, fondata su due poli, la guida dello Spirito e la figliolanza divina: la seconda dipende dalla prima.

     Lo Spirito, principio di vita nuova in quanto abilita ad essere figli di Dio, è anche principio di preghiera nuova. Tale novità non si limita al solo insegnamento, ma egli stesso prega in noi. Non dice quello che dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Egli ci fa dire Abbà. Formula sconosciuta al giudaismo, è invece caratteristica del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Lui solo poteva dire in tutta libertà tale titolo (cf. Mc 14,36), e lui solo poteva autorizzare i credenti a ripeterlo (cf. Gal 4,6). Giunge così a conclusione il cammino dell’Antica Alleanza: si era partiti da una paternità rispettosa ma lontana, e si arriva ad una paternità, sempre rispettosa ma confidenziale. Gesù ha insegnato a colloquiare con Dio con il linguaggio semplice, spontaneo e fiducioso del bambino che si rivolse a suo padre chiamandolo teneramente ‘papà’, ‘babbo’. È lo Spirito che fa ripetere questa dolce parola, che infonde il sentimento della figliolanza divina che ci fa sentire figli di Dio (cf. v. 16). Anche da questa prospettiva si coglie la dimensione trinitaria della vita cristiana.

Vangelo: Giovanni 14,15-16.23-26

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

 

Esegesi 

     Si comprende la scelta del brano evangelico nel contesto della solennità odierna. Il testo tratta ovviamente dello Spirito Santo, presentando alcuni aspetti della sua molteplice attività. Da quello che Egli fa, veniamo a sapere qualcosa di quello che Egli è. Egli agisce in stretta relazione sia con Gesù e il Padre, sia con la comunità ecclesiale, rappresentata dai discepoli.     

     All’interno dei discorsi di addio Giovanni inserisce cinque affermazioni tipiche e originali sullo Spirito Santo, chiamate spesso dagli studiosi ‘le cinque promesse’. Diamo una essenziale mappa di orientamento. La prima e seconda promessa sono all’interno del primo discorso (14,16-17 e, 14,26), la terza nel secondo discorso (15,26-27), la quarta e la quinta nel terzo discorso (16,5-11 e 16,12-15). Il nostro brano contiene le prime due.

     Vi troviamo, per lo Spirito, il particolare titolo «Paraclito». Esso compare in tutto il NT cinque volte e ricorre solo nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7) e nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,1). Doveva essere un termine noto ai primi destinatari, perché provvisto di articolo determinativo; lo è meno per noi. Il significato base è quello di ‘chiamato presso’ (dal greco kaléo ‘chiamare’ e pará ‘presso’, cf. latino advocatus, italiano ‘avvocato’). Non sembra avesse un significato tecnico, indicando piuttosto un amico o una persona di fiducia ‘chiamata in aiuto’ in occasione di crisi o difficoltà. La radice greca indica anche il conforto, la consolazione che, sappiamo da altri scritti (cf. 1Cor 14,1-3; At 9,31) apparteneva all’attività dello Spirito. Da qui i tentativi di traduzione italiana che propongono «Avvocato» o «Consolatore» (testo ufficiale), cogliendo aspetti veri ma, tutto sommato, sempre parziali. Nell’impossibilità di trovare un equivalente esatto, molti preferiscono usare anche in italiano il termine greco «Paraclito».

     Un’abbagliante luce pasquale si stende sul presente brano e su tutti i discorsi di addio. La dipartita di Gesù non è una partenza senza ritorno, né una partenza infruttuosa. Con la sua morte e risurrezione egli «prepara un posto», cioè rende possibile ai discepoli la comunione con il Padre. Non si tratta, ovviamente di un posto in senso spaziale o geografico, ma di un ‘luogo teologico’ nel senso di immettere i discepoli nel circuito della relazione trinitaria. Il posto potrebbe essere meglio definito come ‘incontro’ con la persona del Padre. Cristo è colui che è via, o mezzo, che rende possibile tale incontro. Quello che è stato Gesù durante la sua presenza fisica, lo sarà lo Spirito nel ‘tempo della Chiesa’. Gesù aiuta i suoi a sbirciare un poco nella vita eterna. Egli diventa la via che conduce al Padre al quale lo lega una relazione unica, espressa precedentemente con una frase lapidaria che vale un trattato di teologia: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Grazie a questa comunione di vita, aggira il problema della inaccessibilità del Padre e ne diventa il rivelatore per eccellenza: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).

     Nonostante queste fulminanti rivelazioni, i discepoli si trovano nella zona d’ombra di smarrimento interiore perché Gesù ha annunciato la sua dipartita. Egli allora enuncia la prima delle cinque promesse dello Spirito (vv. 16-17). Notiamo che Gesù parla di «un altro Paraclito», ovviamente perché ritiene se stesso il primo Paraclito; egli ha assicurato ai discepoli la sua presenza e ha svolto la funzione di guida, compiti che ora trasmette allo Spirito.

     Il v. 26 concentra l’attenzione sulla natura del rapporto misterioso che unisce l’insegnamento dello Spirito e quello di Gesù. Nel «mio nome» indica la perfetta comunione con il Padre e il Figlio nella missione dello Spirito. Se lo Spirito è inviato nel nome di Gesù, allora suo compito sarà quello di rivelare il Cristo, di fare conoscere il suo vero nome di Figlio di

Dio che esprime sotto il mistero della sua persona. L’insegnamento dello Spinto e la sua azione di ricordare hanno un unico e medesimo oggetto: l’insegnamento di Gesù nel suo insieme. Di conseguenza non esiste un insegnamento dello Spirito indipendente da quello di Gesù. Il fatto è di grande importanza teologica perché si dice che lo Spirito non apporta

nulla alla rivelazione di Gesù, il solo che sia LA PAROLA (Logos). L’attività dello Spirito sarà eminentemente attività di interiorizzazione di quello che Gesù ha detto e fatto.

     Esiste quindi una continuità tra l’opera di Gesù e quella dello Spirito, pur nel diverso tipo di presenza. Tale continuità viene evidenziata dall’attività dello Spirito che riprende, per una interiorizzazione e comprensione più matura, l’insegnamento di Gesù (vv. 25-26). Il ‘nuovo Paraclito’ avrà la funzione di continuare, quasi di prolungare, l’attività di Gesù. Vediamo alcuni paralleli: Gesù pregherà il Padre perché lo Spirito rimanga con i credenti per sempre (14,16); attraverso tutto il IV Vangelo si dice che Gesù è stato con i suoi (3,22; 6,3); soprattutto durante l’ultima Cena Gesù richiamerà questi rapporti familiari. In 14,26 si dice che lo Spirito dovrà insegnare; Gesù è sempre stato maestro (6,59; 7,14). Più avanti, fuori dal testo proposto dalla liturgia odierna, in 16,8 lo Spirito mette in luce il peccato del mondo; Gesù non solo è la luce che fuga le tenebre del mondo, ma pure denuncia ripetutamente il peccato dei suoi avversari (8,21).

     Inoltre Gesù rimprovera al mondo di non essersi accorto della presenza dello Spirito nella sua missione terrena: ecco il significato del ‘non vedere’ e quindi del ‘non conoscere’ (cf. v. 17). Il rifiuto di Gesù da parte del mondo, cioè i Giudei, è il rifiuto dello Spirito. In ben altra situazione si trovano i discepoli che hanno accolto Gesù.

     Quello dello Spirito è un dono che Gesù chiede al Padre. Ne viene un bel quadro che raffigura i discepoli in intima relazione con la Trinità. La comunità non è qui sola, né abbandonata alla furia devastatrice del mondo, perché la presenza dello Spirito la conforta rassicurandola che Gesù è sempre con lei, vivo e operante: è un perenne annuncio pasquale. Nasce una nuova famiglia, amata dal Padre, fondata da Gesù, animata dallo Spirito.

 L’immagine della domenica

 

 

Vieni in me, Spirito Santo,

Spirito di sapienza:

donami lo sguardo e l’udito interiore,

perché non mi attacchi alle cose materiali,

ma ricerchi sempre le realtà spirituali.

Vieni in me, Spirito Santo,

Spirito dell’amore:

riversa sempre più

la carità nel mio cuore.

Vieni in me, Spirito Santo,

Spirito di verità:

Concedimi di pervenire

alla conoscenza della verità

in tutta la sua pienezza.

Vieni in me, Spirito Santo,

acqua viva che zampilla

per la vita eterna:

fammi la grazia di giungere

a contemplare il volto del Padre

nella vita e nella gioia senza fine.

Amen.   (S. Agostino)

Interno Markathal (Rotterdam – Olanda) – 2016

 

 

Meditazione 

     «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste» (At 2,l): Luca introduce il racconto della discesa dello Spirito sugli apostoli radunati a Gerusalemme sottolineando che ciò che accade è un evento di compimento. Si compie la Pentecoste, si compiono i cinquanta giorni della Pasqua. Nella discesa dello Spirito Santo giunge a compimento il mistero pasquale, proprio perché lo Spirito ci viene donato per renderci pienamente partecipi della morte e risurrezione del Signore Gesù; del suo amore e dell’amore del Padre che in modo insuperabile la Croce rivela; della vita nuova e risorta che dalla Croce scaturisce.

     San Paolo lo ricorda con vigore nel brano della lettera ai Romani che ascoltiamo come seconda lettura nell’eucaristia di questo giorno. «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (v. 11). Poco dopo aggiunge: «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (vv. 14-15).

     Nello Spirito diveniamo eredi di Dio e coeredi di Cristo: quello che lui vive e che costituisce la sua più intima identità – la comunione d’amore con il Padre – ci viene comunicato. Per questo motivo, in un altro passo delle sue lettere, Paolo può affermare che «il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2Cor 3,l7). Infatti, solamente nello Spirito possiamo gridare «Abbà, Padre»; è lo Spirito a donarci la libertà dei figli, unificando la nostra vita e trasformandola in un’esistenza filiale, in un vivere da figli e non più da schiavi. Il che implica riconoscersi figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi, chiamati ad accoglierci e a comprenderci nonostante la diversità delle lingue parlate da ciascuno. Il segno della Pentecoste fa di Gerusalemme il compimento di quel desiderio che gli uomini avevano cercato di appagare in modo confuso progettando Babele, come città agognata «per non disperderci su tutta la terra» (cfr. Gen 11,4). Non si può edificare la città di una pacifica convivenza tra gli uomini imponendo a tutti di parlare la medesima lingua. È, al contrario, necessario accogliere il dono dello Spirito che consente di comprendersi continuando ciascuno a parlare la «propria lingua nativa» (cfr. At 2,6.8). Lo Spirito dona la pos-sibilità di questa reciproca comprensione proprio perché insegna a ogni lingua che è sulla terra a gridare – anche in questo caso nella ‘lingua nativa’ della propria cultura e della propria tradizione religiosa – «Abbà, Padre». La dimensione orizzontale della comunione tra gli uomini può fondarsi unicamente sulla dimensione verticale della loro comunione con Dio, riconosciuto Padre di tutti. Quello che avviene nella Gerusalemme descritta dagli Atti prefigura la Gerusalemme profetizzata dall’Apocalisse, costruita non con mattoni tutti uguali come Babele, ma con pietre preziose, ciascuna diversa dall’altra e rilucente della propria bellezza. La Gerusalemme dell’Apocalisse è insieme città e sposa. L’immagine della sposa allude all’unicità della relazione con il Signore; quella della città alla pluralità di relazioni che gli uomini vivono tra loro. Non si può diventare città senza essere sposa, così come l’essere sposa fa di Gerusalemme una vera città. La relazione con Dio nella quale lo Spirito ci conduce, rendendoci suoi figli ed eredi, fonda un diverso modo di essere in relazione tra noi, non più segnato dalla diffidenza e dall’ostilità, o più semplicemente dall’indifferenza, ma aperto all’accoglienza vicendevole, nella tensione incessante a superare gli steccati dell’incomunicabilità e dell’incomprensione.

     Tutto questo non viene semplicemente dallo sforzo umano, ma dall’agire dello Spirito in noi, come frutto maturo della Pasqua di Gesù e dell’amore trinitario che in essa si è manifestato. L’amore fino al compimento (cfr. Gv 13,1) non si arresta prima di giungere a questa soglia, a divenire cioè amore che si compie in noi, consentendoci di amare come siamo stati amati. Anche questo è il dono dello Spirito Santo nella nostra vita: l’amore con il quale il Padre e il Figlio si amano fino a essere una sola cosa, ci viene donato affinché anche noi possiamo divenire uno (cfr. Gv 17,22-23), dimorando stabilmente in questo stesso amore che, direbbe san Paolo, lo Spirito riversa nei nostri cuori (cfr. Rom 5,5).

     Questo è anche l’annuncio fondamentale che ci raggiunge oggi attraverso il brano evangelico di san Giovanni. Anzi, l’evangelista giunge ad affermare qualcosa di ancora più audace e insperato: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Occorre rimanere nell’amore custodendo la parola di Gesù. Non si tratta tanto della necessità di osservare un comando estrinseco, proposto o imposto all’obbedienza della nostra libertà; piuttosto è necessario accogliere nella parola di Gesù un principio vitale, che manifesta la sua efficacia proprio comunicandoci l’amore stesso di Dio che, mediante la parola ascoltata e accolta, viene ad abitare in noi e ci trasforma, rendendoci capaci di amare come lui ci ama. Il ‘come’ va inteso non in senso imitativo, ma fondativo. Non significa tentare come possiamo, confidando in noi stessi e nelle nostre deboli forze, di imitare l’amore di Dio che Gesù ci rivela; significa piuttosto che sul fondamento di quell’amore, che la parola ci testimonia e ci comunica, ancorandoci a esso e non a noi stessi, diveniamo capaci di una misura di amore che altrimenti non sarebbe nelle nostre possibilità. Se custodiamo la parola in noi, la parola stessa ci condurrà a dimorare stabilmente nell’amore. Riprendendo le immagini dei vangeli Sinottici (cfr. soprattutto il discorso parabolico di Mc 4), possiamo dire che la parola è un seme che porta il frutto abbondante dell’amore. Anche se è indispensabile l’accoglienza del terreno buono, il frutto non dipende dalla qualità del terreno, ma dalla potenza racchiusa nel

seme stesso. Giovanni tuttavia non si accontenta di questa affermazione, si spinge oltre: non solo l’amore di Dio rimane in noi come fondamento delle nostre relazioni; il Padre e il Figlio stessi verranno a prendere dimora presso di noi! Non solo l’amore come dono di Dio, ma la sorgente dell’amore, il Donatore stesso – il Dio-Trinità – viene a dimorare in noi per fare della nostra esistenza il tempio della sua Gloria.

     L’alleanza ora davvero si compie. Tra l’uomo e Dio non c’è più solamente un patto stipulato tra due soggetti, come tale sempre esposto all’infedeltà da parte di uno dei due contraenti (in questo caso l’uomo), e non c’è neppure semplicemente una Legge da osservare come condizione del patto stesso. Ora c’è una reciproca appartenenza nella comunione, addirittura un dimorare l’uno nell’altro. L’uomo dimora in Dio che è amore, il Dio-amore dimora nell’uomo. A sigillare il patto non è più l’osservanza della Legge, il cui dono veniva celebrato nella Pentecoste ebraica; ora è lo Spirito stesso che rimane con noi per sempre. È il respiro di Dio che diviene il nostro respiro; il suo cuore intimo e segreto che trasforma il nostro cuore; l’amore tra il Padre e il Figlio che diviene fondamento e nutrimento del nostro stesso amore. L’amore diviene legge interiorizzata in noi dallo Spirito o, in termini capovolti, lo Spirito interiorizza la Legge in noi unificandola intono al comandamento nuovo, sintesi e compimento di tutti i precetti dell’Alleanza.

     Lo Spirito, promette Gesù, rimarrà con noi «per sempre» (cfr. v. 16). Per sempre non indica solamente una durata temporale. Assicura alla nostra vita che lo Spirito rimarrà con noi anche nei tempi e nei luoghi del nostro peccato e della nostra lontananza da Dio, purché custodiamo la parola di Gesù. Non innanzitutto nel senso che le obbediamo fedelmente e senza incrinature (chi di noi ne sarebbe capace?), ma nel senso che diamo credito alla sua promessa, affidandoci alla sua potenza di perdono e di misericordia. Non è una parola qualsiasi quella che dobbiamo custodire, ma quella Parola, l’ultima e definitiva parola pronunciata dal Padre, senza pentimento alcuno, che è la parola della Pasqua, la parola della Croce. Quella Parola che è il Figlio stesso, crocifisso e risorto per noi e per la nostra salvezza. Nel soffio del suo respiro – lo Spirito Santo – il Padre torna a pronunciare in noi la sua Parola che è il Figlio, per conformarci a lui e chiamare anche noi a divenire suoi figli adottivi. Lo Spirito che abbiamo ricevuto, ci ricorda ancora san Paolo, non è uno Spirito da schiavi, tale da imprigionarci nella paura, ma uno Spirito da figli, che liberando il nostro cuore lo introduce nell’affidamento pieno a colui che possiamo invocare con verità e fiducia come il nostro Abbà, il nostro Padre.

Preghiere e racconti

La Pentecoste

La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito. La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion. La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45). La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano. Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.

In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.

Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.

Vieni Spirito Santo.

Vento impetuoso,

fuoco che divora,

ma anche brezza leggera,

scintilla di luce.

Vieni in me.

Parola potente,

ma anche lieve sussurro.

Vieni in me. Fresca cascata,

ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…

Dammi occhi nuovi,

dammi ali di libertà,

dammi trasparenza di vita,                

dammi tenerezza e audacia

e attenderò con te,

nella speranza,

il nuovo Giorno.

(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografa).

Spirito di Dio

Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria.

Spirito Santo, che riempivi di luce i profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza. Frantuma la corazza della nostra assuefazione all’esilio. Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.

Spirito Santo, che hai invaso l’anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza. Donaci il gusto di sentirci estroversi, rivolti cioè verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata, ma l’oggetto ultimo di quell’incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.

Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l’hai proclamato Messia, dilaga sul tuo corpo sacerdotale, adornalo di una veste di grazia, consacralo con l’unzione e invialo «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l’anno di misericordia del Signore» (cfr. Lc 4,18-19).

Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci, quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto, e ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9).

(Don Tonino Bello).

La fiamma dello Spirito Santo

«Lo Spirito Santo accende sempre il suo fuoco, questa fiamma leggera, silenziosa, che non distrugge e anzi è carica di forza salvifica. Dicendo questo, però, sorge spontaneo chiedersi: Arde ancora, oggi, nella Chiesa, questa fiamma? […]. Arde ancora nella Chiesa questa fiamma riconciliatrice e salvatrice, oppure è soffocata dalla polvere e dalle macerie di una quantità di abitudini, istituzioni, paure? Il cristianesimo è ancora fuoco e Spirito, oppure alla fine anche nel cristianesimo è rimasta solo acqua? l’acqua sollevata dalle teorie e dai discorsi ispirati, che cercano invano di nascondere con belle parole la perdita di realtà che vi si cela?

Quasi ogni giorno, traversando piazza San Pietro mentre vado al lavoro, mi capita di incontrare giovani provenienti da ogni parte del mondo che non rincorrono la carriera, non vogliono solo mettersi in mostra, ma che sono colmi della gioia della fede e vogliono servire Cristo. In essi riluce la gioia e il coraggio della conversione a Cristo. Da incontri come questi io vedo che, sì, quella fiamma arde.

E quando incontro uomini nel pieno degli anni che, senza darsi grande importanza, giorno per giorno, con grande pazienza e umiltà, con bontà e costanza, portano avanti una vita spesso difficile – potrei raccontare parecchie piccole storie di bontà, di cui continuamente vengo a conoscenza – allora so che, sì, quella fiamma silenziosa e pur tuttavia potente arde ancora oggi.

E quando vedo dei vecchi che non hanno in sé alcuna amarezza ma la pura e matura bontà che viene dalla fede, dalla prossimità a Dio in Cristo, allora so che, sì, anche oggi nella Chiesa non c’è solo acqua, ma la fiamma dello Spirito Santo.

[…] Certo, se da qualche parte scoppia uno scandalo, lo si viene a sapere subito in tutto il mondo. La fiamma dello Spirito Santo non dà notizie mediatiche, ma è qui ed è ciò in cui confidiamo. Rimettiamoci ad essa e voglia la Pentecoste aprire gli occhi del nostro cuore affinché possiamo vederla di nuovo.

[…] La fede è risanamento e salvezza. Ma non possiamo essere salvati dalla fede se non accettiamo anche il dolore della trasformazione. Nella lingua di Gesù Cristo, «fuoco» è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce. Senza questa ardente condivisione della croce non esiste cristianesimo.

Ma il fuoco è anche un’immagine d’amore.

Anzi, in realtà queste due immagini coincidono perché la croce è amore e l’amore è croce: proprio in questo stanno la grandezza e la salvezza, e per averne coscienza la semplice esperienza umana è sufficiente. L’attimo di grande entusiasmo e di coinvolgimento non basta, porta a promesse vuote e a delusioni, se non gli diamo continuità e una forma pura attraverso il quotidiano sopportarsi reciproco e sorreggersi, accettarsi e darsi, maturando un amore reale.

Vieni Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! È una preghiera temeraria, perché chiediamo di essere incendiati dalla fiamma dello Spirito Santo; ma è anche una grande preghiera di salvezza, perché solo questa fiamma ha potere di salvezza. Se ci sottraiamo a essa per voler conservare la nostra vita attuale, perdiamo proprio la vera vita. Solo la fiamma dello Spirito Santo può salvarci, perché solo l’amore redime.

Amen».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Spirito e fuoco. Discorso tenuto  nel Duomo di Regensburg, 4 giugno 1995 in J. Ratzinger [Benedetto XVI], Vieni spirito Creatore, Lindau, Torino, 2006, 67-76).

«Vieni!»

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita inferiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».

E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!».

(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).

Non lasciarmi senza il tuo Spirito

O Signore, ascolta la mia preghiera. Tu hai promesso ai tuoi discepoli che non li avresti lasciati soli, ma avresti mandato lo Spirito Santo per guidarli e condurli alla piena Verità.

Mi sembra di brancolare nel buio. Ho ricevuto tanto da te, eppure è difficile per me stare semplicemente quieto e presente dinanzi a te. La mia mente è così caotica, così piena di idee disperse, di piani, di memorie, di fantasie. Voglio stare con te e con te soltanto, concentrarmi sulla tua Parola, ascoltare la tua voce e guardare a te mentre ti riveli ai tuoi amici. Ma, anche con le migliori intenzioni, divago pensando a cose meno impor-tanti e scopro che il mio cuore è attirato verso i miei piccoli tesori senza valore.

Non posso pregare senza la potenza dall’alto, la potenza del tuo Spirito. Manda il tuo Spirito, Signore, affinché il tuo Spirito possa pregare in me, possa dire «Signor Gesù» e gridare «Abbà, Padre».

Io aspetto, Signore, sono in attesa, spero. Non lasciarmi senza il tuo Spirito. Dammi il tuo Spirito che unisce e consola. Amen.

(J.M. NOUWEN, Manoscritto inedito, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 243-244).

Credere nello Spirito santo

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile. E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù. Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà. Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno. I1 suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio. Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per 1’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia. E ciò ad onta di tutte le carenze delle strutture e di tutti i tradimenti del singolo. Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.

E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti. Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile. No, lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo. E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo. Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio – da ricevere con fiducia incondizionata. Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede. No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».

Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io. E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa. Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa. Credo sanctam ecclesiam.

(H. KUNG, Credo)

«Veni Sancte Spiritus!

Cari fratelli e sorelle,

in questo giorno noi contempliamo e riviviamo nella liturgia l’effusione dello Spirito Santo operata da Cristo risorto sulla sua Chiesa; un evento di grazia che ha riempito il cenacolo di Gerusalemme per espandersi nel mondo intero.

Ma che cosa avvenne in quel giorno così lontano da noi, eppure così vicino da raggiungere l’intimo del nostro cuore? San Luca ci offre la risposta nel brano degli Atti degli Apostoli che abbiamo ascoltato (2,1-11). L’evangelista ci riporta a Gerusalemme, al piano superiore della casa nella quale sono riuniti gli Apostoli. Il primo elemento che attira la nostra attenzione è il fragore che improvviso viene dal cielo, «quasi un vento che si abbatte impetuoso» e riempie la casa; poi le «lingue come di fuoco» che si dividevano e si posavano su ciascuno degli Apostoli. Fragore e lingue infuocate sono segni precisi e concreti che toccano gli Apostoli, non solo esteriormente, ma anche nel loro intimo: nella mente e nel cuore. La conseguenza è che «tutti furono colmati di Spirito Santo», il quale sprigiona il suo dinamismo irresistibile, con esiti sorprendenti: «Cominciarono a parlare in altre lingue nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Si apre allora davanti a noi un quadro del tutto inatteso: una grande folla si raduna ed è piena di meraviglia perché ciascuno sente parlare gli Apostoli nella propria lingua. Tutti fanno un’esperienza nuova, mai accaduta prima: «Li udiamo parlare nelle nostre lingue». E di che cosa parlano? «Delle grandi opere di Dio».

Alla luce di questo brano degli Atti, vorrei riflettere su tre parole legate all’azione dello Spirito: novità, armonia, missione.

1. La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Spesso lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito Santo l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre novità -, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui: Noè costruisce un’arca deriso da tutti e si salva; Abramo lascia la sua terra con in mano solo una promessa; Mosè affronta la potenza del faraone e guida il popolo verso la libertà; gli Apostoli, timorosi e chiusi nel cenacolo, escono con coraggio per annunciare il Vangelo. Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare la noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci oggi: siamo aperti alle “sorprese di Dio”? O ci chiudiamo, con paura, alla novità dello Spirito Santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che hanno perso la capacità di accoglienza? Ci farà bene farci queste domande durante tutta la giornata.

2. Un secondo pensiero: lo Spirito Santo, apparentemente, sembra creare disordine nella Chiesa, perché porta la diversità dei carismi, dei doni; ma tutto questo invece, sotto la sua azione, è una grande ricchezza, perché lo Spirito Santo è lo Spirito di unità, che non significa uniformità, ma ricondurre il tutto all’armonia. Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei Padri della Chiesa ha un’espressione che mi piace tanto: lo Spirito Santo “ipse harmonia est”. Lui è proprio l’armonia. Solo Lui può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e, nello stesso tempo, operare l’unità. Anche qui, quando siamo noi a voler fare la diversità e ci chiudiamo nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, portiamo la divisione; e quando siamo noi a voler fare l’unità secondo i nostri disegni umani, finiamo per portare l’uniformità, l’omologazione. Se invece ci lasciamo guidare dallo Spirito, la ricchezza, la varietà, la diversità non diventano mai conflitto, perché Egli ci spinge a vivere la varietà nella comunione della Chiesa. Il camminare insieme nella Chiesa, guidati dai Pastori, che hanno uno speciale carisma e ministero, è segno dell’azione dello Spirito Santo; l’ecclesialità è una caratteristica fondamentale per ogni cristiano, per ogni comunità, per ogni movimento. E’ la Chiesa che mi porta Cristo e mi porta a Cristo; i cammini paralleli sono tanto pericolosi! Quando ci si avventura andando oltre (proagon) la dottrina e la Comunità ecclesiale – dice l’Apostolo Giovanni nella sua Seconda Lettera – e non si rimane in esse, non si è uniti al Dio di Gesù Cristo (cfr 2Gv 1,9). Chiediamoci allora: sono aperto all’armonia dello Spirito Santo, superando ogni esclusivismo? Mi faccio guidare da Lui vivendo nella Chiesa e con la Chiesa?

3. L’ultimo punto. I teologi antichi dicevano: l’anima è una specie di barca a vela, lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la sua spinta, senza la sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero del Dio vivente e ci salva dal pericolo di una Chiesa gnostica e di una Chiesa autoreferenziale, chiusa nel suo recinto; ci spinge ad aprire le porte per uscire, per annunciare e testimoniare la vita buona del Vangelo, per comunicare la gioia della fede, dell’incontro con Cristo. Lo Spirito Santo è l’anima della missione. Quanto avvenuto a Gerusalemme quasi duemila anni fa non è un fatto lontano da noi, è un fatto che ci raggiunge, che si fa esperienza viva in ciascuno di noi. La Pentecoste del cenacolo di Gerusalemme è l’inizio, un inizio che si prolunga. Lo Spirito Santo è il dono per eccellenza di Cristo risorto ai suoi Apostoli, ma Egli vuole che giunga a tutti. Gesù, come abbiamo ascoltato nel Vangelo, dice: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). E’ lo Spirito Paràclito, il «Consolatore», che dà il coraggio di percorrere le strade del mondo portando il Vangelo! Lo Spirito Santo ci fa vedere l’orizzonte e ci spinge fino alle periferie esistenziali per annunciare la vita di Gesù Cristo. Chiediamoci se abbiamo la tendenza di chiuderci in noi stessi, nel nostro gruppo, o se lasciamo che lo Spirito Santo ci apra alla missione. Ricordiamo oggi queste tre parole: novità, armonia, missione.

La liturgia di oggi è una grande preghiera che la Chiesa con Gesù eleva al Padre, perché rinnovi l’effusione dello Spirito Santo. Ciascuno di noi, ogni gruppo, ogni movimento, nell’armonia della Chiesa, si rivolga al Padre per chiedere questo dono. Anche oggi, come al suo nascere, insieme con Maria la Chiesa invoca: «Veni Sancte Spiritus! – Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore!». Amen.

(Omelia di Papa Francesco nella solennità di Pentecoste, Santa Messa con i movimenti ecclesiali, Piazza San Pietro, 19 maggio 2013).

Preghiera allo Spirito Santo

Spirito Santo, eterno Amore,

che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore;

Tu ci guidi qual mano di una mamma;

ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo!

Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.

Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla,

da dove all’esser mi chiamasti.

Tu a me vicino più di me stessa,

più intimo dell’intimo mio.

Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende

e d’ogni nome infrangi le catene.

Spirito Santo, eterno Amore.

(Edith Stein [S. Teresa Benedetta della Croce]).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER APPROFONDIRE:

PENTECOSTE