Tutti i Santi

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso. Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

     Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

     Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

 Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

 

La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

     I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

     Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

 

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

 

Esegesi

     Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

     Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

     Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

     Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

     Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

     Che cosa possiamo rispondere?

     Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

     La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

     La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

 

Meditazione

     Nella celebrazione di tutti i santi la Chiesa ascolta la promessa di Dio che la chiama a partecipare della sua stessa santità, e ricorda, che tale è la vocazione di ogni battezzato. Se la liturgia ci fa fare oggi memoria di tutti i santi nel loro insieme, non è tanto per la preoccupazione di dimenticarne qualcuno, o per integrare il numero di coloro che vengono ricordati nelle singole celebrazioni durante l’anno liturgico, quanto per affermare il carattere universale della chiamata alla santità. I santi sono come «primizie per Dio e per l’Agnello» (Ap 14,4): in essi è già santificato l’intero genere umano insieme a tutta la creazione. Il brano dell’Apocalisse che oggi viene proclamato, tratto dal capitolo settimo, afferma che il loro numero è sterminato: secondo la simbologia biblica centoquarantaquattromila non in-dica un limite, ma una pienezza e una totalità. Finché il sigillo di Dio non è impresso sulla loro fronte la terra e il mare non possono essere devastati, come a indicare che la loro vita diviene sacramento di salvezza e di redenzione per il cosmo intero.

     Se la liturgia ci offre di contemplare la loro vita e il loro destino, non è tanto per offrirci dei modelli da imitare, quanto per condurci a riconoscere la multiforme grazia con cui Dio visita e trasfigura la nostra storia. «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7,10), grida la moltitudine immensa. La santità dei redenti è testimonianza non delle loro virtù o delle loro qualità, ma dell’essere stati salvati dall’amore di Dio, che ci rende realmente suoi figli chiamandoci sin d’ora a quella somiglianza con il suo volto che si attuerà in modo pieno e definitivo quando «egli si sarà manifestato e noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (cfr. 1Gv 3,1-2). Nella loro esemplarità, i santi non esigono una memoria ripetitiva di ciò che hanno fatto e vissuto, che spesso

è inimitabile avendo il sapore dell’unicità, o comunque rimane legato a contesti storici ed ecclesiali che non sono più i nostri; piuttosto la loro testimonianza deve suscitare nei credenti lo stupore e la gratitudine per quanto il Signore ha compiuto nel passato, e l’attesa confidente che torni a operarlo nell’oggi della vita personale e della storia del mondo, per condurli a un futuro di compimento.

     Anche il brano evangelico mette in luce come sia l’agire di Dio a rivelarsi nel volto dei beati. Le beatitudini, prima ancora che essere descrizione di un modo di essere dell’uomo davanti a Dio, sono rivelazione di come Dio si rapporti con gli uomini e manifesti in loro la bellezza della sua opera. Il genere letterario della beatitudine non è esclusivo del Nuovo Testamento; è molto frequente nel Primo Testamento, in particolare la letteratura sapienziale è zeppa di beatitudini. Tuttavia, nella maggior parte dei casi le beatitudini che leggiamo nelle Scritture sante sono articolate in due parti; c’è dapprima l’annuncio della gioia, espressa con il termine «beato/beati», al quale segue una seconda parte che descrive la situazione o l’atteggiamento che vengono proclamati tali. Invece, le beatitudini che Gesù proclama dall’alto del monte non sono in due, ma in tre parti. Dopo l’annuncio della beatitudine, vengono descritti i suoi destinatari – i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia… -; infine c’è una terza parte, quella fondamentale, nella quale Gesù mostra su cosa si fonda la loro gioia. E questa terza parte, introdotta da un perché, fa sempre riferimento a un’azione di Dio, che viene promessa ed è certa, perché Dio sicuramente la compirà. Dietro tutti i passivi che ritmano il testo possiamo facilmente intravedere come sia Dio il soggetto di ogni azione: beati i poveri in spirito, perché a loro Dio donerà il suo regno; beati gli afflitti, perché Dio li consolerà; beati i miti, perché proprio a costoro Dio lascerà in eredità la terra; beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché Dio li sazierà… Appare evidente che la ragione della beatitudine non riposa nelle condizioni esistenziali che l’uomo vive, o nei possibili atteggiamenti che è invitato ad assumere. Anzi, queste situazioni sono tutt’altro che benedette; sono condizioni di povertà, di indigenza, addirittura di persecuzione. La motivazione della gioia sta nel fatto che Dio si colloca dalla loro parte, prende le loro difese, custodirà e riscatterà il loro diritto ingiustamente offeso; agirà, anzi già agisce in loro favore. Le beatitudini di Gesù sono quindi anzitutto una rivelazione di Dio, narrano il suo modo di agire nella storia, proclamano un amore che, per quanto universale, è comunque attraversato da una predilezione, che raggiunge tutti coloro che hanno bisogno di qualcuno che si curvi sul loro bisogno, prenda le loro difese, si faccia carico del loro diritto ingiustamente offeso, sazi il loro giusto desiderio di vita. Di costoro è il regno dei cieli, e il regno è questo curvarsi di Dio sul bisogno dell’uomo.

     La gioia si fonda dunque sul terzo elemento, che descrive ciò che Dio certamente farà. Si ancora a questa speranza, che è tale perché ha la forza di trasformare anche il nostro presente consentendoci di rileggerlo nella luce del futuro di Dio. Infatti, questo ‘beati’ proclamato da Gesù non è un semplice augurio, o una benedizione per il futuro, neppure semplicemente una promessa. È piuttosto una constatazione nel presente: siete beati ora, nell’oggi della vostra vita, anche se il fondamento di questa felicità riposa nel futuro, ma si tratta del futuro di Dio, non del futuro dell’uomo. Affermare che è il futuro di Dio non significa solo riconoscere che è un futuro certo, perché Dio è fedele alla sua parola e attua la sua promessa; significa anche riconoscere che è un futuro capace di dare un significato diverso a ciò che ora sto vivendo. È un futuro indisponibile per la mia libertà e per la mia possibilità, non sono io a poterlo progettare o costruire con le mie mani o con la mia fantasia, ma viene da Dio, mi è donato, ed è pertanto in grado di dare un senso diverso al mio presente. Benedetto XVI afferma nella sua enciclica Spes salvi che il messaggio cristiano non è solo ‘informativo’, ma ‘performativo’. Ciò significa – spiega il papa – che «il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (n. 3). I santi sono coloro che hanno saputo scommettere tutta la propria esistenza su questo futuro di Dio e nella speranza hanno ricevuto il dono di una vita nuova, che la loro libertà ha saputo accogliere e far fruttificare.

     Le beatitudini che proclama Gesù sono otto, ma esse non delineano otto figure diverse di uomini e di donne, ma disegnano un’unica figura, una sola personalità spirituale, un unico modo di essere e di agire. Potremmo dire che questa unica personalità è Gesù Cristo, al quale il discepolo del Regno deve diventare sempre più simile. Il vero uomo delle beatitudini è Gesù Cristo. Ciò significa anche che l’unica personalità o figura spirituale che le beatitudini ci descrivono è quella del povero in spirito, di cui ci parla la prima beatitudine. È la prima non perché all’inizio di una serie, ma perché è la beatitudine fondamentale, e tutte le altre che seguono esplicitano vari aspetti in cui l’essere poveri in spirito si manifesta più concretamente. I poveri in spirito sono poveri davanti a Dio, vivendo la loro povertà nella dipendenza da Dio, attendendo tutto dalle sue mani e dal suo dono. Non sperano solo qualcosa, ma sperano Lui. Povero in spirito è Gesù che nell’evangelo di Matteo può dire: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio» (11,27). Povero è chi sa di dover ricevere tutto dalle mani di Dio e riconosce che la propria vita dipende dalle relazione con il Padre. Il santo «è colui che ha misurato nella povertà sua la smisurata distanza che lo separa dalla santità di Dio. E di fronte ad essa sente la propria indigenza, il proprio limite e tende sempre la mano vuota affinché Dio, come cantiamo a proposito di Maria, la riempia dei suoi beni» (C. Massa).

 

Preghiere e racconti

La santità della Iglesia militante

Cari «Io vedo la santità — prosegue il Papa — nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio».

(Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013) 3918, 449-477).

 

La santità è sempre giovane

« Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

 

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

 

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).

 

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

 

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

 

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.  

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI

Agenzia Fides: I cattolici nel mondo sono 1,3 miliardi

In occasione della Giornata Missionaria Mondiale, l’Agenzia Fides ha presentato come di consueto alcune statistiche scelte in modo da offrire un quadro panoramico della Chiesa nel mondo. I dati sono tratte dall’ultimo «Annuario Statistico della Chiesa» (aggiornato al 31 dicembre 2014) e riguardano i membri della Chiesa, le sue strutture pastorali, le attività nel campo sanitario, assistenziale ed educativo.

Popolazione mondiale supera i 7 miliardiAl 31 dicembre 2014 la popolazione mondiale era pari a 7.160.739.000 persone, con un aumento di 66.941.000 unità rispetto all’anno precedente. L’aumento globale riguarda anche quest’anno tutti i continenti, ad eccezione dell’Europa: gli aumenti più consistenti, ancora una volta, sono in Asia (+37.349.000) e in Africa (+23.000.000), seguiti da America (+8.657.000) e Oceania (+649.000). Diminuisce l’Europa (-2.714.000).
I cattolici nel mondo sono 1.272.281.000Alla stessa data del 31 dicembre 2014 il numero dei cattolici era pari a 1.272.281.000 unità con un aumento complessivo di 18.355.000 persone, più contenuto rispetto a quello registrato l’anno precedente. L’aumento interessa tutti i continenti ad eccezione dell’Europa, è più deciso, come lo scorso anno, in Africa (+8.535.000) e in America (+6.642.000), seguiti da Asia (+3.027.000) e Oceania (+208.000). Diminuisce l’Europa (-57.000). La percentuale dei cattolici è aumentata dello 0,09%, attestandosi al 17,77%. Riguardo ai continenti, si sono registrati aumenti in Africa (+0,38), America (+0,12), Asia (+0,05), Europa (+0,14) ed Oceania (+0,09). 
Abitanti e cattolici per sacerdoteIl numero degli abitanti per sacerdote è aumentato anche quest’anno, complessivamente di 130 unità, raggiungendo quota 13.882. La ripartizione per continenti vede, come per gli anni precedenti, aumenti in America (+79), Europa (+41) ed Oceania (+289); diminuzioni in Africa (-125) e Asia (-1.100). Il numero dei cattolici per sacerdote è aumentato complessivamente di 41 unità, raggiungendo il numero di 3.060. Si registrano aumenti in Africa (+73), America (+59), Europa (+22) ed Oceania (+83). Unica diminuzione in Asia (-27).
Circoscrizioni ecclesiastiche e stazioni missionarieLe circoscrizioni ecclesiastiche sono 9 in più rispetto all’anno precedente, arrivando a 2.998, con nuove circoscrizioni create in Africa (+1), America (+3), Asia (+3) ed Europa (+2). L’Oceania non registra variazioni. Le stazioni missionarie con sacerdote residente sono complessivamente 1.864 (7 in meno rispetto all’anno precedente) e sono aumentate in Africa (+39) e in Europa (+2). Sono diminuite in America (-35), Asia (-8) ed Oceania (-5). Le stazioni missionarie senza sacerdote residente sono aumentate complessivamente di 2.703 unità, raggiungendo così il numero di 136.572. Aumentano in Africa (+1.151), America (+2.891) ed Oceania (+115). Diminuiscono in Asia (-1.452) ed Europa (-2).
I vescovi sono oltre 5milaIl numero totale dei Vescovi nel mondo è aumentato di 64 unità, raggiungendo quota 5.237. Anche quest’anno aumentano sia i Vescovi diocesani che quelli religiosi. I Vescovi diocesani sono 3.992 (47 in più), mentre i Vescovi religiosi sono 1.245 (17 in più). L’aumento dei Vescovi diocesani interessa come lo scorso anno tutti i continenti ad eccezione dell’Oceania (-1): America (+20), Asia (+9), Africa (+1) ed Europa (+18). I Vescovi religiosi aumentano ovunque: Africa (+5), America (+2), Asia (+3), Europa (+6), Oceania (+1).
In aumento i sacerdotiIl numero totale dei sacerdoti nel mondo è aumentato di 444 unità rispetto all’anno precedente, raggiungendo quota 415.792. A segnare una diminuzione consistente è ancora una volta l’Europa (-2.564) e, in misura più lieve, l’America (-123) e l’Oceania (-86), gli aumenti si registrano in Africa (+1.089) e Asia (+2.128). I sacerdoti diocesani nel mondo sono aumentati globalmente di 765 unità, raggiungendo il numero di 281.297, con aumenti in Africa (+1.023), America (+810) e Asia (+848). La diminuzione, anche quest’anno, è in Europa (-1.914) cui si aggiunge l’Oceania (-2). I sacerdoti religiosi sono diminuiti in complesso di 321 unità e sono 134.495. Consolidando la tendenza degli ultimi anni, crescono in Africa (+66) e in Asia (+1.280), mentre le diminuzioni interessano America (-933), Europa (-650) ed Oceania (-84). 
In aumento i diaconi permanentiI diaconi permanenti nel mondo sono aumentati di 1.371 unità, raggiungendo il numero di 44.566. L’aumento più consistente si conferma ancora una volta in America (+965) e in Europa (+311), cui si aggiungono quest’anno Africa (+25), Asia (+65) ed Oceania (+5). I diaconi permanenti diocesani sono nel mondo 43.954, con un aumento complessivo di 1.304 unità. Crescono ovunque: in Africa (+8), America (+971), Asia (+36), Europa (+285), Oceania (+4).  I diaconi permanenti religiosi sono 612, aumentati di 67 unità rispetto all’anno precedente, con aumenti in Africa (+17), Asia (+29), Europa (+26) e Oceania (+1), unica diminuzione in America (-6).
Diminuiscono le religioseI religiosi non sacerdoti sono diminuiti per il secondo anno consecutivo, in controtendenza rispetto agli ultimi anni precedenti, di 694 unità, arrivando al numero di 54.559. Aumenti si registrano in Africa (+331) e in Asia (+66), mentre diminuiscono in America (-362), Europa (-653) e Oceania (-76). Anche quest’anno si conferma la tendenza alla diminuzione globale delle religiose, quest’anno ancora superiore rispetto all’anno precedente, di 10.846 unità. Sono complessivamente 682.729. Gli aumenti sono, ancora una volta, in Africa (+725) e in Asia (+604), le diminuzioni in America (–4.242), Europa (-7.733) e Oceania (–200).
Istituti secolariI membri degli Istituti secolari maschili sono complessivamente 654, con una diminuzione globale di 58 unità, quasi uguale a quella dell’anno precedente. A livello continentale cresce anche quest’anno solo l’Africa (+2), mentre diminuiscono America (-13), Asia (-16) ed Europa (-31), invariata anche quest’anno l’Oceania. I membri degli Istituti secolari femminili sono aumentati complessivamente di 243 unità, per un totale di 24.198 membri. Aumentano in Asia (+44) ed Europa (+515) mentre diminuiscono in Africa (-7), America (-306) ed Oceania (-3). 
In crescita i missionari laici e i catechistiIl numero dei Missionari laici nel mondo è pari a 368.520, con un aumento globale di 841 unità ed aumenti in Africa (+9), Europa (+6.806) e Oceania (+41). Diminuiscono invece in America (-5.596) e Asia (-419). I Catechisti nel mondo sono aumentati complessivamente di 107.200 unità, raggiungendo quota 3.264.768. Anche quest’anno consistenti aumenti si registrano in Africa (+103.084), in Asia (+6.862), in misura più contenuta in Oceania (+271). Diminuzioni in America (-2.814) e in Europa (-203).
Diminuiscono i seminaristi maggioriI seminaristi maggiori, diocesani e religiosi, anche quest’anno sono diminuiti, precisamente di 1.312 unità, e hanno così raggiunto il numero di 116.939. Come per l’anno precedente, gli aumenti si registrano solo in Africa (+636), mentre diminuiscono in America (-676), Asia (-635), Europa (-629) ed Oceania (-8).  I seminaristi maggiori diocesani sono 70.301 (-1.236 rispetto all’anno precedente) e quelli religiosi 46.638 (-76). Per i seminaristi diocesani gli aumenti interessano solo l’Africa (+222). Le diminuzioni sono in America (-594), Asia (-373), Europa (-471) e Oceania (-20). I seminaristi maggiori religiosi diminuiscono in tre continenti: America (-82), Asia (-262) ed Europa (-158). Aumentano in Africa (+414) ed Oceania (+12).
Aumentano i seminaristi minoriIl numero totale dei seminaristi minori, diocesani e religiosi, quest’anno è aumentato di 1.014 unità, raggiungendo il numero di 102.942. Sono aumentati in tutti i continenti ad eccezione dell’Oceania (-42): Africa (+487), America (+1), Asia (+174), Europa (+394). I seminaristi minori diocesani sono 78.489 (-67) e quelli religiosi 24.453 (+1.081). Per i seminaristi diocesani la diminuzione si registra in America (-47), Asia (-668) e Oceania (-37), l’aumento in Africa (+291) e Europa (+394). I seminaristi minori religiosi invece sono in crescita in Africa (+196), America (+48) e Asia (+842), mentre diminuiscono in Oceania (-5) e sono stabili in Europa.
Istituti di istruzione ed educazioneNel campo dell’istruzione e dell’educazione, la Chiesa gestisce nel mondo 73.580 scuole materne frequentate da 7.043.634 alunni; 96.283 scuole primarie per 33.516.860 alunni; 46.339 istituti secondari per 19.760.924 alunni. Inoltre segue 2.477.636 alunni delle scuole superiori e 2.719.643 studenti universitari.
La galassia degli ospedali e degli istituti di assistenza cattoliciGli istituti di beneficenza e assistenza gestiti nel mondo dalla Chiesa comprendono: 5.158 ospedali con le presenze maggiori in America (1.501) ed Africa (1.221); 16.523 dispensari, per la maggior parte in Africa (5.230), America (4.667) e Asia (3.584); 612 lebbrosari distribuiti principalmente in Asia (313) ed Africa (174); 15.679 case per anziani, malati cronici ed handicappati, per la maggior parte in Europa (8.304) ed America (3.726); 9.492 orfanotrofi per la maggior parte in Asia (3.859); 12.637 giardini d’infanzia con il maggior numero in Asia (3.422) e America (3.477); 14.576 consultori matrimoniali, per gran parte in Europa (5.670) ed America (5.634); 3.782 centri di educazione o rieducazione sociale e 37.601 istituzioni di altro tipo.
Circoscrizioni dipendenti dall’Evangelizzazione dei PopoliLe Circoscrizioni ecclesiastiche dipendenti dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (Cep) al 4 ottobre 2016 sono complessivamente 1.108, tre circoscrizioni in meno rispetto all’anno precedente. La maggior parte delle circoscrizioni ecclesiastiche affidate a Propaganda Fide si trova in Africa (508) e in Asia (480). Seguono America (74) ed Oceania (46).

XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Sapienza 11,22-12,2

Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.                                           

 

Il brano della prima lettura è tratto dal libro della Sapienza, che è stato scritto direttamente in greco, da ebrei ellenizzati, e che non è entrato nel canone ebraico, ma è arrivato alle chiese cristiane dalla traduzione greca della Bibbia cosiddetta dei Settanta.

      L’autore sta magnificando la grandezza di Dio e paragona tutto l’universo dinanzi a lui a della polvere «sulla bilancia» (Sap 11,22). Il richiamo è a Is 40,15, dove però «pulviscolo sulla bilancia» sono le nazioni.

      La seconda parte del versetto ribadisce lo stesso concetto con un’altra bella immagine: «tutto il mondo davanti a te è… come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra» (Os 6,4: dove il paragone della rugiada è applicato a Efraim e Giuda; cf. Os 13,3).

Subito dopo aver contrapposto la piccolezza dell’universo alla grandezza di Dio, l’autore ne sottolinea la misericordia e l’amore infinito.

      Dio fa conoscere la sua onnipotenza attraverso la compassione e il perdono. Egli dimentica i peccati in vista della conversione (Sap 11,23). «Io non godo, dice il Signore attraverso il profeta Ezechiele, della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva» (Ez 33,11).

      L’amore di Dio non è rivolto solo agli esseri umani, ma a tutte le creature, che sono venute all’esistenza e vi rimangono proprio grazie al suo amore. «Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su ogni creatura» (Sal 145,9).

      L’esistere delle creature è una chiamata di Dio; tutte le cose appartengono a Dio, che è «Signore, amante della vita». Il suo «spirito incorruttibile è in tutte le cose» (Sap 11,26; cf. Sap 1,13-14). Lo Spirito di Dio non è solo nell’uomo (Gn 2,7), ma in ogni essere vivente, che vive grazie al dono continuo di Dio: «se nascondi il tuo volto vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104,29-30).

      Il versetto 2 del cap. 12 riprende il concetto iniziale della pedagogia di Dio verso il peccatore: egli castiga con parsimonia e ammonisce con insistenza allo scopo di chiamare i peccatori a conversione.

 

Seconda lettura: 2Tessalonicesi 1,11-2,2

Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo. Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.

 

L’apostolo nei versetti 11 e 12 che chiudono il primo capitolo della seconda lettera ai Tessalonicesi dichiara di pregare «di continuo» per i cristiani di Tessalonica. Egli sottolinea di nuovo le implicazioni etiche della prospettiva escatologica raccomandate loro nelle parole immediatamente precedenti. Questa prospettiva non è solo un incentivo alla paziente sopportazione della sofferenza per amore di Cristo; è anche un incitamento per una vita di azione positiva in armonia con il fine per il quale Dio li ha chiamati. Dio, che chiama «al suo regno e alla sua gloria» (1Tes 2,12), chiede una condotta adeguata alla chiamata e dona il suo Spirito, perché abitando nei credenti, li renda capaci di comportarsi secondo la sua giustizia.

      La «grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo» è lo Spirito stesso di Dio, che rende simili a lui e fa capaci di glorificare il suo nome. La comunità cristiana deve nella sua testimonianza rendere visibile la gloria di Cristo e questo è possibile solo col dono dello Spirito.

      Gli altri due versetti esortano ad evitare i falsi allarmismi riguardo alla nuova venuta di Gesù, tanto attesa nelle prime comunità cristiane. Paolo implora i Tessalonicesi, perché rendano la loro testimonianza senza lasciarsi «confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera» (2Ts 2,2). Non ci si deve far ingannare da nessuno (cf. Mt 24,4); si deve attendere fiduciosi la venuta del Signore, senza farsi prendere dalla paura di una catastrofe imminente, paura che non è mai buona consigliera e non lascia la serenità necessaria per affrontare le vere necessità della vita presente.

 

Vangelo: Luca 19,1-10

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».   

 

Esegesi 

      I vangeli, in particolare Luca, ci presentano più volte Gesù che sta in mezzo ai pubblicani e ai peccatori: «Si avvicinarono a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (Lc 15,1), «mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli» (Mt 9,10). Tale comportamento provoca lo stupore della gente: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro!» (Lc 15,2). Luca, però, sottolinea che è proprio questa la missione di Gesù: avvicinare i peccatori e portarli a conversione. «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori affinché si convertano» (Lc 5,32).

      Predicare il perdono e la conversione è anche la missione dei discepoli: «Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati a cominciare da Gerusalemme» (Lc 24,47). Dio stesso gioisce per la conversione del peccatore: «ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7.10).

      In questo quadro si situa l’episodio di Zaccheo. Questo personaggio viene presentato come capo dei pubblicani (architelones), vale a dire degli esattori delle tasse, e ricco. Il vocabolo greco architelones è usato solo qui in tutto il Nuovo Testamento e non si trovano esempi nemmeno nella letteratura profana. Luca vuole sottolineare probabilmente che Zaccheo era un esattore importante a Gerico, era potente, oltre ad essere ricco, apparteneva perciò a quella categoria della quale Gesù aveva detto: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Lc 18,25; cf. Mt 19,24; Mc 10,25). È così assolutamente evidente, che la sua conversione è opera della potenza di Dio misericordioso. Infatti «ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio», (Lc 18,27; cf. Mt 18,26; Mc 10,27).

      Zaccheo è mosso dalla curiosità di vedere Gesù e sale su un albero, perché altrimenti la sua bassa statura gli impedirebbe di vedere, dato il grande accorrere di gente, attratta dalla fama di Gesù.

      Gesù, giunto sotto l’albero, invita Zaccheo a scendere «in fretta» (speusas participio aoristo di speudo, agendo in fretta, affrettandoti, festinans nella Volgata); e Zaccheo «in fretta» scese (Lc 19,5.6). Questa fretta indica la sollecitudine nella chiamata e la prontezza nella risposta. Zaccheo accoglie Gesù «pieno di gioia», mentre chi osservava mormorava sulla condotta di Gesù: «È entrato in casa di un peccatore!» (Lc 19,7, cf. 5,30:15,2), Zaccheo, nel ricevere Gesù a casa sua, esprime con gesti concreti la sua volontà di conversione: dona la metà dei suoi beni ai poveri e ristabilisce la giustizia, che aveva violato, restituendo il quadruplo a coloro a cui aveva estorto denaro ingiustamente. Zaccheo prende come misura del risarcimento quello prescritto in Esodo 21,27. Egli ritorna ad accollarsi il «giogo dei precetti», che nella sua professione aveva più volte violato e rientra quindi a pieno titolo nell’alleanza di Dio col suo popolo.

      Gesù, infatti, nell’annunciargli la salvezza sottolinea che «anch’egli è figlio di Abramo», vale a dire che l’alleanza con Dio, che è un atto di amore gratuito di Dio stesso, non si rompe con i peccati degli uomini. Dio è fedele alla sua promessa ed è sempre in attesa della conversione. Gesù «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10) a testimonianza della misericordia del Padre.  

  

L’immagine della domenica

 
 

Ricerca di Dio 

Dio ha preparato segni tangibili per farsi riconoscere

da chi lo cerca con sincerità

li ha tuttavia mascherati

in modo tale che egli potrà essere scoperto

solo da chi lo cerca con tutto il suo cuore.

(Blaise Pascal)

 

Meditazione

      Il testo della Sapienza parla del Dio che ha misericordia (vb. eleéo: Sap 11,23) di tutti e non guarda ai peccati degli uomini in vista della loro conversione (metánoia: Sap 11,23); il vangelo presenta Zaccheo come uomo che fa esperienza della misericordia del Signore ed esempio concreto di conversione.

      Zaccheo cerca di vedere Gesù, ma la folla gli è di ostacolo. Per incontrare Gesù occorre uscire dalla folla, osare la propria singolarità, assumere i propri limiti per trovare il proprio personale cammino, occorre il coraggio di «cantare fuori dal coro».

      La grandezza del piccolo Zaccheo sta nell’intelligente assunzione del limite della propria statura e nel trovare aiuto in un albero di sicomoro su cui sale per poter vedere Gesù. I limiti precisi che ci abitano (fisici, morali, intellettuali ecc.), quando siano assunti con maturità e intelligenza, non ci impediscono di incontrare il Signore, ma ci consentono di far avvenire tale incontro nella verità. Questa assunzione ci rende anche intelligenti nel saper ricorrere alle creature che ci vivono accanto perché suppliscano alla nostra indigenza.

      Capo dei pubblicani e ricco, Zaccheo probabilmente si è arricchito in modo disonesto, sfruttando le possibilità offerte dal sistema di riscossione delle imposte. Egli, che può essere etichettato come peccatore e disonesto, è abitato dal desiderio di incontrare Gesù, e cerca con tutte le sue forze di vederlo. Il testo afferma che Zaccheo «cercava di vedere chi era Gesù (tís estin)» (Lc 19,3), insinuando forse il desiderio di una conoscenza profonda di Gesù.

      E anche Gesù non si ferma al giudizio esteriore che potrebbe rinchiudere Zaccheo nel cliché del peccatore, non si rassegna a considerarlo solamente un peccatore, ma manifesta il suo desiderio di incontrarlo, di avere comunione con lui. E così narra il desiderio di Dio di incontrare ogni uomo, in particolare i peccatori. Il testo ci presenta così l’incontro del desiderio di Dio e del desiderio dell’uomo, che è, per entrambi, desiderio di salvezza.

Zaccheo cerca di vedere Gesù, di riconoscerlo, ma scopre di essere visto e conosciuto da Gesù stesso («Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo…”»: Lc 19,5), che addirittura gli manifesta l’intenzione di fermarsi a casa sua, quasi fosse una sua vecchia conoscenza. Il cammino che Zaccheo percorre per incontrare Gesù (correre avanti per evitare la folla, salire su un albero situato là dove Gesù sarebbe passato) sfocia nella scoperta che Gesù era già in cammino per incontrarlo: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10). Spesso le nostre ricerche e i nostri cammini spirituali trovano il loro esito nella scoperta che il Signore già ci cercava ed era in cammino verso di noi. Queste nostre ricerche sono il nostro predisporre tutto all’evento della grazia. La forza dello sguardo di Gesù, che in Zaccheo non vede il pubblicano, il peccatore, l’uomo di bassa statura, il ricco, ma un uomo e un figlio di Abramo (Lc 19,9), conduce Zaccheo a ritrovare la vista, a redimere il suo sguardo. Ora egli vede tutti coloro a cui ha sottratto denaro ingiustamente, vede i poveri, e interviene concretamente in loro favore (Lc 19,8). Zaccheo vuole vedere Gesù (Lc 19,3) e incontra il Signore (Lc 19,8) e i gesti di conversione che Zaccheo attua non nascono da un atteggiamento di rimprovero di Gesù, ma dall’incondizionata e stupefacente accoglienza che Gesù gli riserva. Certo, a fronte di questo, resta sempre la possibilità di uno sguardo non evangelizzato, uno sguardo che in Zaccheo non vede che il peccatore e in Gesù una persona di cui scandalizzarsi: «Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!» (Lc 19,7).

      Ha scritto don Primo Mazzolari commentando questo testo: «Io posso anche non vedere il Signore: lui mi vede sempre, non può non vedermi. Io posso scantonare, lui no. L’amore si ferma sempre e viene inchiodato dalla pietà. Io guardo e mi scandalizzo, guardo e giudico, guardo e condanno, guardo e tiro diritto: lui mi guarda, si ferma e si muove a pietà».

 

Preghiere e racconti

 

Condivisione della propria vita 

 

     Dio mi ha salvato, Dio mi ha rivelato a me stesso. Non ero quindi ciò che si diceva di me. Io sono ciò che Dio dice di me. Ed è certamente a tale riguardo che si deve mettere in guardia, ancora una volta, contro un’eccessiva moralizzazione della fede… La nostra risposta alla proposta di Dio non è solo morale e virtuosa, non è solo risposta in moneta spicciola che tarpa le ali alla fede. Certo, bisogna avere una condotta morale. La cosa è talmente evidente che si è quasi imbarazzati a ricordarlo. Ma la morale è ben lontana dall’essere tutta la nostra risposta all’offerta di Dio. Essa riguarda il fine stesso della vita. E appello alla condivisione della propria vita; uomo, tu sei fatto per ben più della semplice etica. E in essa non si trova per me la tua unica risposta, né la tua sola prova nell’ultimo giorno. D’altronde, non hai bisogno di battere insistentemente alla porta dei templi per essere morale, ma per costruire il mio Regno!…

(A. Gesché, L’uomo, Dio per pensare II),

 

L’icona di un itinerario pastorale “per vedere Gesù”

 

      Gesù era uno di quei bei tipi di fronte ai quali nessuno era riuscito a restare indifferente. Suscitava entusiasmo o faceva arrabbiare. L’hanno cercato in tanti, per le ragioni le più strane. Lo cercavano quelli che attendevano da lui la guarigione, una buona parola, almeno un sorriso per continuare a sperare. Con la stessa decisione lo cercavano per eliminarlo, con la scusa che era pericoloso perché metteva in crisi l’osservanza formale della legge. Anche i suoi genitori e gli amici, ogni tanto hanno dovuto mettersi a cercarlo: all’improvviso spariva e nessuno sapeva dove era finito.

      La sua esistenza era incominciata sotto il segno della ricerca. Per metterlo al mondo, Maria e Giuseppe hanno dovuto cercare un angolo tranquillo, perché per questa famiglia di poveretti non c’ era posto da nessuna parte. L’hanno cercato i pastori, i magi, il re Erode. Anche chi voleva arrestarlo e non voleva sbagliare persona; l’hanno cercato coloro che volevano vederlo, per l’ultima volta, nel sepolcro.

      I suoi discepoli, spesso, hanno tentato di mettere un poco d’ordine nell’affannosa ricerca di Gesù. Hanno stabilito degli orari, per lasciargli qualche ora di sonno. Hanno selezionato quelli che avevano diritto da quelli che invece davano solo fastidio. Per questo, volevano escludere i bambini, chiassosi e confusionari, e i peccatori, troppo pericolosi per la dignità. Poverini…       lo facevano per difendere l’esistenza di Gesù, tirato da tutte le parti. Volevano organizzare le cose come si faceva di solito: distinguere tra le richieste buone e quelle inutili, tra le domande serie e quelle soltanto curiose. Gesù non c’è mai stato. Era fuori dei suoi schemi. Chi ama e vuole la vita, non può di sicuro fare un elenco di priorità né può decidere in anticipo chi lo cerca davvero o chi invece si prende gioco di lui.

 

La voglia di vedere Gesù

 

      “Zaccheo desiderava vedere chi fosse Gesù ma non riusciva perché c’era molta gente e lui era troppo piccolo”.

      Le pagine del Vangelo sono piene di racconti che potrebbero avere tutti uno stesso titolo: la voglia di vedere Gesù. Una storia, però, è più simpatica di tutte, quella di Zaccheo. La dovrebbe meditare la gente che, come noi, discute continuamente sulle domande dei giovani, per decidere meglio la qualità del servizio educativo e pastorale.

Zaccheo era un poco di buono. Lo sapevano tutti e glielo dicevano in faccia con un po’ di ritegno solo perché era un uomo potente e con i potenti è meglio andarci cauti. Lo sapeva bene anche lui, ma non gliene importava nulla (o quasi). Tanto lui aveva i soldi. E con i soldi risolveva tutti i problemi.

      Il suo guaio erano i soldi. Molti glieli invidiavano; moltissimi gli contestavano il modo con cui se li procurava. Zaccheo era un esattore delle tasse, uno di quelli che senza pietà spillava denaro a destra e a manca per conto dei Romani. Un pò di soldi li consegnava; un po’ se li teneva. E così aveva una barca di soldi e di nemici. Tutto questo, i buoni ebrei, attaccati ai soldi come tutti i nazionalisti esasperati, non glielo perdonavano davvero.

      Un giorno, viene a sapere che dalla sua città doveva passare Gesù. S’incuriosisce. “Lo devo vedere”, decide subito, “parlano tanto di lui… se non ne approfitto adesso, mi mancherà per sempre”. Ne parla con gli amici. Lo prendono in giro: “Zaccheo… hai deciso di convertirti… non ti bastano più i tuoi soldi? Pensa alla faccia dei tuoi nemici… Non dar loro questa consolazione”. Zaccheo è deciso: “Non c’è pericolo. Lo voglio vedere, punto e basta. Mi va simpatico, con quella banda di pescatori che si tira dietro”. Qualcuno gli sussurra: “Zaccheo, attento. Gesù è un tipo pericoloso”. “Per carità… tranquilli. Ci sono abituato. Io lo lascio parlare, come faccio con tutti. E poi faccio quello che mi pare. I soldi li ho io, non lui, che è un morto di fame, senza fissa dimora”.

Zaccheo si organizza per vedere Gesù. Studia le varie possibilità. Rinuncia alla soluzione troppo semplice di convincere, con qualche elemosina al posto giusto, di far passare Gesù sotto le finestre di casa sua. Preferisce scendere lui sulla strada. Ma c’è un problema. Zaccheo ha un piccolo difetto fisico: è basso di statura. Lo scopre adesso. Se si mescola alla folla, addio possibilità di vedere Gesù.

      Non riuscirebbe a vedere nulla. Zaccheo ci pensa. Chiede consiglio. Poi decide di testa sua: “Mi arrampico su un albero, in barba alla dignità”.

 Si organizza per stare tranquillo, appollaiato sul suo albero, fino al passaggio di Gesù. “Lo voglio vedere”. Finalmente passa Gesù. Zaccheo tiene il fiato. È il momento più difficile. Se qualcuno si accorge, povera la sua dignità e addio faccia tosta. Domani, nell’ufficio delle imposte, tutti lo guarderanno con un tono che ti prende giro alla testa ai piedi.

      Ecco, Gesù. Boh…tutto lì? Che capita? Si ferma? Si ferma proprio sotto l’albero di Zaccheo. Scende dalla cavalcatura e guarda in alto. “Zaccheo….”. Zaccheo trema di vergogna. “Zaccheo, vieni giù, devo parlarti”. Ormai è fatta. Zaccheo scende e si mette davanti a Gesù pronto a tutto. Gesù gli sorride. Sorride a Zaccheo? Poi parla. Altro che rimproveri…neppure un buon consiglio. Dice Gesù: “Zaccheo, ho deciso: oggi vengo a pranzo a casa tua. Ti va?”.

Zaccheo si sente un colpo a cuore. Voleva vedere Gesù per curiosità, per non essere tagliato fuori quando tra gli amici si parlava di lui. E adesso Gesù sconvolge tutti i suoi piani. Si propone come ospite della sua casa e della sua vita. Zaccheo non ci pensa due volte. Risponde al volo, con una gioia traboccante: “Gesù, grazie. Vieni. Preparo in fretta. Ci facciamo un pranzo di quelli da ricordare”.

Gesù ha buttato le braccia al collo a Zaccheo. Non gli ha fatto nessun rimprovero né ha posto alcuna condizione. Gli ha restituito tutta la dignità. L’ha riconciliato con se stesso…la prima persona dopo anni di rimproveri, noiosi quanto inutili. Può ospitare Gesù a casa sua: se Gesù l’ha detto, è segno che lui può farlo. Zaccheo ritrova la gioia di stare in compagnia con se stesso. Però…l’abbraccio di Gesù butta per aria tutto. Interpella e inquieta. “Se non cambio vita”, pensa Zaccheo, “cosa è venuto a fare Gesù nella mia casa?”. Si butta nell’entusiasmo della conversione. Cambia vita, in quel modo esagerato che solo l’amore e il perdono sanno scatenare: “Restituisco quello che ho rubato: quattro volte tanto. I miei soldi li dono ai poveri. Divido la mia vita con loro. Da oggi, cambio…tutto”.

      Qualcuno brontola. Non capisce più. Accidenti…di questo passo, dove si fa a finire? Quel Gesù lì è proprio pericoloso. Fa diventare bene il male. La voglia di Zaccheo di vedere Gesù non era “buona”. Gesù doveva sgridarlo e basta. Questo modo di fare è troppo rassegnato. Adesso interviene Gesù. Non ne può più con questa mania di giudicare, di dividere, di valutare prima di accogliere.

      Alza la voce: “Insomma…non vi rendete conto che la salvezza di Dio è entrata oggi nella vita di Zaccheo?”. Zaccheo è un uomo nuovo: salvato dall’abbraccio accogliente di Dio, si è riconciliato finalmente con se stesso e con gli altri. La sua povera voglia di vedere Gesù gli ha trasformato la vita: il più piccolo dei semi è diventato albero grande.

(a cura di Riccardo Tonelli)

 

Si invita senza essere invitato

 

    Ed ecco un uomo di nome Zaccheo (Lc 19,2). Zaccheo è sul sicomoro, il cieco è sulla strada. Il Signore aspetta l’uno per fargli misericordia, rende onore all’altro con la sua visita. Interroga il cieco per guarirlo, si invita a casa di Zaccheo senza essere invitato. Sapeva infatti che grande sarebbe stata la ricompensa del suo ospite e che se questi non aveva ancora sentito il suo invito, ne aveva sentito il desiderio […] I ricchi imparino che la colpa non sta nelle ricchezze, ma nel non saperle usare, poiché se le ricchezze per i malvagi sono un impedimento, nei buoni sono di aiuto in vista del bene.

Sì, il ricco Zaccheo è stato scelto da Cristo, ma poiché ha distribuito la metà dei suoi beni ai poveri e ha restituito il quadruplo di quanto aveva rubato – l’una delle due cose non basta e la generosità non ha valore se permane l’ingiustizia dal momento che si chiedono dei doni e non ciò che si ha rubato – ha ricevuto una ricompensa più grande di quanto ha donato. Ed è una buona cosa annotare che costui era capo dei pubblicani. Chi, infatti, potrebbe disperare di sé dal momento che giunse alla fede anche Zaccheo che traeva il suo guadagno dalla frode? Ed era ricco, dice l’evangelo, affinché tu sappia che non tutti i ricchi sono avari. Come mai la Scrittura non precisa l’altezza di nessun altro se non la sua dicendo che era piccolo di statura (Lc 19,3)? Vedete se per caso non era piccolo a motivo della sua malvagità o piccolo nella fede. Non aveva ancora promesso niente quando era salito sul sicomoro, non aveva ancora visto Cristo e per questo era ancora piccolo […] Zaccheo sul sicomoro è il frutto nuovo del tempo nuovo.

(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca, 8,82. 85-87.90,SC 52, pp. 136-138).

 

Cambio io

 

    C’è stato un momento della mia vita in cui volevo cambiare le cose e gli altri. Ora desidero solo cambiare me stesso e meritarmi il Tuo amore.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto – pensieri e letture spirituali, Cinisello Balsamo (MI), 2005, 134).

 

Strategia dell’anatra

 

    Tre giovani avevano compiuto diligentemente i loro studi alla scuola di grandi maestri. Prima di lasciarsi fecero una promessa: avrebbero percorso il mondo e si sarebbero ritrovati dopo un anno, portando la cosa più preziosa che fossero riusciti a trovare.

Il primo non ebbe dubbi: partì alla ricerca di una gemma splendida ed inestimabile. Attraversò mari e monti e deserti, salì montagne e visitò città sinché non l’ebbe trovata : era la più splendida gemma che avesse mai rifulso sotto il sole. Tornò allora in patria in attesa degli amici.

Il secondo tornò dopo poco tenendo per mano una ragazza dal volto dolce e attraente.

“Ti assicuro che non c’è nulla di più prezioso di due persone che si amano” disse.

Si misero ad aspettare il terzo amico.

Molti anni passarono prima che questi arrivasse. Era infatti partito alla ricerca di Dio. Aveva consultato i più celebrati maestri di tutte le contrade, ma non aveva trovato Dio: Aveva studiato e letto, ma senza trovare Dio. Aveva rinunciato a tutto, ma Dio non lo aveva trovato.

Un giorno, spossato per tanto girovagare, si abbandonò nell’erba sulla riva di un lago. Incuriosito seguì le affannate manovre di un’anatra che in mezzo ai canneti cercava i piccoli che si erano allontanati da lei. I piccoli erano numerosi e vivaci, e sino al calar del sole l’anatra cercò, nuotando senza posa tra i canneti, finché non ebbe ricondotto sotto la sua ala l’ultimo dei suoi nati.

Allora l’uomo sorrise e fece ritorno al paese.

Quando gli amici lo videro, uno gli mostrò la gemma e l’altro la ragazza che era diventata sua moglie, poi pieni di attesa gli chiesero: “ E tu, cos’hai trovato di prezioso? Qualcosa di magnifico, se hai impiegato tanti anni: Lo vediamo dal tuo sorriso…”.

“Ho cercato Dio”- rispose il terzo giovane.

“E lo hai trovato?” chiesero i due, sbalorditi.

“Ho scoperto che era Lui che cercava me…”

(B. Ferrero, La vita è tutto quello che abbiamo, Leumann, Elle Di Ci, 2004).

 

Ho cercato Dio

 

Ho cercato Dio

con la mia lampada così brillante

che tutti me la invidiavano.

Ho cercato Dio negli altri.

Ho cercato Dio nelle piccolissime tane dei topi.

Ho cercato Dio nelle biblioteche.

Ho cercato Dio nelle università.

Ho cercato Dio col telescopio e con microscopio.

Finché mi accorsi che avevo dimenticato quello che cercavo.

Allora, spegnendo la mia lampada,

gettai le chiavi, e mi misi a piangere…

e subito, la Sua Luce fu in me…

(Angelus Silesius).

 

La sete di Dio

 

Un discepolo andò dal suo maestro e gli disse: «Maestro, voglio trovare Dio». E il maestro sorrise. E siccome faceva molto caldo, invitò il giovane ad accompagnarlo a fare un bagno nel fiume. Il giovane si tuffò e il maestro fece altrettanto. Poi lo raggiunse e lo agguantò, tenendolo a viva forza sottacqua. Il giovane si dibattè alcuni istanti, finché il maestro lo lasciò tornare a galla. Quindi gli chiese che cosa avesse desiderato di più mentre si trovava sott’acqua. Il discepolo rispose: «L’aria, evidentemente». «Desideri Dio allo stesso modo e la sua parola allo stesso modo?» gli chiese il maestro. «Se lo desideri così, non mancherai di trovare lui e la sua parola. Ma se non hai in te questa sete ardentissima, a nulla ti gioveranno i tuoi sforzi e i tuoi libri. Non potrai trovare la fede se tu non la desideri come l’aria per respirare».

(Racconto dei Padri del Deserto).

 

Tardi ti ho amato

 

Tardi ti ho amato,

Bellezza tanto antica e tanto nuova;

tardi ti ho amato!

Tu eri dentro di me, e io stavo fuori,

ti cercavo qui, gettandomi, deforme,

sulle belle forme delle tue creature.

Tu eri con me, ma io non ero con te.

Mi tenevano lontano da te le creature

che, pure, se non esistessero in te,

non esisterebbero per niente.

Tu mi hai chiamato

e il tuo grido ha vinto la mia sordità;

hai brillato,

e la tua luce ha vinto la mia cecità;

hai diffuso il tuo profumo,

e io l’ho respirato, e ora anelo a te;

ti ho gustato,

e ora ho fame e sete di te;

mi hai toccato,

e ora ardo dal desiderio della tua pace.

(Agostino d’Ippona, Le Confessioni, 10,27). 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)

«Non abbiate paura!», Papa Francesco ricorda l’appello di Giovanni Paolo II

“Esattamente trentotto anni fa, quasi a quest’ora, in questa piazza – ha detto papa Francesco al termine della catechesi del sabato in piazza San Pietro – risuonavano le parole rivolte agli uomini di tutto il mondo: “Non abbiate paura! (…) Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo”. “Queste parole le ha pronunciate all’inizio del suo pontificato, Giovanni Paolo II, Papa di profonda spiritualità, plasmata dalla millenaria eredità della storia e della cultura polacca trasmessa nello spirito di fede, di generazione in generazione” ha aggiunto. “Quest’invito – ha scandito Francesco – si è trasformato in un’incessante proclamazione del Vangelo della misericordia per il mondo e per l’uomo, la cui continuazione è quest’Anno Giubilare”. “La sua coerente testimonianza di fede – ha detto ancora Papa dopo aver ringraziato i fedeli di nazionalità polacca presenti in piazza San Pietro per l’accoglienza ricevuta quest’estate in occasione della Gmg di Cracovia – sia un insegnamento per voi, cari giovani, ad affrontare le sfide della vita; alla luce del suo insegnamento, cari ammalati, abbracciate con speranza la croce della malattia; invocate la sua celeste intercessione, cari sposi novelli, perché nella vostra nuova famiglia non manchi mai l’amore”. Il dialogo è un “aspetto molto importante della misericordia”, “espressione di carità, perché, pur non ignorando le differenze, può aiutare a ricercare e condividere il bene comune”. Questo il fulcro della catechesi giubilare di questa mattina tenuta da Papa Francesco in una piazza San Pietro gremita da oltre 100mila persone. Bergoglio è partito dall’incontro di Gesù con la samaritana, narrato nel Vangelo di Giovanni (4,6-15), sottolineando “il dialogo molto serrato tra la donna e Gesù”. “Il dialogo – ha affermato – permette alle persone di conoscersi e di comprendere le esigenze gli uni degli altri. Anzitutto, esso è un segno di grande rispetto, perché pone le persone in atteggiamento di ascolto e nella condizione di recepire gli aspetti migliori dell’interlocutore”. In secondo luogo è “espressione di carità”; inoltre, “c’invita a porci dinanzi all’altro vedendolo come un dono di Dio”. “Quante volte stiamo ascoltando uno – ha osservato – e lo fermiamo”, “non lasciamo che finisca di spiegare quello che vuol dire”: non è dialogo, questo, ma “aggressione”. Dialogare aiuta le persone a umanizzare i rapporti e a superare le incomprensioni”, ha aggiunto Bergoglio, esortando al dialogo in famiglia, “tra marito e moglie, e tra genitori e figli”, come pure “tra gli insegnanti e i loro alunni; oppure tra dirigenti e operai, per scoprire le esigenze migliori del lavoro”. “Dialogare è ascoltare quello che mi dice l’altro e dire con mitezza quello che penso io. Se le cose vanno così la famiglia, il quartiere, il posto di lavoro saranno migliori, ma se io non lascio che l’altro dica tutto quello che ha nel cuore, comincio a urlare – e oggi si urla tanto – non avrà buon fine questo rapporto tra noi”. “Ascoltare, spiegare, parlare con mitezza, non abbaiare all’altro, non urlare, avere il cuore aperto”: questi i termini che Francesco ha ribadito, alzando lo sguardo dal testo della catechesi e rimarcandoli a braccio. “Gesù – ha evidenziato – ben conosceva quello che c’era nel cuore della samaritana, una grande peccatrice. Ciononostante non le ha negato di potersi esprimere, l’ha lasciata parlare fino alla fine, ed è entrato poco alla volta nel mistero della sua vita. Questo insegnamento vale anche per noi”. La Chiesa vive del dialogo “con gli uomini e le donne di ogni tempo, per comprendere le necessità che sono nel cuore di ogni persona e per contribuire alla realizzazione del bene comune” ha detto ancora Papa Francesco, nell’udienza giubilare odierna, facendo riferimento in particolare “al grande dono del creato e alla responsabilità che tutti abbiamo di salvaguardare la nostra casa comune” (“il dialogo su un tema così centrale è un’esigenza ineludibile”), nonché “al dialogo tra le religioni, e per contribuire alla costruzione della pace e di una rete di rispetto e di fraternità”.“Il dialogo abbatte i muri delle divisioni e delle incomprensioni; crea ponti di comunicazione e non consente che alcuno si isoli, rinchiudendosi nel proprio piccolo mondo” ha detto ancora il Pontefice.

Giornata per la vita 2017: il Messaggio

“Donne e uomini per la vita nel solco di Santa Teresa di Calcutta”. Questo il titolo del Messaggio del Consiglio Permanente per la 39ª Giornata Nazionale per la vita, che sarà celebrata domenica 5 febbraio 2017.
“La Santa degli ultimi di Calcutta – affermano i Vescovi – ci insegna ad accogliere il grido di Gesù in croce. Com’è bello sognare con le nuove generazioni una Chiesa e un Paese capaci di apprezzare e sostenere storie di amore esemplari e umanissime, aperte a ogni vita, accolta come dono sacro di Dio anche quando al suo tramonto va incontro ad atroci sofferenze; solchi fecondi e accoglienti verso tutti, residenti e immigrati”.
“Educare alla vita –si legge ancora nel Messaggio – significa entrare in una rivoluzione civile che guarisce dalla cultura dello scarto, dalla logica della denatalità, dal crollo demografico, favorendo la difesa di ogni persona umana dallo sbocciare della vita fino al suo termine naturale”.
 
In allegato il testo completo del Messaggio.
 

Povertà ed esclusione: Rapporto Caritas

In Italia − secondo i dati Istat − vivono in uno stato di povertà 1 milione 582 mila famiglie, un totale di quasi 4,6 milioni di individui. È disponibile on-line da lunedì 17 ottobre, Giornata internazionale contro la povertà, il Rapporto 2016 di Caritas Italiana su povertà ed esclusione sociale dal titolo “Vasi comunicanti”, che affronta questi temi allargando il proprio sguardo oltre i confini nazionali, cercando di descrivere le forti interconnessioni che esistono tra la situazione italiana e quel che accade alle sue porte.
Come per le precedenti edizioni – questa è la quindicesima – il Rapporto è frutto dell’analisi dei dati e delle esperienze quotidiane delle oltre duecento Caritas diocesane operanti su tutto il territorio nazionale, aggiornati al 2016.
Un focus particolare è stato dedicato all’analisi dei dati contenuti in vari rapporti di ricerca, prodotti da organismi internazionali e Caritas europee. Tra i documenti citati: il rapporto Global Trends dell’UNHCR, il rapporto del Secours Catholique (Caritas Francia) sulla tratta di esseri umani in situazioni di conflitto e post-conflitto (tradotto per l’occasione da Caritas Italiana), il rapporto Migrants and refugees have rights di Caritas Europa, il rapporto di ricerca di Caritas Italiana e UniSalento sui Neet Nel paese dei Neet, l’Atlante Sprar 2015 del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.
 

 
Il Rapporto “Vasi Comunicanti” segue in ordine di tempo e si collega a “Non fermiamo la riforma”, il Rapporto sulle politiche contro la povertà in Italia pubblicato la scorsa settimana.

Storia della catechesi

Il volume si pone in continuità con il testo di P. Braido, Storia della catechesi, vol. 3: Dal «tempo delle riforme» all’età degli imperialismi, Roma, LAS 2015, pubblicato in questa stessa collana, venendo a costituire il quarto contributo ad una storia che intende presentare i principali momenti della catechesi e dei catechismi dalle origini fino al Concilio Vaticano II. In effetti, le pagine del presente testo prendono le mosse là dove si è fermato lo studio del Braido, e cioè agli anni del Vaticano I, per proseguire l’analisi della vicenda catechistica fino al Vaticano II.

Più specificamente e più modestamente, però, il volume non affronta tutta la storia della catechesi tra i due Concili: si limita a trattare del movimento catechistico che, analogamente a quanto si registra nella Chiesa per altri moti di rinnovamento coevi, prende a svilupparsi lentamente nelle ultime decadi dell’Ottocento per diffondersi sempre di più, fino a trovare la sua approvazione e il suo rilancio “ufficiale” con il Vaticano II.

Tale movimento si impegna a migliorare una plurisecolare proposta catechistica che in genere ruota intorno al catechismo, inteso come cura dell’apprendimento mnemonico di verità espresse teologicamente sotto forma di domande e risposte in un libretto che è di “dottrina”. Il primo passo del rinnovamento conduce, nel rispetto delle leggi della psico-pedagogia, ad un miglioramento del metodo dell’insegnamento catechistico; il che permette di passare dalla semplice conoscenza della dottrina alla sua comprensione e valorizzazione in funzione dell’educazione cristiana. Sopitasi con gli anni Trenta del Novecento la preoccupazione metodologica, il movimento in esame compie un secondo e decisivo passo, rinnovando in chiave biblica e liturgica il contenuto del catechismo. Questa scelta troverà la sua massima condivisione proprio alla vigilia del Vaticano II quando, però, già si manifesteranno i primi segni anticipatori di quell’ulteriore passo che segnerà in termini nettissimi la catechesi postconciliare: la spiccata attenzione all’uomo e alla sua esperienza, origine della ben nota catechesi “esperienziale”.

Il testo tenta una ricostruzione di questa vicenda avendo cura di tratteggiarne le cause e i diversi contesti e condizionamenti, intra ed extra-ecclesiali, la cui conoscenza è indispensabile per una migliore comprensione degli eventi.

Il principale criterio seguito, tra i tanti possibili, è quello geografico, a partire necessariamente dall’Europa e da quelle Chiese che, quivi, hanno svolto un ruolo pionieristico e maggiormente influente a livello ecclesiale. Lo studio, però, osa spingersi anche fuori Europa e ricercare tracce del movimento esaminato anche nel resto della Chiesa: ovviamente, è fin troppo evidente che a questo punto l’indagine si esaurisce in un semplicissimo sondaggio, ugualmente tentato ad incoraggiamento di quanti intendessero approfondire la ricerca a livello delle diverse Chiese locali.

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)Prima lettura:Siracide 35,15-17.20-22

Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.

                                    

 

Il libro del «Siracide» (detto così dal nome del suo autore Gesù Ben Sirach) fa parte non del canone ebraico, ma della bibbia greca. Fu scritto in ebraico (se ne sono trovati frammenti in una grotta di Qumran), ma è arrivato a noi nella traduzione greca, che risale agli inizi del II secolo avanti Cristo. Non siamo lontanissimi dall’epoca del N.T., ed il pensiero sapienziale di Israele si esprime in un’opera di grande maturità.

     Il cap. 35 rappresenta una profonda meditazione sapienziale sul senso del culto, ma anche una sua relativizzazione. Da una parte si esalta la bontà delle offerte e dei sacrifici (vv. 1-10), dall’altra parte si ribadisce che Dio non si lascia corrompere da vittime ingiuste e preferisce le preghiere povere ma sincere degli umili (vv. 11-24). È da questa seconda sezione del cap. 35 che sono attinti i versetti di cui si compone la nostra lettura.

     Annotazioni esegetiche

     — «Il Signore è giudice…» (v. 12). Alla pretesa, o illusione, di valersi delle offerte cultuali per «corrompere» Dio (si legga il v. 11), questo v. 12 costituisce una risposta chiara: il Signore è al di sopra dei doni che gli offriamo come giudice imparziale. Vana è l’illusione dell’uomo religioso di poter tirare Dio dalla propria parte semplicemente offrendo gli omaggi.

     — «Ascolta la preghiera dell’oppresso» (vv. 13-14). L’oppresso, la vedova e l’orfano sono — nell’ambito sociale — coloro che non hanno alcun peso, perché privi di sostegni e di possibilità economiche: è gente che non conta, alla quale nessuno dà importanza. A differenza delle autorità romane, è proprio a costoro che Dio rivolge la propria attenzione quando esprimono la loro infelicità («lamento»).

     — «La sua preghiera arriva fino alle nubi » (v. 17). L’efficacia della preghiera (penetrare le nubi significa giungere al cielo, ossia presso Dio, ottenendo ciò che chiede) è proprio nella debolezza di chi la fa, o meglio nella consapevolezza di tale debolezza («umiltà»). Qui si crea un importante legame col Vangelo di oggi.

     —«Abbia reso soddisfazione ai giusti» (v. 22). I «giusti» si identificano qui chiaramente con coloro che si riconoscono deboli e confidano unicamente nella protezione di Dio. Proprio perché fiduciosa, tale preghiera «non desiste» e finisce con l’ottenere da Dio il ristabilimento di un’equità che i criteri umani hanno ignorato o sovvertito cioè: i deboli e gli umili trovano davanti a Dio quel favore che gli uomini negano loro.

 

Seconda lettura:2Timoteo 4,6-8.16-18

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.  Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen

 

 

La situazione in cui viene scritta questa seconda lettera a Timoteo è quella della prigionia romana. Paolo scrive alla vigilia della sua morte, per cui questa lettera al caro discepolo assume il tono del testamento spirituale. Nella parte finale di questo testamento (4,6-18) si aprono le prospettive future accompagnate dalle ultime istruzioni dell’Apostolo a Timoteo. La nostra lettura fa parte di questa sezione. Anche se (come tendono ad affermare molti critici) questa lettera è da attribuire non a Paolo, ma ad un suo discepolo o epigono, ritroviamo comunque le idee-madri e la testimonianza sostanziale dell’Apostolo, segno che la sua paternità spirituale ha profondamente segnato la tradizione paolina successiva.

     Appunti esegetici. – Proponiamo di concentrare la nostra attenzione sulle immagini che vengono usate per descrivere la realtà presente vissuta dall’Apostolo e applicabile alla realtà di ogni credente.

     a) La vita dell’Apostolo, che giunge verso la conclusione, è paragonata:                                                           

     — con immagini atletiche, a una corsa tesa ad un traguardo («ho terminato» v. 7), ma anche in attesa di un premio («corona», v. 8), non da fruire personalmente ma da condividere con quanti hanno preso parte alla corsa (v. 8);

     — con immagini strategiche: la vita del credente è battaglia buona e nobile, bella (kalos), per cui vale la pena combattere (v. 6);

     — con metafora sacrificale: la vita giunge alla morte non come a epilogo oscuro ma come vittima il cui sangue si spande in libagione, è momento prezioso, al cospetto di Dio ed in favore degli uomini (propiziazione) (v. 6);

     — con immagine marinara, la morte è come «sciogliere le vele», salpare per un lungo viaggio; non è fine, ma inizio.

     b) Il rapporto dell’Apostolo con il Signore si configura come rapporto tra imputato e avvocato difensore. Il ruolo di questo difensore assume però dimensioni più vaste di quelle di un difensore giuridico. Sottolineiamo tre dimensioni teologiche: la prima, di liberazione dal nemico («dalla bocca del leone», v. 17: cf. Dan 6,17); la seconda, di potenza evangelizzatrice, per cui la forza di Dio si traduce in proclamazione e annunzio del Vangelo a tutti i pagani; la terza è di liberazione e salvezza escatologica: «nel suo regno» (v. 18).

     Mediante queste ricche immagini, la vita, l’apostolato e la stessa morte di Paolo vengono trasfigurate alla luce di Dio, assumendo un valore molto più grande e teologico di quello che appare ad un semplice osservatore umano delle cose.

 

Vangelo: Luca 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.  Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

 

Esegesi 

     All’inizio del cap. 18 del Vangelo di Luca leggiamo due parabole riguardanti la preghiera. Ciascuna delle due parabole mette in luce le caratteristiche particolari della preghiera cristiana: la continuità incessante (parabola del giudice iniquo e della vedova, vv. 1-8; Vangelo letto la domenica scorsa) e l’umiltà (il fariseo e il pubblicano, vv. 9-14, Vangelo odierno). Il dittico delle due parabole va preso nel suo insieme: la preghiera incessante dev’essere caratterizzata da grande umiltà; la preghiera umile va continuata con perseveranza e insistenza.

     Annotazioni esegetico-teologiche

     Come ogni parabola, anche in questa abbiamo due storie o situazioni: l’una fittizia (due uomini salirono al tempio…), l’altra reale (alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri). La parabola raggiunge il suo scopo quando la situazione fittizia si «trasferisce» (para-ballo, in greco significa appunto «trasferire») a quella reale, sicché il superbo che disprezza gli altri si riconosce nel fariseo che si esalta e viene umiliato.

     — «L’intima presunzione di essere giusti» (v. 9), «giusto» è l’uomo che si mette in sintonia con la «giustizia» di Dio, ossia con la sua santità e volontà di salvezza. La «giustizia» dei farisei, pur basandosi essenzialmente su opere buone (elemosina, preghiera e digiuno, cf. Mt 6,2-18) era inficiata da due deviazioni di base: prima, la pretesa di essere giusti in base ai propri meriti, seconda, l’esibizionismo che mentre li portava a «ritenersi» giusti davanti agli uomini (Lc 16,15), suscitava in loro disprezzo per gli altri.

     Uno era fariseo e l’altro pubblicano (vv. 10-13). I due tipi di oranti sono scelti intenzionalmente, per preparare l’effetto della parabola. In comune essi hanno l’intenzione (pregare) e lo spazio (il tempio). La differenza è nell’atteggiamento e nel contenuto della preghiera:

     a) l’atteggiamento di ognuno esprime il rispettivo modo di porsi di fronte a Dio presente nel tempio:

     — il fariseo sta in piedi (così come si prega nel tempio) e inizia con un solenne atto di ringraziamento. In un certo senso egli rappresenta l’ideale della pietà giudaica;

— il pubblicano non osa avvicinarsi all’altro e levare lo sguardo al cielo, perché è consapevole della propria miseria e del proprio peccato.

Secondo la concezione comune dei giudei, per un pubblicano non c’era salvezza: sia perché si arricchiva col denaro che esigeva per le tasse, sia perché collaboratore delle forze romane, e quindi dei pagani, ponendosi contro il popolo. Il battersi il petto esprime non solo la coscienza che egli ha della propria situazione religiosamente disperata, ma anche e soprattutto il desiderio di cambiare la vita, e dunque di penitenza.

     b) Il contenuto della preghiera di ognuno corrisponde esattamente al senso dell’atteggiamento esterno:

     — il fariseo ringrazia Dio sostanzialmente per il fatto di essere un campione di pietà. Oggettivamente le opere in cui si impegna sono lodevoli ed eccellenti: nessuno era obbligato a digiunare se non nel giorno della grande espiazione, mentre egli generosamente lo fa due volte alla settimana, e chiaramente lo fa per espiare non i suoi, ma i peccati degli altri; inoltre, mentre era tenuto, a rigore, a pagare le decime solo dei principali frutti della terra (Dt 12,17ss), egli supera abbondantemente questo limite, pagando le decime di tutta la sua proprietà. Non si tratta di una caricatura, come spesso si dice: realmente il fariseo incarna l’ideale di colui che adempie le opere più fulgide della pietà giudaica. Ma a tale consapevolezza si accompagna il disprezzo degli altri (v. 11) e quindi manifesta la sua sufficienza davanti a Dio e l’orgoglio di fronte agli altri uomini, in particolare rispetto al pubblicano;

     — il pubblicano non ha nessun merito da esibire; ha solo la chiara consapevolezza del suo peccato, e la esprime con le parole del Sal 51,1: Abbi misericordia di me o Dio. Siamo agli antipodi della chiara coscienza che ha il fariseo della sua percezione spirituale.

     — «Io vi dico…» (v. 14). Il giudizio di Gesù interviene con pesante autorità («io vi dico») a capovolgere lo schema delineatosi con le due preghiere. Iniziando dal secondo, anziché dal primo, Gesù ha già introdotto il ribaltamento: costui ritorna a casa «giustificato», ovvero: Dio ha esaudito la sua preghiera e quindi ha perdonato il suo peccato; mentre l’altro (il fariseo) malgrado i grandi suoi meriti non lo è, cioè rimane col peso del suo peccato davanti a Dio. In questo modo Gesù infierisce un duro colpo alla presunzione di quel fariseo, e quindi alla concezione «ufficiale» che gli esponenti del giudaismo avevano della religiosità. La vera religiosità non è legata al peso delle opere, non stabilisce confronti con gli altri, ma si pone unicamente davanti al giudizio di Dio, dal quale implora misericordia. D’altra parte, Gesù mette in chiaro il perché del suo atteggiamento benevolo e accogliente rispetto a due grandi gruppi di peccatori pubblici: gli esattori delle tasse e le prostitute.
 

L’immagine della domenica

 

Nessuno possiede quello che ho io!

 

Chiesi a Dio di essere forte

per eseguire progetti grandiosi:

Egli mi rese debole

per conservarmi nell’umiltà.

 

Domandai a Dio

che mi desse la salute

per realizzare grandi imprese:

Egli mi ha dato il dolore

per comprenderla meglio.

 

Gli domandai la ricchezza

per possedere tutto:

mi ha fatto povero

per non essere egoista.

 

 

 

 

Gli domandai il potere

perché gli uomini avessero bisogno di me:

Egli mi ha dato l’umiliazione

perché io avessi bisogno di loro.

 

Domandai a Dio tutto per godere la vita:

mi ha lasciato la vita

perché potessi apprezzare tutto.

 

Signore, non ho ricevuto niente

di quello che chiedevo,

ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno

e quasi contro la mia volontà.

 

Le preghiere che non feci furono esaudite.

 

Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini

nessuno possiede quello che ho io!

 

Meditazione 

Preghiera e autenticità: questo il rapporto posto in luce dal brano dell’Antico Testamento e dal Vangelo. Il Signore gradisce la preghiera del bisognoso e dell’oppresso (I lettura) e accoglie la preghiera del pubblicano che si proclama peccatore davanti a lui (vangelo).

Vi e una fiducia in se stessi, un credersi giusti, che rende non accetta la preghiera del fariseo al tempio (Lc 18,14), così come vi è la possibilità di un culto che è solo una farsa, una burla, perché commisto a ingiustizia e empietà (cfr. Sir 34,18-19; 35,11). Nella preghiera si riflette e si svela l’autenticità o la falsità di ciò che si vive.

La preghiera dei due uomini al tempio, così vicini e così lontani al tempo stesso, ci pone la questione di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo, in una liturgia. È possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e dal disprezzo («non sono come gli altri uomini,….. e neppure come questo pubblicano»: Lc 18,11). L’autenticità della preghiera, dell’offerta fatta al Signore nel culto, passa attraverso la qualità buona delle relazioni con i fratelli che pregano con me e che formano con me il corpo di Cristo.

Nella preghiera emerge anche quale sia la nostra immagine di Dio e la nostra immagine di noi stessi. Il fariseo prega «rivolto a se stesso» (pròs heautòn: Lc 18,11 ) e la sua preghiera sembra dominata dal suo ego. Egli formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia non per ciò che Dio ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così completamente sconvolto: il suo «io» si sostituisce a «Dio». La sua preghiera è in realtà un elenco delle sue prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere «come gli altri uomini» (Lc 18,11 ). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio e gli impedisce di vedere come un fratello colui che prega accanto a lui. La sua è la preghiera di chi si sente a posto con Dio: Dio non può che confermarlo in ciò che è e fa. È un Dio che non gli chiede alcun cambiamento e conversione perché tutto ciò che egli fa, va bene. Il fatto che lo sguardo di Dio non gradisca la sua preghiera (Lc 18,14: «questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato») smentisce la sua presunzione, ma afferma anche che noi possiamo pregare con ipocrisia e continuare a pregare senza pervenire ad autenticità e verità.

La differenza di atteggiamento dei due uomini è visibile anche dalla postura del corpo da loro assunta: il fariseo esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro, stando in piedi, a fronte alta, mentre il pubblicano esprime la sua contrizione stando a distanza, quasi intimorito, a testa bassa, e battendosi il petto. Sempre noi preghiamo con il corpo e le posture del corpo rivelano la qualità della relazione con il Signore e il senso (o meno) del nostro stare alla sua presenza.

La preghiera richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Umiltà non è falsa modestia, non equivale a un io minimo, ma è autenticità, verità personale. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità; dove c’è orgoglio, c’è senso di superiorità e disprezzo degli altri.                                          

Nella preghiera noi facciamo riferimento a immagini di Dio, ma il cammino della preghiera altro non è che un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dal Cristo crocifisso, vera immagine rivelata di Dio che contesta tutte le immagini mano fatte del divino.

L’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili: egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo (la contabilità delle azioni meritorie) e che richiede il distacco dagli altri.

Preghiere e racconti 

L’elemosina della santità

«Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…”» (Lc 18, 9-14).

Mettendo in scena il primo personaggio, Gesù vuole denunciare due disposizioni sbagliate e opposte al comportamento evangelico: la presunzione di essere giusti di fronte a Dio e il sentirsi superiori agli altri tanto da disprezzarli. I due atteggiamenti sono legati e il secondo dipende dal primo.

Lc 18,11 andrebbe meglio reso in italiano così: «Il fariseo stando ritto presso se stesso, queste cose pregava…». Il fariseo, dunque, è tutto preso di sé, è rivolto non a Dio ma a se stesso, recita delle parole pensando di pregare ma in realtà fa un autoelogio.

Il fariseo presume di sé ed è sicuro della propria santità, si presenta così quale giudice zelante e spietato nei confronti del suo prossimo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini… e neppure come questo pubblicano» (Lc 18, 11).

Il pubblicano, invece, non si preoccupa di quello che gli altri sono e fanno; è lontano dalla sua mente il giudicare il fariseo o altri. Egli è consapevole dei suoi tradimenti e delle sue colpe e non tenta di mascherarli davanti a Dio: «Stando a molta distanza non voleva neppure alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto dicendo: “O Dio, fai elemosina a me peccatore”» (Lc 18, 13). Si presenta con quelle che dovrebbe essere la  «carta d’identità» di ogni cristiano: peccatore!

      La parabola presenta due atteggiamenti di preghiera, ma poi finisce con il descrivere due modi di vivere. La preghiera così rivela la vita dei due personaggi. Di conseguenza ciò che va corretto non è la preghiera ma l’idea che si ha di Dio, di se stessi e del prossimo. Il fariseo e il pubblicano incarnano un modo diverso di porsi di fronte a Dio e agli altri, un modo opposto di guardare a se stessi, un modo opposto di concepire la santità.

Parole senza preghiera… la perfezione del presuntuoso

II fariseo entra nel tempio e rimane «in piedi»: è sicuro e fiero di sé. Formula una preghiera di ringraziamento a Dio non per i doni ricevuti, non per la vita o la fede; ma perché non è come gli altri. Egli si «distingue» per il suo impegno e avanza dei meriti dinanzi a Dio: «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,12). È più che scrupoloso nell’osservare i suoi doveri religiosi. La sua «santità» sarebbe frutto unicamente del suo sforzo e del suo impegno. Ma in fondo il fariseo dice la verità, perché è vero che osserva fedelmente la legge e fa grandi sacrifici; è vero che il suo zelo lo spinge a fare più di quanto la legge richiede: non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come era prescritto, ma due. Che cosa allora non va nella sua vita? Perché la sua preghiera non è gradita a Dio?

 Tutto il suo impegno lo ha realmente portato all’autorealizzazione nella santità? Il «difetto» del fariseo non è l’ipocrisia, ma il riporre la fiducia unicamente in se stesso. La sua preghiera è un monologo: «Stando ritto presso se stesso queste cose pregava… » (Lc 18, 11). Egli sta «in piedi», non ha nulla da chiedere a Dio, anzi ritiene che Dio debba qualcosa a lui: nella sua preghiera non chiede misericordia, non aspetta il dono della salvezza, ma attende da Dio il premio che gli è dovuto per il bene fatto. Nel suo monologo orante esordisce dicendo: «O Dio, ti ringrazio… »: fa risalire in un certo modo la sua santità a Dio. Ma questa originaria consapevolezza di dipendenza da Dio per la sua autorealizzazione si perde lungo la strada, perché il suo sguardo è tutto ripiegato in se stesso. La sua santità non deriva da Dio e il suo modo di giudicare con disprezzo il prossimo non ha nulla a che vedere con la preghiera: è solo un autocompiacimento.

Uscirà come era entrato: con il suo orgoglio, il suo disprezzo, per gli altri, la sua presunta santità… Nella Casa di Dio era entrato da «santo», ne esce da fallito!

II coraggio di piegarsi… l’umiltà del peccatore

Il pubblicano, ebreo «rinnegato», è iscritto nell’elenco ufficiale dei «senza Dio» insieme ai ladri, alle prostitute e agli adulteri. Consapevole che la sua vita è in forte dissonanza con la fede e la santità, «stando a molta distanza, non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto…» (Lc 18, 13). Entra nel tempio con la coscienza di porre dinanzi a Dio tutta la sua vita, senza maschere e in tutta la sua nudità. Il suo atteggiamento di preghiera è esattamente opposto a quello del fariseo. La sua preghiera non è un monologo ma un dialogo; egli non parla a se stesso ma a Dio: «O Dio, fai elemosina a me peccatore». Dice la verità: è peccatore! A Dio presenta con coraggio la sua carta di identità e, cosciente della sua fragilità, piega le ginocchia, tiene abbassato lo sguardo perché si vergogna di se stesso, resta in fondo al tempio perché non osa avvicinarsi alla santità di Dio.

La sua umiltà, tuttavia, non consiste nell’abbassarsi perché egli è realmente ciò che dice di essere, ma nel coraggio di presentarsi con verità a Dio e a se stesso, così com’è. Al coraggio unisce il bisogno di cambiamento, consapevole di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla di cui vantarsi e non ha nulla da esigere. Può solo chiedere: «O Dio, fai elemosina a me», in greco: ilàstheti moi! Chiede l’elemosina di Dio, implora cioè il chinarsi misericordioso del Signore sulla sua fragilità, sul suo essere peccatore. E si rimette a Lui, si affida completamente allo sguardo compassionevole di Dio, non a se stesso. È questa l’umiltà, è questo l’atteggiamento che Gesù loda. Nella Casa di Dio era entrato da peccatore, ne esce da santo!

Cogliersi dallo sguardo di Dio

Gesù non elogia la vita del pubblicano e non disprezza le opere del fariseo; apprezza la verità con la quale il pubblicano si pone dinanzi a Dio e a se stesso; del fariseo condanna l’atteggiamento orgoglioso e arrogante e l’inutilità della sua vuota preghiera.

L’unico modo di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è essere se stessi nella coscienza della propria fragile creaturalità… liberata e redenta e perciò bella! Il fariseo considera la sua santità come frutto del suo impegno e non come dono di Dio; è lontana dalla sua mentalità di misericordia e la «prossimità» con chi è diverso da lui, con il pubblicano.

Gesù non rimprovera perciò il fariseo di ipocrisia, ma evidenzia che è sbagliato l’intero suo modo di rapportarsi a Dio: «Disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18, 9). Gesù smaschera nel fariseo la sua «radice inquinata», il sistema religioso del quale è intriso e non una semplice incoerenza. La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano: non sono le sue opere ad essere contestate ma egli stesso e il suo modo di essere.

L’errore sta nel guardare a Dio alla luce delle proprie opere. Per Gesù invece è importante e necessario che l’uomo guardi a se stesso a partire da Dio, che l’uomo impari a cogliersi dallo sguardo di Dio e ad essere «vero» di fronte a Lui. «Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18, 14); la «giustificazione» è permettere a Dio di farci dono del suo perdono, lasciare che Dio ci ami così come siamo, senza paura e senza infingimenti. E allora la fragilità umiliata si trasforma in forza e coraggio, ci rimette nuovamente in strada da santi verso la pienezza della vita, «perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).

Santi perché peccatori

La lezione della parabola è stata molto chiara. La santità è iscritta nella nostra creaturalità, ci restituisce al nostro essere uomini. La santità, però, inizia dove finisce l’umana presunzione perché è riconoscimento, accoglienza e offerta di ciò che si è: peccatori! È questa la nostra carta d’identità, questa la coscienza della nostra creaturalità esposta al bacio della graziosa tenerezza di Dio. Possiamo allora dire che noi siamo santi perché peccatori. Chi non ha la profonda consapevolezza di essere peccatore non potrà mai essere santo!

(M. RUSSOTTO, Santità come autorealizzazione? Spunti di riflessione in compagnia della Parola, in CISM, La relazione con Dio: fondamento dell’autorealizzazione del vivere con i fratelli, della passione apostolica. «Protesi verso il futuro» (Fil 3,12)… per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003, 55-59).

Preghiera e valutazione degli altri

La valutazione degli altri, ecco l’altro parametro che bisogna accettare per riscoprirsi. Specie se quest’altro è Dio e per lui Cristo.

Un giorno si presentano al tempio per pregare un fariseo ed un pubblicano. Il primo prega cosi: “Dio, ti ringrazio che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, oppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana, pago la decima di tutto ciò che acquisto”. L’altro invece: “Dio, sii clemente al peccatore che io sono”. Gesù sentenzia: “Vi dico, il pubblicano se ne tornò giustificato a casa sua, a differenza dell’altro” (Lc 18,11-14).

Evidentemente il primo si è valutato da sé e lo ha fatto paragonandosi agli altri. E chi è disposto a considerarsi peggiore degli altri? Non giudichiamo forse gli altri con estrema facilità e molto spesso con spietata severità? Il fariseo ha finito con il sopravvalutarsi, con l’essere ingiusto con sé e soprattutto con gli altri; perciò continua Gesù: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Il pubblicano s’è messo di fronte a Dio e ne ha visto l’immensa distanza, l’incolmabile differenza, ha chiesto aiuto ed è stato restituito al suo posto di uomo “giusto”.

Un giorno (scrive Francesco Alberoni) rabbi Jochanan ben Zaccai domandò ai suoi discepoli quale è la retta via da seguire. Elazar gli diede la risposta esatta: “un cuore buono”. Ottima risposta, eppure noi riusciamo a manipolare anche l’intenzione. A poco a poco, attraverso una sottile azione di propaganda su noi stessi, arriviamo a nasconderci i veri motivi della nostra azione: l’ambizione, l’interesse, l’odio, la vendetta. Ci convinciamo di essere mossi soltanto dal desiderio di fare del bene, dall’altruismo. Sartre la chiamava falsa coscienza. Anche il grande inquisitore Torquemada pensava di essere buono, in quanto cercava di salvare l’anima immortale di coloro che condannava al rogo. Qualsiasi virtù è automaticamente distrutta dal compiacimento di possederla.

O Dio, abbi pietà di me, peccatore

«Veglia su di te, dice la Scrittura (Dt 15,9). Credo che colui che ha dato la legge sia ricorso a tale ammonimento anche per sradicare un’altra passione; poiché ciascuno di noi è più facilmente incline a interessarsi delle cose altrui invece che meditare sulle proprie, affinché non abbiamo ad ammalarci di questa malattia, il Signore ci dice: «Smetti di interessarti della cattiveria del tale o del tal altro; non dar tempo ai tuoi pensieri di esaminare le debolezze altrui, ma veglia su di te, cioè volgi l’occhio dell’anima a scrutare tè stesso».

Molti, infatti, secondo la parola del Signore, osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vedono la trave che è nel proprio (cfr. Mt 7,3). Non cessare, dunque, di scrutare te stesso, se vuoi vivere secondo il comandamento. Non stare a guardare fuori di te se ti riesce di trovare qualcosa da rimproverare agli altri, come faceva quel fariseo presuntuoso e vanaglorioso che innalzava se stesso giustificandosi e disprezzava il pubblicano (cfr. Lc 18,10-14); non smettere di esaminare te stesso chiedendoti se hai peccato nei tuoi pensieri o se la tua lingua, più veloce del pensiero, non ha detto qualcosa di troppo, se con le opere delle tue mani non hai compiuto qualcosa al di là delle tue intenzioni. E se trovi nella tua vita un gran numero di peccati – sei uomo e dunque ne troverai di certo – ripeti le parole del pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13).

Veglia su di te. Se godi di grande pace, se i tuoi giorni scorrono felici, queste parole ti saranno utili come un buon consigliere che ti ricorda la realtà delle cose umane. Se invece sei oppresso da vicende avverse, le stesse parole cantate nel cuore ti riusciranno utili per non elevarti orgogliosamente a un’insolenza eccessiva o per non cadere per disperazione in un meschino scoraggiamento».

(BASILIO DI CESAREA, Veglia su di te 5, Bose, 1993, pp. 19-20).

L’umiltà

Un’ulteriore energia dello Spirito è l’abbassamento. Non uso volutamente la parola «umiltà» perché il significato abituale che attribuiamo a quest’ultima comporta una certa dose di autodeterminazione, il che in realtà è un’impressione a posteriori. L’umiltà è una condizione prima di essere un giudizio su noi stessi. È una situazione di abbassamento sulle tracce di Cristo: «Chi si umilia sarà esaltato». Un abbassamento che ha valore solo se è opera dello Spirito santo. È indubbiamente a questo punto che entra in gioco l’obbedienza religiosa, nella misura in cui tale obbedienza consiste nel rimanere sottomessi, soggetti ad altri uomini, per amore del Signore e seguendo il suo esempio.

(Tatto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp. 9-20).

Preghiera

Il fariseo si riteneva giusto perché non uccideva.

Gesù insegna ad amare i propri nemici.

E noi cristiani pensiamo di essere giusti

perché non abbiamo ucciso?

Il fariseo si riteneva giusto perché non commetteva adulterio.

Gesù ci chiede di non guardare la donna altrui con desiderio.

E noi cristiani ci riteniamo giusti

quando commettiamo adulterio di fatto o di desiderio?

Il fariseo si riteneva giusto pur praticando il divorzio.

Gesù insegna che chi ripudia sua moglie e ne sposa un’altra,

commette adulterio contro di lei.

E noi cristiani ci riteniamo giusti perché non abbiamo divorziato?

Il fariseo si riteneva giusto perché giurava e manteneva i giuramenti.

Gesù dice di non giurare affatto.

E noi cristiani ci riteniamo giusti pur giurando e giurando il falso?

Il fariseo si riteneva giusto perché digiunava e pagava le decime.

Gesù dice che quando abbiamo fatto tutto, siamo servi inutili.

E noi cristiani crediamo di essere giusti perché osserviamo le leggi?

La preghiera del fariseo

non fu accetta a Dio perché stimò e lodò se stesso,

non si ritenne peccatore,

non chiese perdono a Dio,

tornò a casa non giustificato.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pe

PER L’APPROFONDIMENTO:

 

 

Media sulla strada del cuore

«Raccontare l’accoglienza » è stato il tema al centro del seminario di aggiornamento per operatori dei media cattolici locali ospitato come ogni anno dalla Sicilia. Organizzata dalla delegazione regionale della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), l’edizione 2016 è stata ospitata dal periodico diocesano di Noto (Siracusa) La vita diocesana e pensato assieme all’Ucsi (Unione cattolica […]
4 ottobre 2016
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«Raccontare l’accoglienza » è stato il tema al centro del seminario di aggiornamento per operatori dei media cattolici locali ospitato come ogni anno dalla Sicilia. Organizzata dalla delegazione regionale della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), l’edizione 2016 è stata ospitata dal periodico diocesano di Noto (Siracusa) La vita diocesana e pensato assieme all’Ucsi (Unione cattolica stampa italiana). Una tre giorni fittissima di appuntamenti e confronti che ha messo in luce la ricchezza delle esperienze messe in campo dalla Chiesa non solo nei riguardi di chi giunge sulle coste siciliane proveniente dall’Africa o dal Vicino Oriente ma anche le storie di chi si fa prossimo nei territori più difficili del pianeta. Ci si è interrogati, ancora una volta, sul futuro della stampa insidiata dallo strapotere della rete: un dilemma irrisolto e di fronte al quale i giornali Fisc si confrontano da lungo tempo e con Internet si rapportano ogni giorno. Una presenza nuova, non più confinata nell’uscita settimanale cartacea ma che si inserisce nel flusso continuo delle informazioni, e che conferma la volontà di essere presenti anche nel mondo digitale.

Se i flussi migratori interpellano le coscienze di tutti e spesso mettono anche in difficoltà dinanzi alla domanda di asilo e di ospitalità che arriva da chi fugge dalle guerre, dalla povertà, dalla desertificazione, non di meno il continente digitale impone riflessioni e un rinnovato modo di approcciarsi tra persone e con il mondo dei media.

L’importante – com’è stato ribadito anche a Noto – è avere coscienza di essere portatori di un messaggio di valore e di speranza per l’uomo di oggi. Un contenuto che rimane invariato per la sua decisività ma che potrà trovare forme rinnovate per giungere alle nuove generazioni abituate ai social network. Una grande responsabilità per i giornalisti, da un lato incalzati dai nuovi mezzi, dall’altro sollecitati ad amare la verità. Una verità invocata non solo nelle intenzioni ma da ricercare sempre e comunque.

da Avvenire del 4 ottobre 2016, pag. 20

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 

Lectio – Anno C

 

Prima lettura:Esodo 17,8-13

 In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm.
Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.  

         

 

Il libro dell’Esodo nella sua prima parte (1,1-15,21) descrive la liberazione dall’Egitto del popolo di Israele; nella seconda parte (15,22-18,27) presenta il cammino del popolo nel deserto: nella terza parte (19-40) si ha l’alleanza sul Sinai con tutte le prescrizioni. Il testo della lettura è collocato nella seconda parte, all’inizio; descrive il combattimento di Israele contro Amalek.

     Aspetti di esegesi

     Tra l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia e l’episodio dell’incontro di Ietro con Mosé, si ha il racconto della vittoria di Israele contro Amalek: «In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada» (Es 17,8-13).

     Questo racconto antico, rappresenta una tradizione delle tribù del sud. Esso è legato alla stessa località in cui si svolse il fatto precedente dell’acqua scaturita dalla roccia, Refidim. Gli Amaleciti avevano la loro abitazione sulle montagne di Seir. Di Amalek si parla nel libro della Genesi, come nipote di Esau (Gn 36,12.16); si tratta di un popolo molto antico; nell’oracolo di Balaam è detto: «Poi vide Amalek e pronunciò il suo poema e disse: Amalek è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà eterna rovina» (Nm 24,20). Al tempo dei giudici lo vediamo associato ai saccheggiatori di Madian: Davide lo combatte ancora; in seguito viene menzionato nel primo libro delle Cronache, dicendo che fu eliminato dai discendenti di Simeone (1Cr 4,43) e nel Salmo 83,8 che lo enumera tra i nemici di Israele. Il significato del racconto contenuto nella lettura sta nel fatto che la preghiera perseverante di Mosé, sostenuto da Aronne e da Cur, ottiene la vittoria del mediatore presso Dio a favore della comunità. La sua è la preghiera di chi è costituito capo in mezzo al suo popolo.

 

Seconda lettura:  2Timoteo 3,14-4,2

 Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.   

 

La seconda lettera a Timoteo dopo l’indirizzo di saluto e ringraziamento, tratta anzitutto delle grazie ricevute da Timoteo, espone poi il significato delle sofferenze dell’apostolo e dell’apostolato, richiama la lotta contro il pericolo attuale dei falsi maestri, esorta a fare attenzione ai pericoli degli ultimi tempi, propone a Timoteo con uno scongiuro solenne, il suo dovere di annuncio della parola, dà infine le ultime raccomandazioni. Il brano della lettura si pone nell’avvertimento sui pericoli e si conclude con lo scongiuro solenne.

     Aspetti di esegesi

     La esortazione con cui inizia il brano riguarda il rimanere fermo, stabile, irremovibile nelle verità che sono state comunicate non come vane teorie ma come rivelazione immutabile, contro le tendenze deviazioniste dei falsi dottori di cui ha parlato precedentemente, seduttori e sedotti: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù» (2 Tm 3,14-15).

     Tali verità sono contenute nelle sacre Scritture: esse danno la vera sapienza della salvezza: la rivelazione divina ha come centro Gesù Cristo; perciò conduce a lui. «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio» (2Tm 3,16). L’affermazione che tutta la Scrittura è ispirata da Dio è importante poiché esprime a sua volta in modo ispirato una verità e cioè la ispirazione divina delle Scritture: è nella pratica assidua della Scrittura che l’uomo di Dio nutre la sua fede e il suo zelo apostolico: La scrittura poi è «utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,16): l’Autore indica a quali scopi è utile la Scrittura: insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia: la prima utilità è di natura didattica; infatti la Scrittura contiene la verità, e la verità è tema di insegnamento; la seconda utilità sta nella convinzione, nella persuasione degli spiriti, rivolta a condurli alla verità e a confutare gli errori; la terza è la correzione, per condurre gli erranti e i peccatori alla verità e alla vita morale; infine la Scrittura aiuta la formazione alla giustizia, cioè alla vita morale secondo la quale Dio vuole che si viva; in tale modo la Scrittura opera una formazione dell’uomo credente e dell’apostolo il quale con la Scrittura è in grado di adempiere il suo ministero, essendo provveduto di ogni strumento per esercitarlo con frutto.

     Viene ora un solenne scongiuro: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2 Tm 4,1-2)». È un appello rivolto al discepolo, quasi una parola di commiato al termine della lettera. Dominato dal pensiero di una morte vicina e della venuta del Signore, Paolo chiede solennemente a Timoteo di perseguire, senza venire meno, la missione che gli trasmette. Scongiura chiamando in causa Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti: proclama così la verità che Gesù sarà il giudice di tutti gli uomini, quelli che saranno in vita alla sua venuta e quelli che allora risusciteranno; questa affermazione, che apparteneva all’annuncio primitivo, è entrata nel simbolo della fede. Il tema dello scongiuro riguarda la predicazione; l’apostolo ammonisce ed esorta gravemente Timoteo, invocando

a testimonio Dio e Gesù Cristo: l’autore è consapevole di compiere un suo dovere nel prescrivere a Timoteo la predicazione; Timoteo deve predicare la parola come un araldo che ha la lieta notizia da comunicare; deve insistere, prendere ogni occasione, l’inopportunità è da intendere da parte degli uditori; anche quando agli uditori sembri inopportuna la voce del predicatore della verità; deve convincere quello che erano, mostrare loro che sono colpevoli, riprenderli, esortarli; ma la predicazione in sé è sempre opportuna; tutta la predicazione, inoltre, anche quando rimprovera e mostra l’errore deve essere fatta con dolcezza, aspettando con pazienza il suo frutto, e deve avere per solida base la dottrina, la parola di Dio, che è efficace per se stessa. Leggendo queste norme teoriche e pratiche di pedagogia pastorale il ministro della parola saprà congiungere insieme la prudenza e l’audacia, la forza nel rimproverare e nel convincere dell’errore e la mitezza dell’amore paterno; saprà istruire le menti con la luce della verità e istruire i cuori con il calore dello zelo apostolico.

 

Vangelo: Luca 18,1-8

 In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Esegesi

     Il testo si trova nella sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme; è la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna e riguarda il tema della preghiera: «In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1).

     Aspetti di esegesi

     Questa parabola e quella che segue, del fariseo e del pubblicano, trattano della preghiera sotto punti di vista differenti. La parabola del giudice iniquo che fa giustizia alla donna per non essere da lei importunato, concorda, nel suo pensiero fondamentale, con la parabola dell’amico importuno (Lc 11,5-8) e mette in evidenza la potenza della preghiera di petizione esprimendo la conclusione come una deduzione da una cosa più piccola a una più grande. Il pensiero fondamentale della parabola è questo: i discepoli devono pregare sempre e non devono scoraggiarsi se l’esaudimento delle loro preghiere si fa attendere. L’insegnamento centrale, che Gesù stesso esprime con il «sempre» significa: per qualsiasi cosa vi stia a cuore: «non stancarsi» significa di conseguenza non mai dubitare della forza della preghiera. A mettere in evidenza questo insegnamento serve un caso preso dalla vita umana; una vedova (che già nell’antico Testamento era l’immagine di una persona indifesa e debole) sta di fronte a un giudice iniquo e lo vince con la sua ostinazione; la figura del giudice qui delineata non è un caso di eccezione, ma il tipo frequente, forse normale, del giudice cui erano abituati a quel tempo; la vedova si trova implicata in un processo e chiede al giudice una sentenza con cui le venga resa giustizia: il giudice non pensa di accondiscendere alla preghiera di una persona sola e debole; il suo soliloquio svela i suoi sentimenti; egli però risolve alla fine di esaudirla non per un senso di giustizia ma unicamente perché l’insistere di lei nel pregare, gli da noia e fastidio: «poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi » (Lc 18,4-5).

     Secondo l’insegnamento finale: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente». (Lc 18,7-8), insegnamento che opera la deduzione dal più piccolo al più grande, cioè dal giudice iniquo a Dio, il personaggio principale della parabola non è la vedova orante, che stanca il giudice, ma il giudice stesso. Egli viene paragonato a Dio. Il punto culminante della parabola non sta nella ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento. Non viene detto come dobbiamo comportarci nella preghiera di petizione nei confronti di Dio, ma come Dio si comporta di fronte alle nostre preghiere. Se già un uomo cattivo come il giudice per semplice egoismo si lascia indurre dalla domanda di una povera donna indifesa ad aiutarla, quanto più Dio esaudirà le grida di implorazione dei suoi eletti. L’esitazione di Dio è apparente; egli non lascerà mancare il suo aiuto; egli farà giustizia nel senso che ascolterà le preghiere dei suoi. Dio non può restare sordo di fronte alla domanda insistente dei suoi figli e può dare solo cose buone.

     Il detto finale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8) è una affermazione a se stante, non collegata con il racconto della parabola: esso presenta l’apostasia che deve verificarsi negli ultimi tempi, è tema classico della apocalittica (cf. 2 Ts 2,3; Mt 24,10-12).
 

L’immagine della domenica

 

Arcobaleno a Moral de Hornuez (Segovia)  –   2006

 


Le vere domande

«L’uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che gli pone.

Ecco il vero dialogo: l’uomo interroga e Dio risponde.

Ma le sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere perché vengono dal fondo dell’anima e vi rimangono fino alla morte.

Le vere risposte, Eliezer, tu non le troverai che in te.

E tu, Moshè, perché preghi? – gli domandai.

 Prego Dio di darmi la forza di potergli fare delle vere domande». 

(Elie Wiesel, scrittore ebreo).

 

Meditazione

La preghiera come lotta e intercessione (I lettura); la preghiera insistente e che non viene meno (vangelo): questo il tema che unisce prima lettura e vangelo. La preghiera non come opera di forti, ma di deboli: Mosè viene aiutato a sostenere le sue braccia stese nella preghiera; nel vangelo è una povera vedova che si fa soggetto di una preghiera insistente. Deboli resi forti dalla fede e che perseverano nella preghiera. La perseveranza come elemento di verità della preghiera e la preghiera come autentificazione della fede sono altri elementi che arricchiscono la catechesi sulla preghiera contenuta nei testi biblici di questa domenica.

L’immagine di Mosè con le mani tese verso l’alto nello sforzo dell’intercessione, aiutato da due uomini che sostengono le sue braccia che diventano sempre più pesanti con il passare del tempo, è una bella immagine della fatica della preghiera. La preghiera è uno sforzo, è lavoro, e come ogni lavoro è faticoso, per il corpo come per lo spirito. Ma quella immagine indica anche un aspetto della dimensione comunitaria della preghiera. La comunità cristiana non è solo il luogo in cui si è chiamati a pregare gli uni per gli altri, a intercedere, ma anche a porsi a servizio della preghiera dell’altro. Sostenersi e incoraggiarsi nella fede e nella preghiera, è compito richiesto ai credenti nella comunità cristiana.

Un aspetto di questa difficoltà della preghiera è il suo divenire quotidiana, il suo essere perseverante, il suo non venire meno. Aspetto espresso nella parabola evangelica (Lc 18,1 ). La preoccupazione di insistere sulla necessità di pregare sempre, senza tralasciare, è rivelatrice della situazione della comunità cristiana a cui si rivolge Luca: una comunità in cui è ormai presente il fenomeno del rilassamento della fede e della preghiera. A distanza di qualche decennio dagli eventi della vita di Gesù, la comunità conosce fenomeni di mondanizzazione della fede e di abbandono (cfr. Lc 8,13). Luca avverte: abbandonare la preghiera è l’anticamera dell’abbandono della fede. Il passare del tempo è la grande prova della fede e della preghiera. La preghiera insistente fa della fede una relazione quotidiana con il Signore. La fatica di perseverare nella preghiera è la fatica di dare del tempo alla preghiera. Pregare è dare la vita per il Signore. La preghiera comporta un confronto con la morte e per questo spesso ci risulta ostica: pregando, non «facciamo» nulla, non «produciamo», ci vediamo sterili e inefficaci. Ma essa è lo spazio e il tempo che noi predisponiamo affinché il Signore faccia qualcosa di noi.

Le parole di Gesù comportano anche un insegnamento sulla dimensione escatologica della preghiera. Alla domanda rivoltagli dai farisei «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17,20), Gesù ha risposto nel capitolo precedente (Lc 17,21-37), ma ora completa la sua risposta con una contro-domanda: «Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Non si tratta di porre domande sulla venuta finale, ma di cogliere la venuta finale del Signore come domanda, e domanda che interpella i cristiani sulla fede. A noi che spesso ci chiediamo: «Dov’è Dio?», «Dov’è la promessa della venuta del Signore?» (2Pt 3,4), risponde il Signore che chiede conto a noi della nostra fede: «Dov’è la vostra fede?» (Lc 8,25). La venuta del Signore non è tema di astratte speculazioni teologiche, ma realtà di fede da viversi e sperimentarsi come attesa e desiderio nella preghiera.

La preghiera della vedova che chiede giustizia indica anche gli aspetti di audacia e di determinazione della preghiera. La preghiera non si vergogna di chiedere, non esita a insistere, non cessa di bussare, non teme di importunare. La preghiera esige coraggio. Il coraggio della fede che conduce a non lasciar perdere, a non tralasciare, a non dire: «Non serve a nulla».

Preghiera e fede stanno in un rapporto inscindibile: credere significa pregare. E se noi possiamo pregare solo grazie ad una fede viva, è anche vero che la nostra fede resta viva grazie alla preghiera.

 

Preghiere e racconti

La preghiera insistente del cristiano

«Attaccati alla preghiera di un povero e sarai unito a Dio» diceva un maestro di Israele. L’insegnamento sulla preghiera nei testi biblici di oggi è posto all’interno della prospettiva della parusia. La preghiera del cristiano si caratterizza come insistente. Se c’è una preghiera da fare nel momento del bisogno, c’è anche una preghiera da rivolgere in ogni tempo, e questa è la preghiera di fronte alla venuta del Signore. Il tempo dell’attesa deve spingere il discepolo non ad addormentarsi, ma a una veglia ancora più intensa. La donna del Vangelo è indifesa, debole, ma piena di intraprendenza e coraggio, di perseveranza e insistenza. «Il punto culminante della parabola non sta nell’ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento» (J. Schmid). Pregare, dunque, per mantenere viva, anche di fronte al ritardo, l’attesa di Dio. Perseverare nella preghiera diventa un radicarsi in Cristo, rimanere «stabili» in lui lungo tutto il cammino della vita anche nell’ora in cui dobbiamo passare «per la valle oscura» del dolore e della prova.

Scriveva un giovane monaco: «Noi preghiamo per mettere una spina nel cuore di Dio. Noi, uomini della cocolla, ci confermiamo qui in rappresentanza degli altri uomini, di tutti. Per ridire chiaro al Signore, ora dopo ora: Vedi, Signore! Ti premiamo, ti sollecitiamo; alziamo la voce, la sommiamo; tempestiamo con le nocche la tua porta, non ti diamo tregua perché tu non perda mai l’entusiasmo della creazione, perché tu veda e provveda a tutti».

L’uomo di preghiera

«Tu farai un’autentica esperienza di Dio, o, più semplicemente, sei un uomo di preghiera quando possiedi il coraggio di gettarti, durante tutta la vita, in questo mistero silenzioso di Dio senza ricevere apparentemente altra risposta che la forza di credere, di operare, di amare Dio e i tuoi fratelli, e quando, in definitiva, continui a pregare».

(Jean Lafrance)

Buongiorno….

«Quando ti sei svegliato questa mattina ti ho osservato e ho sperato che tu mi rivolgessi la parola anche solo poche parole, chiedendo la mia opinione o ringraziandomi per qualcosa di buono che era accaduto ieri.

Però ho notato che eri molto occupato a cercare il vestito giusto da metterti per andare a lavorare.

Ho continuato ad aspettare ancora mentre correvi per la casa per vestirti e sistemarti e io sapevo che avresti avuto del tempo anche solo per fermarti qualche minuto e dirmi: “Ciao”. Però eri troppo occupato.

Per questo ho acceso il cielo per te, l’ho riempito di colori e di dolci canti di uccelli per vedere se così mi ascoltavi però nemmeno di questo ti sei reso conto.

Ti ho osservato mentre ti dirigevi al lavoro e ti ho aspettato pazientemente tutto il giorno. Con tutte le cose che avevi da fare, suppongo che tu sia stato troppo occupato per dirmi qualcosa.

Al tuo rientro ho visto la tua stanchezza e ho pensato di farti bagnare un po’ perché l’acqua si portasse via il tuo stress. Pensavo di farti un piacere perché così tu avresti pensato a me ma ti sei infuriato e hai offeso il mio nome, io desideravo tanto che tu mi parlassi, c’era ancora tanto tempo.

Dopo hai acceso il televisore, io ho aspettato pazientemente, mentre guardavi la TV, hai cenato, però ti sei dimenticato nuovamente di parlare con me, non mi hai rivolto la parola.

Ho notato che eri stanco e ho compreso il tuo desiderio di silenzio e così ho oscurato lo splendore del cielo, ho acceso una candela, in verità era bellissimo, ma tu non eri interessato a vederlo.

Al momento di dormire credo che fossi distrutto. Dopo aver dato la buona notte alla famiglia sei caduto sul letto e quasi immediatamente ti sei addormentato.

Ho accompagnato il tuo sogno con una musica, i miei animali notturni si sono illuminati, ma non importa, perché forse nemmeno ti rendi conto che io sono sempre lì per te.

Ho più pazienza di quanto immagini. Mi piacerebbe pure insegnarti ad avere pazienza con gli altri, TI AMO tanto che aspetto tutti i giorni una preghiera, il paesaggio che faccio è solo per te.

Bene, ti stai svegliando di nuovo e ancora una volta io sono qui e aspetto senza niente altro che il mio amore per te, sperando che oggi tu possa dedicarmi un po’ di tempo. Buona giornata..

Tuo papà DIO».

Comunità, «scuola di preghiera»

 «Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall’impegno nella storia: aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio».

(Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, n. 33).

Cuore, labbra, mani

Metti, Signore, nei nostri cuori desideri che tu possa colmare.

Metti sulle nostre labbra preghiere che tu possa esaudire.

Metti nelle nostre opere atti che tu possa benedire.

(Liturgia mozarabica spagnola).

Pregare…

Hai un problema grandissimo?

Incomincia a pregare, a lodare Dio e ti accorgerai che quel problema diventerà sempre più piccolo, perché lo vedrai con gli occhi di Dio.

Perché pregare?

«Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere. Si, per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive nel tempo e per l’eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.

Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po’ di tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti».

(Bruno Forte, Lettera sulla preghiera).

La preghiera

 “La preghiera è un bene sommo,

è una comunione intima con Dio,

deve venire dal cuore,

deve fiorire continuamente,

giorno e notte.

È luce dell’anima,

vera conoscenza di Dio,

mediatrice tra Dio e l’uomo;

è un desiderare Dio,

è un amore ineffabile

prodotto dalla grazia divina”.

(San Giovanni Crisostomo)

Gioia, preghiera, ringraziamento e carità

Ci hai esortato alla gioia, Signore: «State lieti, sempre». Anzi, ci hai insegnato le parole per dire la gioia: «Io esulto e gioisco nel Signore, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza». Fa’ di me, o Signore, un cristiano lieto: lieto come Giovanni nel vedere la luce che già viene, nel sentirsi voce al servizio della Parola; lieto come il profeta, nel sapersi riempito del tuo Spirito di santità; lieto come Maria nel riconoscere e magnificare quello che tu hai già compiuto per me e in me.

Ci hai esortato alla preghiera, Signore: «Pregate incessantemente». Mi sembra quasi impossibile: abituato a separare preghiera e lavoro, penso sempre che la preghiera si possa fare solo stando in ginocchio. Eppure lo so che sei continuamente presente, a condividere le mie giornate e il mio lavoro. Sei tu, anzi, che mi vuoi santificare «fino alla perfezione», tu che guidi i miei passi incerti sul sentiero della santità. Insegnami a vivere costantemente alla tua presenza, a fare ogni cosa per amore tuo.

Ci hai esortato al ringraziamento, Signore: «In ogni cosa rendete grazie». Nell’eucaristia ci unisci al tuo ringraziamento. Fa’ che non mi limiti a pronunciare parole di riconoscenza, magari stanche e convenzionali, ma a dire grazie al Padre testimoniando il suo amore, nel servizio concreto del prossimo.

Vieni, Spirito Santo, diventa in noi gioia, preghiera, ringraziamento, carità.

Aiutami a pregare

Signore, tu conosci tutto di me,

quello che voglio e quello che faccio;

conosci il mio bisogno di amicizia e di bontà,

di speranza e di verità.

Signore, ho voglia di pregare

perché tu me lo hai insegnato,

perché chi prega riceve la tua fortezza.

Aiutami a pregare

col cuore e con le parole,

di giorno e di notte.

da solo e con gli altri.

Insegnami a pregare per dirti grazie,

per crescere nella fede,

per camminare nella speranza.

per vivere la carità.

Signore, ti ringrazio perché,

quando penso a qualcosa di grande, penso a te;

quando mi sento vuoto, vengo da te;

quando prego, riesco a vivere come piace a te.

Signore, ti prego per quelli che sono soli,

per quelli che nessuno vuole.

Ti prego perché tu sei sempre

la forza dei deboli,

la speranza dei poveri,

la salvezza dei peccatori.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)