Cittadinanza e articolazione dei valori nell’educazione e nell’IRC

Da oggi puoi scaricare gli interventi del seminario

(li trovi al termine dell’articolo)

Nella mattinata di sabato 3 dicembre nella Sala “G. Quadrio” si è svolto il Seminario di Studio che l’Istituto di Catechetica dedica all’Insegnamento della Religione Cattolica. I lavori si sono sviluppati, secondo un metodo ormai collaudato, in due sessioni: la prima dedicata all’ascolto delle relazioni, la seconda intesa come spazio di approfondimento e confronto tra i partecipanti. Esperti, ricercatori, docenti (venticinque in tutto, giacché il livello dell’iniziativa prevede la partecipazione dietro “invito”) hanno fornito ampio e interessante materiale di riflessione, attraverso il dibattito in aula e il testo scritto di comunicazioni, confluite in un sussidio di ben settanta pagine.

Il tema del Seminario Cittadinanza e articolazione dei valori nell’educazione e nell’IRC, è stato sviluppato grazie all’intervento del Prof. J.L. Moral: Cittadinanza e articolazione dei valori nell’educazione e nell’IRC. Vita, conoscenza e comprensione nelle società democratiche e del Prof. F. Pajer: Educazione alla cittadinanza e istruzione religiosa in Europa: una coabitazione strategica nel tempo della pluralità.

Il primo ha evidenziato le traiettorie del cambio culturale, che coinvolge anche la scuola, indicando criteri interpretativi ed esigenze educative. Educare è diventare competenti ad affrontare le sfide della vita e di questa interpretata secondo categorie adeguate. Poiché una sfida decisiva oggi è rappresentata dal “convivere”, è necessario trovare dei principi necessari e sufficienti di convivenza e soprattutto un nuovo perno educativo, che può essere individuato proprio nella “cittadinanza”.

Il secondo ha chiarito i limiti semantici del binomio cittadinanza-religione e la differenza tra “pluralità” e “pluralismo”. Ha poi ampliato il discorso con un ampio sguardo su come i sistemi d’istruzione europei coniughino il binomio, attraverso l’attivazione di modelli di educazione religiosa differenti nella fondazione teorica, nella giustificazione istituzionale e nella realizzazione didattica. Sei temi, presentati come “punti di approdo” e insieme come “questioni aperte” hanno dato la dimensione dell’ampiezza dei problemi che caratterizzano l’istruzione religiosa in Europa e degli spazi di confronto che richiedono come sempre un approfondimento competente ed una presenza attiva nelle sedi scolastiche, accademiche ed istituzionali.

Invito a procedere nello studio e nelle iniziative formative è stato rivolto dal Prof. Mauro Mantovani, Rettor Magnifico della nostra Università, che nel suo indirizzo di saluto in apertura dei lavori ha espresso l’apprezzamento e la considerazione della Comunità accademica per la scelta dei temi, il livello delle persone coinvolte e la qualità delle iniziative che l’Istituto di Catechetica propone nel campo dell’educazione religiosa e dell’insegnamento della religione.

Infatti il Seminario rientra nella progettazione per l’IRC realizzata dall’Istituto nel triennio 2014-2017 ed è pertanto il momento preparatorio di un cammino formativo offerto agli insegnanti di religione italiani, che si concretizzerà in un Convegno su: Religione e cittadinanza attiva, il 18-19 marzo 2017 e in un Corso residenziale dal tema: Cittadinanza, valori ed IRC: progetto ed itinerari educativi, dal 2 all’8 luglio 2017.

Giampaolo Usai

Roma, 04/12/2016

 

Qualche foto dell’evento:

 

RELAZIONI DEL SEMINARIO:

LIBRETTO_SEMINARIO_IRC_ICA 3.12.2016

Contemplare l’alba oltre il tramonto

Morte e vita dalla prospettiva della Teologia spirituale

La Giornata di studio proposta dall’Istituto di Teologia spirituale dell’Università Pontificia Salesiana, dopo aver affrontato il tema della mistica, della contemplazione e della misericordia, si concentra quest’anno sullo studio della vita cristiana come preludio dell’eternità. In effetti, sebbene siano numerosi gli studi storici, sociologici, filosofi, psicologici, di letteratura sulla morte, non è un tema tanto frequentato oggi nella teologia e tanto meno nella teologia spirituale.  Sembrerebbe che la nostra cultura, già disinteressata della morte e, quindi, del morire, pretenda anche di rimuovere la vita eterna.

Con questo orizzonte di riferimento, la riflessione degli autori che collaborano nella Giornata di studio e nella pubblicazione del volume privilegia non tanto la dottrina biblico-cristiana sulla fede nella vita eterna e la sua articolazione sistematica o la teorizzazione a favore di una tesi prefissata, ma il vissuto cristiano in quanto oggetto di studio specifico della teologia spirituale. In concreto, la riflessione sulla vita eterna non può prescindere dall’esperienza del morire del morente. Perciò, è opportuno partire metodologicamente dal morire concreto, recuperando così la priorità della vita eterna ed evitare speculazioni inverificabili.

La Giornata di studio del 15 dicembre sarà introdotta dal saluto del Rettore, prof. Mauro Mantovani, e dalla presentazione dello «Status quaestionis» da parte del direttore dell’Istituto di Teologia spirituale, prof. Jesús Manuel García Gutiérrez. Per approfondire l’argomento vengono proposte quattro relazioni in mattinata e la visione di un film nel primo pomeriggio. La prima di esse, quella della prof.ssa Cristiana Freni, docente stabilizzata nella cattedra di Filosofia del Linguaggio della Facoltà di Filosofia presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, offrirà un quadro sintetico fenomenologico sull’«ars moriendi»: Senso della morte come senso della vita. A seguire, il prof. Cesare Bissoli, docente emerito di Bibbia e catechesi, concentrerà la sua attenzione sull’atteggiamento di Cristo di fronte alla sua morte. Dopo l’intervallo, si terranno due relazioni di carattere pedagogico. Nella prima, il prof. Massimo Petrini, professore emerito di Teologia Pastorale Sanitaria e già preside dell’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum”, si soffermerà sul morire del credente: «Come sarà la mia morte? Sarò solo o potrò avere accanto persone care? Che cosa mi aspetta dopo la morte? Sarò accolto dalla misericordia divina?  La seconda relazione, tenuta dalla prof.ssa Lorella Congiunti, vice Rettore della Pontificia Università Urbaniana e docente ordinario nella Facoltà di Filosofia della stessa università, approfondirà l’argomento dell’esperienza dei non credenti dinanzi alla morte: Come muoiono coloro che non credono nell’eternità?

Nel primo pomeriggio la presentazione del film «Io prima di te», fatta dal prof. Rossano Zas Friz De Col, docente di teologia spirituale nella Pontificia Università Gregoriana di Roma, offrirà un motivo di dialogo tra i partecipanti, prima della conclusione della Giornata.  

 

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Dépliant Giornata studio sulla morte

III DOMENICA DI AVVENTO

  Prima lettura: Isaia 35,1-6a.8a.10

Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.

 

 Il brano riporta uno dei più significativi oracoli messianici citati da Gesù per capire il senso delle sue “opere”. Appartiene alla così detta “piccola apocalisse” di Is 34-35 (la “grande apocalisse” è in Is 24-27), databile al tempo del ritorno dalla deportazione a Babilonia e della ricostruzione. Per rinfrancare i rimpatriati, alle prese con tante difficoltà materiali e ancora tentennanti nella fede e nella speranza, il profeta, col linguaggio allegorico proprio dell’apocalittica, descrive la sorte disastrosa di chi va contro Dio e la sorte gloriosa invece di chi sta nella sua alleanza: Is 34 annuncia la rovina di tutti i popoli ribelli a Dio, in particolare di Edom, complice dei distruttori (cf. Is 34,8 e Sal 136,7); Is 35 invece invita i reduci a esultare, per la nuova e meravigliosa realtà che stanno per sperimentare. Il brano liturgico riporta tutto Is 35, eccetto due versetti, e si può suddividere in due parti.

     1. Splendida ripresa dell’ambiente, per opera di Dio (vv. 1-4). Al quadro desolante dei castighi al paese di Edom (Is 34), il profeta contrappone quest’altro gioioso, mirabilmente florido e bello, per Sion. Prima dipinge la ripresa rigogliosa della terra promessa, coi paragoni proverbiali del Libano e del Carmelo, allora splendidi e lussureggianti di vegetazione, gloria di Dio creatore. Poi prospetta la ripresa fisica e morale dei rimpatriati in tale ambiente: mani e gambe irrobustite, per lavorare sicuri e muoversi spediti, e superamento delle idee e dei sentimenti ancora incerti e timorosi per gli «smarriti di cuore». Dio stesso sta per tornare fra loro (cf. Is 40,10-11), conclude l’oracolo. Viene a “salvare”, nel duplice senso della liberazione e della salute piena. In questo modo viene con lui la “vendetta”, che è punizione per i deportatori e ricompensa per i liberati che tornano a lui. Essa a noi ripugna tanto, perché la pensiamo acida e sproporzionata come la nostra. Ma la vendetta divina, sia pure con linguaggio crudo, l’Antico Testamento la attende e la invoca da Dio onnisciente e infinitamente giusto e misericordioso (cf. Ger 1,20), intendendo sempre la sua giustizia. A compierla ora è il Dio dell’alleanza, il “Santo di Israele” che interviene come vindice (go’el) del suo popolo, per tirarlo fuori dalle difficoltà in cui è caduto e rimetterlo sulla strada della salvezza.

     2. Ripresa interiore profonda del popolo di Dio (vv. 5-10). L’opera di salvezza nelle persone è preannunciata in tre momenti. Anzitutto una nuova vitalità: si apriranno gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo e griderà di gioia il muto… Non più solo mani e ginocchia, ma tutte le membra e i sensi dell’uomo tornano integri. Si tratta in primo luogo dell’uscita dallo scoraggiamento e dal pessimismo, nel quale sono caduti i deportati (Is 42,18-23), e della capacità di percepire il germoglio della nuova realtà (Is 43,19): quindi una ripresa interiore, profonda, spirituale, prima che fisica. Ad essa soprattutto fa riferimento la risposta di Gesù al Battista, ampliandola ai lebbrosi guariti e addirittura ai morti risuscitati. Secondo momento è il riconoscimento della “Via santa”, quella da appianare nel deserto per il rimpatrio, rapido e sicuro, sulla quale si rivelerà la «gloria» di Dio liberatore (Is 40,3-5), frutto però di quella spirituale che riporta a camminare con Dio nella vita. Su questa il Battista riconosceva la sua missione (cf. Mt 3,3; Gv 1,23). E anche Gesù vi allude, con la buona novella ai poveri e la beatitudine per chi non trova inciampo nella sua proposta messianica (Vangelo). Terzo momento sarà la felicità perenne in Sion, per il popolo uscito dalla tristezza e dal pianto e ristabilito nella sua regalità.

     Gli annunci profetici e le “opere” di Gesù dunque si pongono come “segni” di una realtà che sta nei risvolti più profondi dell’uomo e che si sviluppa nel futuro messianico della “salvezza”.

 

Seconda lettura: Giacomo 5,7-10

Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.

 

Alla fine ormai della lettera, Giacomo fa le raccomandazioni per l’attesa della venuta del Signore, che già arriva in quanto va succedendo alle «dodici tribù in diaspora» (Gc 1,1), cioè al nuovo popolo di Dio pellegrino nella storia. Cerchiamo di cogliere questi aspetti di escatologia immanente.

     1. L’imperativo iniziale «siate costanti», alla lettera sarebbe “siate magnanimi”, allargate la mente, e così sarete pazienti e tolleranti. 

     Vedi l’agricoltore (v. 7). La sua pazienza è tutt’altro che inerte e passiva: egli attende il prezioso frutto della terra dalle cure che vi prodiga, ma rafforza la sua speranza con la fiducia nelle piogge stagionali, dono di Dio.

Così i cristiani allarghino l’animo e irrobustiscano i cuori, riconoscendo che il Signore viene già quando affrontano le persecuzioni, vivono le rinunce e testimoniano la fede. E non si perdano in lagnanze reciproche, per non essere giudicati da colui che, dopo la prima venuta nella misericordia, torna piuttosto come giudice in quella intermedia e in quella finale: Ecco, vedi il giudice è alle porte (v. 9).

     2. Un secondo imperativo invita a prendere come modelli di sopportazione dei mali e di grandezza d’animo i profeti. Il loro esempio non è generico, ma fatto di comportamenti e di motivazioni date dalla fede: per questo Giacomo specifica: «che hanno parlato nel nome del Signore». Sempre la pazienza cristiana è frutto della grandezza d’animo data dalla parola di Dio e della forza di sopportare, comunicata dalla grazia.

 

Vangelo:Matteo 11,2-11

 In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose Loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano. Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Si, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

 

Esegesi

     Il riconoscimento dell’identità di Gesù come Messia, da parte dei discepoli, avviene a Cesarea di Filippo, nei Sinottici, e verso di esso tende tutta la prima parte del loro racconto. Matteo e Luca inseriscono una tappa importante con l’episodio che si legge oggi, nel quale Gesù stesso indica gli elementi per riconoscerlo e a sua volta delinea l’identità dell’interlocutore Giovanni, che gli ha preparato la strada, come farà poi a Cesarea anche con Pietro, che continuerà la sua opera.

Il discorso sulle identità divide il brano in due parti.

     1. La identità di Gesù (vv. 2-6). È o non è lui “il Veniente”? Il titolo accomuna il Messia con Dio (cf. Ap 1,4-5). Sono le sue “opere” a provocare la domanda del Battista. Lui lo aveva annunciato alla gente con la scure posta alla radice e il ventilabro in mano, per raccogliere nel granaio il suo grano e bruciare la pula nel fuoco inestinguibile, cioè come giudice ultimo di tutta la iniquità umana (cf. Mt 3,10-13). Gesù invece compie gesti pieni di misericordia, verso i malati e i peccatori, e fa discorsi tutti ispirati all’amore e alla condivisione, in particolare sulla montagna (Mt 5-7) e ai missionari (Mt 10).

Gesù non da una risposta diretta, ma invita i discepoli del Battista a fare discernimento sui prodigi che compie, con riferimenti al libro di Isaia, dove sono ricorrenti i temi del “vedere” e “ascoltare”. In esso, mentre il profeta dell’VII sec. a.C. era stato disilluso da Dio, sull’esito del ministero presso un popolo superficiale che non vede con gli occhi, non ode con gli orecchi e non comprende con il cuore (cf. Is 6,10), gli oracoli messianici dei suoi continuatori, nel VI sec. a.C., annunciano una prodigiosa riapertura degli occhi e degli orecchi (cf. Prima lettura). Usando le loro espressioni, Gesù vuole dire che sta realizzando i loro annunci e invita i discepoli del Battista a riferire quanto essi stessi avranno saputo ascoltare e vedere.          

     In questo modo egli presenta le sue “opere” non fine a se stesse, ma come “segni” di quanto va compiendo nella realtà più profonda. L’aveva già indicata nei singoli prodigi con le richieste della fede, che fa risorgere la vita dello spirito, e con la remissione dei peccati, che toglie l’ostacolo più grosso. Adesso l’ha sintetizzata con la frase «ai poveri è annunciato il vangelo», che un po’ riassume i prodigi elencati e i riferimenti a Isaia (cf. Is 61,1), ma più ancora indica il suo programma, proclamato sul monte con le beatitudini. Egli evangelizza i poveri (Mt 5,3-10), nel senso che valorizza loro, e non i ricchi e sazi, come base per costruire il regno di Dio. A quelle beatitudini ora ne aggiunge un’altra: beato chi non trova inciampo (scandalo) in lui per questa valorizzazione.

     2. La identità del Battista (vv. 7-11). A scanso dell’equivoco possibile che sia anche lui a trovare inciampo, Gesù stesso prende l’iniziativa di delinearne la identità, tutt’altro che estranea alla propria. Fra tre ipotesi, ripetendo per tre volte la domanda: «che cosa siete andati a vedere nel deserto?». La prima ipotesi, una canna sbattuta dal vento, cioè un opportunista folle, è smentita dalla verità della terza. La seconda, un uomo in morbide vesti, cioè un facoltoso in cerca di potere, è smentita dallo stile del personaggio e dalle sue contestazioni agli uomini di palazzo.                                 

     La terza ipotesi, un profeta, non solo è vera ma dice ancora troppo poco. Assai più che profeta egli è il precursore del Messia, ne ha preparato la venuta. Non è quindi inciampo o scandalo il suo, ma bisogno di capire meglio l’intendimento di Gesù, sentito nel battesimo al Giordano, di adempiere «ogni giustizia» (Mt 3,14-15) cioè ogni disposizione divina sul Messia. Gli viene risposto che, per provocare le scelte fondamentali, egli usa la misericordia e la condivisione e non ancora il giudizio definitivo: sono criteri di discernimento per l’appartenenza a Dio assai più taglienti e profondi della scure, del ventilabro e di qualsiasi discriminazione violenta, perché costituiscono e non solo annunciano il regno dei cieli. In questo senso, chi entra nella costruzione del regno con lui è più grande del Battista, che pure supera tutti i profeti dell’umanità. In questo senso pure si può dire che le attese del Battista non sono smentite, ma portate a guardare più in profondità.          

 

Immagine della Domenica 

 
 

Scavare verso Dio 

È da tempo che la sera è caduta

è da sere che il cielo è oscurato

è da cieli che la luce è partita

è da giorni che il ruscello è seccato.

Ecco questo uccello passare basso sotto la nube

bisogna partire e rientrare nel buio

non è più tempo di cantare nella strada

è troppo tardi per chiacchierare nel buio.

Gli alberi dormono come un corpo inerte,

la farfalla si affretta verso la sua rovina.

Solo, senza rimedio, bisogna chiudere gli occhi

e in fondo al buio scavare verso Dio.

(J.P. Dadelsen, Giona).

 

Meditazione 

     L’annuncio della venuta del Signore, la difficile arte dell’attesa del Veniente, la gioia che Colui che viene suscita: questi i temi salienti della III domenica di Avvento. Che affermano anche la non-evidenza della venuta del Signore. L’annuncio isaiano della venuta liberatrice del Signore raggiunge i figli d’Israele in una situazione di «tristezza e pianto» (Is 35,10); le opere che attestano che Gesù è il Messia, il Veniente, sembrano trascurare la «liberazione dei prigionieri» (Is 61,1; Lc 4,18) e sono narrate a Giovanni che è in prigione e vi troverà la morte (Mt 14,3-12); la comunità cristiana è confrontata con l’annuncio di una venuta del Signore che chiede un atteggiamento di sopportazione, fede, pazienza, simile a quello dell’agricoltore o dei profeti (II lettura), o di Giobbe (Gc 5,11). L’agricoltore attende un frutto che dipende da piogge che possono anche non venire; i profeti hanno parlato e agito in nome di Dio suscitando spesso ostilità e rifiuto; Giobbe ha perseverato nei dolori, nel non-senso, facendo della sua attesa una lotta drammatica. Così, l’attesa del Signore si tinge della tinta della pazienza.

     La pazienza è l’arte di vivere l’incompiutezza e la parzialità. La preghiera ebraica che recita: «Io credo con fede piena e perfetta alla venuta del Messia e, benché tardi, io l’attendo ogni giorno» esprime bene l’idea di pazienza insita nell’attesa. Dietro quel «benché tardi» vi è la drammaticità dell’incompiuto e dell’irredento sperimentati nel quotidiano. La pazienza è necessaria per chi vive nella storia l’attesa del Regno: essa si declina come pazienza nei confronti di Dio, della chiesa e di se stessi. Nei confronti di Dio, perché Dio non ha ancora adempiuto, per sempre e per tutti, le promesse di guarigione dei ciechi e degli zoppi, dei muti e dei sordi, le promesse di salvezza dal male, dal peccato, dalla morte; nei confronti della chiesa, perché la comunità cristiana spesso si mostra inadempiente rispetto alle esigenze evangeliche; nei confronti nostri, perché scopriamo in noi inadeguatezze e difformità rispetto alla nostra vocazione. La pazienza è «forza nei confronti di se stessi» (Tommaso d’Aquino), capacità di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione. E questo grazie al fatto che la pazienza è sguardo in grande (makrothymía) sulla realtà, su Dio, sulla chiesa, su noi stessi. La pazienza è grandezza d’animo e si concretizza nell’amore: «l’amore pazienta» (1 Cor 13,4).

     «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?» (Mt 11,3). La domanda del Battista indica non solo che la fede è traversata dal dubbio, ma che il dubbio può affinare la fede e ridurre la distanza tra l’immagine del Signore che il credente nutre e il Signore stesso nel suo rivelarsi. Per il Battista la fede in Gesù Messia cessa di essere una verità evidente e, da certezza granitica predicata a gran voce, diviene domanda sussurrata. Anche la fede, la nostra personale fede, ha una storia. E anche la nostra fede non è solo luce, ma luce e buio, luce nel buio, e conosce zone grigie.

     Certamente significativo è il fatto che il Battista si rivolga a Gesù stesso ed esponga a lui la sua domanda. La domanda di fede non spegne l’amore, anzi, Giovanni si rimette a ciò che Gesù stesso gli dirà: «Sei tu…?». Più che mai la fede appare qui come affidamento personale. L’amore purifica la fede, la rende sempre più relazione tra viventi.

     Nel deserto come nella prigione, nella predicazione autorevole come nella domanda umile, Giovanni continua ad attendere il Veniente. Giovanni è l’uomo dell’attesa, ovvero l’uomo che vive sotto il segno della grazia: la vita che ha ricevuto per grazia da Dio nel passato (Giovanni significa «il Signore fa grazia»; cfr. Lc 1), egli la attende come grazia dal futuro attenendo nell’oggi il Messia veniente. E proprio la sua attesa apre i luoghi di morte e di chiusura che sono il deserto e la prigione, alla vita e alla libertà. La sua attesa diviene speranza per le folle che andavano a lui nel deserto e per i discepoli che andavano a trovarlo in prigione. L’attesa cristiana della venuta del Signore è dono di speranza per gli uomini.

 

Preghiere e racconti

 

La fede è possedere quello che si spera soltanto

Nelle mie riflessioni sulla fede ho incontrato una pagina di un documento che i cristiani riconoscono come “parola di Dio”: il capitolo 11 della Lettera che un autore anonimo ha scritto due mila anni fa agli Ebrei per mostrare che Gesù di Nazaret è proprio quel salvatore che loro stavano aspettando. […] Il capitolo si apre con una definizione di fede, tanto originale quanto simpatica: “La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono” (Eb 11,1).

Nei fatti della nostra vita ci sono delle cose che si vedono e ce ne sono molte altre che invece restano nascoste. Di solito, è facile distinguere tra ciò che si vede. Vedo l’amico che è fisicamente presente vicino a me. Posso sentire la sua voce, gioire (o rammaricarmi) della sua presente. Questa non è l’unica possibile. Altre persone sono vicine anche se, in questo momento, non lo sono fisicamente. Non le possiamo vedere, se non con gli occhi dell’amore e della fantasia. In questi casi è chiaro ciò che si vede e ciò che non si vede.

Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede, suggerito dalla definizione di fede della Lettera agli Ebrei, non va inteso come la differenza tra un amico che sta fisicamente vicino a te ed un altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente.

In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere toccato con mano. Riconoscimento però che non finisce tutto lì. In una persona amara c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge. Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo. 

Quello che non si vede diventa la categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede. […]

La definizione di fede che ho riportato dalla Lettera agli Ebrei parte da questa situazione e aggiunge: la fede è quell’atteggiamento che permette di vedere anche quello che non si vede, fino al punto di valutare ed esprimere quello che si vede dalla parte di quello che non si vede.

Un piccolo particolare non dovrebbe sfuggirci. La definizione di fede riportata contiene una ripetizione. Apparentemente le due frasi dicono, con parole diverse, la stessa cosa. C’è però una sottolineatura originale: le cose che non si vedono sono “sperate”… e cioè attese, desiderate, ricercate. La voglia di verità porta a scavare in quello che si vede per arrivare a mettere le mani, con gioia, sul mistero che si portano dentro.

(Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 17-19)

 

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37)

 

Il buio e la luce

È buio dentro di me,

ma presso di te c’è la luce;

sono solo, ma tu non mi abbandoni;

sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;

sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;

in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;

io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.

(Dietrich Bonhoeffer)

 

Il luogo dell’appuntamento

Dio e l’umanità sono come due amanti che hanno sbagliato il luogo dell’appuntamento. Tutti e due arrivano in anticipo sull’ora fissata ma in due luoghi diversi. E aspettano, aspettano, aspettano. Uno è in piedi inchiodato sul posto per l’eternità dei tempi. L’altra è distratta e impaziente. Guai a lei se si stanca e se ne va!

(Simone Weil)

 

Nell’attesa paziente

No, non è in tuo potere far aprire il bocciolo; scuotilo, sbattilo,

non riuscirai ad aprirlo.

Le tue mani lo guastano,

ne strappi i petali e li getti nella polvere,

ma non appare nessun colore e nessun profumo.

Ah! A te non è dato di farlo fiorire.

Colui che invece fa sbocciare il fiore, lavora semplicemente,

vi getta uno sguardo all’alba e la linfa della vita scorre nelle vene del fiore.

Al suo alito il fiore dispiega lentamente i suoi petali

e si culla lentamente al soffio del vento.

Come un desiderio del cuore, il suo colore erompe,

e il suo profumo tradisce un dolce segreto.

Colui che fa sbocciare veramente il fiore lavora sempre solo

semplicemente e silenziosamente.

(Poesia indiana)

 

La fede è speranza

     Paolo […] dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete “affliggervi come gli altri che non hanno speranza” (1 Ts 4,13).

     Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiamo nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova».

     (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.2).

 

L’incontro con Dio

     «Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L’esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all’africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All’età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si trovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all’avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. Qui, dopo “padroni” così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un “padrone” totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava “paron” il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un “paron” al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal “Paron” supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava “alla destra di Dio Padre”. Ora lei aveva “speranza” – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio».

     (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.3).

 

«Il tempo si è fatto breve»

     È scritto: «La speranza prolungata fa male al cuore»; ma benché sia stanca per la dilazione del desiderio, tuttavia è sicura della promessa. Sperando in essa e ponendo in essa ogni mia attesa, aggiungerò speranza a  speranza (…).                                          

     Signore Gesù, ti siano rese grazie. Io, una volta per tutte, ho fatto affidamento alle tue promesse. Tuttavia «vieni in aiuto alla mia incredulità», perché, dimorando là, immobile, io ti attenda sempre, finché veda ciò che credo. Sì, io credo di «poter contemplare la bontà del Signore nella terra dei vivi». E tu, lo credi? Allora il tuo cuore si fortifichi ed attenda con pazienza il Signore. Se egli richiede una lunga pazienza, altrove promette di tornare presto. Da una parte vuole educarci alla pazienza, dall’altra confortare gli scoraggiati.

     «Il tempo si è fatto breve», soprattutto per ciascuno di noi, benché sembri lungo a chi si consumi, sia per il dolore, sia per l’amore».

     (GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, 1, 3-4).

 

Preghiera

     «Beato chi non si scandalizzerà di me»: sostieni la nostra fede, Signore Gesù, quando è tentata di scandalizzarsi per la tua ‘debolezza’.

     Donaci la convinzione e la sapienza che animava il tuo apostolo Giacomo: egli, che ben conosceva le grandiose promesse di Isaia, ha creduto che tu le hai realizzate, anche se nulla sembrava apparentemente cambiato nel mondo, dopo il tuo passaggio.

     Dona anche a noi la pazienza dell’agricoltore, per seminare speranza.

     Fa’ che accogliamo con riconoscenza il tuo vangelo di gioia, la buona notizia per i poveri e insegnandoci la pazienza; edifica in noi una fede forte.

     Donaci la beatitudine di essere tuoi discepoli, la tua stessa gioia, la gioia del Padre nel fare del bene, anche quando ci toccasse di apparire perdenti.                                    

     Ravviva in noi la memoria dei benefici ricevuti, perché possiamo deciderci ancora oggi per il tuo vangelo e perché, anche quando non riconosciamo le tue vie, continuino come il Battista ad esserti fedeli. 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA DI AVVENTO

IMMACOLATA CONCEZIONE

 Prima lettura: Genesi 3,9-15.20

  [Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.

 

Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.

Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana. L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.

L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente. Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.

 

Seconda lettura: Ef 1,3-6.11-12

 Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.

 

La nostra seconda lettura utilizza una parte della prosa lirica elevata a Dio in onore di Gesù Cristo, con cui si apre la lettera agli Efesini (1,3-14). Sulla sua scelta per questa liturgia ha forse pesato la presenza del termine immacolati, che ricorre nel v. 4. Il senso principale del brano è che Dio merita la nostra lode e ilringraziamento perché egli per primo ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizioni valide per sempre, avendo suscitato per noi il suo Figlio Gesù Cristo, da noi riconosciuto come Signore. Più in particolare, Dio va lodato e ringraziato perché, mediante la persona di Gesù Cristo, noi siamo stati chiamati alla santità (cioè a essere santi e immacolati), con un decreto che precede la fondazione del mondo. Senza che ne avessimo alcun diritto naturale, per poter realizzare la nostra chiamata alla santità, Dio ci ha regalato l’adozione a suoi figli, per i meriti di Gesù Cristo. Tutto questo, già per se stesso, può essere inteso come un inno di lode che celebra l’attività salvifica di Dio. Da aggiungere è anche che, avendo posto in Cristo tutta la nostra speranza, sappiamo che erediteremo la totalità delle divine promesse. Come si vede, al centro della nostra lettura c’è che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità, cioè a essere santi e immacolati, a partecipare quindi al modello di esistenza che ha qualificato Maria santissima come immacolata.

 

Vangelo: Luca 1,26-38

 In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

 

Esegesi 

      Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia. Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.

Nei vv. 26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio. In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).

Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità. Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.

— Nel v. 28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9). Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione. A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).

— Nel v. 29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.

— Nei vv. 30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome. L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.

— Nei vv. 32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria. Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2 Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande… figlio (di Dio) …cosa… regno (i Davide) …regno senza fine. Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.

— I vv. 34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria. Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.

— Nei vv. 36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.

— Nel v. 38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore. Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.

Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione. In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia. In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione.

 

Meditazione 

La liturgia della Parola di questa solennità ci offre nel versetto al salmo responsoriale (Sal 97) una particolare angolatura contemplativa per accostare il mistero celebrato: «Abbiamo contemplato o Dio le meraviglie del tuo amore». L’atteggiamento suscitato da questa parola ci invita a rileggere i testi della Scrittura, e in particolare il racconto di Lc 1,26-38, collocandoci in uno spazio di meraviglia, che nello stesso tempo è spazio di silenzio, di sguardo, di riconoscenza, di gioia. Di fronte a Colui che «ha compiuto meraviglie… ha fatto conoscere la sua salvezza. si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa di Israele» (Sal 97,1-3), il credente non può che stupirsi e con questo atteggiamento accostarsi a quel momento misterioso della storia di salvezza che rivela e porta a compimento il disegno di amore di Dio su tutta l’umanità. Abbracciando con un solo sguardo tutta la storia che Dio ha intessuto fin dall’eternità con ogni uomo, Paolo ci ricorda che questo disegno di amore ha un punto d’arrivo, una meta: essere in Cristo, poiché in Lui siamo stati «scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4-5). Ma la fedeltà di Dio a questo progetto di gratuità trova una conferma ‘storica’ in un evento che è come promessa, speranza e anticipazione di ciò che Lui vuole realizzare per ogni uomo «secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,5). È l’evento che si realizza in una ragazza di Nazaret, Maria, che dal messaggero di Dio è salutata con queste inaudite parole: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28). In questa donna trovano così spazio gioia, sovrabbondanza e totalità di grazia, presenza di un Dio che salva e usa misericordia. E tutto questo è adombrato in un silenzioso dialogo tra quel Dio che si rivela nella sua Parola e quella umile donna che fa spazio, in un ascolto di fede radicale, a quella Parola che finalmente in lei può prendere un volto. Noi conosciamo qualcosa di questo miste-rioso incontro nel racconto dell’evangelista Luca. Forse ciò che ci viene trasmesso da questa narrazione è troppo poco per decifrare un mistero, ma sicuramente è molto per lasciarci stupire da esso.

      E un primo tratto di questo racconto che in noi desta meraviglia, è il fatto che Dio dialoga con Maria. «Maria non è la semplice destinataria passiva della rivelazione riguardante il Figlio. Il suo è un ruolo attivo, di partner, nel contesto immediato, partner dell’angelo del Signore, ma, in realtà, partner di Dio stesso, che ha voluto far dipender la realizzazione del suo progetto dal libero consenso che Egli sollecitava dalla sua fede» (J. Dupont). Maria dialoga con l’angelo, intervenendo per capire e per maturare nell’adesione a ciò che le viene detto. La forza di questa parola dia-logica, che apre allo sguardo di Maria il mistero di un Dio che sceglie di parlare all’uomo, coinvolge completamente questa donna e, entrando in lei, si trasforma in carne: «Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).

      Ma è sorprendete il fatto che anche all’inizio della storia della salvezza, quella storia drammaticamente segnata da una rottura (cfr. Gen 3,1-16), permanga intatto un dialogo tra Dio e l’uomo. E nelle parole che Dio rivolge al primo uomo e alla prima donna rimangono misteriosamente uniti la sofferenza di una fiducia tradita e il desiderio di continuare ‘diversamente’ una relazione di amore e di alleanza. È come se Dio, in questo dialogo, guardasse molto lontano, ad un compimento: «Io porrò inimicizia – dice al serpente – tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15).         

      E la liturgia, nella sua sapiente lettura della storia sacra, accosta, proprio per questa festa, questi due dialoghi ‘originari’: il dialogo tra Dio e il primo uomo, dialogo profondamente segnato dal dramma del rifiuto, e il dialogo tra l’angelo e una donna, Maria, nell’orizzonte di un cammino carico di novità e di pienezza. E si rimane colpiti dalle risonanze tra questi due dialoghi, pur lontani e diversi, ma racchiusi ambedue dalla nostalgia di un Dio che cerca nell’uomo un volto in cui riflettere tutta la sua bellezza e la sua misericordia, che non si rassegna a perdere la sua creatura più preziosa, che gli va incontro con volto amico. Questa parola che Dio rivolge all’uomo è l’unica che può strappare l’uomo dal nulla, creandolo e chiamandolo alla vita, ed è l’unica che può rompere il silenzio e il mutismo in cui l’umanità si è racchiusa, ridando ad essa la possibilità di un dialogo. «Dove sei?» (Gen 3,9): ecco la parola rivolta all’uomo dopo che egli ha distolto il volto dal suo Dio. E solo Dio può porre questa domanda che certamente brucia come una ferita nel cuore dell’uomo che la ode, ma che permette all’uomo di riprender quel cammino, faticoso e doloroso, alla ricerca del volto di Dio. «Dove sei?»: Quale è il luogo in cui l’uomo ha scelto di abitare nella sua libertà? Dove lo ha condotto il suo cammino, la sua pretesa di possedere, di usurpare il luogo in cui solo Dio può abitare? «Cerca Dio – ammonisce un anziano monaco del deserto – ma non cercare dove dimora». L’uomo ha cercato il volto di Dio, si è collocato con umiltà davanti al suo sguardo, ha accettato che Dio solo potesse dargli un luogo dove dimorare, oppure ha preteso di invadere la dimora stessa di Dio, sostituirsi a lui nel suo luogo santo? «Dove sei?… Ho udito la tua voce nel giardino: avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Gen 3,10). La risposta di Adamo è la risposta dell’uomo, dell’umanità, che non sa più dove si trova: ha cacciato Dio dalla sua dimora, si è messo al suo posto e ora è senza fissa dimora, fugge, non riesce più a collocarsi e a leggersi in uno spazio donato (quel simbolico giardino in cui tutto gli era offerto gratuitamente). Il suo disagio, la sua fragilità e il suo smarrimento di fronte ad un luogo che sente di aver violato, si trasformano in paura. Sente quel passo di Dio che si avvicina come minaccioso, ingombrante, oppressivo, come il passo di un conquistatore che viene a riprendere il luogo del suo possesso. E quel luogo, in cui l’uomo abitava con Dio, quel luogo di Dio in cui l’uomo era chiamato ad entrare per pura grazia, e non per diritto e possesso, da spazio di prossimità e comunione, si trasforma in abisso di lontananza, pieno di incognite e di angoscia. L’unico luogo in cui l’uomo sente di poter ricevere sollievo è quello in cui può nascondere il suo volto, la sua nudità. L’uomo ha perso la sua vicinanza con Dio, ma ha anche perso la vicinanza con se stesso. Il volto di Dio riflesso nel suo stesso volto provoca all’uomo l’angoscia del fallimento e della fine: «Ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (v. 10).

      «Dove sei?». Questa domanda rivolta da Dio al primo uomo e alla prima donna è come una eco che attraversa tutta la storia dell’umanità, risuonando nel cuore di ciascuno. Con essa Dio misteriosamente continua a chiamare l’uomo a sé, suscitandogli il desiderio e la nostalgia di un ritorno. Finché, in una casa della Galilea, questa domanda riceve finalmente la risposta che Dio si attendeva: «Dove sei?» […] «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). La risposta di Maria è la riposta di una umanità libera, che ha accolto radicalmente la sua nudità e l’ha collocata davanti a Colui che ha la delicatezza di avvolgere con il suo sguardo di compassione tutto ciò che l’uomo sente come fragilità e debolezza (cfr. Lc 1,48).

      «Dove sei?… Eccomi…»: è la risposta di chi non teme più nulla, di chi, disarmato, si presenta davanti a Colui al quale nulla è impossibile (cfr. Lc 1,37); la risposta di chi accetta un cammino di obbedienza a quella parola che, sola, conosce il mistero dell’uomo e che richiede la radicalità della fede. -Eccomi- è la risposta dell’uomo che getta tutte le maschere dietro le quali vuol nascondere il suo volto e si scopre vero davanti a Colui che è prossimità: «il Signore è con te» (1,28).

      «Dove sei?». La risposta di Adamo è quella dell’uomo che fugge e si nasconde da Dio, dell’uomo che si nascondono di fronte a se stesso ed alla sua responsabilità; la risposta di Maria è quella di chi accetta di stare vicino a Dio così come si è, assumendo in pieno la propria libertà, sapendo che tutta la propria esistenza è oggetto di pura grazia; e stando vicino a Dio, in questo luogo, e non altrove, scopre la misura di quella pace che annulla ogni timore ed angoscia, la misura di quel passo leggero che come soffio trasforma e rende nuova ogni creatura. Maria non ha paura del passo di Dio; sa che esso ha il ritmo dello Spirito, il ritmo dell’amore.

      «Dove sei?… Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».

 

Preghiere e racconti

 

Lascia spazio alla bellezza di Dio

O Maria, Madre nostra,

oggi il popolo di Dio in festati venera Immacolata,

preservata da sempre dal contagio del peccato.

Accogli l’omaggio che ti offro

a nome della Chiesa che è in Roma

e nel mondo intero.

Sapere che Tu, che sei nostra Madre, sei totalmente libera dal peccato

ci dà grande conforto.

Sapere che su di te il male non ha potere,

ci riempie di speranza e di fortezza

nella lotta quotidiana che noi dobbiamo compiere

contro le minacce del maligno.

Ma in questa lotta non siamo soli,

non siamo orfani, perché Gesù, prima di morire sulla croce,

ci ha dato Te come Madre.

Noi dunque, pur essendo peccatori, siamo tuoi figli,

 figli dell’Immacolata,

chiamati a quella santità che in Te risplende

per grazia di Dio fin dall’inizio.

Animati da questa speranza,

noi oggi invochiamo la tua materna protezione per noi,

per le nostre famiglie,

per questa Città, per il mondo intero.

La potenza dell’amore di Dio,

che ti ha preservata dal peccato originale,

per tua intercessione liberi l’umanità da ogni schiavitù spirituale e materiale,

e faccia vincere, nei cuori e negli avvenimenti, il disegno di salvezza di Dio.

Fa’ che anche in noi, tuoi figli, la grazia prevalga sull’orgoglio

e possiamo diventare misericordiosi

come è misericordioso il nostro Padre celeste.

In questo tempo che ci conduce

alla festa del Natale di Gesù,

insegnaci ad andare controcorrente:

a spogliarci, ad abbassarci, a donarci, ad ascoltare, a fare silenzio,

a decentrarci da noi stessi,

per lasciare spazio alla bellezza di Dio, fonte della vera gioia.

O Madre nostra Immacolata, prega per noi!

(Preghiera di Papa Francesco nella solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, lunedì 8 dicembre 2014).

 

La prima festa dell’anno è l’Immacolata

Non è senza motivo che l’anno liturgico si apra con una visione di bellezza. Nella preghiera liturgica, anzi nella vita stessa della Chiesa il primato è della contemplazione – ogni attività apostolica e anche morale ha termine nella contemplazione della gloria divina, nel silenzio dell’adorazione, nel canto della lode. La Chiesa prima di tutto canta la bellezza. (…) La festa dell’Immacolata è visione di sovrumana bellezza.

(Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, 69).

 

Maria Immacolata

Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.

L’esistenza di quello che la Chiesa chiama “peccato originale” è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Gn 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo (cfr Sap 1,13-14; 2,23-24) il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione. E’ il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Gn 3,15).

Fin dal principio, dunque, “l’eterno consiglio” come direbbe Dante ha un “termine fisso” (Paradiso, XXXIII, 3): la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: “piena di grazia” (Lc 1,28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth. E’ la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: “La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori” (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha “preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato” (Orazione Colletta).

Carissimi, in Maria Immacolata, noi contempliamo il riflesso della Bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo. In Maria questa bellezza è totalmente pura, umile, libera da ogni superbia e presunzione. Così la Vergine si è mostrata a santa Bernadette, 150 anni or sono, a Lourdes, e così è venerata in tanti santuari. Oggi pomeriggio, secondo la tradizione, anch’io Le renderò omaggio presso il monumento a Lei dedicato in Piazza di Spagna.

(BENDETTO XVI, Angelus,  08.12.2008).

 

Maria, donna gestante

«Rimase con lei circa tre mesi. Poi tornò a casa sua».

Il vangelo stavolta non dice se vi tornò «in fretta», come fu per il viaggio di andata. Ma c’è da supporlo. Da Nazaret era quasi scappata di corsa, senza salutare nessuno. Quell’incredibile chiamata di Dio l’aveva sconvolta. Era come se, improvvisamente, all’interno della sua casetta si fosse spalancato un cratere e lei vi camminasse sul ciglio in preda alle vertigini. E allora, per non precipitare nell’abisso, si era aggrappata alla montagna.

Ma ora bisognava tornare. Quei tre mesi di altura le erano bastati per placare i tumulti interiori. Vicino a Elisabetta aveva portato a compimento il noviziato di una gestazione di cui cominciava lentamente a dipanare il segreto. Ora bisognava scendere in pianura e affrontare i problemi terra terra a cui va incontro ogni donna in attesa. Con qualche complicazione in più. Come dirglielo a Giuseppe? E alle compagne con cui aveva condiviso fino a poco tempo prima i suoi sogni di ragazza innamorata, come avrebbe spiegato il mistero che le era scoppiato nel grembo? Che avrebbero detto in paese?

Sì, anche a Nazaret voleva giungere in fretta. Perciò accelerava l’andatura, quasi danzando sui sassi. Oltretutto, su quei sentieri di campagna, vi si sentiva sospinta come dal vento, di cui, però, le foglie degli ulivi e i pampini delle viti non lasciavano percepire la brezza, nell’immota calura dell’estate di Palestina.

Per placare il batticuore, che pure tre mesi prima non aveva provato in salita, si sedette sull’erba.

Solo allora si accorse che il ventre le si era curvato come una vela. E capì per la prima volta che quella vela non si issava sul suo fragile scafo di donna, ma sulla grande nave del mondo per condurla verso spiagge lontane. Non fece in tempo a rientrare in casa, che Giuseppe, senza chiederle neppure che rendesse più esaurienti le spiegazioni fornitegli dall’angelo, se la portò subito con se. Ed era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni. Ne capiva le ansie. Ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un natale che ormai doveva tardare.

Una notte, lei gli disse: «Senti, Giuseppe, si muove».

Lui, allora, le posò sul grembo la mano, leggera come battito di palpebra, e rabbrividì di felicità.

Maria non fu estranea alle tribolazioni a cui è assoggettata ogni comune gestante. Anzi, era come se si concentrassero in lei le speranze, sì, ma anche le paure di tutte le donne in attesa. Che ne sarà di questo frutto, non ancora maturo, che mi porto nel seno? Gli vorrà bene la gente? Sarà contento di esistere? E quanto peserà su di me il versetto della Genesi: «Partorirai i figli nel dolore»?

Cento domande senza risposta. Cento presagi di luce. Ma anche cento inquietudini. Che si intrecciavano attorno a lei quando le parenti, la sera, restavano a farle compagnia fino a tardi. Lei ascoltava senza turbarsi. E sorrideva ogni volta che qualcuna mormorava: «Scommetto che sarà femmina». 

Santa Maria, donna gestante, creatura dolcissima che nel tuo corpo di vergine hai offerto all’Eterno la pista d’atterraggio nel tempo, scrigno di tenerezza entro cui è venuto a rinchiudersi Colui che i cieli non riescono a contenere, noi non potremo mai sapere con quali parole gli rispondevi, mentre te lo sentivi balzare sotto il cuore, quasi volesse intrecciare anzi tempo colloqui d’amore con te.

Forse in quei momenti ti sarai posta la domanda se fossi tu a donargli i battiti, o fosse lui a prestarti i suoi.

Vigilie trepide di sogni, le tue. Mentre al telaio, risonante di spole, gli preparavi con mani veloci pannolini di lana, gli tessevi lentamente, nel silenzio del grembo, una tunica di carne. Chi sa quante volte avrai avuto il presentimento che quella tunica, un giorno, gliel’avrebbero lacerata. Ti sfiorava allora un fremito di mestizia, ma poi riprendevi a sorridere pensando che tra non molto le donne di Nazaret, venendoti a trovare dopo il parto, avrebbero detto: «Rassomiglia tutto a sua madre». Santa Maria, donna gestante, fontana attraverso cui, dalle falde dei colli eterni, è giunta fino a noi l’acqua della vita, aiutaci ad accogliere come dono ogni creatura che si affaccia a questo mondo. Non c’è ragione che giustifichi il rifiuto. Non c’è violenza che legittimi violenza. Non c’è programma che non possa saltare di fronte al miracolo di una vita che germoglia.

Mettiti, ti preghiamo, accanto a Marilena, che, a quarant’anni, si dispera perché non sa accettare una maternità indesiderata. Sostieni Rosaria, che non sa come affrontare la gente, dopo che lui se n’è andato, lasciandola col suo destino di ragazza madre. Suggerisci parole di perdono a Lucia, che, dopo quel gesto folle, non sa darsi pace e intride ogni notte il cuscino con lacrime di pentimento.

Riempi di gioia la casa di Antonietta e Marco, la quale non risuonerà mai di vagiti, e di’ ad essi che l’indefettibilità del loro reciproco amore è già una creatura che basta a riempire tutta l’esistenza.

Santa Maria, donna gestante, grazie perché, se Gesù l’hai portato nel grembo nove mesi, noi, ci stai portando tutta la vita. Donaci le tue fattezze. Modellaci sul tuo volto. Trasfondici i lineamenti del tuo spirito.

Perché, quando giungerà per noi il dies natalis, se le porte del cielo ci si spalancheranno dinanzi senza fatica sarà solo per questa nostra, sia pur pallida, somiglianza con te.

(Don Tonino Bello, Maria, donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 132000, 25-27).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IMMACOLATA

«Cittadinanza e articolazione dei valori nell’educazione (e nell’IRC)»

L’Istituto di Catechetica organizza ogni anno un Seminario di Studio riservato a docenti di Pedagogia Religiosa e Catecheti, che coinvolge esperti a livello nazionale. Siamo giunti al terzo anno di un Progetto triennale (2014-2017) sul tema: Educazione, apprendimento e insegnamento della religione.

Nel 2015-2016 abbiamo sviluppato il tema “Educazione e apprendimento”. Il tema di quest’anno è invece: Religione e cittadinanza.

Il 3 dicembre prossimo vogliamo realizzare una Giornata di Studio con un gruppo di esperti (20-25 persone) Questo Seminario serve come illuminazione e preparazione del Convegno di fine settimana (18-19 marzo 2017) e della settimana estiva (2-8 luglio 2017).

Il tema del Seminario è: «Cittadinanza e articolazione dei valori nell’educazione (e nell’IRC)». Il Seminario si realizzerà sabato 3 dicembre 2016 presso l’Università Pontificia Salesiana dalle ore 9.00 alle 13.00.

Al trattarsi di un Seminario pensiamo ad un dialogo aperto, scandito dagli imputs sintetici e orientativi offerti dalle due relazioni.

 

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Seminario IRC. DICEMBRE 2016

 

„ Programma

09.00   Apertura della Giornata.

               Preghiera e saluto delle Autorità.

09.15    ¡ Moderatore: G. Usai. Presentazione del Programma e Metodologia di lavoro.

               R1: «Cittadinanza  e articolazione dei valori nell’educazione (e nel’IRC)» (J.L. Moral).

               R2: «Cittadinanza e insegnamento della religione nell’ambito europeo» (F. Pajer).

10.45    Dialogo con i Relatori.

11.15      Intervallo – Coffee break.

11.45     ¡ Moderatore: M. Wierzbicki.      Contributi dei partecipanti e Dialogo con i Relatori

12.45 Conclusione e prospettive per il Convegno di aggiornamento (18-19 marzo 2017) e il corso estivo (2-8 luglio 2017) (J.L. Moral).

13.10     Pranzo

 

Roma, 3 Dicembre 2016.

II DOMENICA DI AVVENTO

 II DOMENICA DI AVVENTO

 

Lectio – Anno A

Prima lettura: Isaia 11,1-10

 

In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e d’intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.

Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli umili della terra.
Percuoterà il violento con la verga della sua bocca,
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
La giustizia sarà fascia dei suoi lombi
e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.

Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà.
La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la conoscenza del Signore riempirà la terra
come le acque ricoprono il mare.

In quel giorno avverrà
che la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli.
Le nazioni la cercheranno con ansia.
La sua dimora sarà gloriosa.

 

Il testo di Is 11,1-10 completa i due precedenti: 7,14, la profezia dell’Emmanuele e 9,6 la promessa del bambino prodigioso dato agli uomini. Tutti e tre confermano le attese escatologiche, si potrebbe tradurre messianiche, d’Israele.

     Isaia ci presenta l’immagine – ancor più suggestiva se collocata nel contesto precedente – di un nuovo germoglio che spunta su un tronco. Il profeta ha tracciato l’itinerario di un’invasione da nord da parte del nemico, al cui violento passaggio tutto viene distrutto; persino delle foreste lussureggianti resta soltanto qualche tronco tagliato (cfr. Is 10,33-34). In tale panorama di devastazione, ecco un virgulto su un ceppo, segno della vita che riprende e del rivelarsi della fedeltà di Dio alle sue promesse. Per essa continuerà a regnare la dinastia di Davide, segnata da molte prove e infedeltà.

     Il profeta sogna quindi un re giusto che si ponga interamente al servizio di Dio, faccia progetti saggi e abbia la forza per attuarli (vv. 3-4). Il fatto che si tratti di un «germoglio» deve ricordare che il personaggio annunziato da Isaia non ha la potenza politica e militare di Davide: sul giovane scelto da Dio e unto da Samuele mentre pascolava il gregge, ultimo tra i suoi fratelli, è invece scesa l’elezione divina. Dio vuol ripartire da capo. Il Nuovo Testamento ci insegna che egli ricomincia dal bambino di Betlemme e dal carpentiere di Nazaret: chi poteva pensare che Dio sarebbe ripartito così?

     Nel corso della lettura si descrive l’equipaggiamento del ‘germoglio di Iesse’: fondamentalmente si afferma che egli sarà dotato stabilmente dello Spirito del Signore con i suoi doni – sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza, timor di Dio -. Il dono dello Spirito non sarà più provvisorio, come avveniva per i ‘giudici’, gli antichi capi carismatici di Israele, bensì la sua presenza sarà permanente su Colui che Dio ha scelto. Ripieno dello Spirito, egli opererà per la giustizia e per i poveri, aprendo così il mondo alla speranza di un rinnovato paradiso terrestre, senza violenza e sopraffazioni (vv. 5-8).

     Il vertice della profezia è la promessa di un’effusione del dono della sapienza sul mondo intero: il paradiso può realizzarsi davvero ed è già anticipato su questa terra se e quando «la conoscenza del Signore riempie il paese» (v. 9) poiché nel momento in cui l’umanità conosce Dio intimamente, la terra cambia volto.

 

Seconda lettura: Romani 15,4-9

Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome».

 

 

Le parole di Paolo sono improntate al tema dell’accettazione reciproca (v. 7) e sono rivolte ai cristiani di origine pagana per insegnare loro la vicendevole accoglienza con quelli di origine giudaica. Egli sta parlando a una comunità in cui convivono ‘forti’ e ‘deboli’ nella fede e ammonisce che tutto quanto il cristiano fa deve essere improntato all’accoglienza e all’edificazione reciproca.

     Egli vuole che ci si impegni ad incrementarla per tre motivi, il primo dei quali è la parola delle antiche Scritture, la quale è nutrimento che sostiene la vita ordinaria del credente, le dona solidità e rende possibile la perseveranza nella speranza. Paolo sembra suggerire che chi è saldo nella speranza sa anche accettare i limiti propri e degli altri, con pazienza.

     In secondo luogo bisogna sempre tenere presente l’esempio di Cristo: il principio ispiratore della sua vita non è il suo personale piacere; fedele invece alla missione di rivelare l’amore del Padre, non si è sottratto ad essa quando si è trattato di sopportare le reazioni violente degli uomini che lo hanno crocifisso. Come ultima ragione non si deve dimenticare che i pagani sono stati accolti da Cristo stesso. Ebreo, figlio del suo popolo, egli è stato il segno vivente della fedeltà di Dio alle promesse, ma insieme ha manifestato la misericordia di Dio anche ai non ebrei perché tutti potessero unirsi nella sua lode.

 

Vangelo: Matteo 3,1-12

 In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette  e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!” Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare  figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò  ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.  Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». 

 

Esegesi 

     Al tempo di Gesù si riteneva che Elia non fosse morto, ma fosse stato rapito per ricomparire un giorno. Infatti il profeta Malachia aveva predetto: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me… Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,1.23).

Quando, dopo la Pasqua, i primi cristiani si resero conto che «il giorno del Signore» era quello in cui Gesù aveva portato la salvezza, compresero anche chi era l’Elia di cui aveva parlato il profeta: era il Battista, incaricato da Dio di preparare il popolo alla venuta del Messia. Si ricordarono anche di ciò che di lui aveva detto il Maestro: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agiata dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te» (Lc 7,25-27). «La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire» (Mt 11,13-14; 17,13).

Chi era Giovanni? Un personaggio piuttosto enigmatico. Giuseppe Flavio – il famoso storico del tempo – lo presenta così: «Era un uomo buono che esortava gli ebrei a vivere una vita retta, trattandosi con giustizia reciprocamente e sottomettendosi con devozione a Dio, e facendosi battezzare. In verità, Giovanni era dell’idea che nemmeno questo lavacro fosse accettabile come perdono per i peccati, ma era convinto che si risolveva soltanto in una purificazione del corpo, se l’anima non era stata purificata in precedenza grazie a una condotta retta» (Antichità Giudaiche 18.5.2 §§ 116-119).

Nel vangelo di oggi Matteo lo descrive come un uomo austero (v. 4). Il suo cibo era quello semplice degli abitanti del deserto, il suo vestito era rozzo: la cintura ai fianchi che contraddistingueva Elia (2Re 1,8) e il mantello di pelo – la divisa dei profeti (Zc 13,4).

Tutta la persona del Battista era denuncia e condanna della società opulenta che – allora come oggi – puntava sull’effimero, sul frivolo, sui falsi valori del lusso e dell’ostentazione. Il suo messaggio è riassunto dall’evangelista in una semplice frase: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (v. 2).

La speranza in un futuro migliore era uno dei temi centrali del messaggio dei profeti. A differenza degli altri popoli che ponevano la loro età dell’oro nel passato, Israele collocava il «regno di Dio» nel futuro. Attendeva un mondo dove il Signore avrebbe fatto trionfare l’armonia e abbondare la pace, un mondo dove i rapporti interpersonali sarebbero stati improntati all’amore, alla riconciliazione con la natura, con gli uomini, con Dio.

I predicatori apocalittici avevano descritto la storia dell’umanità come un susseguirsi di regni di bestie. «Bestie emerse dal mare» erano stati i grandi imperi di Babilonia, Media, Persia, Grecia (Dn 7). I tempi erano difficili, ma non ci si doveva perdere d’animo: il mondo antico era ormai alla fine e il mondo nuovo stava per fare irruzione.

I dolori presenti non dovevano essere interpretati come segni di morte, ma come sofferenze di un difficile parto: preludevano alla nascita della nuova era. Essendo queste le attese del popolo, è facile intuire come la predicazione di Giovanni suscitasse enorme entusiasmo. Tutti correvano a farsi battezzare per essere introdotti per primi in questo «regno di Dio».

Il battesimo con l’acqua non era però sufficiente. Il Giordano non era una piscina da cui si usciva miracolosamente purificati dai peccati. Per disporsi a entrare nel «regno» era necessario «convertirsi», cioè invertire il cammino, cambiare rotta, modificare completamente il modo di pensare e di agire. Non bastava correggere qualche comportamento morale bisognava mettere in atto un nuovo esodo.

«Accorrevano a lui da Gerusalemme…». Ecco il popolo d’Israele, ormai installato nella terra promessa, che abbandona la propria condizione di presunta libertà e ritorna al Giordano. Si riteneva libero, ma in realtà continuava a essere schiavo: delle proprie convinzioni religiose, della propria ostinazione, della falsa immagine di Dio che si era fatta.

«Confessavano i loro peccati». Prendevano coscienza di vivere ancora in esilio, di essere privi della libertà.

Tutti gli anni, nella seconda domenica di Avvento, la liturgia propone ai cristiani la predicazione del Battista perché come egli preparò il popolo d’Israele alla venuta del messia cosi oggi è in grado di insegnare ad accogliere il Signore che viene.

Oggi come allora, il passo più difficile da compiere è comprendere che è necessario «uscire» dalla «terra» in cui ci si è installati, «uscire» dalle false sicurezze religiose e teologiche che ci si e costruiti e accogliere la novità della parola di Dio.

Non tutti hanno risposto con sollecitudine all’invito del Battista, non tutti sono stati disponibili a operare un cambiamento interiore radicale. I farisei e i sadducei, pur incuriositi dalla predicazione di Giovanni, stentavano a lasciarsi coinvolgere, non si fidavano, preferivano mantenere le loro certezze (vv. 7-10). Pensavano di essere già a posto con Dio per il fatto di essere figli di Abramo. Questa falsa sicurezza sarà denunciata in seguito da un famoso detto rabbinico: «Come la vite si appoggia su legni secchi, così gli israeliti si appoggiano sui meriti dei loro padri».

Il rimprovero con cui il Battista accoglie farisei e sadducei è severo: «Razza di vipere!». Li paragona a serpi che iniettano il loro veleno di morte in chi inavvertitamente si accosta a loro. Poi passa all’invettiva, all’annuncio delle catastrofi che stanno per colpirli: corrono il rischio di venire tagliati come un albero che non porta frutto e di essere bruciati come pula. Su di loro incombe l’ira di Dio. Siamo di fronte a immagini drammatiche che sembrano smentire il sogno di Isaia della prima lettura.

Il tono è minaccioso e non sorprende sulla bocca del Battista; così si esprimevano i predicatori di quel tempo ed è questo il linguaggio che compare spesso anche nella Bibbia. Il precursore lo impiega per mettere in guardia chi rifiuta l’invito alla conversione: si priva dell’incontro di amore con Cristo che viene per introdurlo nella sua gioia e nella sua pace.

Nel contesto di tutto il vangelo le parole del precursore assumono un significato che va oltre quello immediato. È successo anche a Caifa di pronunciare, senza rendersene conto, una profezia (Gv 11,49-51).

Quando parlava dell’ ira divina, Giovanni non aveva le idee chiare su come si sarebbe manifestata.

L’ira di Dio è un’immagine che ricorre spesso nell’Antico Testamento e non va intesa come un’esplosione di livore della persona offesa. È espressione dell’amore di Dio: si scaglia contro il male, non contro chi lo compie; non vuole colpire l’uomo, ma sottrarlo al peccato.

La scure, che taglia gli alberi alla radice, ha la stessa funzione attribuita da Gesù alle forbici che potano la vite e la liberano dai rami inutili che la privano della preziosa linfa e la soffocano (Gv 15,2). Gli alberi divelti e gettati nel fuoco non sono gli uomini, che Dio ama sempre come figli, ma le radici del male che sono presenti in ogni uomo e in ogni struttura e che devono essere fatte a pezze in modo che non possano più gettare germogli (Ml 3,19).

I tagli sono sempre dolorosi, ma quelli operati da Dio sono provvidenziali: creano le condizioni perché spuntino rami nuovi, capaci di produrre frutti.

Il ventilabro, infine, con cui il Signore attua il suo giudizio è immagine viva: descrive il modo con cui l’operato di ogni uomo viene vagliato da Dio.

Nei tribunali umani i giudici prendono in considerazione solo gli errori e pronunciano la sentenza in base al male commesso. Delle opere buone tengono poco conto. Nel giudizio di Dio avviene esattamene il contrario. Egli, con il ventilabro della sua parola, sottopone ogni uomo al soffio impetuoso del suo Spirito che spazza via la pula e lascia sull’aia solo i preziosi chicchi: le opere di amore che, poche o molte, tutti compiono.

 

 

 

 

Immagine della Domenica

 

 CAMMINO DI SANTIAGO   – 2007

 

CAMMINARE 

L’amico assaporava e riassaporava di gusto questo concetto: “Niente di più bello che trovare camminando ciò che unicamente camminando si cerca”. E telefonando a sua moglie, insegnante di lettere, glielo ripeteva in latino: “Nihil mihi jucundius quam deambulando invenire quod eundo quaero.”

 

Meditazione

     Le letture convergono nel consegnare un messaggio centrato sul Messia: il Messia è colui su cui si posa lo Spirito di Dio con suoi doni (I lettura); Gesù, il Messia è colui che, secondo la parola della Scrittura, ha adempiuto le promesse di Dio fatte ai padri (II lettura);  il Messia, colui che battezzerà in Spirito santo e fuoco, è il più forte annunciato dal Battista (vangelo). Egli è rivelato dallo Spirito (I lettura), profetizzato dalle Scritture (II lettura), indicato da un uomo, Giovanni, il profeta e precursore (vangelo). Anche nella vita cristiana, lo Spirito, le Scritture e un uomo di Dio, un profeta, un padre spirituale, svolgono una funzione magisteriale e di preparazione all’accoglienza del Signore che viene.

     Giovanni annuncia il Veniente chiedendo conversione. Per accogliere il Signore occorre prepararsi e Giovanni mostra un aspetto importante della conversione, ovvero, l’unità tra vita e predicazione, tra dire e fare. Egli chiede di preparare nel deserto una strada al Signore, situandosi egli stesso nel deserto a preparare la via al Veniente. Questa unità fonda l’autorevolezza del predicatore facendone un testimone. Egli appare, come spesso i profeti, un segno: ovvero, una parola di Dio fatta carne che, con i modi stessi del suo vivere, indica il Signore che viene, e prepara ad accoglierlo.

     Giovanni ha intrapreso la via del deserto non per ascetismo o per compiere esercizi di pietà, ma per vivere la verità della propria personalissima vocazione di profeta e precursore del Messia (Mt 11,9-10) e per ridare verità alla via del Signore opacizzata da uomini religiosi che «dicono e non fanno» (Mt 23,3) e perciò finiscono nell’ipocrisia. E Giovanni prepara i suoi ascoltatori alla venuta del Signore conducendoli a fare verità in se stessi: la confessione dei peccati (Mt 3,6) è segno della volontà di ritrovare la rettitudine del proprio cammino davanti a Dio. La conversione inizia da questo lucido coraggio di ritrovare la propria verità e, quindi, dall’umile riconoscimento che da tale verità ci si è allontanati.

     Ciò che si oppone al coraggio della verità è l’ignavia di chi vive la fede come una polizza assicurativa, come una riserva di certezze. Giovanni si scaglia contro chi è abitato dalla presunzione della salvezza, contro chi irrigidisce la vitalità e il rischio della fede nella rigidezza di un’identità e nell’immobilismo di un’appartenenza: quasi che la salvezza fosse un’eredità che spetta per diritto. «Non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre”» (Mt 3,9).

     Alla staticità di chi si culla in un’identità religiosa abitata da certezze, che non tollera di metterla in discussione e ancor meno di riconoscere i meccanismi di autogiustificazione che gli evitano di guardare in faccia i propri peccati, Giovanni oppone una parola che è un comando e una rivelazione: «Convertitevi» (Mt 3,2). Comando che discende dalla presa di coscienza che il Regno di Dio si è fatto vicino e non più possibile esitare, indugiare, perdere tempo, e rivelazione che il cambiamento è possibile, che il peccato non è l’ultima parola, che le situazioni paralizzanti possono essere sciolte. Vi è qualcosa di non cristiano, oltreché di profondamente triste, nelle espressioni che a volte affiorano sulla nostra bocca: «Io non cambierò mai», «Io sono così e non ci posso fare niente». Tutto questo significa che il cambiamento uno lo pensa come opera propria, e non come apertura all’azione del Signore e alla potenza della sua grazia. Ma la conversione è esattamente questo: «Possiamo convertirci soltanto perché Dio,  per primo, si è rivolto a noi, donandoci il suo perdono e aprendo la via alla riconciliazione. La conversione è quindi azione di grazia; è il dono di poter ricominciare da capo. Conversione significa “avere il coraggio di vivere il dono di Dio”» (Walter Kasper). L’unico nostro vero peccato è che possiamo in ogni momento convertirci, ritornare a Dio e non lo facciamo. Convertirsi è ripristinare il primato di Dio e della sua grazia nella nostra vita.

 

Preghiere e racconti

 

La nostra salvezza poggia su una venuta

Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento (Mt 3,1-12) ci presenta la figura di san Giovanni il Battista, il quale, secondo una celebre profezia di Isaia (cfr 40,3), si ritirò nel deserto della Giudea e, con la sua predicazione, chiamò il popolo a convertirsi per essere pronto alla imminente venuta del Messia. San Gregorio Magno commenta che il Battista “predica la retta fede e le opere buone … affinché la forza della grazia penetri, la luce della verità risplenda, le strade verso Dio si raddrizzino e nascano nell’animo onesti pensieri dopo l’ascolto della Parola che guida al bene” (Hom. in Evangelia, XX, 3, CCL 141, 155). Il Precursore di Gesù, posto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, è come una stella che precede il sorgere del Sole, di Cristo, di Colui, cioè, sul quale  secondo un’altra profezia di Isaia  “si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2).Nel Tempo dell’Avvento, anche noi siamo chiamati ad ascoltare la voce di Dio, che risuona nel deserto del mondo attraverso le Sacre Scritture, specialmente quando sono predicate con la forza dello Spirito Santo. La fede, infatti, si fortifica quanto più si lascia illuminare dalla Parola divina, da “tutto ciò che  come ci ricorda l’apostolo Paolo  è stato scritto prima di noi… per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza” (Rm 15,4). Il modello dell’ascolto è la Vergine Maria: “contemplando nella Madre di Dio un’esistenza totalmente modellata dalla Parola, ci scopriamo anche noi chiamati ad entrare nel mistero della fede, mediante la quale Cristo viene a dimorare nella nostra vita. Ogni cristiano che crede, ci ricorda sant’Ambrogio, in un certo senso concepisce e genera il Verbo di Dio” (Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 28).

Cari amici, ” la nostra salvezza poggia su una venuta”, ha scritto Romano Guardini (La santa notte. Dall’Avvento all’Epifania, Brescia 1994, p. 13). “Il Salvatore è venuto dalla libertà di Dio… Così la decisione della fede consiste… nell’accogliere Colui che si avvicina” (ivi, p. 14). “Il Redentore  aggiunge  viene presso ciascun uomo: nelle sue gioie e angosce, nelle sue conoscenze chiare, nelle sue perplessità e tentazioni, in tutto ciò che costituisce la sua natura e la sua vita” (ivi, p. 15).

Alla Vergine Maria, nel cui grembo ha dimorato il Figlio dell’Altissimo, e che mercoledì prossimo, 8 dicembre, celebreremo nella solennità dell’Immacolata Concezione, chiediamo di sostenerci in questo cammino spirituale, per accogliere con fede e con amore la venuta del Signore.

(Santo Padre Benedetto XVI, Angelus, 5-12-2010).

 

ACQUA E FUOCO

«Il lupo dimorerà insieme con l’agnello la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà» (Is 11,6). 

«Vi dico che Dio può far sorgere i figli di Abramo da queste pietre. Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non sono degno neanche di portargli i sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,9.11). 

Nei brani biblici sono bandite le mezze misure e i toni smorzati non vi compaiono neppure alla lontana. Si direbbe che le Scritture vivono sui contrasti. Del resto, con un protagonista come Giovanni – ispido nelle sue vesti di peli di cammello, selvatico come il miele di cui si nutriva rude come le locuste che scricchiolavano sotto i suoi denti  le tinte intermedie non potevano essere le più indicate.

I contrasti (oggi si dice: le antinomie) compaiono già nel testo di Isaia 11, 1-10: lupo e agnello; pantera e capretto; orsa e mucca; aspide e lattante…

E poi continuano nel passo di Matteo 3, 1-12: deserto e fiume; parola e voce; denuncia e proposta; acqua e fuoco; grano e pula.

Non si potrebbe, allora, cogliere l’occasione per affidare a tali contrapposizioni tematiche l’annuncio di questo avvento che, tutto sommato, si riduce a una grande parola: «Convertevi»?

 

Lupo e agnello

Il tema della pace messianica ritorna con insistenza e costituisce il filo rosso che attraversa tutto l’Avvento.

Per non correre il rischio di relegare questo tema nel limbo delle buone emozioni utopiche, occorrerà chiedersi se nelle nostre comunità stiamo facendo qualcosa perché si giunga alla convivenza del lupo e dell’agnello. Anzi, siccome la convivenza potrebbe far pensare a una sopportazione pro bono pacis, che lascia inalterati gli squilibri più avanzati, bisogna parlare, come fa Isaia, in termini di convivialità: «Pascoleranno insieme. Il leone si ciberà di paglia come il bue».

Convivialità che non significa coesistenza ottenuta mettendo tra parentesi i soprusi o facendo finta che non esistano. La convivialità si poggia sulla giustizia: «Giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese» (Is 11, 4).

E si poggia anche sulla nonviolenza attiva: il violento e l’empio saranno abbattuti, sì, ma senza nessuna arma, se non quella della parola: «La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio».

Ebbene, nella nostra vita privata e comunitaria, la pratica della giustizia e della nonviolenza attiva sta diventando segno di conversione?

 

Deserto e fiume

Se il deserto è il luogo dell’intimità con Dio, della prova, della purificazione, dell’abbattimento degli idoli, viverne la spiritualità, oggi, deve comportare tante conseguenze: non lasciarci prendere dall’affanno delle cose; non sprofondare nello scoraggiamento quando si sperimenta l’aridità e la fatica nel quotidiano, con tutte le sue tentazioni; abbattere i piccoli idoli che abbiamo eretto, forse anche accanto alla croce, nel santuario della nostra coscienza.

E se il fiume, nella simbologia biblica, indica la salvezza che straripa provocando novità di vita, sarebbe opportuno chiederci se noi da queste acque ci lasciamo appena lambire, rimanendo a mezza costa o sul greto, sedotti magari solo dalla curiosità, oppure ci siamo decisi cordialmente a «entrare nel fiume». 

 

Parola e voce

II Battista, definito semplice voce di colui che verrà dopo e che sarà la Parola, deve provocare, in noi, una conversione all’umiltà, alla coscienza del limite, al rifiuto di ogni arrogante prevaricazione. Noi siamo i servi della Parola. Le prestiamo vibrazioni e risonanze. La portiamo lontano e le    diamo cadenze di attualità. Ma la Parola è Cristo. È lui che giudica e che salva.

Forse la considerazione della nostra semplice strumentalità, oltre che spingerci all’approfondimento della Parola che poi, come credenti in Gesù, dobbiamo rivestire di voce, potrebbe riscattarci anche da non pochi abusi di potere.

 

Denuncia e proposta

Lo stile di Giovanni che rimprovera gli ebrei e, ricorrendo al vocabolario più duro, ne sferza la cattiva condotta di vita, potrebbe fuorviarci, se non tenessimo presente che, nel suo messaggio, accanto alla denuncia si colloca l’annuncio, con una incredibile forza propositiva. «Razza di vipere», sì. Ma anche: «Convertitevi», «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri: il regno dei cieli è vicino» (Mt3, 3).

Ci sarebbe da chiedersi se anche nelle nostre comunità cristiane lo sbilanciamento sui versanti della denuncia, che per altro non ha molto bisogno di inventiva, non debba essere ricondotto a più maturo equilibrio mediante proposte positive, incoraggianti, che facciano appello alle risorse della speranza. Sarebbe ben triste che scambiassimo la profezia con l’esercizio del brontolare cronico, dimenticando che essa è danza più che lamento.

 

Acqua e fuoco

«Io vi battezzo con acqua… egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3, 11). È molto significativo che già lo Spirito Santo venga insediato al centro dell’economia di salvezza. Non è raro, infatti, che il Natale venga percepito come espressione del protagonismo solo del Padre e del Figlio, rimandando quasi una più seria presa in considerazione dello Spirito Santo al periodo di Pentecoste. Non c’è nulla di più deleterio di questa visione.

Non sarebbe fuori posto oggi buttare lì, come una pietra nello stagno, una domanda a bruciapelo: che cosa significa per noi credenti fermarsi all’acqua di Giovanni?

 

Grano e pula

Non è esercitare forme di ricatto o di terrorismo spirituale, su di sé o sugli altri, se oggi ci chiediamo qual è la percentuale della crusca nel frumento della nostra esistenza. E non è neppure dare sfogo all’ingenuità se ci si esercita in una specie di bilancio di previsione, pensando a quale sarà la crusca della nostra vita che il Signore un giorno brucerà e a quali saranno i chicchi di grano lucente che egli riporrà nei suoi granai. È solo il tentativo di chi vuoi tradurre in spessore di concretezza l’invito alla conversione.

(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 61-66).

 

Conversione

Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. i Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,2I), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso.

La conversione attesta la perenne giovinezza del cristianesimo: il cristiano è colui che sempre dice: «Io oggi ricomincio». Essa nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo: nessuna caduta, nessun peccato ha l’ultima parola nella vita del cristiano, ma la fede nella resurrezione lo rende capace di credere più alla misericordia di Dio che all’evidenza della propria debolezza, e di riprendere il cammino di sequela e di fede. Gregorio di Nissa ha scritto che nella vita cristiana si va «di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine». Sì, sempre il cristiano e la chiesa abbisognano di conversione, perché sempre devono discernere gli idoli che si presentano al loro orizzonte, e sempre devono rinnovare la lotta contro di essi per manifestare la signoria di Dio sulla realtà e sulla loro vita. In particolare, per la chiesa nel suo insieme, vivere la conversione significa riconoscere che Dio non è un proprio possesso, ma il Signore. Implica il vivere la dimensione escatologica, dell’attesa del Regno di Dio che deve venire e che la chiesa non esaurisce, ma annuncia. E annuncia con la propria testimonianza di conversione.

(Cf. Enzo BIANCHI, Le parole della spiritualità, Milano, Rizzoli, 21999, 67-70).

 

Voltati!

Ho visto una volta lo spettacolo di un mimo, in cui un uomo si sforzava di aprire una delle tre porte della stanza in cui si trovava. Spingeva e tirava le maniglie delle porte, ma nessuna delle porte si apriva. Allora colpiva col piede i pannelli di legno delle porte, ma non si rompevano. Alla fine, gettò tutto il suo peso contro le porte, ma nessuna di queste cedette.

Era uno spettacolo ridicolo, e tuttavia molto divertente, perché l’uomo era così concentrato sulle tre porte chiuse che non aveva neppure notato che dietro di lui nella stanza non vi era una parete e che avrebbe potuto semplicemente uscirne, se soltanto si fosse voltato e avesse guardato!

Quando parliamo di conversione è di questo che si tratta. Significa voltarci per scoprire che non siamo prigionieri come crediamo di essere. Visti dalla prospettiva di Dio, spesso appariamo come l’uomo che cerca di aprire le porte chiuse della sua stanza. Ci angosciamo per tante cose e persino ci feriamo nella nostra ansia. Dio dice: “Voltati, rivolgi il tuo cuore al mio Regno. Ti do tutta la libertà che desideri”.

(Henri J.M. NOUWEN, Vivere nello spirito, Brescia, Queriniana, 2003, 45-46)

 

Sulla la conversione

Quando sono diventato frate speravo di convertire il mondo intero.

Sarò felice se riuscirò a salvare me stesso.

E mi sono accorto che sono io che devo essere diverso e non l’altro.

(Davide Maria Turoldo)

 

Dammi la forza

«Dio mio,

dammi la forza di cambiare le cose

che possono essere cambiate;

dammi la forza di accettare le cose

che non possono essere cambiate;

e dammi la luce

per distinguere le une dalle altre»

(Anonimo)

 

Il pentimento       

      La prima attività o energia dello Spirito in noi è la metànoia, la conversione o pentimento. Questo volgersi indietro del nostro nous (metanoia), questo cambiamento del cuore, è il nostro primo momento di verità davanti a Dio, a noi stessi e ai fratelli. Alcuni padri della chiesa ritenevano che essa comportasse normalmente il battesimo delle lacrime, a loro avviso il chiaro segno che lo Spirito si stava impossessando del corpo di un uomo: l’uomo capitola, la sua resistenza va in frantumi, ed egli piange. Si potrebbero vedere dei paralleli a quest’esperienza con esperienze analoghe riscontrate nella psicanalisi: ha luogo una sorta di catarsi. L’uomo piange e si arrende, si arrende allo Spirito santo, a quella nuova consapevolezza di se stesso che gli è possibile acquisire mediante il battesimo delle lacrime.

      Mi sembra di poter dire che la conversione, il pentimento, non è solo un tema del quale è difficile parlare ai nostri giorni, ma è anche, visti i complessi che attanagliano l’uomo moderno, uno dei più difficili da mettere a fuoco con precisione e da vivere autenticamente. E tuttavia rimane essenziale. Il pentimento è oggi qualcosa che suscita repulsione. Ci troviamo a vivere in un periodo di transizione tra la nevrosi ossessiva (se così si può chiamarla) che caratterizzava il periodo immediatamente precedente al nostro, e l’effervescenza e l’aggressività adolescenziali di un periodo che si sta liberando da tale nevrosi. A chi è già divorato dall’angoscia l’evidenza del peccato può creare soltanto un’angoscia ancor più insopportabile. Il peccato era del tutto intollerabile nell’epoca precedente alla nostra, e gli uomini cercavano di liberarsene ricorrendo a quella che i padri erano soliti chiamare dikaioma, la pretesa di esser giusti, l’autogiustificazione: non si era in grado di portare il peso del peccato? E allora ci si convinceva d’esser giusti mediante un’osservanza esteriore della legge, o piuttosto, di un certo numero di regole. In realtà, in questo modo non si fa che sfuggire alla conversione, alla metànoia. Oggi, invece, manifestiamo un’effervescenza e un’aggressività adolescenziali che sono altrettanto nevrotiche, e per le quali il peccato è altrettanto insostenibile; la soluzione odierna consiste tuttavia nel dire che non esiste il peccato.

(A. LOUF, La vita spirituale, Magnano (Biella), Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, 2001, 9-20).

 

Preghiera

      Suscita in noi, Signore, ancora oggi il desiderio vivo di tornare a te con una vera conversione. Riconosciamo, Padre, le molte tortuosità in cui si smarriscono il nostro cuore e la nostra volontà, quando non sono sostenuti dalla tua Parola di verità, dall’opera della tua grazia. Tu che sei il Dio fedele, rendi saldi anche noi sulle tue vie.

      Non vediamo, Signore, attorno a noi il lupo dimorare con l’agnello, ne il bambino porre la mano nel covo dei serpenti e, anche quando parliamo di pace e giustizia, lo facciamo spesso solo perché siamo mossi dalla convenienza o dalla paura. Gesù, germoglio di Davide, tu vieni a noi come bambino che non teme di stendere le mani tra i veleni di questa umanità: insegnaci ad accoglierci gli uni gli altri per la gloria di Dio; non sia solo la paura a farci convertire, ma l’intima convinzione che per la tua presenza Dio cammina in mezzo a noi e fa di noi il suo popolo.

      Vieni su di noi, Spirito Santo, con la pienezza dei tuoi doni, perché questo popolo, che ancora si accinge ad ascoltare la parola forte e austera del Battista, non riposi sulla propria presunta giustizia e abbia la forza di portare a termine il cammino intrapreso.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA DI AVVENTO ANNO A

I cattolici in Italia e il lavoro: denuncia, racconto, proposta

Diffusa il 22 novembre la lettera-invito alla 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani (Cagliari, 26-29 ottobre 2017). Quattro i “registri comunicativi” che accompagneranno l’evento e la sua preparazione: “Denunciare le situazioni più gravi e inaccettabili”, “raccontare il lavoro nelle sue profonde trasformazioni”, “raccogliere e diffondere le tante buone pratiche” esistenti, “costruire alcune proposte” per sciogliere nodi “che ci stanno a cuore”

Il lavoro come vocazione, opportunità, valore, fondamento di comunità e promotore di legalità. Sono le cinque “prospettive” verso cui sono chiamati a guardare i cattolici italiani, in vista della prossima Settimana sociale, che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017 a partire dal tema “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”. A declinarle è la lettera-invito, scritta dal Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali e a firma del suo presidente, il vescovo di Taranto monsignor Filippo Santoro, indirizzata – per tramite dei rispettivi vescovi diocesani – a tutti i “cattolici in Italia”.

“Il paradigma del lavoro come ‘impiego’ – riporta la missiva – si sta esaurendo con una progressiva perdita dei diritti lavorativi e sociali, in un contesto di perdurante crisi economica che coinvolge fasce sempre più ampie della popolazione”.

“È forte la necessità che quel modello di ‘lavoro degno’ affermato dal Magistero sociale della Chiesa e dalla Costituzione italiana trovi un’effettiva attuazione nel rispetto e nella promozione della dignità della persona umana”.

Da qui le cinque prospettive, a partire dalla vocazione al lavoro, che “va formata e coltivata attraverso un percorso di crescita ricco e articolato, capace di coinvolgere l’integralità della persona”. In secondo luogo, “il lavoro è opportunità, che nasce dall’incontro tra impegno personale e innovazione in campo istituzionale e produttivo”. “La creazione di lavoro – sottolinea il documento al riguardo – non avviene per caso né per decreto, ma è conseguenza di uno sforzo individuale e di un impegno politico serio e solidale”. Poi, il riconoscimento del lavoro come valore, “in quanto ha a che fare con la dignità della persona, è base della giustizia e della solidarietà sociale e genera la vera ricchezza”. Ancora, “è fondamento di comunità, perché valorizza la persona all’interno di un gruppo, sostiene l’interazione tra soggetti, sviluppa il senso di un’identità aperta alla conoscenza e all’integrazione con nuove culture, generatrice di responsabilità per il bene comune”. Infine, “rispetto a un contesto in cui l’illegalità rischia di apparire come l’unica occasione di mantenimento per se stessi e la propria famiglia”, il lavoro degno deve promuovere la legalità, e quindi “diventa indispensabile creare luoghi trasparenti affinché le relazioni siano autentiche e basate sul senso di giustizia e di eguaglianza nelle opportunità”.

La prossima Settimana sociale, che si propone di “realizzare un incontro partecipativo” e rinnovare “l’impegno delle comunità cristiane” sul tema del lavoro, andrà preparata con un “percorso diocesano” per portare a Cagliari un contributo “partecipato”, seguendo “quattro registri comunicativi”. In primo luogo la denuncia. Scrive al riguardo il Comitato:

“Vogliamo assumere la responsabilità di denunciare le situazioni più gravi e inaccettabili: sfruttamento, lavoro nero, insicurezza, disuguaglianza, disoccupazione – specie al Sud e tra i giovani – e problematiche legate al mondo dei migranti”.

Poi, il racconto del lavoro “nelle sue profonde trasformazioni, dando voce ai lavoratori e alle lavoratrici, interrogandoci sul suo senso nel contesto attuale”. E, per andare oltre la denuncia, vi è pure la volontà di far emergere “le tante buone pratiche che, a livello aziendale, territoriale e istituzionale, stanno già offrendo nuove soluzioni ai problemi del lavoro e dell’occupazione”. Infine, “costruire alcune proposte che, sul piano istituzionale, aiutino a sciogliere alcuni dei nodi che ci stanno più a cuore”.

Nell’ottica della concretezza va pure l’impegno, enunciato nel documento, di proporre nel corso dell’anno “a tutte le comunità cristiane un’iniziativa di solidarietà nei confronti di chi non ha lavoro”.

Da ultimo, nella lettera-invito il Comitato segnala alcune tappe a livello nazionale verso l’appuntamento di Cagliari, a partire dal Festival della dottrina sociale (Verona, 24-27 novembre 2016), passando per il Convegno “Chiesa e lavoro. Quale futuro per i giovani del Sud” (Napoli, 8-9 febbraio 2017), il seminario nazionale dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro (Firenze, 23-25 febbraio 2017) e il convegno nazionale di Retinopera dedicato al “senso del lavoro oggi” (Roma, 13 maggio 2017).

la 48ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia

“Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale” è il tema della prossima Settimana Sociale dei Cattolici in Italia, che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017.

Tre gli obiettivi principali che si prefigge il Comitato scientifico e organizzatore dell’evento:
denunciare le situazioni di sfruttamento, illegalità, insicurezza, disoccupazione – specie al Sud e tra i giovani – e le problematiche legate al mondo dei migranti, dando voce alle storie dei lavoratori e delle lavoratrici;
far conoscere le buone pratiche che, a livello aziendale, territoriale e istituzionale, stanno già offrendo nuove soluzioni ai problemi del lavoro e dell’occupazione;
costruire alcune proposte da presentare sul piano istituzionale, per superare le difficoltà di accesso al lavoro e assicurarne condizioni dignitose.

Il cammino di preparazione all’evento di Cagliari prende ufficialmente il via con la lettera (in allegato) inviata dal Presidente del Comitato, l’Arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, a tutte le diocesi italiane. Quattro le tappe che segneranno questo itinerario: 

– 6° Festival di dottrina sociale della Chiesa (Verona, 24-27 novembre 2016);
– Convegno Chiesa e lavoro. Quale futuro per i giovani nel Sud? (Napoli, 8-9 febbraio 2017);
– Seminario Nazionale dell’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro della CEI (Firenze, 23-25 febbraio 2017);
– Convegno Nazionale di Retinopera, Il senso del lavoro oggi. Famiglia, giovani, generazioni a confronto sul presente e sul futuro del lavoro (Roma, 13 maggio 2017).

Informazioni ulteriori e costanti aggiornamenti sono disponibili nel sito www.settimanesociali.it.

 

Alla ricerca del lavoro “umano”   

Ciclo d’incontri alla Pontificia Facoltà Auxilium

“Il lavoro ‘umano’ tra ricerca di senso, nuove competenze e occupabilità”. Questo il tema del corso interdisciplinare promosso dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium di Roma – il 5 novembre, poi il 3 e il 17 dicembre, sempre dalle 9 alle 12 .30 presso la sede della Facoltà – in preparazione alla 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani. Il corso “si propone di recuperare e approfondire le caratteristiche di un lavoro ‘umano’, tra ricerca di senso, nuove competenze e occupabilità, nella convinzione che ‘nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita’ (Evangelii gaudium 192)”.
Un tema particolarmente caldo, quello del lavoro, che “si trova a dover fronteggiare due sfide: da una parte il numero dei disoccupati e degli inoccupati – specialmente tra i giovani – inesorabilmente alto e che sta diventando una vera e propria patologia sociale; dall’altra, il fatto che il senso profondo del lavoro è divenuto incerto e sfocato, altalenante tra atteggiamenti di disistima e di vera e propria idolatria”.
Nei tre appuntamenti vengono messi a confronto docenti e imprenditori. Si comincia il 5 novembre con una riflessione sul senso e la dignità del lavoro oggi e l’evoluzione del concetto di lavoro (“Il lavoro umano, il suo valore, i suoi non luoghi. Quale futuro?”), alla quale parteciperanno Luigino Bruni, docente alla Lumsa di Roma e all’Istituto universitario Sophia, e Antonio Diana, presidente di Erreplast, azienda di riciclo del casertano che trasforma le bottiglie in plastica, provenienti dalla raccolta differenziata, in nuova materia prima. Il 3 dicembre, invece, a tema saranno “Soft skills e lavoro: come sviluppare competenze trasversali?”, con Maria Cinque, docente alla Lumsa, e Marica Franchi, collaboratrice del Progetto Bestr, piattaforma digitale per valorizzazione le competenze acquisite, sia nei contesti della formazione formale sia in quelli della formazione non formale e informale. Infine, il 17 dicembre, terzo incontro dal titolo “Guardare oltre la crisi, mettendo a frutto il genio femminile”, con Laura Zanfrini, docente all’Università Cattolica di Milano, e Luciana Delle Donne, iniziatrice di “Officina Creativa”, cooperativa sociale senza scopo di lucro che ha dato vita – tra l’altro – al progetto “Made in carcere”, laboratorio in cui 20 detenute producono manufatti e vivono un percorso formativo volto a un definitivo reinserimento nella società lavorativa e civile.

La lettera apostolica di Papa Francesco “Misericordia et misera”

A conclusione del Giubileo della Misericordia, Papa Francesco invia la lettera apostolica “Misericordia et misera” che parte dal richiamo e dalla riflessione del passo evangelico di Giovanni 8, 1-11: l’incontro di Gesù con l’adultera. 

La lettera apostolica è composta da ventidue punti nei quali Papa Francesco mette a cuore a Pastori e fedeli l’opportunità e la necessità che nella Comunità cristiana non si smarrisca quello stile evangelico di essere ospedale da campo, quale luogo dove l’attenzione per chi è ferito sia rivestita di comprensione e tenerezza. 

Papa Francesco nel primo punto commenta l’incontro di Gesù con l’adultera dove il Rabbì galileo stigmatizza il legalismo radicale e provoca gli accusatori, che chiedono la morte della donna, a “guardarsi dentro” e potersi dire immuni da peccato. Rimasto solo con la donna le chiede: “Donna dove sono [i tuoi accusatori]? Nessuno ti ha condannata: neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 10-11). Cristo non giustifica il peccato, ne sottolinea la gravità, però chiede il pentimento e la volontà di orientarsi verso una vita lontana dal peccato. “In questo modo – dice Papa Francesco – aiuta la donna a guardare al futuro con speranza e ad essere pronta a rimettere in moto la sua vita” (n.1). “Una volta che si è rivestiti dalla misericordia, anche se permane la condizione di debolezza per il peccato, essa è sovrastata dall’amore che permette di guardare oltre e vivere diversamente” (n.1).  

Dopo aver richiamato l’episodio dell’invito a pranzo da un Fariseo dove “una donna peccatrice” si avvicina a Gesù e con le lacrime gli lava i piedi nella disapprovazione dei presenti e Cristo Gesù senza mezzi termini sottolinea “sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato” (Lc 7,47), il Papa ricorda che “il perdono è il segno più visibile dell’amore del Padre…”. Niente di quanto un peccatore pentito pone dinanzi alla misericordia di Dio può rimanere senza l’abbraccio del suo perdono. È per questo motivo che nessuno di noi può porre condizioni alla misericordia… Non possiamo, pertanto, correre il rischio di opporci alla piena libertà dell’amore con cui Dio entra nella vita di ogni persona”(n. 2). Questo se vale per i singoli fedeli è un “habitus” che non può mai mancare a chi è stato chiamato al Ministero ordinato. 

Ai presbiteri, infatti, Papa Francesco “rinnova l’invito a prepararsi con grande cura al ministero della confessione [e chiede] di essere accoglienti con tutti; testimoni della tenerezza paterna nonostante la gravità del peccato; solleciti nell’aiutare a riflettere sul male; chiari nel presentare i principi morali; disponibili ad accompagnare i fedeli nel percorso penitenziale, mantenendo il loro passo con pazienza; lungimiranti nel discernimento di ogni singolo caso; generosi nel dispensare il perdono di Dio”(n.10). 

A conferma di questo stile, che Papa Francesco desidera essere quello del presbitero che ascolta i peccati e si fa suo buon Samaritano di chi pentito intende tornare a Gerusalemme, dice: “non c’è legge né precetto che possa impedire a Dio di riabbracciare il Figlio che torna da lui riconoscendo di aver sbagliato, ma deciso a ricominciare d’accapo. Fermarsi soltanto alla legge, equivale a vanificare la fede e la misericordia divina… Anche nei casi più complessi dove si è tentati di fare prevalere una giustizia che deriva solo dalle norme, si deve credere nella forza che scaturisce dalla grazia divina” (n.11). Qui Papa Francesco si richiama alla dottrina dell’efficacia della grazia che dona qualità concreta alla libera decisione del penitente che desidera risalire la china. Il richiamo alla grazia legata ai sacramenti è una necessaria sottolineatura che dà alla confessione una significatività tutta particolare che deve “ritrovare il suo posto centrale nella vita cristiana” (n. 11). 

Questo richiamo ad affidarsi e fidarsi dell’azione della grazia divina lasciata spesso, in questi decenni, nell’ombra per dare forse eccessiva valenza alla consapevolezza umana dei soggetti, giustamente qui viene sottolineata. 

La vita cristiana non dona frutti di consolazione e testimonianza senza un lavoro interiore dove libertà e grazia debbono essere sinergiche. Su questo aspetto è importante che si soffermino i Pastori. È la pastorale della pedagogia della santità di cui parlava Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte. Non una santità-stoica ma quell’affidarsi a Dio nel pentimento e nella speranza di sperimentare la Sua misericordia nella fragilità umana. Questo passo è di estrema importanza anche per un rinnovamento della vita cristiana oltre alla mera ritualità e all’efficienza pseudo-aziendale.  

Questo accompagnamento interiore, libertà e grazia, fa sperimentare il desiderio di una rinascita umana e spirituale portando con se la gioia della consolazione interiore di cui “tutti abbiamo bisogno perché nessuno è immune dalla sofferenza, dal dolore e dall’incomprensione” (n.13). Passando poi alle cose pratiche questa lettera apostolica esorta e dona:  

Esorta a: 

a)Diffondere tra le comunità cristiane la Lectio Divina (n.7) 

b)Dedicare una domenica interamente alla parola di Dio (n.7) 

c)Istituire una Giornata mondiale dei poveri ogni anno nella ricorrenza della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (n.21) 

d)Curare il momento della morte dei nostri fedeli (n.15) 

e)Dare forma concreta alla carità e al tempo stesso intelligenza alle opere di misericordia (n.19) 

Dona 

a)A tutti i presbiteri da la facoltà di assolvere dal peccato di aborto in ogni tempo liturgico (n.12) 

b)La liceità dell’assoluzione che i presbiteri della fraternità di San Pio X hanno dato ai penitenti che si sono accostati alla confessione con le dovute disposizioni (n.12) 

Conclusione: 

La lettera apostolica Misericordia et Misera che chiude l’Anno santo, apre però, alla Chiesa tutta, una pastorale ed una cultura della misericordia che possa essere piattaforma per la nuova evangelizzazione dove le porte della casa del Padre risultano spalancate soprattutto per chi cerca quella tenerezza interiore che è consolazione dello spirito affranto e provato. 

 

*Vicario episcopale per il laicato e la cultura  

Diocesi di Trieste 

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lettera apostolica misericordia et misera

 

Comunicazione e immigrazione. L’importanza dei numeri per una corretta informazione

I dati forniti smentiscono tanti luoghi comuni sui flussi migratori. Ne ha parlato Alessandro Agostinelli, responsabile del centro SPRAR della Caritas di Roma, durante la “Giornata dei Curricoli” della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’UPS.

Sono in molti a sostenere come il mito dell’obiettività sia un ideale irraggiungibile per il mondo del giornalismo. Quando parliamo di immigrazione però, alla comunicazione spetta una grande responsabilità: fornirne un’immagine corretta, rappresentativa e quanto più possibile obiettiva del fenomeno. Per questo motivo esistono i numeri, la cui interpretazione diventa la chiave di lettura fondamentale per capire necessità e stilare modalità d’intervento a sostegno di chi ne ha più bisogno. Alessandro Agostinelli, responsabile del centro SPRAR (il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), Caritas di Roma, ne ha parlato martedì 15 novembre durante la “Giornata dei Curricoli” della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana, nell’appuntamento annuale che la facoltà offre agli studenti per confrontarsi con i professionisti, gli ambiti e i contenuti della comunicazione.

L’edizione di quest’anno si è concentrata sulla tematica “Comunicazione e Immigrazione”, proponendo nella prima parte dell’incontro il contributo di professionisti come Gabriele Beltrami, Responsabile dell’Ufficio Comunicazione Scalabriniani e Marco Binotto, del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza di Roma. Nella seconda parte c’è stata invece la testimonianza di giornalisti specializzati sull’immigrazione, ex allievi della facoltà stessa: Iman Sabbah ora lavora in Rai, Naman Tarcha, siriano, è un conduttore e tv reporter e John Mwangi Njoroge, un giornalista d’inchiesta keniano.

Alessandro Agostinelli ha prima di tutto sfatato una convinzione diffusa: non è vero che la maggior parte degli immigrati sbarca sulle coste italiane. Nel 2015 ne sono arrivati 154 mila (ad ottobre 2016 quasi 160 mila), in Grecia più di 800 mila, mentre il conteggio europeo sale sopra ad 1 milione. Il sentimento di “accerchiamento” che molti vivono è in realtà costruito ad hoc dai media e dalla politica. Il tutto contribuisce a creare nell’opinione pubblica un circolo vizioso che narra l’immigrazione come un problema e non come una risorsa. Ancora una volta però i numeri raccontano tutta un’altra storia: più di 2,3 milioni di immigrati, in Italia, hanno una occupazione fissa e contribuiscono in maniera attiva all’economia e al sistema pensionistico con ben 11 miliardi. La corretta informazione dovrebbe smentire, secondo Agostinelli, anche un altro luogo comune: chi l’ha detto che le persone che arrivano sulle coste italiane poi restino effettivamente tutte nel nostro Paese? I dati forniti dall’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, confermano che solo il 54% decide di rimanere sul suolo italiano, facendo la domanda d’asilo. L’Italia come ponte per l’Europa dunque, più che come destinazione d’arrivo. Sbagliato dunque parlare di “emergenza” o di “crisi”. Soprattutto in Italia.

Il rapporto 2016 sulla protezione internazionale nel nostro Paese, presentato a Roma in questi giorni, lo spiega in maniera abbastanza emblematica. Nel 2015 sono state presentate 1,4 milioni di domande di protezione internazionale: 477 mila solo in Germania, che copre il 36% delle istanze in UE, seguita da Ungheria, Svezia, Austria e Italia, in quinta posizione. Altri dati sono molto più preoccupanti: nel mondo circa 34mila persone al giorno sono state costrette a fuggire dalle loro case per l’acuirsi di conflitti e situazioni di crisi, ovvero una media di 24 persone al minuto. Il Paese che accoglie il maggior numero di rifugiati a livello mondiale è la Turchia (ben 2,5 milioni) e poi a seguire Pakistan e Libano (entrambe sopra il milione), Iran ed Etiopia. In Europa il fenomeno è notevolmente ridotto. Andiamoci piano quindi con gli allarmismi. L’unico numero davvero preoccupante è rappresentato dai quasi 4 milioni di migranti morti durante la traversata del Mediterraneo nel 2016, l’anno che più di tutti si è macchiato di sangue nella storia dei flussi migratori. Questo sì che è un numero da far paura.

da YOUNG4YOUNG 17 novembre 2016