I DOMENICA DI AVVENTO

 Prima lettura: Isaia 2,1-5

Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme. Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.  Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore. 

     

 

Questo profeta dell’A.T è capace di contemplare l’Altissimo e di far comprendere al popolo dell’alleanza che il Signore e la sua santa legge devono essere accolti nella fede. Il profeta Isaia nasce a Gerusalemme nel 760 a.C., vive il tempo difficile del Regno del Sud sotto la minaccia degli Assiri, finisce il suo ministero sotto Manasse (690 a.C.).                                                       

Il testo proposto dalla Chiesa all’interno della Liturgia di questa prima domenica di Avvento è inserito nei primi cinque capitoli che raccolgono l’oracolo sul destino di Gerusalemme e di Giuda pronunziati nei primi anni del suo ministero.

La lettura del testo porta a ricordare l’episodio della Torre di Babele: tentativo umano di arrivare a Dio, un segno della superbia umana, ed ecco che il profeta oppone a questo avvenimento la visione del «monte del Signore» che radunerà i popoli nella pace. Siamo di fronte ad un oracolo escatologico che annunzia la diffusione nel mondo del nome di YHWH e Gerusalemme diventerà il centro della religione jahvistica e della pace.

Nel v. 2 è molto importante sottolineare quel «sarà saldo…», esso è riferito a Gerusalemme, la nota della Versione dai testi originali così commenta: «Secondo la concezione mitologica dell’Antico oriente, il monte del tempio si identificava col monte altissimo in cui dimoravano gli dei. Qui il mondo terrestre si univa con quello celeste. Nel nostro testo questa mitologia viene utilizzata per descrivere la speranza escatologica di Israele» (cf. p. 1046).

Il monte meraviglioso, attraverso la legge e la parola, impone un ordine umano secondo il progetto di Dio; il profeta nella sua visione ricorda che è volontà divina la giustizia sulla terra e che quest’ultima è il fondamento della pace; è nei piani dell’Altissimo un governo giusto, la pace internazionale, il disarmo, gli strumenti di guerra trasformati in mezzi di pace.

Il popolo d’Israele è in atteggiamento di cammino, apre il pellegrinaggio verso la luce del Signore, in questo grande movimento verso YHWH devono essere coinvolte tutte le genti.

 

Seconda lettura: Romani 13,11-14a

 

Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo. 

 

 

Il testo paolino che la liturgia propone è inserito nella Lettera ai Romani. Scritta, questa lettera, da Paolo nel 58 d.C., fu inviata per preparare un suo viaggio in Spagna. Nella lettera Paolo espone il suo pensiero teologico, anche se non sono affrontati tutti i temi della sua teologia. Questa lettera la potremmo definire come “la grande presentazione teologica” della fede cristiana.

Il nostro brano è inserito nella sezione 12,1-15,13 considerata la parte delle Attuazioni: come il credente deve affrontare la vita quotidiana. Dal testo, usato dalla liturgia, emerge come Paolo valuti il suo “tempo” come “occasione di grazia”, invita i credenti a vivere nell’apertura al futuro; ormai la notte sta per terminare e Cristo sta per arrivare con tutta la sua gloria, la sua venuta coincide con il giorno. La fede prepara la comunità cristiana a ricevere definitivamente Cristo nella sua infinita gloria. Tutto ciò esige da parte del credente di sviluppare una coscienza che realizza opere di vita e non di morte; l’attesa del Vivente porta il credente ad avere sempre una condotta onesta, una coscienza in ricerca «per rivestirsi delle armi della luce» cioè le opere buone che allontanano l’uomo da ogni forma di male.

Dietro all’affermazione del v. 72 certamente Paolo vuole ricordare che le opere buone sono possibili solo se si è nuovi nel cuore, non si deve mai dimenticare che «la proposta morale cristiana non potrà mai perdere di vista questa priorità antropologica e salvifica. Il valore morale non sta prima di tutto nel gesto che si compie, ma nel cuore che lo ispira e lo determina» (S. MAJORANO, Coscienza e virtualità del Sangue di Cristo, «Sangue e vita», Roma, 1995, 154).

Nel v. 13 Paolo ricorda un elenco di vizi dal quale l’uomo dev’essere lontano che sono praticati normalmente di notte. Ma ciò che potrebbe essere considerato centro del brano è il v. 14: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…»: ciò che è avvenuto nel sacramento del battesimo come “evento” qui è presentato come esigenza nella vita morale. È sempre il v. 14 che dev’essere considerato eco di un inno battesimale della Chiesa primitiva, ad ogni modo è certo che Paolo qui realizza una missione: presenta il piano di Dio in maniera cristologica ed orienta tutte le iniziative etiche dei credenti nell’obbedienza al Signore, (cf. G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, vol. 2, Borla, Roma 1990, 491).

Mediante il verbo “rivestitevi” Paolo usa una metafora che indica sempre appropriazione, unione; rivestirsi del mistero di Cristo significa fare di esso il punto fondamentale della propria esistenza, la persona del Risorto datore di Spirito Santo diventa “fonte” della vita quotidiana dalla quale l’uomo attinge energia per vivere nella storia umana e fare la volontà del Padre Celeste.

 

Vangelo: Matteo 24,37-44

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato.  Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

 

Esegesi 

Il brano del Vangelo odierno ci immette nel capitolo 24 del Vangelo di Matteo che è definito comunemente “discorso escatologico“, il contesto è il seguente: Gesù è uscito dal tempio (cf. v. 7) e sedutosi sul monte degli ulivi (cf. v. 3) pronunzia queste parole sulle ultime realtà. La pericope è preceduta dal tema dell’avvento del Figlio dell’uomo (cf. vv. 26-23), dalla dimensione cosmica di questo avvento (cf. vv. 29-37), dalla parabola del fico (cf. vv. 32-36).

     Nel discorso in questione Gesù usa il linguaggio apocalittico, molto difficile, ma sappiamo bene che l’intenzione del Cristo non è quella di portare terrore ma di affermare delle verità teologiche: verrà la fine del mondo, è necessario assumere un atteggiamento di vigilanza, la storia diventa il luogo per realizzare già il regno di Dio.

È da annotare il v. 36 che molte volte fa difficoltà ricordando Mt 11,27 dove si afferma che quello che appartiene al Padre è anche del Figlio; ma nel v. 36 — che precede la nostra pericope — il senso profondo è che non rientra nella missione di Gesù rivelare il momento preciso della fine del mondo, ciò appartiene alla conoscenza del cuore di Cristo che è sempre in comunione eterna con il cuore del Padre che svela ogni cosa, nello Spirito santo, al suo Figlio prediletto.

Ma entriamo, aiutati dallo Spirito Santo, unico esegeta della Parola, nelle profondità del testo proposto dalla liturgia: vv. 37- 39: Gesù fa un paragone con la situazione storico, sociale e religiosa degli uomini contemporanei a Noè, si viveva nell’assoluto relativismo morale, la legge scritta nel cuore umano non era seguita, la libertà era intesa come libertinaggio. Gesù ricorda tutto questo, evidenziando che vivendo nella dissolutezza, furono travolti dalla catastrofe. Dobbiamo soffermarci sull’espressione «così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo»: la venuta del Cristo glorioso che si presenterà come vero ed unico giudice della storia e delle coscienze personali incombe sugli uomini come “avvenimento” di giudizio; la seconda venuta del Cristo dev’essere intesa come “momento di sintesi” della storia umana e della nostra coscienza che si presenterà davanti al Cristo con la sua scelta fondamentale con il quale ha costruito il proprio vissuto morale.

vv. 40-41: la fine dei tempi avverrà nel “quotidiano” che diventerà improvvisamente “eternità” nel quale il Cristo glorioso giudicherà con misericordia e verità. Il testo evangelico ricorda delle occupazioni abituali: il lavoro dei campi fatto dagli uomini ed i lavori domestici realizzati dalle donne, è qui che si svolgerà l’ultima chiamata di Cristo.

v. 42: l’esistenza umana che è un cammino verso l’eterno non può essere vissuta nella distrazione, l’incontro con il Cristo glorioso dev’essere preparato dal discepolo, per questo Gesù invita alla vigilanza e quindi alla preghiera. Il momento orante della vita personale prepara il cuore umano ad accogliere la parola definitiva del Redentore nel proprio vissuto quotidiano. Ma questo “vegliare” al quale il Cristo stesso ci chiama non è un’attesa di paura e di angoscia ma dev’essere un momento nel quale il credente deve immergersi in una preghiera fiduciosa verso l’Altissimo. Il discepolo di Cristo che attende la sua venuta confida nel suo Signore, in quanto sa bene che Dio avrà sempre una «parola di misericordia» nei suoi confronti; dovranno essere questi i pensieri del «vegliare» in attesa della parusia. Ma tutto ciò non esclude l’impegno concreto per la realizzazione del regno di Dio nella storia umana, il cristiano non può disprezzare la vita presente; il futuro, l’escatologia inizia nella nostra storia; il regno di Dio è già in mezzo a noi e avrà nel «domani di Dio» la sua piena attuazione. Questo logion è presente in Mc 13,35, inserito in un’altra parabola che l’evangelista Matteo omette. È da annotare il commento che fa in nota la Bibbia di Gerusalemme: «La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà» (cf. p. 21-43).

vv. 43-44: qui abbiamo la piccola parabola dello scassinatore notturno, è riferita alla venuta gloriosa del Cristo che sarà improvvisa, questi versetti potrebbero acquistare luce leggendo il brano dell’Apocalisse 3,3: «Se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, senza che tu sappia l’ora della mia venuta a te». Gesù si pone in netto contrasto con l’apocalittica giudaica che cercava di calcolare in anticipo la parusia, Gesù Cristo invece, vuole affermare il carattere sconosciuto ed inaspettato e perciò invita caldamente all’attesa, alla vigilanza, a stare in piedi ed attendere il Redentore. 

 

Meditazione

L’evento finale e decisivo della storia di salvezza profetizzato da Isaia e annunciato dal vangelo come «venuta del Figlio dell’Uomo» viene colto nelle letture odierne nella sua portata giudiziale: esso giudica le violenze e le guerre che gli uomini scatenano (I lettura); le immoralità in cui si perdono (II lettura); l’incoscienza e l’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano (vangelo). L’annuncio escatologico non è un messaggio spiritualistico, ma ha un impatto forte sulla storia dei popoli (I lettura), sulla quotidianità delle esistenze dei credenti (vangelo) e sul loro comportamento (II lettura).

La simbolica della polarità notte-giorno, tenebre e luce, attraversa le tre letture e consegna un messaggio che intende svegliare il credente e guidarlo a conversione. È la tenebra delle genti che non conoscono il cammino da percorrere e che vengono illuminate dalla parola di Dio («camminiamo nella luce del Signore»: Is 2,5); è la tenebra della generazione di Noè che non capisce nulla, non discerne il tempo e i suoi segni e così perisce; è la notte che chiede al padrone di casa di vegliare per impedire al ladro di svaligiargli la casa (vangelo); è la notte simbolo del peccato, da cui il credente è chiamato a risvegliarsi gettando via le opere delle tenebre e indossando le armi della luce (II lettura).

La prima domenica di Avvento, che segna l’inizio di un nuovo anno liturgico, contiene un invito a ricominciare, si tratta di ricominciare il cammino di fede ascoltando di nuovo la parola di Dio (I lettura); facendo memoria degli inizi della fede, dunque del battesimo (II lettura); assumendo la storia quotidiana come luogo di vigilanza e discernimento (vangelo). In questa prospettiva di inizio o re-inizio, è significativo che il passo di Paolo sia stato decisivo per la conversione di Agostino (Confessioni VIII,12,29). Ascoltata la voce che dice «Prendi e leggi», Agostino apre la Scrittura e trova il passo che dice: «Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle orge e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze». Afferma Agostino: «Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Infatti, appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». Anche Agostino vive il suo risveglio, il suo passaggio dalle tenebre alla luce.

Il vangelo, istituendo un parallelo tra il diluvio, che sconvolse la quotidianità ripetitiva della vita della generazione di Noè, e la venuta del Figlio dell’Uomo, ammonisce a non annegare nella banalità dei giorni. La generazione di Noè non è dipinta da Gesù come malvagia o empia, ma semplicemente come incosciente: «Non si accorsero di nulla» (Mt 24,39). La generazione di Noè perì per mancanza di discernimento. E così perì due volte: nel diluvio e senza sapere perché. Noè, invece, seppe discernere e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro. E questa è la responsabilità. La colpa, se di colpa si deve parlare, intravista nel nostro testo, è dunque l’irresponsabilità, l’assenza di discernimento.

Vigilare significa esercitare l’intelligenza, la riflessione, il pensiero sui tempi che si vivono, per non essere sorpresi dalle catastrofi che si preparano nascostamente nell’oggi della storia, nella chiesa, nelle relazioni famigliari e personali. Il credente è chiamato a pensare e conoscere l’oggi a partire dalla venuta del Signore e dalle sue dimensioni di impensato e di ignoto (Mt 24,36.44).

La venuta del Signore non impegna solo a vigilare sui tempi, ma anche sulla verità del proprio cuore. Il riferimento alle due persone impegnate nello stesso lavoro, che nulla sembra distinguere, e di cui però una viene presa e l’altra lasciata, indica che ciò che nella quotidianità dei giorni può rimanere nascosto, sarà manifestato alla venuta del Signore. La differenza si gioca nell’invisibile interiorità. «In interiore homine habitat veritas» (Agostino); «Il cammino della conoscenza porta verso l’interiorità» (Novalis).   

 

L’IMMAGINE DELLA DOMENICA

  

Campane della Chiesa di Moral de Hornuez (Segovia)   –     2011


EGLI PUÒ SEMPRE ARRIVARE

«… non si può mai sapere se Dio è in una storia,

prima che uno l’abbia finita di raccontare.

Perché anche se mancassero solo due parole o soltanto

la pausa che segue le ultime parole del racconto,

Egli può sempre arrivare» 

(Rainer Maria Rilke)

 

Preghiere e racconti 

L’avvento

L’avvento è il tempo dell’attesa di un Dio che si fa uomo, che si fa così piccolo da essere accolto solo dai piccoli e dai poveri. Il tempo presente si gioca tutto nell’accoglienza di questo Dio che, dopo essere entrato nella storia più di 2000 anni fa, continua a venire sulle strade del mondo in ogni uomo, donna, bambino. L’ha detto Lui stesso: “chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me”. (Mt 18,5). Si è identificato e chiede di essere riconosciuto in un bambino! Sta a dire nel più piccolo, quello che non conta. “Bambino” è sinonimo di ogni povero, emarginato, straniero, rifiutato, “scartato”, per usare il linguaggio di Papa Francesco, che è anche il linguaggio del Vangelo. Gesù stesso infatti si è riconosciuto in quella “pietra scartata” dai costruttori che è divenuta testata d’angolo (cfr Mc, 12,10); è apparso come straniero tra i suoi, considerato come una presenza estranea, pericolosa, da eliminare a causa del suo insegnamento e dei suoi gesti di accoglienza nei confronti di coloro che erano ai margini della vita sociale e religiosa. Il pensiero va immediatamente alla sfida enorme che ci viene dall’emergenza “immigrazione”, che ci mette in crisi come singoli e come comunità umana. Siamo messi in questione innanzitutto come uomini, perché l’altro da accogliere è uguale a noi in dignità e diritti. Come discepoli di Gesù non possiamo evitare di chiederci da che parte stiamo noi, in questo mondo in cui sono tutt’altre le voci che gridano più forte sull’onda della paura, del sospetto, del pregiudizio, del rifiuto, in cui ci si ostina a costruire muri anziché ponti. Ma perché è tanto difficile aprire la mente, il cuore, le mani all’accoglienza e riconoscere in tutte queste persone che fuggono da situazioni di guerra, di ingiustizia, di povertà, degli uomini e delle donne come noi, che hanno lo stesso valore, lo stesso diritto di esistere e di trovare condizioni degne di una vita umana? Perché facciamo così fatica a riconoscerci fratelli? Siamo caduti nell’illusione che sia l’avere e il perseguimento del proprio benessere e sicurezza personale a scapito degli altri e del bene comune, a salvarci e a dare senso alla nostra esistenza. Così ci sentiamo minacciati ogni volta che qualcuno viene a chiederci di sedersi alla nostra mensa, di condividere con lui il pane della fraternità universale; abbiamo paura che ci porti via qualcosa, che diminuisca le nostre possibilità di vita. E’ un individualismo che ci toglie il respiro e uccide la speranza di un futuro migliore per l’umanità, ci rende ciechi anche di fronte alle nuove opportunità che, attraverso queste sfide, la storia ci apre davanti. Per noi cristiani questo Avvento è il tempo propizio per misurarci proprio sugli atteggiamenti dell’accoglienza e dell’apertura verso chi è più nel bisogno. Tutta l’umanità vive la grande attesa di una salvezza che risponda alle aspirazioni più profonde del cuore umano, dei singoli, dei popoli, dell’intero creato. Gesù ci indica una strada percorribile da tutti: quella del riconoscerci e accoglierci come fratelli. Ma bisogna scendere dal “trono” del nostro egoismo e farci piccoli. E accogliendo i più piccoli dei nostri fratelli ci capiterà di incontrare Lui, il vero “atteso delle genti”.

Anna Maria Menin

 

L’avvento

Con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia. Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della storia. Adventus è parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.

Adottando il termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto. Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica. Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore. Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero. Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine”, come ripeteremo tra poco nel Credo. In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.

(Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura, Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo, 30 novembre 2008).

 

L’attesa, una maniera di vivere

«La nascita è un’attesa

ma, contrariamente

a ciò che si vorrebbe credere,

l’attesa non è una parentesi:

è una maniera di vivere…».

(Jean DEBRUYNE, Nascere).

 

L’attesa

Oggi, prima domenica di Avvento la Chiesa inizia un nuovo Anno liturgico un nuovo cammino di fede che da una parte fa memoria dell’evento di Gesù Cristo e dall’altra si apre al suo compimento finale. E proprio di questa duplice prospettiva vive il Tempo di Avvento guardando sia alla prima venuta del Figlio di Dio quando nacque dalla Vergine Maria sia al suo ritorno glorioso quando verrà a giudicare i vivi e i morti come diciamo nel Credo. Su questo suggestivo tema dell’attesa vorrei ora brevemente soffermarmi perché si tratta di un aspetto profondamente umano in cui la fede diventa per così dire un tutt’uno con la nostra carne e il nostro cuore.

L’attendere è una dimensione che attraversa tutta la nostra esistenza personale familiare e sociale. L’attesa è presente in mille situazioni da quelle più piccole e banali fino alle più importanti che ci coinvolgono totalmente e nel profondo. Pensiamo, tra queste all’attesa di un figlio da parte di due sposi, a quella di un parente o di un amico che viene a visitarci da lontano, pensiamo, per un giovane all’attesa dell’esito di un esame decisivo o di un colloquio di lavoro, nelle relazioni affettive, all’attesa dell’incontro con la persona amata della risposta ad una lettera o dell’accoglimento di un perdono.

Si potrebbe dire che l’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza. E dalle sue attese l’uomo si riconosce la nostra statura morale e spirituale si può misurare da ciò che attendiamo da ciò in cui speriamo.

Ognuno di noi, dunque specialmente in questo Tempo che ci prepara al Natale può domandarsi io che cosa attendo? A che cosa in questo momento della mia vita è proteso il mio cuore? E questa stessa domanda si può porre a livello di famiglia di comunità di nazione. Che cosa attendiamo insieme? Che cosa unisce le nostre aspirazioni? che cosa le accomuna?

Nel tempo precedente la nascita di Gesù era fortissima in Israele l’attesa del Messia cioè di un Consacrato discendente del re Davide che avrebbe finalmente liberato il popolo da ogni schiavitù morale e politica e instaurato il Regno di Dio. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che il Messia potesse nascere da un umile ragazza come era Maria promessa sposa del giusto Giuseppe. Neppure lei lo avrebbe mai pensato eppure nel suo cuore l’attesa del Salvatore era così grande la sua fede e la sua speranza erano così ardenti che Egli poté trovare in lei una madre degna. Del resto Dio stesso l’aveva preparata prima dei secoli. C’ è una misteriosa corrispondenza tra l’attesa di Dio e quella di Maria la creatura piena di grazia totalmente trasparente al disegno d’amore dell’Altissimo. Impariamo da Lei Donna dell’Avvento a vivere i gesti quotidiani con uno spirito nuovo con il sentimento di un’attesa profonda che solo la venuta di Dio può colmare.

(Santo Padre Benedetto XVI, Angelus, 28. 11. 2010)

 

Svegliatevi!

Avvento significa svegliarsi dai sogni di tutti i giorni, svegliarsi alla realtà. Chi è desto vive con consapevolezza ogni momento della sua vita, è presente a se stesso, vivace, vigile. È sveglio chi non si stordisce. La frenesia intontisce.

Non siamo obbligati a lasciarci travolgere dal vortice consumistico. Non dobbiamo a tutti i costi lasciarci inghiottire dalla smania di esaudire ogni desiderio. La vigilanza non è soltanto l’atteggiamento fondamentale richiesto dall’Avvento.

Il racconto del Natale menziona i pastori che vegliavano durante la notte. E proprio perché stavano vegliando viene loro annunciata la lieta novella della nascita del Messia. Chi è sveglio è aperto e disponibile ad accogliere il mistero che vorrebbe afferrarci.

(Anselm GRÜN, Il piccolo libro della gioia del Natale, Milano, Gribaudi, 2006, 20)

 

Attendere

Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante. D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi.

Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura. L’attesa, soltanto l’attesa,  l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare.

(J. Debruynne, Ecoute, Seigneur, ma prière, Collectif, Paris, 1988).

 

L’ “ora di Dio”

Il Signore ci chiede di essere vigilanti e pronti perché non possiamo conoscere in anticipo l’ora di Dio, l’ora in cui Dio viene a visitarci con un intervento speciale. Sono ormai abbastanza anziano e saggio da pensare che non posso forzare quest’ora di Dio.

Dio verrà da me e da te, a modo suo e quando vorrà. A volte siamo tentati di comportarci come coloro che addestrano gli animali con i cerchi. Chiediamo a Dio di venire e di saltare attraverso i nostri cerchi proprio come vogliamo noi! Ma, alla fine, scopriamo che Dio non è un animale ammaestrato. Dio sceglie i suoi momenti e suoi mezzi. La nostra parte è solo di essere pronti per questi momenti speciali. A volte, l’ora di Dio sembra giungere proprio nel momento in cui non ce la facciamo più. Ad ogni modo, la nostra fiducia in Dio ci dice che Dio verrà, al momento migliore e nel modo migliore. Io devo permettere a te di essere te stesso, e tu devi permettere a me di essere me stesso.

E noi dobbiamo permettere a Dio di essere Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).

 

Il buffone e il re

Un re aveva al suo servizio un buffone di corte che gli riempiva le giornate di battute e scherzi. Un giorno, il re affidò al buffone il suo scettro dicendogli: «Tienilo tu, finché non troverai qualcuno più stupido di te: allora potrai regalarlo a lui». Qualche anno dopo, il re si ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, chiamò il buffone, a cui in fondo si era affezionato, e gli disse: «Parto per un lungo viaggio».

«Quando tornerai? Fra un mese?», «No», rispose il re, «non tornerò mai più». «E quali preparativi hai fatto per questa spedizione?», chiese il buffone. «Nessuno!» fu la triste risposta. «Tu parti per sempre», disse il buffone, «e non ti sei preparato per niente? To’, prendi lo scettro: ho trovato uno più stupido di me!».

 

Vigilanza nella solitudine

 Poco tempo fa un prete mi ha detto di avere annullato l’abbonamento al New York Time perché si era accorto che le continue cronache di guerre, di delitti, di giuochi di potere e di manipolazioni politiche non facevano altro che disturbargli la mente ed il cuore, impedendogli di meditare e di pregare.

 È una storia triste, perché fa nascere il sospetto che solo cancellando il mondo vi si possa vivere, che soltanto circondandosi di una calma spirituale, da noi stessi creata, si possa condurre una vita spirituale. Una vera vita spirituale, invece, fa esattamente il contrario: ci rende tanto vigili e consapevoli del mondo che ci circonda, che tutto ciò che esiste e che accade entra a far parte della nostra contemplazione e della nostra meditazione, invitandoci a rispondere liberamente e senza timore.

È questa vigilanza nella solitudine che muta la nostra esistenza. La differenza sta tutta nel modo in cui guardiamo e ci rapportiamo alla nostra storia personale, attraverso la quale il mondo ci parla.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 44-45).

 

Amare la prima venuta, desiderare la seconda

Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare. Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori. Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […]. Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore. Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.

Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo. Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta. Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.

(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).

 

Preghiera

Signore Gesù, che ci hai affidato la tua casa, la Chiesa e tutti i nostri fratelli, perché ci prendiamo cura gli uni degli altri in attesa del tuo ritorno, non lasciarci cadere le braccia per la stanchezza e per il sonno.

«State attenti, vigilate», è il tuo comando: come chi passa la notte in campagna è attento a tutti i rumori della notte perché possono essere forieri di qualcosa di inatteso, così fa’ che noi teniamo l’occhio attento e l’orecchio teso per scorgere dove tu sei all’opera e dove ci chiami a collaborare con te.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

I DOMENICA DI AVVENTO ANNO A

In libreria “Don Lorenzo Milani – L’esilio di Barbiana”

In occasione del cinquantesimo anniversario dalla scomparsa di don Lorenzo Milani (Firenze, 26 giugno 1967), le Edizioni San Paolo propongono l’opera Don Lorenzo Milani – L’esilio di Barbiana scritta da Michele Gesualdi, che ha vissuto assieme al Priore l’intera epopea di Barbiana, scuola fondata nel 1956. La prefazione del volume è a cura di Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, mentre la postfazione è stata scritta da don Luigi Ciotti, ideatore delle associazioni Libera e Gruppo Abele.
Su don Lorenzo Milani è stato scritto molto. La sua figura, una delle più importanti della storia italiana del dopoguerra, ha scosso in profondità le coscienze e diviso gli animi. Ma chi è stato davvero don Milani? A tale interrogativo vuole rispondere questo libro di Michele Gesualdi,  presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani ed ex presidente della Provincia di Firenze (1995 – 2004), che ha avuto l’opportunità di crescere assieme al Priore di Barbiana e di vivere in prima persona il suo “miracolo”.
Dando voce alle vive testimonianze di quanti lo hanno conosciuto direttamente e basandosi anche sulle lettere del Priore, alcune delle quali inedite, Gesualdi ricostruisce il percorso che ha portato don Milani all’“esilio” di Barbiana. La sua narrazione prende il via dagli anni del Seminario, senza tralasciare però il periodo in cui don Milani è stato cappellano a San Donato di Calenzano: se infatti Barbiana è stato il suo “capolavoro”, Calenzano ne è stata l’officina. È però nel niente di Barbiana, di cui don Milani diviene Priore nel 1954, che si compie il suo “miracolo”, quel niente che egli ha fatto fiorire e fruttificare prendendosi cura degli esclusi e degli emarginati. 
Un libro straordinario e commovente in cui Gesualdi, che ha vissuto in casa con don Lorenzo tutto il periodo di Barbiana, apre il suo cuore e ci svela il vero volto di don Milani: un prete, un maestro, un uomo, un “padre” che ha fatto del suo sacerdozio un dono ai poveri.

Biografia di Michele Gesualdi

“La Parola di Dio ogni giorno 2017”

“LA PAROLA DI DIO OGNI GIORNO 2017” di Vincenzo Paglia Vincenzo Paglia commenta i brani biblici della Liturgia 2017. 
 
I brani della Scrittura legati all’anno liturgico commentati da mons. Vincenzo Paglia; un testo pensato per accompagnare quotidianamente la riflessione spirituale e la preghiera. Mons. Paglia commenta i Salmi della Messa quotidiana, mentre per le Domeniche e le Feste il commento è esteso a tutti i brani biblici della Liturgia. Il libro copre il periodo che va dall’inizio dell’anno liturgico con l’Avvento 2016 fino alla vigilia dell’Avvento 2017. Ogni giorno è accompagnato dalle memorie della preghiera quotidiana della Comunità di Sant’Egidio e da alcune memorie della storia della Chiesa e della storia del mondo.
 
Vincenzo Paglia, La parola di Dio ogni giorno 2017, Edizioni San Paolo 2016, pp. 696, euro 20,00.
 
L’AUTORE – VINCENZO PAGLIA è vescovo di TerniNarni-Amelia e presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Conferenza episcopale. Collabora a quotidiani e riviste, oltre che a trasmissioni radio e televisive.  Per le Edizioni San Paolo ha pubblicato, tra gli altri: Ecco l’agnello di Dio (2007); La via dell’amore (2008); Maestro, è bello stare qui (2008); Tu sei la mia roccia. Voci e immagini dai Salmi (2008); La Bibbia nella Chiesa (2008); Fenomeno Bibbia. Una sorprendente inchiesta sul libro più letto del mondo (2009); I Salmi. Le preghiere suggerite da Dio (2009); Alla mensa della Parola (2009); Le Sette Parole di Gesù in Croce (2010). 
 
 
Ufficio Comunicazione Gruppo Editoriale San Paolo Via Giotto, 36 – 20145 Milano Office : +39 02-48072561 E-mail: comunicazione@stpauls.it

No ai cristiani tiepidi, la loro tranquillità inganna

Guardarsi dal diventare “cristiani tiepidi”, perché così perdiamo di vista il Signore. E’ l’ammonimento di Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha sottolineato che il Signore cerca sempre di correggerci, di risvegliare la nostra anima tiepida e addormentata nel tepore. Ed ha esortato a saper discernere quando il Signore bussa alla nostra porta. Il servizio di Alessandro Gisotti per la Radio Vaticana:

Il Signore rimprovera i cristiani “tiepidi” della Chiesa di Laodicea. Francesco ha preso spunto dalla Prima Lettura, un passo tratto dall’Apocalisse di Giovanni, per soffermarsi sul rischio del tepore nella Chiesa, tanto oggi quanto per la prima comunità cristiana. Il Papa sottolinea come il Signore utilizzi un linguaggio forte, di rimprovero per i tiepidi, “cristiani che non sono né freddi, né caldi”. A costoro dice: “Sto per vomitarti dalla mia bocca”.

No alla tranquillità che inganna, lì non c’è Dio
Il Signore, soggiunge il Papa, rimprovera quella tranquillità “senza consistenza” dei tiepidi. Una “tranquillità che inganna”:
“Ma cosa pensa un tiepido? Lo dice qui il Signore: pensa di essere ricco. ‘Mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla. Sono tranquillo’. Quella tranquillità che inganna. Quando nell’anima di una Chiesa, di una famiglia, di una comunità, di una persona sempre tutto è tranquillo, lì non c’è Dio”. Ai tiepidi, riprende Francesco, il Papa dice di non addormentarsi nel tepore, nella convinzione di non aver bisogno di nulla, di non fare male a nessuno.

Il Signore mostra che i tiepidi sono nudi, la loro ricchezza non viene da Dio
Il Signore, avverte, definisce costoro – che si credono ricchi – infelici e miserabili. Tuttavia, soggiunge, “lo fa per amore”, affinché scoprano un’altra ricchezza, quella che solo Lui può dare: “Non quella ricchezza dell’anima che tu credi di avere perché sei buono, fai tutte le cose bene, tutto tranquillo: un’altra ricchezza, quella che viene da Dio, che sempre porta una croce, sempre porta tempesta, sempre porta qualche inquietudine nell’anima. E ti consiglio di comperare abiti bianchi, per vestirti, perché non appaia la tua vergognosa nudità: i tiepidi non si accorgono di essere nudi, come la favola del re nudo che è un bambino a dirgli: ‘Ma, il re è nudo!’ … I tiepidi sono nudi”.

I tiepidi, afferma il Papa, “perdono la capacità di contemplazione, la capacità di vedere le grandi e belle cose di Dio”. Per questo, il Signore cerca di svegliarli, di aiutarli a convertirsi. Ma, prosegue Francesco, il Signore sta anche “in un’altra maniera: sta per invitarci: ‘Ecco, sto alla porta e busso’”. Qui il Papa evidenzia l’importanza dell’essere capaci di “sentire quando il Signore bussa alla nostra porta”, “perché vuole darci qualcosa di buono, vuole entrare da noi”.

Saper discernere quando il Signore bussa alla nostra porta
Ci sono cristiani, è la sua constatazione, che “non si accorgono quando bussa il Signore”, “ogni rumore è lo stesso, per loro”. Bisogna allora “capire bene” quando bussa il Signore, quando vuole portarci la sua consolazione. Il Signore, aggiunge, sta davanti a noi anche “per farsi invitare”. E’ quello che avviene a Zaccheo, come narra il Vangelo odierno: “Quella curiosità di Zaccheo, il piccolo, è stata seminata dallo Spirito Santo”: “L’iniziativa viene dallo Spirito verso il Signore: il Signore sta. Alza gli occhi e dice: ‘Ma, vieni, invitami a casa tua’. Il Signore sta … sempre sta con amore: o per correggerci o per invitarci a cena o per farsi invitare. Sta per dirci: ‘Svegliati’. Sta per dirci: ‘Apri’. Sta per dirci: ‘Scendi’. Ma sempre è Lui. Io so distinguere nel mio cuore quando il Signore mi dice ‘svegliati’? Quando mi dice ‘apri’? E quando mi dice ‘scendi’? Lo Spirito Santo ci dia la grazia di saper discernere queste chiamate”.

Santa Marta del 15 novembre

La via maestra dell’educazione

A un anno dal convegno ecclesiale di Firenze, resta viva la riflessione sull’educare, alla luce del magistero di papa Francesco e del lavoro condotto in modo sinodale

“Creare rete tra comunità cristiane e territorio: pensare processi e non eventi educativi; prendere più consapevolezza della realtà in divenire della scuola, più consapevolezza della qualità della presenza dei cristiani nella scuola, sempre attraversata dalle frontiere esistenziali delle nuove generazioni che sempre più percorrono i sentieri e le autostrade virtuali”.

È quanto si legge in una delle sintesi dei “tavoli” che hanno animato il quinto convegno ecclesiale nazionale: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” (Firenze, 9-13 novembre 2015). A un anno di distanza vale la pena  continuare a lasciarsi provocare dalle parole di papa Francesco ai convegnisti, dal suo magistero e dal grande lavoro di confronto e proposta sviluppato nelle giornate del convegno.

Per quanto riguarda l’ambito dell’educare, un aiuto viene dalla sintesi fatta da Pierpaolo Triani, membro della Giunta del Convegno ecclesiale, proposta al convegno nazionale dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università (Salerno, aprile 2016) e qui riproposta insieme alla relazione conclusiva di suor Pina Del Core, animatrice dell’ambito sull’educare a Firenze.

La valenza educativa della comunità cristiana – nota Triani – “non riguarda solo alcuni aspetti di essa, ma innerva ogni aspetto della sua vita. Non vi è nessuna attività della Chiesa che non abbia in sé una forza educativa. Vi è cosi nella comunità cristiana un bagaglio di risorse educative spesso sottovalutato e perciò poco valorizzato. Un bagaglio che chiede di essere messo in sinergia con quello delle altre realtà del territorio”.

ALLEGATI

 

FONTE:

http://www.educazione.chiesacattolica.it/la-via-maestra-delleducazione/

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 

Lectio – Anno C

 

Prima lettura: 2Samuele 5,1-3

 

 

       In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele. 

 

 

Cristo re dell’universo ha una prefigurazione in Davide che riunisce tutto il popolo in un unico regno. La breve lettura proposta dalla liturgia odierna contiene le tre motivazioni che spingono gli anziani a chiedere l’unificazione del regno (vv. 1-2) e quindi il fatto dell’unificazione con l’unzione regale di Davide (v. 3).

     Le tre motivazioni sono rispettivamente: una certa familiarità con Davide che era loro ‘fratello’ di razza perché membro dello stesso popolo; Davide di fatto aveva già assunto il comando militare e quindi era loro capo; infine, un oracolo divino aveva manifestato la predilezione per lui.

     Troviamo qui alcuni tratti perché ci sia un buon regno. Si parte da un consenso di adesione e da un riconoscimento nella figura del re che diventa una ‘persona corporativa’. La frase «ecco noi siamo tue ossa e tua carne», riecheggia il grido osannante del primo uomo che si ‘specchiava’ nella sua donna (cf. Gn 2,23). Si crea una sintonia che si avvicina molto all’identità. Davide ha, dal canto suo, il compito di essere pastore, di pascere il suo popolo. Quella del pastore è una delle più remote e simpatiche denominazioni del re, forse già presente al tempo dell’antico re babilonese Hammurabi (XVIII secolo a.C.). Il termine esprime la responsabilità e la cura indefessa che il re esercita a vantaggio della sua gente. Egli è lì per loro.

     L’unzione sancisce un’alleanza che è impegno reciproco di fedeltà e di amore. Si stabilisce nel medesimo tempo un’alleanza in orizzontale, con tutti i mèmbri del popolo, di cui il re, come pastore, è il primo responsabile. Oggi diremmo, con un linguaggio a noi più familiare, che egli è il ‘padre’ di tutti. Poi sussiste un’alleanza in verticale, in quanto il re è il rappresentante di tutto il popolo presso Dio.

     La figura di Davide, re ideale e prefigurazione del re messia, non ha avuto buoni imitatori nei suoi successori. Le delusioni causate dal comportamento scorretto di tanti re che si sono avvicendati sul trono, non ha affievolito la speranza messianica, perché questa si fondava essenzialmente sulla sovranità divina e sulla sua promessa. Sempre di più i giudei hanno atteso qualcuno che sarebbe venuto dall’alto e avrebbe avuto tutte le qualità necessario all’avvento del tempo messianico. Gesù mostra di avere le qualità richieste, deludendo però i suoi contemporanei che attendevano un paradiso in terra.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,12-20

 

     

        Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

 

Il primato di Cristo o, se si preferisce, la sua eccellenza che lo incorona re, è mirabilmente scolpita nel famoso inno che la lettura propone. Siamo in presenza di una composizione semplicemente stupenda, anche se irta di difficoltà per gli studiosi. Tralasciando le questioni tecniche e le spinose problematiche connesse, ci limitiamo ad alcuni accenni in sin-tonia con la liturgia odierna.

     L’inno presenta due strofe che celebrano Cristo come il primogenito di tutta la creazione (vv. 15-18a) e come il primogenito dei morti (vv. 18b-20): alla cristologia cosmica della prima strofa corrisponde la soteriologia cosmica della seconda. Creazione e redenzione sono rapportate reciprocamente. Cristo in quanto esaltato nella redenzione totale è pensato anche come il detentore di una sovranità cosmica, quella che presiede, dirige e orienta tutta la creazione. L’inno è un canto di lode al Cristo trionfatore che ha fatto della sua risurrezione una nuova creazione, più completa della prima. La nuova creazione, riconciliata in Cristo, riceve la pienezza, quella che la prima non possedeva. Senza trovare il termine, vi ravvisiamo una celebrazione della regalità di Cristo, signore dell’universo.

     Il fondamento di tutto sta nella sua divinità, che lo rende uguale a Dio, e nella sua umanità, attraverso la quale può esprimere il suo amore che arriva fino al dono della vita.

     L’inno parla sempre di Cristo, senza mai nominarlo. Egli viene presentato al v. 15 come «immagine del Dio invisibile». Qui per «immagine» non si intende una creazione (come in Gn 1,26), ma la riproposizione della stessa natura, come tutto l’inno si impegnerà a dimostrare. Egli è superiore al creato perché «generato prima di ogni creatura» (lett. «primogenito di tutta la creazione»), indicando più una preminenza che una precedenza nel tempo (cf. Sl 89,28). Il primogenito, nel diritto familiare palestinese, godeva di alcune prerogative (cf. Gn 43,33; Dt 21,17). In base a questo sottofondo, si comprende meglio il titolo dato a Cristo, primogenito in senso di eccellenza, e non in senso di anteriorità, come il testo italiano potrebbe lasciar intendere.

     Oltre che la preminenza sul creato, Cristo è presentato come il principio vitale nascosto in «tutte le cose». Egli è causa effettiva di tutto e anche fine ultimo, è il punto di riferimento necessario. Per ogni cosa egli è la possibilità di continuare ad esistere, una specie di fondamento universale. Se tutto è riferito a Cristo, egli è celebrato come il mediatore della signoria di Dio, veramente la sua icona.

     Dopo il Cristo creatore, la seconda parte dell’inno (vv. 18b-20) celebra Cristo come salvatore. Se non è presente il termine, chiara ne è l’idea. È sempre in vista di una celebrazione della superiorità di Cristo che continua l’inno, riprendendo il concetto che egli è «principio, il primogenito». Come la creazione aveva dato la vita a chi non l’aveva, così ora l’opera di Cristo dà la vita a chi l’ha persa. Cristo dà vita. Sta qui uno dei concetti principali del primato: essere ‘fonte di vita’. Occupa il primo posto, non perché ha bisogno di essere salvato, ma perché ha sperimentato per primo il morire-risorgere: «il primogenito di quelli che risorgono dai morti». Cristo porta la comunità dei credenti, la Chiesa, a formare la ‘sua’ Chiesa. Sottomessi a lui, ma anche intimamente legati a lui, i fedeli prendono parte alla sua vita, entrano in un ordine nuovo, più alto, soprannaturale. Così diventa principio e primogenito dei morti, sia perché si trova alla testa, sia, soprattutto, perché gli altri senza di lui non esisterebbero: nella sua risurrezione è garantita quella degli altri. Ecco perché ottiene «il primato su tutte le cose».

     Ora Paolo passa a presentare un altro motivo di primato: la pienezza di Cristo. Non si parla di dimensioni, ma di capacità di dominare ogni cosa. «Pienezza» (in greco pléroma) richiama ai Colossesi l’idea che Cristo è in se stesso totalmente ricco; non ha quindi bisogno di nessuna integrazione.

     La redenzione è presentata in tutta la sua tragica storicità, «avendo pacificato con il sangue della sua croce», per ricordare al lettore un dato che ancora alla concretezza di un avvenimento e al dono personale di un individuo che ama. Il richiamo al sangue conserva un ricordo storico di impressionante realismo (cf. il Vangelo di oggi).

     Cristo è il re universale perché ha creato tutto e tutto ha ricreato con l’amore di una vita totalmente donata.

 

Vangelo: Luca 23,35-43

 

 

         In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

            

 

Esegesi

     Siamo alle battute finali della passione. Il clima di ostilità è surriscaldato al massimo. La scelta del presente brano è motivata dalla presenza del titolo di re, dato a Gesù, che ben si intona alla festa di oggi. Si gioca su questo titolo; per qualcuno di dileggio, per altri esprimente una costitutiva qualità di Gesù. Due realtà opposte si fronteggiano: da una parte sono schierate, in forza massiccia, le potenze del male (vv. 35-39), dall’altra, in forza esigua, quelle del bene (vv. 40-43). La theologia crucis sta proprio nel fatto che il piccolo sconfigge il grande, come Davide ha vinto il gigante. Il negativo è impersonato dal triplice scherno: quello dei capi, quello dei soldati e quello di uno dei malfattori. Sono in tanti a credere che siamo alla fine di un’avventura, alimentata da vuota speranza: «Ha salvato altri! Salvi se stesso… Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso… Salva te stesso e noi!» Rimane solo il tempo per l’esecuzione capitale.

     Il fatto ostico di un condannato che muore, suscita, paradossalmente, uno sconfinato interesse. In una situazione di per sé ripugnante, fiorisce una attenzione che lascia presagire una novità. Quella morte riveste un medito valore, quasi di pubblicità. Il mistero pasquale è già abbozzato, o meglio, già definito in questa morte così carica di promessa.

     Sul Calvario, la sofferenza e la morte di Gesù diventano uno spartiacque che divide gli uomini: alcuni troveranno motivo per negare in lui la presenza di Dio, altri vi vedranno una misteriosa, anche se non facilmente comprensibile, presenza divina. La morte di Gesù è uguale e anche diversa dalle altre. Con la morte di tutti gli uomini condivide la tragica impotenza, il senso di fine, il dramma della separazione da tutto e da tutti. Diversamente da quella degli altri, la morte di Cristo porta i germi di trionfo. Lo attestano la scritta che campeggia sul cartiglio: «Costui è il re dei Giudei», le parole del buon ladrone e, soprattutto, la sentenza finale di Gesù: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43). Davvero strano questo condannato che, sul punto di morire, determina la vita degli altri con un’autorità che assomiglia molto a quella divina. Consideriamo la cosa più da vicino.

     Gesù reagisce con potere sovrano ad una felice provocazione. Il ladrone che si era rivolto a lui, forse in un ultimo, disperato S.O.S., non si rende pienamente conto del tenore delle sue parole. Egli chiede un ricordo (forse una ‘raccomandazione’) nel regno. Senza che egli ne abbia lucida coscienza, il regno invocato è quello che cresce in terra, ma che si radica in cielo, quello che avviene nel tempo, ma che ha caratteri di eternità. È il regno che Gesù sta meritando con il sacrificio della sua vita. È il regno che potrebbe avere il suo archetipo in quel giardino, un tempo luogo di incontro amoroso tra Dio e la sua creatura (cf. Gn 2), e ora sigillato dal peccato. Gesù si appresta a riaprirlo. Non servono chiavi. Occorre un atto di amore infinito che può compiere solo il Figlio dell’uomo che è altresì Figlio di Dio.

     La risposta di Gesù si apre con la solennità della grandi dichiarazioni: «In verità io ti dico». C’è da aspettarsi qualche parola che farà storia. Infatti, giunge una solenne e inaspettata promessa: «oggi con me sarai nel paradiso». Il giardino è riaperto. La comunione con il Padre è ripristinata, un nuovo abbraccio lega l’uomo al suo Creatore. Questo abbraccio è Cristo crocifisso. Tutti gli uomini sono compresi nelle sue braccia allargate; veramente tutti sono ‘abbracciati’. La scena della morte, tratteggiata con colori drammatici, mai funerei, si illumina improvvisamente con il bagliore della vita. È subito apoteosi.

     Il brano liturgico si interrompe qui, senza passare a descrivere la morte. Interessava, nel presente contesto, individuare e ribadire la regalità di Cristo. Ora sì, è possibile morire. Ma non è più vera morte. È solo passaggio. Veramente la morte è vinta dalla croce e s’inaugura il tempo finale profetizzato da Ezechiele (cf Ez 37,12), da Daniele (cf Dn 12,1-2) e da tanti altri. Gesù realizza le profezie e la sua morte è già principio di vita. L’atto finale della vita di Gesù è di per sé redentore ed è il motivo del suo trionfo sulla morte. Con Cristo s’inaugura un’umanità nuova. Dopo la sua morte non è più concessa la scelta tra il dolore e la felicità, ma tra il dolore senza senso e senza compenso e la felicità raggiunta attraverso il dolore; non tra la morte e la vita senza morte, ma tra la morte senza vita di gloria e la gloria nella quale la morte è diventata premessa indispensabile di vita eterna.

     La vicenda di Gesù anticipa e rende possibile quella di ogni uomo. Lo documenta la pagina evangelica odierna: il ‘collega’ di supplizio diventa il ‘collega’ nel regno. Del regno Gesù aveva detto qualcosa in precedenza: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché

possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e sederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele» (Lc 22,28-30). La citazione richiama elementi analoghi al passo liturgico odierno: il regno è dono del Padre e di Cristo, lo si ottiene ‘contribuendo’ personalmente e uno dei migliori contributi è la sofferenza (idea racchiusa nel concetto di ‘perseverare’). Il regno è comunione e condivisione con la divinità: la prima è espressa con l’immagine classica del banchetto (cf. Is 25,6ss), l’altra con l’immagine del governare (cf. Mt 19,28). Nel regno vige un’unica regola, quella della comunione di amore. Il banchetto e la condivisione del potere, sono mirabilmente riassunte nel «con me sarai», una succosa sin-tesi teologica di ‘paradiso’.

     Essere con Gesù, il Crocifisso di questo momento, presto il Risorto, equivale ad essere con il Padre e con lo Spirito. Il paradiso è comunione con la Trinità.

 

L’immagine della domenica

 

El Acebo del Bierzo (Castilla Y Leon) – Cammino Santiago 2016

 

 

 

CANTO ALLA CROCE

Ama la croce, luce e pace,

e per essa, ormai,

Cristo sia il tuo signore!

Tracciala su di te con la mano:

essa ti tiene e tu la tieni

con tutto il tuo essere.

Il cuore in croce, la croce nel cuore,

liberato da ogni bruttura,

calmo e sereno;

che ben forte la croce amatissima

dalle tue labbra sia proclamata:

lodata senza fine. 

Nel riposo, nella fatica,

quando ridi e quando piangi,

conserva ben stretta

– quando vai, quando vieni,

nelle gioie, nei dolori –

la croce nel cuore! 

San Bonaventura

 

Meditazione

     Le letture di questa domenica finale dell’anno liturgico, che celebra Cristo quale Signore e re dell’universo, presentano la regalità nella sua dimensione comunionale, corporativa. Nella prima lettura le tribù di Israele riconoscono Davide come re e mostrano di sentire il messia come figura corporativa. Esse si affidano a lui quasi incorporandosi simbolicamente a lui: «Noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne» (1Sam 5,1). Nel vangelo siamo di fronte a Gesù quale messia debole, inerme, che, sulla croce, mentre si affida radicalmente a Dio (Lc 23,46), vede affidarsi a lui un malfattore crocifisso accanto a lui. E Gesù promette comunione a costui, incorpora a sé quest’uomo promettendogli comunione: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). La seconda lettura esprime la fede ormai sviluppata della chiesa che celebra l’incorporazione cosmica nel Cristo Risorto: tutto è stato creato in Cristo, per mezzo di lui, ma anche in vista di lui, per essere ricapitolato in lui (Col 1,12-20).

     Per tre volte Gesù viene deriso come Messia e per tre volte i suoi avversari gli rivolgono l’invito a salvare se stesso, quasi che proprio la capacità di sottrarsi alla croce, di salvare la propria vita sia per loro il sigillo dell’autenticità della messianicità (Lc 23,35.37.39). Invece, è esattamente l’autosalvezza ciò che è impossibile nello spazio cristiano, ciò che contraddice radicalmente la salvezza cristiana. Gesù aveva annunciato: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24). Ma prima di annunciare che chi perderà la vita a causa sua, la salverà, egli stesso è passato attraverso l’esperienza del perdere la propria vita, del perdere se stesso. Mettere in salvo la propria vita è la grande tentazione, a cui Gesù si è opposto già durante le tentazioni inaugurali del suo ministero (Lc 4,1-13). Ed è la tentazione perenne del cristiano e della chiesa. Infatti, vale anche per la chiesa il detto di Gesù per cui chi cerca se stesso, chi vuole salvare se stesso, ovvero chi fa di se stesso un fine, il proprio fine, perde se stesso.

     La regalità di Gesù è derisa (Lc 23,35-37) o insultata (Lc 23,39); di essa ci si fa beffe (Lc 23,35-37) o si cerca di sfruttarla a proprio vantaggio (Lc 23,39). Gesù abita lo scandalo del Messia perduto che può così raggiungere chiunque si trovi in situazioni di perdizione. Del resto, noi sappiamo che condizione indispensabile per incontrare e aiutare l’altro nella sua sofferenza, è condividere qualcosa della sua impotenza e debolezza. Scrive Bonhoeffer: «Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza e della sua sofferenza […] La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare». La regalità di Gesù capovolge dunque la logica di potenza e forza che regge le regalità umane.

Gesù mostra la sua signoria manifestando la sua capacità di giudizio e di divisione: egli è segno di contraddizione e di fronte a lui ci si divide, si manifestano i pensieri dei cuori. Dei due crocifissi con lui uno lo insulta, l’altro lo prega. In particolare, il cosiddetto «buon ladrone» appare tipo del discepolo cristiano. Egli innanzitutto opera la correzione fraterna «rimproverando» (Lc 23,40) l’altro condannato che insulta Gesù, e mettendo così in atto la parola di Gesù: «Se tuo fratello pecca, rimproveralo» (Lc 17,9) ; inoltre egli appare simbolo della responsabilità: riconosce il male che ha commesso e ne accetta le conseguenze (Lc 23,41a); quindi esprime una confessione di fede riconoscendo l’innocenza di Gesù (Lc 23,41b); infine si rivolge a Gesù con la preghiera, la supplica, e riconoscendone la regalità escatologica: «Gesù, ricordati di me, quando verrai [non «entrerai», come traduce la Bibbia CEI] nel tuo regno» (Lc 23,42). Immagine dei credenti e della chiesa che, nella storia, sono chiamati a testimoniare la regalità di Cristo condividendo le sofferenze del Crocifisso, invocando la venuta del Regno, e attendendo il Veniente nella gloria.

 

Preghiere e racconti

Il Buon ladrone

Coloro ch’egli ama, si accalcano, montano la guardia. Intorno al suo corpo esposto, ricoprendo, velando col loro amore la sua nudità, troppo sanguinante, troppo dolorosa per offendere qualsiasi sguardo. A traverso il sangue e il pus, egli vede la propria pena riflessa sui volti cari: quelli di Maria sua madre, di Maria Maddalena, d’una delle sue zie, moglie di Cleofa. Giovanni ha forse gli occhi chiusi. Ed ecco l’episodio sublime, l’ultima invenzione dell’Amore, innocente e crocifisso, che Luca solo riporta: L’uno dei malfattori appiccati lo ingiuria dicendo: – Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi.  Ma l’altro lo riprendeva dicendo: – Non hai tu timore di Dio, che sei nel medesimo supplizio? Per noi è giustizia, perché riceviamo la pena degna dei nostri misfatti: ma costui non ha commesso nulla di male. E tosto che ha parlato, una grazia immensa gli piove in cuore: quella di credere che quel suppliziato, quel miserevole rifiuto che i cani schiferebbero, è il Cristo, il Figlio di Dio, l’Autore della vita, il Re del cielo. E dice a Gesù: «Signore, ricordati di me, quando sarai entrato nel tuo regno». « Oggi stesso tu sarai con me in paradiso ». Un solo moto di puro amore, e un’intera vita criminale è cancellata. Buon ladrone, santo operaio dell’ultima ora, inebriaci di speranza.

(E. MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 149-150).

 

Cristo è il centro

Le Letture bibliche che sono state proclamate hanno come filo conduttore la centralità di Cristo. Cristo è al centro, Cristo è il centro. Cristo centro della creazione, Cristo centro del popolo, Cristo centro della storia.

1. L’Apostolo Paolo ci offre una visione molto profonda della centralità di Gesù. Ce lo presenta come il Primogenito di tutta la creazione: in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui furono create tutte le cose. Egli è il centro di tutte le cose, è il principio: Gesù Cristo, il Signore. Dio ha dato a Lui la pienezza, la totalità, perché in Lui siano riconciliate tutte le cose (cfr 1,12-20). Signore della creazione, Signore della riconciliazione.

Questa immagine ci fa capire che Gesù è il centro della creazione; e pertanto l’atteggiamento richiesto al credente, se vuole essere tale, è quello di riconoscere e di accogliere nella vita questa centralità di Gesù Cristo, nei pensieri, nelle parole e nelle opere. E così i nostri pensieri saranno pensieri cristiani, pensieri di Cristo. Le nostre opere saranno opere cristiane, opere di Cristo, le nostre parole saranno parole cristiane, parole di Cristo. Invece, quando si perde questo centro, perché lo si sostituisce con qualcosa d’altro, ne derivano soltanto dei danni, per l’ambiente attorno a noi e per l’uomo stesso.

2. Oltre ad essere centro della creazione e centro della riconciliazione, Cristo è centro del popolo di Dio. E proprio oggi è qui, al centro di noi. Adesso è qui nella Parola, e sarà qui sull’altare, vivo, presente, in mezzo a noi, il suo popolo. E’ quanto ci viene mostrato nella prima Lettura, dove si racconta del giorno in cui le tribù d’Israele vennero a cercare Davide e davanti al Signore lo unsero re sopra Israele (cfr 2 Sam 5,1-3). Attraverso la ricerca della figura ideale del re, quegli uomini cercavano Dio stesso: un Dio che si facesse vicino, che accettasse di accompagnarsi al cammino dell’uomo, che si facesse loro fratello.

Cristo, discendente del re Davide, è proprio il “fratello” intorno al quale si costituisce il popolo, che si prende cura del suo popolo, di tutti noi, a costo della sua vita. In Lui noi siamo uno; un solo popolo uniti a Lui, condividiamo un solo cammino, un solo destino. Solamente in Lui, in Lui come centro, abbiamo l’identità come popolo.

3. E, infine, Cristo è il centro della storia dell’umanità, e anche il centro della storia di ogni uomo. A Lui possiamo riferire le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di cui è intessuta la nostra vita. Quando Gesù è al centro, anche i momenti più bui della nostra esistenza si illuminano, e ci dà speranza, come avviene per il buon ladrone nel Vangelo di oggi.

Mentre tutti gli altri si rivolgono a Gesù con disprezzo – “Se tu sei il Cristo, il Re Messia, salva te stesso scendendo dal patibolo!” – quell’uomo, che ha sbagliato nella vita, alla fine si aggrappa pentito a Gesù crocifisso implorando: «Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). E Gesù gli promette: «Oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43): il suo Regno. Gesù pronuncia solo la parola del perdono, non quella della condanna; e quando l’uomo trova il coraggio di chiedere questo perdono, il Signore non lascia mai cadere una simile richiesta. Oggi tutti noi possiamo pensare alla nostra storia, al nostro cammino. Ognuno di noi ha la sua storia; ognuno di noi ha anche i suoi sbagli, i suoi peccati, i suoi momenti felici e i suoi momenti bui. Ci farà bene, in questa giornata, pensare alla nostra storia, e guardare Gesù, e dal cuore ripetergli tante volte, ma con il cuore, in silenzio, ognuno di noi: “Ricordati di me, Signore, adesso che sei nel tuo Regno! Gesù, ricordati di me, perché io ho voglia di diventare buono, ho voglia di diventare buona, ma non ho forza, non posso: sono peccatore, sono peccatore. Ma ricordati di me, Gesù! Tu puoi ricordarti di me, perché Tu sei al centro, Tu sei proprio nel tuo Regno!”. Che bello! Facciamolo oggi tutti, ognuno nel suo cuore, tante volte. “Ricordati di me, Signore, Tu che sei al centro, Tu che sei nel tuo Regno!”.

La promessa di Gesù al buon ladrone ci dà una grande speranza: ci dice che la grazia di Dio è sempre più abbondante della preghiera che l’ha domandata. Il Signore dona sempre di più, è tanto generoso, dona sempre di più di quanto gli si domanda: gli chiedi di ricordarsi di te, e ti porta nel suo Regno! Gesù è proprio il centro dei nostri desideri di gioia e di salvezza. Andiamo tutti insieme su questa strada!

(Santa messa a conclusione dell’Anno della fede nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo, Omelia del santo padre Francesco, piazza san Pietro, domenica, 24 novembre 2013).

 

Voglio che sia una regina

«C’era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Suonate le trombe, gli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Lo squillo di una tromba impose il silenzio su tutta l’assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l’uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: “Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto linguaggio”.

“No! Vattene! Fatelo tacere’ Buuu”. I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. “Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!”.

Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono: “Questo sarà il nostro re! Il più forte!”.

Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s’incrociavano.

Suonò di nuovo la tromba. Un anziano, sereno e prudente, sali sul gradino più alto e disse: “Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi”.

Presero un bambino e lo condussero davanti a tutti. L’anziano gli chiese: “Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?”.

Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: “I re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma”».

(B. Ferrero, C’è qualcuno lassù, Torino, LDC, 1993, 12-13).

 

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno di Dio;

dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera del sol,

padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Chè sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

 

«Non sono così».

Si racconta, fra i Padri del deserto, la storia di un misero calzolaio di Alessandria che un angelo aveva presentato al grande sant’Antonio come un uomo più avanti di lui, malgrado gli sforzi eroici dell’eremita appassionato, fortemente preoccupato di fare progressi. Sconcertato non poco da questa rivelazione, Antonio si recò subito nella città di perdizione per imparare dalle labbra del calzolaio il segreto della sua perfezione: «Cosa fai di straordinario per santificarti in un simile ambiente?», «Io? Faccio le scarpe!». «Senza dubbio. Ma devi avere un segreto. Come vivi?». «Suddivido la mia vita in tre ambiti: la preghiera, il lavoro, ed il sonno», «Io prego sempre, quello che fai tu non va bene! E la povertà?». «Anche in questo caso tre parti: una per la chiesa, una per i poveri e una per me». «Ma io ho dato tutto quello che avevo… Deve esserci qualcos’altro. Non credi?».

«No». «E tu riesci a sopportare queste persone che non sanno più distinguere il bene dal male, che vanno chiaramente all’inferno?». «Ah, lì, non lo faccio, non lo sopporto! Chiedo a Dio di farmi scendere vivo all’inferno purché essi siano salvati!». Sant’Antonio si ritirò in punta dei piedi confessando: «Non sono così».

 

Signore, Misericordia…

Signore, sono davanti a Te da povero tuo amico, debole, peccatore… Signore, io mi abbandono a Te, ti amo davvero, ma resto debole, resto peccatore. Signore, ti invoco in ogni momento: medito giorno e notte la tua Parola ma i miei fallimenti mi sono sempre davanti. Signore, sei il mio vero e unico padrone, ma la mia forza diventa spesso debolezza. Signore, misericordia per il tuo povero amico.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto – Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2005, 54).

 

Aiutami a dire “sì”

Ho paura a di “sì”, Signore.

Dove mi porterai?

Ho paura del “sì” che comporta altri “sì”.

Ho paura a mettere la mia mano nella tua;

perché tu possa stringerla […]

O, Signore, ho paura delle tue richieste,

ma chi può opporti resistenza?

Che venga il tuo regno, non il mio,

che sia fatta la tua volontà e non la mia,

Aiutami a dire “sì”».

(Michel QUOIST)

 

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).

 

Lo proclamo re perché ha dato la sua vita

Nessuno costrinse il ladrone, nessuno lo forzò, ma lui stesso disse all’altro: Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, ma lui non ha fatto nulla di male (Lc 23,40-41). E poi dice: Ricordati di me, nel tuo regno (Lc 23,42). Non ha osato dire: Ricordati di me, nel tuo regno prima di aver deposto attraverso la confessione il fardello dei suoi peccati. Vedi, cristiano, qual è il potere del riconoscimento del proprio peccato? Ha confessato di essere peccatore e ha aperto il paradiso; ha confessato e ha trovato il coraggio di chiedere il paradiso dopo tutti i suoi latrocini. Vedi quanti beni ci procura la croce? Pensi al regno? Che cosa vedi che gli sia simile? Vedi i chiodi e la croce, ma proprio questa croce, dice la Scrittura, è simbolo del regno. Per questo, quando vedo Gesù crocifisso, lo proclamo re. E proprio di un re morire per i suoi sudditi. Egli stesso ha detto: Il buon pastore da la sua vita per le pecore (Gv 10,11). Anche un buon re da la sua vita per i suoi sudditi. Io lo proclamo re perché ha dato la sua vita.

Ricordati di me, nel tuo regno. Vedi come la croce è simbolo del regno? Desideri un’altra prova? Il Signore non ha lasciato la sua croce sulla terra, ma l’ha presa e portata con sé in cielo. Come lo sappiamo? Perché l’avrà con sé quando ritornerà nella sua gloria. Impara quanto è degna di venerazione la croce che egli ha chiamato sua gloria […] Quando il Figlio dell’uomo verrà, il sole si oscurerà e la luna perderà il suo splendore (Mt 24,29). Il suo splendore sarà tale da oscurare anche gli astri più luminosi. Allora anche le stelle cadranno, allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo (Mt 24,29-30). Vedi quant’è potente il segno della croce!

[…] Quando un re entra in una città, i soldati lo precedono portando sulle loro spalle gli stendardi e annunciando il suo arrivo. Così quando il Signore discenderà dai cieli, lo precederà una schiera di angeli portando sulle loro spalle il segno della croce e annunciando la venuta del nostro re.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla croce e sul ladrone 1,3-4, PG 49,403-404).

Preghiera

Troppe volte, Signore Gesù,

abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani,

ai vari dominatori del mondo.

Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro

e dall’angoscia del pericolo,

ci rivolgiamo ad altri «re».

Solo l’amore e la fiducia che ne deriva

liberano l’uomo dalla fobia

e dalla tirannia della sua presunzione.

Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 per l’approfondimento:

XXXIV DOM TEMP ORD (C) CRISTO RE (C)

 

66° Giornata del Ringraziamento

Si svolgerà nelle diocesi di Mazara del Vallo e Trapani, domenica 13 novembre 2016, la 66ª Giornata Nazionale del Ringraziamento «Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra» (Sal 104, 14).
La Giornata sarà preceduta, sabato 12 novembre ore 9:00, da un Seminario di studio “Semi nutrienti per un futuro sostenibile” presso il Seminario vescovile “San Giuseppe” (Via Cosenza 90, Erice Trapani).
Nell’anno che l’Assemblea dell’ONU ha voluto dedicare ai legumi, i Vescovi incaricati della pastorale sociale e del lavoro, nel Messaggio per la Giornata, allargano lo sguardo ad un ampio orizzonte che  “sta ispirando opere concrete nella diversificazione dei modelli di produzione e consumo del cibo, come la ri-valorizzazione dei mercati locali, l’inclusione di soggetti socialmente deboli o svantaggiati nell’agricoltura sociale, le iniziative per la legalità e il recupero all’attività agricola dei terreni confiscati alle varie mafie, l’impegno per la trasparenza dell’informazione ai consumatori”.
L’obiettivo indicato dai vescovi, attraverso “un impegno formativo ed educativo”, è quello di “una sana nutrizione che recupera la sobrietà delle tradizioni alimentari, apre spazi di diversificazione a favore delle produzioni tipiche e locali, risponde alle domande della società civile sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica, del ciclo dei prodotti, con particolare riguardo al cambiamento climatico.”

   › Manifesto [f.to pdf 200 kb]
   › Programma [f.to pdf 251 kb]
   › Messaggio dei vescovi [f.to doc 25 kb]

In allegato il testo del Messaggio.

 

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Malachia 3,19-20

 Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.

 

  • Il libretto di Malachia pare si concluda con l’annunzio del giorno del Signore, quale risposta al lamento di alcuni israeliti (3,19-21). Questi si rammaricano di fronte al problema del male in questo mondo: «che vantaggio ne abbiamo dall’aver osservato i comandamenti, se i superbi, pur provocando Dio, restano impuniti?» (3,14s). Il Signore mostra loro «il suo Libro delle memorie», secondo cui coloro che temono Dio saranno «sua proprietà nel giorno che Lui prepara», giorno di luce per i giusti, di fuoco e di cenere per gli empi (3,19-21). L’opera di Ml impostata sopra una serie di 6 dialoghi tra Dio e varie categorie di fedeli

    sembra termini qui con quest’ultima dichiarazione del Signore. I versi che seguono (3,22-24) sul ritorno del profeta Elia probabilmente sono dovuti a un redattore finale con l’intento di chiudere più serenamente i vaticini del messaggero di JHWH (3,1).

         Note esegetiche. – «Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno» (v. 19). Si tratta del giorno escatologico: l’era già preannunziata da antecedenti profeti (Am 5,18-20; Gl 2,1-3; Sof 1,7-18…), in cui si attendeva un intervento decisivo e grandioso del Dio d’Israele, descritto con termini immaginari delle teofanie e dei grandi sconvolgimenti della natura e della storia. L’immagine del fuoco ardente di una fornace (Is 31,9), che brucerà la paglia e ridurrà in cenere radici e rami da l’idea esatta dell’ineluttabile giudizio divino; esso abbatterà gli orgogliosi (zedîm, nel senso di arroganti: 3,15), coloro cioè che osano provocare l’Altissimo (v. 15) e gli operatori di iniquità, in opposizione ai giusti che hanno osservato i comandi del Signore (3,14); di essi non resterà nulla, come viene efficacemente confermato dalla doppia metafora: bruciatura della paglia e incenerimento di rami e radici (cf. Gb 18,16s), vale a dire scomparsa di eredi, di genitori e di loro aderenti.

         — «Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (v. 20). Lett. «voi, che avete timore del mio nome», cioè che venerate il supremo Signore (il nome, nel concetto ebraico, sta in vece della persona), e quindi ne adempite di voleri (cf. Dt 3,14; 10,12…). L’immagine del sole alato, radioso, era molto diffusa nella simbolica orientale: la si trova nelle stele egiziane, nei sigilli e monumenti di Siria: rappresentava il fulgore della Divinità (come il dio Râ per l’Egitto), difensore del diritto e apportatore di benessere. Il profeta la utilizza per descrivere l’intervento del Dio giusto e Salvatore a favore dei suoi eletti, in sintonia con precedenti espressioni bibliche. Il sorgere del sole era indice del nuovo giorno, e di una vita rinnovata, come in Is 30,26: la luce del sole apparirà, quando Dio verrà a risanare il suo popolo. La giustizia solare non sarà solo il ristabilimento dell’ordine e dell’equità, ma la sedaqah isaiana, cioè l’attuazione dell’alleanza divina, la restaurazione della pace, la salvezza piena (Is 41,2; 46,13; Sal 22,32). Ma più espressamente viene detto che il sole sarà apportatore di guarigione. La frase della trad. CEI «con raggi benedici», a parola può essere resa con «recante guarigione nelle sue ali»: la radice rafa’ ebraica ha il senso fondamentale di «risanare da un’infermità». Il sole divino in quel giorno avrebbe conferito ai cultori dell’Onnipotente la liberazione da tutte le loro piaghe (cf. Ger 33,6; Is 57,18s): non solamente quindi pace e salvezza nella mente e nel cuore, ma una restaurazione integrale in tutto l’essere umano, anche corporale; con tenue accenno, forse, alla riabilitazione dal sepolcro secondo il Salmo 16,10.

         Il portavoce del Dio vivente ha offerto così ai suoi uditori, e in loro anche a noi, la più confortante rassicurazione per quanto riguarda il ricorrente problema dell’arroganza dei malvagi in questo nostro mondo: una parola indefettibile, «dice il Signore degli eserciti» (v. 19), confermata dal Salvatore divino: «cielo e terra passeranno, le mie parole mai» (Lc 21,33); nel «Libro delle memorie» è già indelebilmente segnato il giorno di fuoco e il sorgere del sole sfolgorante, il giudizio cioè del Signore supremo, che farà tacere per sempre la provocazione e la prepotenza, mentre il fulgore del suo volto ricoprirà di gloria imperitura chi lo ha servito fedelmente.

 

Seconda lettura: 2Tessalonicesi 3,7-12

 Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.

 

  • Al termine della 2a lettera ai tessalonicesi S. Paolo sta dando le raccomandazioni finali, ribadendo quel che aveva già detto nella prima (1Ts 4,7-12: vivere nella santità e nella carità fraterna, procurandosi con l’onesto lavoro il proprio sostentamento). Forse gli era arrivata qualche specifica notizia su quest’ultimo argomento: vi erano in comunità individui che si comportavano disordinatamente contro le direttive già date (v. 6), andavano in giro, diffondendo pettegolezzi e pretendendo di assidersi alla mensa degli altri. L’apostolo ha l’occasione di esporre più distintamente il suo pensiero in proposito.

         Note esegetiche. – «sapete in che modo dovete prenderci a modello» (v. 7).

         Propone anzitutto il suo esempio, quale apostolo inviato da Cristo. Egli avrebbe avuto certamente il diritto a ricevere dai fratelli la sua ricompensa, come ha disposto lo stesso Maestro divino: «chi annunzia il Vangelo, viva del Vangelo» (1Cor 9,14; Mt 10,9; Lc 10,7). Tuttavia non se ne è avvalso (cf. però Fil 4,15), vi ha rinunziato liberamente (1Cor 9,15) e non è stato mai in ozio tra i fratelli che evangelizzava, ma si è dato da fare esercitando il suo mestiere manuale durante il giorno e, se occorreva, anche di notte (probabilmente si trattava dell’arte di tessitore di tende). Per i greci il lavoro fisico era un disonore: l’uomo libero lo riservava agli schiavi. I rabbini invece lo apprezzavano molto. L’apostolo di Cristo, pur non essendo obbligato, lo esercita con una speciale motivazione: non poteva essere disprezzato dai credenti di origine greca, perché egli assumeva quelle fatiche per sua libera scelta; e allo stesso tempo era di esempio e di incitamento a tutti coloro ai quali inculcava di vivere decorosamente con il proprio lavoro.

         — «A questi taliordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (v. 12).

         Non si contenta di dimostrare il suo comportamento, ma aggiunge un preciso comando; impegna la sua autorità di rappresentante di Cristo, «nel nome del Signore Gesù». Egli non obbliga nessuno a esercitare l’apostolato del tutto gratuitamente; ma adesso si tratta di veri abusi: di gente che invece di evangelizzare, va suscitando malintesi e contrasti e pretende di farsi mantenere dalle stesse comunità che sta disgregando! Paolo si sente in dovere di intervenire energicamente: costoro la finiscano di andare in giro a danno degli altri e imparino a trovar di che vivere dalla propria fatica (vv. 11 s); e diversamente, siano tenuti lontani dei comuni rapporti, pur guardandoli sempre come fratelli (vv. 14s).

         In conclusione, il pensiero dell’apostolo è chiaro. L’operaio evangelico è «degno della sua mercede» (Lc 10,7). Egli tuttavia, se vuole, può rinunziarvi nei limiti consentiti dalle sue attività apostoliche, per rendersi indipendente col proprio lavoro dalla comunità che evangelizza. A nessuno però che ha accettato di impegnarsi nel ministero del culto e della parola, è lecito vivere in ozio, senza attendere ai compiti assunti, o peggio seminando discordie e liti, e pretendere di essere sostentato dai fratelli nella fede; si trovi, in tal caso, un’onesta occupazione e si comporti con dignità e in pace con tutti! Una saggia esortazione che è valida e opportuna anche per i nostri tempi!

 

Vangelo: Luca 21,5-19

 In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

 

Esegesi 

     Il nostro brano fa parte del discorso escatologico con cui Luca conclude il suo Vangelo prima del racconto della Passione, (21,5-36). Ha molte somiglianze con l’analogo discorso di Marco (Mc 13,1-34); ma se ne allontana in tratti significativi. Ne possiamo dedurre una visione più chiara degli eventi cui ci si riferisce, e delle raccomandazioni date dal divin Maestro in quelle circostanze. L’occasione dell’intero discorso (divisibile in due parti: a- vv. 5-19; b- vv. 20-36) è offerta dalla richiesta di alcuni sull’epoca precisa della distruzione del Santuario ebraico: «quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno» (v. 7).

     Note esegetiche. – La risposta di Gesù, in Lc, 1a parte, viene presentata con immagini apocalittiche e insieme con indicazioni molto concrete. L’evento preannunziato sarà così terribile che lo stesso Gesù nel richiamarlo in Lc 19,41-44 non poté frenare il pianto; e per descriverlo adeguatamente ha fatto ricorso agli scenari sconvolgenti con cui i profeti predicevano i grandi disastri collettivi del loro tempo: «vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo» (Lc 21,11); cf. Is 24,18 «le cateratte dell’alto si aprono, si scuotono le fondamenta della terra»; Ez 32,7s: «quando cadrai, oscurerò il sole e gli astri…»; per la caduta dell’Egitto e di Babilonia.

     Mentre però Mc (con Mt) pone al primo posto come segni precursori l’apparire dei falsi messia, le guerre, le pestilenze, le catastrofi naturali, e poi in secondo luogo le persecuzioni dei discepoli del Cristo, (Mc 13,9; Mt 24,9), Luca capovolge la situazione: «Ma prima di tutto questo (fenomeni terrificanti) metteranno le mani su di voi » (Lc 21,13): si verificheranno cioè le violenze e le calunnie contro i predicatori del Vangelo, « traditi perfino dai genitori…. sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (vv. 16s). Ma subito Gesù si premura di rassicurare i suoi amici: nulla varrà a turbare la loro pace, «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (v. 18); nessuno potrà fare loro alcun male, contro il volere del Padre; si fidino totalmente di Lui, e conseguiranno sicuramente la vera salvezza nel suo Regno: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (v. 19). L’asprezza delle persecuzioni dei discepoli e il desiderio di premunirli contro ogni paura e scoraggiamento sembra predominare nell’attenzione del divino Maestro sul punto di lasciare quaggiù il suo piccolo gregge.

     Nella 2a parte, poi, del discorso (vv. 20-36) il Maestro dà un’indicazione molto concreta del segno rivelatore richiesto: l’assedio della città santa, nominata qui 2 volte (vv. 20-24), da parte di eserciti nemici. In Mc e Mt si parla solo di «presenza dell’abominazione sul luogo sacro, dove non deve» (Mc 13,14; Mt 24,15), senza che mai si nomini Gerusalemme.

Simultaneamente Gesù ha aggiunto nuovi avvertimenti per i suoi amici: fuggano sui monti, si allontanino dai dintorni della città, poiché Gerusalemme sarà calpestata dai pagani e il suo popolo sarà disperso tra le genti… vedranno allora il Figlio dell’uomo venire sulle nubi… e avvicinarsi il regno di Dio, il suo giudizio e la liberazione dei suoi fedeli e testimoni… (vv. 21-24.31.36).

     Si delinea così in Lc 21, nei riguardi degli eventi preannunziati da Gesù nel suo ultimo discorso, una prospettiva più chiara, che negli altri due sinottici (Mt 24; Mc 13). Primo fatto premonitore sarà l’accanita persecuzione contro gli evangelizzatori del Cristo risorto (vv. 12-17; cir. At 4-12); seguiranno grandi calamità e rivolgimenti tra i popoli, designati già con termini escatologici (vv. 9-11 «con grandi segni dal cielo»); e infine l’assedio di Gerusalemme a opera delle legioni romane, che segnerà l’inizio della più tragica catastrofe del popolo ebreo, l’incenerimento del Tempio e la dispersione tra le genti: come si è esattamente verificato nel 70 d.C. Fu come lo sfacelo del cosmo e il ricadere nel buio primordiale: «vi saranno segni nella luna e nelle stelle… le potenze dei cieli saranno sconvolte» (vv. 25s).

     Molto probabilmente il Signore Gesù ha inteso parlare direttamente solo della completa rovina del Santuario e, in più, della diaspora del popolo ebreo per il mondo; e ovviamente l’ha fatto con lo stile ben noto dei vaticini biblici; in modo da consegnare ai suoi discepoli le più opportune direttive per le difficili prove che li attendevano. Ne abbiamo un parallelo anche nel discorso di addio nel Vangelo di Giovanni: «hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi… tutto questo vi faranno a causa del mio nome (Gv 15,20s); vi scacceranno dalle sinagoghe… chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio… vi ho detto queste cose perché, quando verrà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,2.4). E in Lc 21 vien detto: «vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza… (vv. 12s); quando vedrete accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina… (v. 28); vegliate e pregate, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere» (vv. 28.36).

     Era una pressante esortazione agli uditori a non farsi travolgere dalle vicissitudini e dalle opposizioni del mondo, a perseverare nella fede in Lui, nella coraggiosa proclamazione del suo Vangelo d’amore tra le genti, e nella ferma speranza di raggiungerLo nella gloria imperitura della sua risurrezione.

     Poiché però nel piano del Rabbì di Nazaret il Vangelo del regno doveva essere predicato a tutti i popoli della terra fino alla consumazione dei secoli (Mc 16,5; Mt 28,19s), quel che egli diceva a quei primi suoi seguaci intendeva certamente raccomandarlo a coloro che avrebbero creduto in Lui per la loro testimonianza (Gv 17,20), nelle situazioni di disagio e di persecuzione che si sarebbero riprodotte nelle successive generazioni.

 

L’immagine della domenica 


 

 

PARABOLA

Il bambino, che sa a malapena camminare, vede la sua mamma lassù in alto e vorrebbe raggiungerla. Allora il bimbo solleva il piedino; ma egli è ancora troppo piccolo e non riesce a salire il primo gradino. Se rinuncerà, la mamma penserà che sta bene dov’è e lo lascerà lì; se insisterà, invece, pur non riuscendo a salire da solo, sarà la mamma che scenderà, lo prenderà in braccio e, in una volta sola, gli farà percorrere tutta la scala.

(Parabola confidata da santa Teresa del Bambin Gesù alla sua novizia Maria della Trinità, in Storia di un’anima, nel capitolo Consigli e ricordi).

 

Meditazione

       Il messaggio escatologico di questa domenica comprende l’annuncio della venuta del giorno del Signore che sarà di giudizio per gli uni e di salvezza e guarigione per altri (I lettura) e un’esortazione alla perseveranza e alla vigilanza rivolta da Gesù ai suoi discepoli e, attraverso di loro, ai futuri credenti, affinché non si lascino prendere dalla paura e dall’angoscia della fine di fronte a eventi catastrofici e a persecuzioni (vangelo). Lungi dall’essere segno di una pretesa imminente fine del mondo, questi eventi vanno accolti come occasione di martyría (Lc 21,13), di testimonianza. Nel testo evangelico odierno non si tratta della fine del mondo, ma di ciò che avviene «prima» (Lc 21,9.12), nella storia, che appare così il tempo della faticosa perseveranza.

Luca sottolinea la diversità di sguardo che Gesù da una parte e «alcuni» dall’altra portano sul tempio. Se questi sconosciuti e innominati ammirano la dimensione estetica delle «belle pietre» (Lc 21,5) del tempio e i doni votivi che lo adornano, Gesù ne vede con sguardo disincantato e lucido la fine prossima. Come il tempio (e il suo sistema di offerte e di santificazione), anche tutte le costruzioni e realizzazioni più sante e spirituali dell’uomo sono caduche, finite. Non sono esse a dover trattenere lo sguardo e l’attenzione, ma il Signore che viene e di cui esse vogliono essere solo un segno.

Nei tempi della storia il cristiano deve allenarsi al discernimento.

Anzitutto il discernimento come opposizione all’inganno. Occorre infatti riconoscere i «molti» che si presenteranno come detentori della verità e portatori della rivelazione, che usurperanno il titolo solo d’istologico «Io sono» (Lc 21,8) per indurre qualcuno a seguirli. Lo spazio religioso ed ecclesiale è anche scenario di inganni e di imposture che si manifestano anzitutto con la loro pretesa di verità assoluta e non discutibile. Il cristiano è chiamato a discernere e a saper dire dei no: il comando «non seguiteli» è altrettanto forte del comando dato altre volte da Gesù: «seguitemi». Occorre sempre diffidare di chi pretende di sapere quale sia la volontà di Dio sulle persone e imporla loro.

Inoltre si tratta di discernere guerre e sommovimenti storici, così come catastrofi e disastri naturali, senza pensarli come eventi annunciatori della fine del mondo (Lc 21,9-11). Il discernimento qui è attiva lotta contro la paura e la potenza inibente del terrore ( «Non vi terrorizzate»: Lc 21,9). E conduce all’umiltà di chi riconosce che il proprio tempo non è la totalità del tempo, che la propria vicenda non è la totalità della storia e che la propria fine non coincide con la fine di un tempo e di una storia che superano ciascun uomo.

La storia diviene così per il credente il luogo di esercizio della perseveranza e della pazienza. Persecuzioni e tradimenti, ostilità anche da parte degli amici e dei famigliari potranno segnare la vita di coloro che aderiscono al Messia Gesù, ma grazie alla sofferta perseveranza essi potranno custodire la loro anima (Lc 21,19). Mentre esperimentano la fine di relazioni e fedeltà, mentre intravedono la loro stessa fine, essi possono conoscere la salvezza delle proprie vite e trarre come bottino, dalla battaglia che la vita e la storia impongono loro, la loro anima (cfr. Ger 45,5).       

Ci sono tempi difficili e bui in cui al credente è chiesto semplicemente di resistere, di rimanere saldo, di custodire l’interiorità di mantenere la fede, di salvaguardare la propria umanità, di preservare la propria anima dal caos e dalla confusione. E questo sarà             come chicco di grano caduto a terra che darà frutto. Scrisse Dietrich Bonhoeffer in tempi particolarmente duri e difficili dal carcere di Tegel nel 1944: «Noi dovremo salvare, più che plasmare la nostra vita, sperare più che progettare, resistere più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovrete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore». La perseveranza che salva l’anima non è dunque nulla di intimistico, ma atto della responsabilità storica di chi osa pensare il futuro oltre e dopo di lui.

 

Preghiere e racconti

Fedeltà

Forse a voi non verrà chiesto il sangue, ma la fedeltà a Cristo certamente sì! Una fedeltà da vivere nelle situazioni di ogni giorno: penso ai fidanzati ed alla difficoltà di vivere, entro il mondo di oggi, la purezza nell’attesa del matrimonio. Penso alle giovani coppie e alle prove a cui è esposto il loro impegno di reciproca fedeltà. Penso ai rapporti tra amici e alla tentazione della slealtà che può insinuarsi tra loro. Penso anche a chi ha intrapreso un cammino di speciale consacrazione ed alla fatica che deve a volte affrontare per perseverare nella dedizione a Dio e ai fratelli. Penso ancora a chi vuol vivere rapporti di solidarietà e di amore in un mondo dove sembra valere soltanto la logica del profitto e dell’interesse personale o di gruppo. Penso altresì a chi opera per la pace e vede nascere e svilupparsi in varie parti del mondo nuovi focolai di guerra; penso a chi opera per la libertà dell’uomo e lo vede ancora schiavo di se stesso e degli altri; penso a chi lotta per far amare e rispettare la vita umana e deve assistere a frequenti attentati contro di essa, contro il rispetto ad essa dovuto.

(Giovanni Paolo II – GMG di Roma).

Pazienza e perseveranza

E veniamo a quell’energia dello Spirito costituita dalla lotta, alla quale ci si dedica impugnando la spada dello Spirito e la forza della gloria di Dio. All’interno di questa lotta si colloca la più importante virtù cristiana, che è la pazienza. La mirabile hypomone evangelica non ha nulla a che vedere con analoghe virtù stoiche o con particolari atteggiamenti o forme di resistenza propri del paganesimo. «Anche noi non cessiamo di pregare per voi… perché possiate piacere in tutto al Signore, rafforzandovi con ogni energia secondo la potenza della sua gloria, per poter essere forti e pazienti in tutto» (Col 1,9-11), dice Paolo ai cristiani di Colossi. Questa forza di Dio, che è la forza dello Spirito, è il tratto peculiare dei cristiani. Chi dipende totalmente dalla Parola porterà il frutto della Parola nell’hypomone, «nella pazienza», come ricorda Luca. Un tale uomo trattiene e (nel senso più forte del termine) custodisce la Parola. Egli si stringe a essa contro ogni speranza e al di là di ogni speranza, tutto proteso in avanti nell’attesa, lacerato dal desiderio e tuttavia sempre sostenuto da un grande senso di fiducia. Tutte queste cose sono contenute in un detto che, con ogni probabilità, fa parte degli ipsissima verba Iesu: «In patientia vestra possidebitis animas vestras», «Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime» (Lc 21,19). In greco e in latino è una frase che risuona in modo abbastanza enigmatico. Se però cerchiamo di farne la retroversione aramaica, penso che il significato che ne emerge sia il seguente: «Nella pazienza voi assumerete i vostri veri volti», cioè»sarete pienamente voi stessi». La vera personalità cristiana di ciascuno di noi si realizza attraverso la pazienza, la perseveranza nella lotta.

(Tatto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella), 2001, pp. 9-20).

 

Sosta nel cammino

Due boscaioli lavoravano nella stessa foresta ad abbattere alberi. Usavano le loro asce con identica bravura, ma con una diversa tecnica. Il primo colpiva il suo albero con incredibile costanza, un colpo dietro l’altro, senza fermarsi se non per prender fiato rari secondi. Il secondo boscaiolo faceva una discreta sosta ogni ora di lavoro. Al tramonto il primo boscaiolo era a metà del suo albero, il secondo era incredibilmente al termine del suo tronco. Avevano cominciato insieme e i due alberi erano uguali. Il primo boscaiolo non credeva ai suoi occhi: “Come hai fatto ad andare così veloce se ti fermavi ogni ora?” L’altro sorrise: “hai visto che mi fermavo ogni ora. Ma non hai visto che approfittavo della sosta per affilare la mia ascia”.

 

Dagli scritti di San Francesco di Assisi

«E tutti coloro che faranno tali cose e persevereranno fino alla fine, riposerà su di essi lo Spirito del Signore ed egli ne farà la sua dimora, e saranno figli del Padre celeste di cui fanno le opere, e sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo sposi, quando per lo Spirito Santo l’anima fedele si unisce a Gesù Cristo. Siamo fratelli suoi, quando facciamo la volontà del Padre suo che è in cielo. Siamo madri sue quando lo portiamo nel cuore e nel nostro corpo con l’amore e con la pura e sincera coscienza e lo generiamo attraverso sante opere che devono splendere agli altri in esempio».

 

Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime

Nel tempo della prova è di grande aiuto la perseveranza secondo il volere di Dio. Dice infatti il Signore: Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime (Lc 21,19). Non ha detto: «con il vostro digiuno», ne «con la vostra quiete in solitudine», ne «con la recita dei salmi». Tutto questo vi è certamente utile, ma ha detto: «con la vostra perseveranza». Con la perseveranza, vuole dire, in ogni prova che vi giungerà, in ogni afflizione, che si tratti di un’offesa, del disprezzo, del disonore arrecato da un uomo importante o da uno qualsiasi, di una malattia, dell’assalto di guerre scatenate dal demonio, di una prova di qualunque genere provocata dagli uomini o dai demoni. Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime; non soltanto con la vostra perseveranza, ma anche con l’azione di grazie, la preghiera, l’umiltà in modo da benedire, innalzare inni a Dio, Salvatore di tutti, al benefattore, a colui che tutto volge e guida al vostro bene, sia che si tratti di qualcosa di buono o di meno buono. E l’Apostolo scrive: Corriamo con perseveranza la corsa della fede che ci sta innanzi (Eb 12,1 ). Che vi è di meglio di questa virtù? Che vi è di più solido e di più utile della perseveranza, della perseveranza secondo Dio, voglio dire, la regina delle virtù, il fondamento delle opere buone, il porto al riparo dai flutti? Essa, infatti, dona pace nei conflitti, tranquillità in mezzo alla tempesta, sicurezza nelle insidie e nei pericoli. Essa rende colui che la vive più resistente dell’acciaio. Ne le armi, ne archi da guerra, ne eserciti schierati […] ne l’esercito dei demoni, ne le truppe tenebrose delle potenze avverse, ne il diavolo stesso con tutto il suo esercito e i suoi stratagemmi non potrà fare alcun male a chi ha acquistato la perseveranza in Cristo.

(NILO DI ANCIRA, Lettere III, 35, PG 79, 403D-404C).

 

…dal cavallo al cammello

«Chi non risponde alla Parola diventa sordo» (Martin Buber). L’accompagnamento non può che portare alla consapevolezza che, come ci ricorda NVNE, «tutta la vita è una risposta» (26/e) e, quindi, a saper scorgere le continue chiamate di Dio in ogni stagione della propria esistenza. È il faticoso passaggio dal cavallo al cammello.

Un cavallo va bene per la bellezza, la forza, la velocità e la razza, per godersi una cavalcata, gareggiare e vincere un premio. Tutto molto bello. Ma poi nella vita ci sono anche i deserti, e là il migliore dei cavalli è inutile e la velocità non serve. Il cavallo si spazientirà, diverrà irrequieto, gli zoccoli affonderanno nella sabbia. Il suo respiro brucerà nel calore e la bestia s’imbizzarrirà, cadrà e morirà nelle sabbie spietate. I cavalli non sono per il deserto.

I cammelli sì! Il cammello s’incamminerà e andrà avanti. Anche senza cibo, senz’acqua, senza redini, senza direzione, andrà avanti costantemente, fedelmente, sicuramente, manterrà la rotta, attraverserà il deserto, raggiungerà l’acqua e salverà se stesso e il suo cavaliere. La tenace perseveranza di mantenere fermamente la rotta nelle circostanze peggiori è una dote preziosa per sopravvivere in questo mondo. Noi tutti abbiamo bisogno di un cammello nelle nostre stalle.

(Antonio LADISA, La direzione spirituale oggi: perché?, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 30).

 

Il coraggio di osare

Signore Gesù, fammi conoscere chi sei.

Fa sentire al mio cuore la santità che è in te.

Fa’ che io veda la gloria del tuo volto.

Dal tuo essere e dalla tua parola, dal tuo agire e dal tuo disegno,

fammi derivare la certezza che la verità e l’amore

sono a mia portata per salvarmi.

Tu sei la via, la verità e la vita.

Tu sei il principio della nuova creazione.

Dammi il coraggio di osare.

Fammi consapevole del mio bisogno di conversazione,

e permetti che con serietà lo compia, nella realtà della vita quotidiana.

E se mi riconosco, indegno e peccatore, dammi la tua misericordia.

Donami la fedeltà che persevera e la fiducia che comincia sempre,

ogni volta che tutto sembra fallire.

(Romano Guardini).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)

I LINGUAGGI DELL’IRC

Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e la Conferenza Episcopale Italiana organizzano un Corso di aggiornamento che coinvolge 120 insegnanti di religione cattolica in servizio nelle scuole statali di ogni ordine e grado, sul tema “I LINGUAGGI DELL’IRC – Parole e significati religiosi nello sviluppo umano e nel contesto socio-culturale odierno”,  che si svolgerà nei giorni 7- 9 novembre 2016 a Santa Maria degli Angeli in Assisi (PG) presso la Domus Pacis.
Per comprendere il senso e il significato di questo Corso, ci pare importante ricordare che esso sarà un’occasione per promuovere una serie di riflessioni sul contesto scolastico e sociale attuale e soprattutto ci aiuterà a condividere delle pratiche pedagogico-didattiche che sappiano recuperare e utilizzare una pluralità di linguaggi per la mediazione generativa dei contenuti della Religione Cattolica; riconoscere e dare importanza alle diverse fasi di sviluppo psicologico del bambino, preadolescente, adolescente e giovane; fare spazio e valorizzare le domande di senso e gli interrogativi esistenziali, spesso impliciti o marginalizzati, legati alle diverse età degli alunni; cogliere le potenzialità delle diverse presenze ed esperienze socio-culturali e religiose nella scuola; proporre ed utilizzare al meglio i diversi approcci per un’ermeneutica dei significati in chiave educativa.
 

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2Maccabei 7,1-2.9-14

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite.
Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».    

 

L’episodio raccontato s’inserisce nel contesto della persecuzione d’Antioco IV Epifane che voleva imporre la cultura greca al popolo ebraico (167-164 a.C.). Viene ricordato il martirio dei sette fratelli, esortati dalla loro madre a testimoniare la fede. Non solo essa ha passato loro la fede, ma li sostiene nel momento del pericolo. Di fronte a loro il re in persona assiste al supplizio. Egli rappresenta la luce della cultura ellenica, verso la quale molti ebrei sono attirati e per questo sono disposti al compromesso. Quello che divide la madre dei sette fratelli e il re è una concezione opposta della vita. Per il re la vita viene dalla cultura e dalla ragione, per la madre ebrea è un dono di Dio, perciò nessuna forza umana la può veramente togliere. Come la madre anche i figli, ricchi di questa fede, si sentono liberi di perdere questa vita, per riceverla dalle mani di Dio: È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati (v. 14). Anche per gli empi ci sarà una risurrezione, ma non per la vita (v. 14b). Vivranno eternamente la morte. Cf. Gv 5,29: «quelli che fecero il bene per una risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna».

 

Seconda lettura: 2Tessalonicesi 2,16-3,5

Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

 

Paolo aveva in pochissimo tempo evangelizzato a Tessalonica, ma era stato sufficiente perché nascesse una comunità fervorosa, che si mantiene fedele al suo Signore Gesù anche nella diaspora e attaccata dalla mentalità greca e dalle gelosie ebraiche. L’apostolo tuttavia non chiude gli occhi su alcuni problemi esistenti nella comunità e interviene a rettificare i malintesi riguardanti alcuni temi della fede tramandata: la Parusia che alcuni ritenevano imminente determinando atteggiamenti di pigrizia e di disordine.

     Nel nostro brano Paolo esprime gli auguri e chiede preghiere alla comunità. Non sono delle pure espressioni formali, ma sintetizzano la fede che lui stesso aveva loro insegnato. lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro… conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene (v. 17). Con questo augurio viene ricordato ai cristiani che il presente è importante. È proprio esso che fa germogliare il futuro di gloria. La vita quotidiana deve essere vissuta nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo (3,5): due qualità teologiche irraggiungibili dalle sole forze umane.

     La prima non è che la partecipazione alla vita divina, la seconda è l’accettazione delle croci seguendo le orme di Cristo.

     Il cristiano sa che il Signore gli ha dato una consolazione eterna e una buona speranza (2,16). Pur non alienandosi dalla storia concreta, adempiendo tutti i doveri di cittadini, la sua vera patria è il cielo e già qui sulla terra vive da celeste.

 

Vangelo: Luca 20,27-38

 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

Esegesi

     Gesù si trova a Gerusalemme nel momento culminante della sua missione. Proprio a Gerusalemme era orientato tutto il suo cammino.

     Qui insegna pubblicamente presso il tempio e tutti pendono dalle sue labbra. In questo clima s’inseriscono le controversie con gli scribi e con il gruppo loro avversario, che non credeva nella risurrezione dei corpi, i Sadducei. Gesù per loro è un rabbi, un maestro, al quale possono fare delle domande su questioni di fede. E gli pongono un caso curioso d’applicazione della legge del levirato (cf. Gn 38,8; Dt 25,5-10). Sette fratelli, scrupolosi osservanti della legge mosaica, presero uno dopo l’altro come moglie la stessa donna; questa donna, dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? (v. 33).

     Gesù risponde innanzi tutto che il mondo futuro non è simile al presente. I figli di questo mondo, quelli che appartengono a questo mondo in cui vivono, sono legati da legami che caratterizzano la vita materiale: rapporti sessuali, vincoli coniugali, procreazione (v. 34).

     Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione (v. 35) sono coloro che hanno ricevuto la grazia di partecipare alla risurrezione. Lo sguardo di Luca è rivolto in particolare agli eletti alla vita eterna. Essi vivono una vita da figli della risurrezione, cioè da risorti, in quanto sono figli di Dio. Questo fatto fonda la risurrezione: la vita che essi possiedono mediante la risurrezione è una vita che non viene da generazione carnale. Sono uguali agli angeli (v. 36), perché il loro corpo è spiritualizzato.

     Gesù quindi si richiama alla Scrittura per confermare il fatto della risurrezione di tutti gli uomini. Dio si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (Es 3,2) come Dio d’Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe, cioè come Dio dei vivi (v. 37). La loro vita viene da Dio, perché tutti vivono per lui (v. 38b), quindi non può finire con la morte. Abramo, Isacco e Giacobbe non sono vivi nel ricordo dei figli da loro generati, ma perché essi sono generati da Dio. Qui si pensa a tutti coloro che sono destinati alla vita eterna, ma in v. 37 si parla in generale della risurrezione dei morti (cf. anche Mc 12,26).

 

L’immagine della domenica

 
 

RESPIRO E VITA

«Maestro, cosa devo fare per vivere?».

«Respira», rispose il Maestro al ragazzo appena arrivato.

«E per non morire, che devo fare?».

«Respira», rispose il Maestro.

«Ma cosa devo fare per respirare?».

«Vivere e non morire», rispose il Maestro.

La notte di quel primo giorno, disteso e insonne, il ragaz­zo ascoltò a lungo per la prima volta, nel silenzio della notte, il ritmo del suo respiro, e, senza trovare un nesso logico nel discorso del Maestro, pensò alla vita e alla morte. A un certo punto fu preso dalla curiosità e, soltanto quando decise che avrebbe decifrato il senso nascosto delle parole del Maestro, ritrovò la calma. Così per il resto della sua vita si esercitò a re­spirare.

Dicono che il ragazzo, diventato anch’egli Maestro, il gior­no prima di morire, carico d’esperienza e di vecchiaia, avesse raccontato ai suoi discepoli il primo incontro con il suo Mae­stro e i pensieri della prima notte, confessando: «A un certo punto mi fu chiaro che nel respirare c’era qualcosa di nasco­sto che mi aspettava e non avrei più potuto vivere sereno sen­za andargli incontro. Oggi posso dire che ci siamo incontra­ti e, così, mi congedo da voi sereno». E disse a chi lo ascolta­va: «Adesso mi si è rivelato il senso nascosto delle parole del mio Maestro: non è il respirare che dà la vita, ma è la Vita che dà il respirare, anche dopo la morte».

(da R. ZAS FRIZ DE COL R., Iniziazione alla vita eterna. Respirare, trascendere e vivere, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2012, 5-6).

 

Meditazione

     La morte per martirio di sette fratelli in epoca maccabaica attesta la fede nel Dio capace di far risorgere i morti (I lettura); il caso (una finzione costruita ad arte) dei sette fratelli che sono morti senza lasciare figli dopo avere sposato in successione la stessa donna, viene giocato dai Sadducei per mettere in ridicolo la credenza nella resurrezione dei morti (vangelo). Al centro delle letture odierne vi è dunque la fede nella resurrezione dei morti.

Se il caso presentato dai Sadducei a Gesù appare evidentemente grottesco e incredibile, tuttavia la posizione espressa da tale episodio fittizio raggiunge l’uomo d’oggi e anche i credenti. I Sadducei «dicono che non c’è risurrezione» (Lc 20,27) e la storiella dei sette fratelli ha il fine di volgere in ridicolo tale credenza, di dimostrarne l’assurdità. Oggi alla posizione ‘colta’ che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’aldilà, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che a volte abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei! Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo.

Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede» (1Cor 15,17); «Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!» (1Cor 15,13).

La risposta che Gesù dà ai Sadducei indica certamente che la resurrezione è già attestata nella Torah perché Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio. I patriarchi che hanno vissuto per Dio ora vivono in lui e grazie a lui («tutti vivono per lui»: Lc 20,38). Il discorso sulla resurrezione viene così riportato all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. E dal testo emerge una domanda: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda certamente il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che abbiamo speso oggi. E la risposta di Gesù, oltre a contestare una visione della vita futura come prosecuzione di questa, come proiezione e prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere.

L’argomentazione studiata dei Sadducei induce anche un’altra riflessione. Il caso dei sette fratelli che, uno dopo l’altro, lasciano vedova la stessa donna che alla fine muore lei pure, è sì un caso artefatto, ma la vita è piena di casi tragici che spesso sono molto più dolorosi di quanto la fantasia possa immaginare. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, a argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza della parola quando si riduce la realtà a casistica, oppure quando si scinde dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?

 

Preghiere e racconti

La fede dà “vita”

Abbiamo tutti il diritto di conoscere la ragione, la prospettiva, l’esito delle nostre quotidiane avventure. Su molte abbiamo risposte certe e abbastanza sicure. Su altre – su troppe – ci sentiamo sprofondati in una trama misteriosa di eventi, che ci sfuggono.

Non è bello e ci riempie la vita di tristezza. Ci sentiamo derubati dei nostri diritti, costretti a consegnarli nelle mani di altri. Ci consoliamo, rassegnandoci. Ma serve solo a peggiorare le cose. Il diritto al “perché”, che è proprio il diritto al senso, posseduto e governato, non è un bene alienabile né scambiabile. […]

È inutile cercare responsabilità. Ce ne possono essere tante. Alla radice sta però la vita stessa: siamo davanti alla morte per l’unica grande ragione che siamo vivi. Il mistero che la fede ci consegna, nelle parole vissute di tanti fratelli, ci restituisce una risposta: non spiega ma travolge.

Penso a Gesù, ormai condannato a morte dopo un processo ingiusto. Reagisce alla schiaffo del soldato che sperava di guadagnarci in stima colpendo ingiustamente il povero Gesù, già distrutto dai primi passaggi della sua passione.

Gesù mostra di essere lui il più forte, non perché chiama a sua difesa un esercito di angeli, cosa che poteva tranquillamente fare, ma perché riafferma di dare, lui stesso e solo lui, la sua vita per la vita di tutti.

Diventa così signore della morte, lui, il signore della vita, perché sottrae al tiranno il diritto all’ultima parola, pronunciandola lui, forte e decisa, come gesto d’amore.

Come lui, affascinati da grandi prospettive di senso o sconfitti nell’esperienza del vuoto, con le mani alzate ci sentiamo afferrati e ci ritroviamo pienamente signori della nostra vita: deboli nella nostra crisi e i più forti nella potenza di chi ci ha afferrato e restituito alla gioia di vivere e alla libertà di sperare.

(Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 39-40)

 

Fede nella vita oltre la morte

Col tempo imparai a conoscere la Bibbia, e oggi mi considero una cristiana. […] In linea con san Paolo, credo che dopo la nostra morte corporea risorgeremo con un “corpo spirituale” in un’altra dimensione rispetto a quella fisica in cui viviamo adesso. […] O, per dirla con san Paolo: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è resuscitato. Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la vostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”.

 Io che ero entrata in crisi e avevo pianto amaramente pensando che ci fosse solo questa terrena. Io che per alleviare questa sofferenza mi infilai nel maggiolone per andare a sciare sul ghiaccio di Jostedal. Io che avevo sempre sofferto così tanto perché mai e poi mai mi sarei saziata di vita. Io, improvvisamente, avevo trovato la strada verso una rassicurante fede nella vita oltre la morte.

(Jostein GAARDER, Il castello dei Pirenei, Longanesi, Milano, 2009, 215-216).

Dio dei padri, Dio dei viventi

II nostro Signore e maestro nella risposta ai sadducei, i quali affermavano che non vi è resurrezione e per questo disonoravano Dio e sminuivano la Legge, dimostrò la resurrezione e fece conoscere Dio. Disse infatti: A proposito della resurrezione dei morti non avete letto ciò che è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? (Mt 22,31-32), e aggiunse: Non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui (Lc 20,38). Con queste parole rese assolutamente manifesto che colui che parlò a Mosè dal roveto e dichiarò di essere il Dio dei padri è il Dio dei viventi. Ora, chi è il Dio dei vivi se non colui che è Dio e al di sopra del quale non vi è altro Dio? […] Colui che è adorato dai profeti è il Dio vivente, è il Dio dei viventi, e il suo Verbo ha parlato a Mosè, ha rimproverato i sadducei, ha donato la resurrezione, mostrando a quei ciechi due cose: la resurrezione e Dio. Se infatti Dio non è il Dio dei morti ma dei vivi e se è detto Dio dei padri che si sono addormentati, certamente vivono per Dio e non sono morti essendo figli della resurrezione (Lc 20,36).

Proprio per insegnare questa stessa cosa diceva ai giudei: Il vostro padre Abramo esultò per vedere il mio giorno, lo vide e si rallegrò ( Gv 8,56). Che cosa significa questo? Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia (Rm 4,3). Innanzitutto credette che egli è il creatore del cielo e della terra, il solo Dio; poi, che avrebbe reso la sua posterità come le stelle del cielo (cfr. Gen 15,5) e questo è ciò che è detto da Paolo [quando scrive: dovete risplendere] come astri nel mondo (Fil 2,15). Giustamente, dunque, Abramo, dopo aver lasciato la sua parentela terrena, seguiva il Verbo di Dio, facendosi straniero con il Verbo per dimorare con il Verbo. Giustamente anche gli apostoli che discendevano da Abramo, lasciata la barca e il padre, seguivano il Verbo. Giustamente anche noi, che abbiamo la stessa fede di Abramo, presa la croce come Isacco prese la legna, seguiamo lui. In Abramo l’uomo aveva imparato già da prima a seguire il Verbo di Dio.

(IRENEO DI LIONE, Contro le eresie 4, 5,2-5, SC 100, pp. 428-434).

La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’

La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’ che i discepoli di Gesù volevano annunciare al mondo. Gesù è il Signore che ha patito, è morto, fu sepolto e il terzo giorno è risorto. Era un annuncio che tutti dovevano conoscere: era la ‘lieta notizia’, e lo è ancor oggi. Si può dire che tutto ciò che i vangeli dicono di Gesù mira a far risaltare il pieno significato della sua passione, morte e risurrezione.

Il vangelo è, prima e più di tutto, il racconto della morte e risurrezione di Gesù, che costituisce il cuore della vita spirituale.

Passione, morte e risurrezione di Gesù rappresenta l’avvenimento fondamentale e più importante di tutta la storia umana. Se non riesci a sentirlo e a vederlo, allora il vangelo, nel migliore dei casi, potrà sembrarti interessante, ma non potrà rinnovarti il cuore e farti rinascere a vita nuova. E il vangelo mira appunto a questa rinascita – a una liberazione radicale che ci sottrae al potere della morte e ci permette di amare senza paura.

Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?

La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?

Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.

Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.

Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.

Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).

 

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello)

La morte

Infine, vi è un luogo dello Spirito del quale vi dirò molto poco, perché non ne abbiamo alcuna esperienza diretta. Eppure è importante: forse è il più importante di tutti. È la morte, in cui ogni cosa ci è consegnata all’improvviso, come un frutto maturo che ci attende al termine di una lunga iniziazione, un lungo esercizio. Riguardo a questo luogo, se è vero che noi non siamo ora in condizione di rendere testimonianza all’attività dello Spirito che in quel momento ha luogo, sarebbe forse interessante studiare e analizzare le preziose testimonianze dei morenti. Forse è grazie a loro che ci sarà dato di scoprire i veri criteri dell’esperienza spirituale.

(Tratto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp. 9-20).

 

La morte è sempre puntuale

C’è un’altra storia non troppo simpatica, che ha per protagonista un tale di nome Omar. Sembra proprio si tratti del nostro vecchio amico Datu Omar che abbiamo lasciato qualche pagina fa mentre piangeva per la scomparsa della sua moglie e domandava ad Allah di salvargli la bambina che stava morendo. Ebbene lo ritroviamo qualche tempo dopo, solo e ancora più disperato di prima. Anche la ricchezza lo aveva abbandonato e con la ricchezza, si sa, se ne vanno via subito anche gli amici. Decise allora che era preferibile per lui lasciarsi ghermire dalla morte. Perciò si avvicinò alla riva di un largo fiume, pieno zeppo di coccodrilli che lo aspettavano a fauci spalancate. Omar lanciò un grido per attirare l’attenzione su di sé e si tuffò proprio in mezzo al fiume. Ma i coccodrilli invece di sbranarlo, si allontanarono subito da lui che cercava in tutti i modi, anche tirandoli per la coda, di farsi divorare. In breve nel fiume rimase solo lui mentre i coccodrilli si erano tutti ritirati sulla terra ferma, dentro una caverna.

Ritornò inzuppato e deluso in paese e prima di entrare nella sua capanna, diede uno sguardo al cielo. Esso si stava ammantando di grosse nuvole nere ed il vento stava annunciando l’arrivo di un disastroso tifone. “Bene, bene! Il tifone getterà a terra chissà quanti alberi della foresta, pensò Omar,  è meglio che mi addentri e aspetti che qualche albero mi cada addosso e così potrò morire”. Detto, fatto. Scelse l’albero dal tronco più grosso ma con le radici ormai a fior di terra. Bastava un soffio per gettarlo giù. Si scatenò il temporale, caddero fulmini e saette e quasi tutti gli alberi accanto ad Omar furono abbattuti, eccetto proprio l’albero vicino al quale si era preparato a morire. “Non mi vuole nessuno, neanche la morte!” pensò rassegnato Omar.

Quand’ecco accanto a lui apparve uno straniero vestito di una lunga tunica gialla e con il capo coperto da un turbante giallo con le frange orlate di nero. “Perché ti trovi così, in mezzo alla foresta, tutto bagnato e con i vestiti a brandelli? Chiese il nuovo arrivato”. “Sto aspettando la morte, rispose Omar,  perché la morte è per me più dolce della vita”. “Non è ancora arrivato per te il momento di morire  replicò lo straniero  alzati e va a lavorare e cerca di essere felice della tua vita”. Omar si alzò e seguì il nuovo amico che lo condusse fuori dalla foresta. Quale fu la sua sorpresa quando vide aprirsi davanti al suo sguardo una bellissima campagna.

Vicino al sentiero erano allineate molte capanne leggiadre ed ordinate e davanti ad esse erano sedute tante ragazze che chiacchieravano in fraterna conversazione e cantavano e sorridevano. I bambini stavano giocando sui prati trapuntati di fiori, mentre gli uomini lavoravano la terra e molte donne stavano preparando succulenti pranzetti.

Ritrovò la sua capanna: era diversa, più bella, più ariosa. Mentre egli salutava tutta quella gente, provò una gioia ed una serenità del tutto nuove, e così, dopo tanti anni, finalmente il sorriso gli rifiorì sulle labbra. Tutti gli volevano bene e lo stimavano molto per la bravura nel saper catturare gli animali selvatici della vicina foresta.

Anzi lo vollero eleggere loro capo e vollero donargli come futura sposa la più bella ragazza del villaggio. Come era bello vivere, adesso. Alcuni mesi più tardi però, mentre stava dormendo sentì qualcuno bussare alla porta della sua capanna. Si alzò, accese la lampada e prese anche un coltello per maggior sicurezza. Poi aprì la porta e con grande sorpresa si vide davanti lo strano personaggio vestito di giallo, con il turbante dorato con le frange nere. “Omar, adesso sì che è arrivata la tua ora. Vieni con me!” “La mia ora? Di quale ora stai parlando”. “La tua ora è arrivata, vieni con me!” la voce dello straniero ora aveva un suono lugubre come il rumore di una pietra che cade in fondo al pozzo. Omar chiuse subito la porta gridando: “Vattene via, io non ti conosco”. Ma insistente, l’altro continuò: “L’ora della tua morte è arrivata”. “No, no, è bello vivere, lasciami in pace” gridò tutto sudato il nostro Omar dall’interno della buia capanna. La lampada infatti gli era caduta a terra e la fiamma si era spenta. Tutto attorno a lui parlava di tenebre e di terrore. “Lasciami un altro mese, per piacere!” supplicò.

“E va bene, tornerò tra un mese”. Si sentirono distintamente ora i pesanti passi dello straniero allontanarsi da Omar che avvertiva più distintamente nel suo petto palpiti veloci del cuore. Aveva ancora solo un mese di tempo, e dopo?

Bisognava fare qualcosa, ma che cosa? Avrebbe fatto costruire una torre alta a difesa della sua casa, oppure sarebbe scappato lontano e sarebbe vissuto nel profondo della più nascosta foresta dell’isola più distante. Oppure si sarebbe travestito da vecchio mendicante e così la morte non lo avrebbe riconosciuto così facilmente. Ma come poteva fare in quell’ultimo mese, accidenti? L’ultima idea gli sembrò quella più giusta. Il giorno dopo si allontanò dal villaggio e, dopo dieci giorni di cammino, giunse ai margini di una grande foresta. Al di là si ergevano alcune montagne e si poteva intravedere anche la cima fumante di un vulcano. Ci mise altri dieci giorni ad arrivare alle pendici del vulcano. La terra gli scottava sotto i piedi e ci vollero ancora altri dieci giorni per trovare finalmente una caverna adatta al suo nascondiglio.

Lo trovò e prima di entrare si travestì da vecchio. Con una fiaccola in mano Omar si addentrò nella grotta accolto da una nuvola di pipistrelli che lo avvolse in segno di triste presagio. In fondo alla caverna gli sembrò di vedere qualcuno tra le pareti umide e tappezzate di muschio. “Omar, sono qui, il mese è passato, sono venuta a prenderti!” Omar capì che non c’era più nulla da fare, aprì le braccia in segno di accoglienza, mentre la morte copriva con il suo giallo mantello il più famoso cacciatore di quelle isole sperdute.

(Illustrazioni di Federica Trivellin).

 

Preghiera

Vieni tu da me, Signore,

e allora io potrò venire da te.

Portami a te

e solo allora potrò seguirti.

Donami il tuo cuore

e solo così potrò amarti.

Dammi la tua vita

e allora potrò morire per te.

Prendi nella tua risurrezione

tutta la mia morte

e sii mio, Signore, sii mio

affinché io sia tua in eterno.

(Silja Walter)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXII DOM TEMP ORD (C)