Animatori: c’è luce in sala

Si espandono le frontiere digitali della comunicazione. Il Web diventa sempre più anche per le sale della comunità lo strumento ideale per informare, condividere contenuti e organizzare incontri sul territorio delle diocesi. «Gli interessi culturali delle persone – spiega don Adriano Bianchi, presidente dell’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec), da meno di un mese alla guida anche della Federazione italiana stampa cattolica (Fisc) – deve trovare una corrispondente proposta significativa nelle nostre sale della comunità.

Per questo la comunicazione digitale richiede da parte nostra un’attenzione sulla formazione delle persone che animano e lavorano nelle nostre realtà. Moltissime sale hanno risposto a questo bisogno comunicativo creando siti, pagine Facebook e profili Twitter. I nostri sono luoghi di proposta dove si intercetta una serie di persone che non sono immediatamente vicine al contesto ecclesiale. L’anima della sala della comunità è quella di essere una soglia, ‘un complemento del tempio’, come diceva San Giovanni Paolo II».

L’importanza di essere aggiornati sull’uso dei nuovi media digitali, social e app non nasce però «dalla preoccupazione di essere efficaci come istituzione o come parrocchia», sottolinea don Davide Milani, presidente dell’Ente dello Spettacolo e responsabile della comunicazione in diocesi di Milano.

«Quello che ci sta a cuore è rendere consapevoli adulti, educatori e ragazzi rispetto alla potenza, alle opportunità e ai rischi della comunicazione digitale. Ci sono infatti due fenomeni che nascono: il tecnicismo esagerato che porta ad affidarsi ai media digitali come unica soluzione a ogni problema, senza riflessione critica, senza applicare opportuni criteri di prudenza d’uso. Il secondo e opposto fenomeno è il tecnoscetticismo, tipico di chi non conosce gli strumenti e li critica. La scelta di una parrocchia, di una sala o di una comunità di non utilizzare i media digitali mina la comunicazione all’esterno e priva di un necessario contributo che la comunità cristiana può dare». «Le iniziative delle sale di comunità – aggiunge Bianchi – partono dalla musica, dal cinema e dal teatro per comunicare contenuti e riflessioni che rispondono ai bisogni culturali reali». Un esempio chiaro è «il cineforum che, prendendo spunto dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, affronta le questioni legate alla famiglia. Supportate da una giusta comunicazione in tutti i canali digitali, le nostre proposte culturali possono raggiungere un pubblico vasto. Siamo chiamati a essere una piazza frequentata dalle persone che comunicano nelle reti sociali, così come occorre esserci nei luoghi digitali che le persone frequentano abitualmente ». «L’azione della diocesi di Milano per la formazione degli animatori – sottolinea Milani – è far crescere consapevolezza per insegnare a leggere e scrivere in digitale, non tanto per creare una tecno-abilità ma per diffondere una giusta alfabetizzazione digitale. La nostra prima domanda è: qual è l’obiettivo? La risposta, nella formazione alla comunicazione digitale è comunicare la bellezza di questa esperienza. Negli anni abbiamo lavorato per modellare la figura del responsabile parrocchiale della comunicazione, nel 2017 affronteremo casi concreti di comunicazione in parrocchia. Quello che ci interessa è ‘alimentare il fuoco’, acceso dai bisogni educativi e dalla conseguente comunicazione».

da Avvenire del 10 gennaio 2017, pag. 18

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Isaia 49,3.5-6

 Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza –  e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

 

  • «Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).

         Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf. Is 49,4; 50,6). Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).

         Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti. Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf. Is 52,13-5).

 

Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3

Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!

 

  • Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1). Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf. Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1). Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali. «Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire»,  dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf. PG 61,13-14).

         Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.

         Paolo augura «grazia e pace». È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere. Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf. Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19). Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).

         Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf. Es 33,19; Sap 3,9). Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.

         In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf. Rm. 3,21-26).

         La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf. 1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).

 

Vangelo: Giovanni 1,29-34

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».  Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

Esegesi 

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).

     L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo. La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca airein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare. Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.

     Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio». Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.

     Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf. Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21). In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati… con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf. Es 12,4).

     Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf. Es 29,38).

Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf. Es 29,42).

     Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio». Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».

     Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista. Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.

     L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro. È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.

     La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio». Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito. Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf. Is 11,2; 61,1).

 

Immagine della Domenica

  
 

«CHE DEVO FARE?»

Nei detti dei padri del deserto sta scritto:

Un giovane andò da abba Paisio e gli chiese: «Che devo fare?

Dimmi una parola!». E quell’abba gli rispose: «Va’ e sta’ accanto ad un uomo esperto in umanità e imparerai cosa devi fare!».

 

Meditazione 

Prima lettura e vangelo convergono verso un centro cristologico e sociologico. Isaia parla del Servo del Signore e della sua missione che ha ampiezza universale e consiste nell’essere «luce delle genti»; il vangelo applica a Gesù la tipologia del Servo-Agnello (il termine aramaico talja’ sembra significare tanto «agnello» quanto «servo»; in Is 53 il Servo è presentato come agnello afono) e il Battista ne annuncia la missione universale, «togliere il peccato del mondo».

Compito profetico è quello di preparare l’avvento del novum nella storia. La pagina di Isaia preannuncia l’inaudita estensione di orizzonte della missione del Servo (I lettura) e Giovanni introduce il novum nella storia indicando Gesù quale Messia, prima sconosciuto («In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete»: Gv 1,27). Il profeta sa creare speranza e orientarla, sa dare volto e nome a ciò che sta fiorendo nella storia e aiutarne la nascita. La profezia è la maieutica del futuro che da senso e luce all’oggi.

Il testo evangelico presenta discretamente uno squarcio sull’esperienza spirituale di Giovanni Battista in ordine alla conoscenza dell’identità profonda di Gesù. Giovanni «non conosceva» Gesù nella sua identità messianica e di rivelatore del Padre (Gv 1,31.33): ma l’ascolto della parola Dio (Gv 1,33) ha reso vigile il suo sguardo che ha saputo vedere lo Spirito posarsi su Gesù (Gv 1,32.34). L’ascolto della parola rende possibile la visione, ovvero, l’esperienza dello Spirito. La conoscenza che ne scaturisce non è affatto disincarnata o intellettuale, ma partecipe e coinvolta: è testimonianza (Gv 1,34). L’itinerario spirituale della conoscenza di Dio nella storia si può così delineare: ascoltodiscernimentotestimonianza. Anche il cristiano è chiamato al compito di vedere lo Spirito, cioè di discernere la sua presenza attiva nella storia e nelle vite degli uomini. E lo Spirito viene reso visibile dai suoi frutti (Gal 5,22), dalle sue manifestazioni e operazioni (1 Cor 2,4-11) negli uomini e nelle loro relazioni.

Gesù appare il luogo in cui lo Spirito trova riposo, dimora stabile. La sua obbedienza di inviato, di Servo, di Agnello, è arricchita e completata dalla creatività dello Spirito e dai suoi multiformi doni. Obbedienza e creatività sono elementi inscindibili anche della vita cristiana.

La conoscenza di Gesù a cui perviene Giovanni è anche un far conoscere (Gv 1,31), una conoscenza non chiusa su di sé, ma diffusiva e irraggiante. Tale conoscenza nasce dall’obbedienza di Giovanni a Colui che l’ha inviato: essa è dunque dono a cui Giovanni si è aperto e reso disponibile riconoscendo la propria ignoranza. Si tratta di un movimento pasquale che fa passare dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della conoscenza. Il testo suggerisce che la missione non può mai essere scissa dall’obbedienza personale alla parola del Signore e dal personale coinvolgimento con il Signore.

Noi non possiamo dire di conoscere Gesù una volta per tutte. C’è una non-conoscenza del Signore che è vitale per la sua retta conoscenza. Una conoscenza troppo certa del Signore rischia di falsarne i tratti rivelati dal vangelo. Il Gesù che Giovanni presenta e che i vangeli mostrano è il Gesù rivelato dallo Spirito di Dio, non la proiezione dei miraggi dell’uomo; è il Servo obbediente, non un dominatore tirannico; è l’Agnello inerme e innocente, non un Moloch distruttivo o una potenza che crea sofferenza; è il Figlio di Dio, non un idolo partorito dalla mente umana o fabbricato da mani d’uomo. La conoscenza del Signore va sempre rinnovata ed è solo per grazia, nella fede, che viene rinnovata. Essa abbisogna di essere sempre purificata e sottratta al rischio di divenire una stanca abitudine. Noi siamo tentati di rendere vecchia, stantia, ingessata, atrofizzata la nostra conoscenza del Signore e possiamo ritrovarci ad adorare un idolo invece che il Signore vivente. Sicché vale anche per noi credenti, sempre, l’umile riconoscimento che, pur confessandolo e conoscendolo, in verità noi anche non conosciamo il Signore. Solo questa non-conoscenza libera la conoscenza dal voler essere esaustiva del mistero del Signore.

 

Preghiere e racconti

Tre angeli assistono al battesimo di Cristo mentre alle loro spalle l’uomo nuovo, il battezzando, si staglia seminudo sul fondo dei coloratissimi vestiti degli uomini vecchi. La composizione è monumentale. Pura è l’aria, pura è l’acqua e pura è la terra. Gli uomini e il mondo non sono intaccati dall’ombra/peccato, perché la stessa ombra è col ore intriso di luce, delicato come una carezza. Il paesaggio è quello aretino. Eppure sa di paradiso.

Il segreto pittorico di questo risultato è nella combinazione unica di realtà e astrazione, di vita e contemplazione, ottenuta mediante la prospettiva, la forma, il colore e soprattutto la luce che tutto investe compenetrandolo. Non si muove niente, perché tutto sa di sospeso. Sospeso è il braccio di Giovanni Battista, sospeso è il gesto del battezzando che li sta dietro. Non è per incertezza o fatica, ma per lo stupore che rende impercettibile anche il respiro: l’uomo è investito da una tale dignità che basta il suo «essersi» per riempire di dignità regale il suo corpo, la sua posa e il suo sguardo.

Il paesaggio stesso si umanizza e partecipa dell’eterna giovinezza dell’uomo. Di quale uomo? Di quello che sta al centro, dell’uomo-Dio. Il grande Giotto aveva dato figura al Dio-uomo; ora il Quattrocento rovescia il rapporto: è così umano questo Gesù che solo Dio poteva essere in Lui.

Questo uomo ha la dignità del re. Occupa il centro del mondo. Accanto a lui il terribile e selvatico Giovanni Battista si è trasformato in un dignitario di corte. Aveva tuonato contro Gerusalemme, il tempio, le menzogne, i furbi; aveva invocato la scure e il fuoco per distruggere il male. Invitava a preparare la strada al re che sarebbe arrivato. Ora un volto, uno dei mille nella folla alle acque del Giordano, lo ha fulminato. Che cosa ha visto in esso?

Ci facciamo aiutare da Piero della Francesca. Il pittore non è evangelista, ma è spontaneo che la Parola susciti negli occhi la voglia di vedere. Con tutti i limiti, ogni uomo e ogni epoca hanno diritto a un volto-Vangelo. E l’occasione più alta per cogliere il volto-Vangelo di Gesù è l’esperienza che il Nazareno ha fatto al Giordano. Forse è anche la più difficile da «immaginare». Ma Piero della Francesca è grande.

«Mentre pregava…», dice il Vangelo. E Gesù, nel quadro, sta pregando. «… il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 21-22). Nel quadro non si vedono i cieli aprirsi. È evidente che si tratta di un’esperienza spirituale, che avviene sulla punta più profonda dell’essere. La colomba è attentissima a non battere le ali: essa svolge il suo compito di tramite simbolico; il fremito vero sta salendo come linfa da dentro: tutto il Nazareno ne è invaso. L’umile falegname alla ricerca della sua vocazione, mentre prega il Padre, fa l’esperienza di essere figlio. Presto schizzerà via di lì a dire al mondo che il Regno è arrivato, che Dio abita questo mondo, questa carne, questa avventura. Sì, perché lui è il Figlio, è Dio. Non lo è diventato in quel momento, ma è in quel momento che la verità sta attraversando i suoi sensi, interiori ed esteriori. La verità è sulla sua pelle.

Nel Cristo splende la luce della coscienza filiale. L’infinita dolcezza, l’onnipotente tenerezza, la pazza voglia del Padre di far vivere, ora è anche nella sua psicologia, nel suo modo di guardare gli uomini, la donna che impasta, il papà che accende la lanterna alla sera… Tutti quelli che incontrerà, se lo vorranno, vedranno nei suoi occhi il Regno di Dio. «Non temete più niente – dirà a tutti – Dio si è fatto prossimo all’uomo. È Vangelo, è lieta notizia. Non c’è carne umana che non sia anche avventura divina. L’ho visto nei cieli aperti».

Giovanni è il primo ad accorgersi. Glielo ha letto in faccia. E ora compie su di Lui un gesto particolare che sa di incoronazione. La lieta notizia ora si fa luce del mondo. Tutto nel quadro diventa terso, puro e sacro. Tutto è evidente alla luce di un tempo senza tempo, in uno spazio che sa di trasfigurazione. «Mentre pregava…»: forse è bello immaginarlo così Gesù, quando, stanco e in preda alla delusione («Vanno capiti, poveretti: è una notizia troppo grande quella del Regno. Come arrabbiarmi se fanno fatica a credermi?»), si rifugiava nella preghiera. È bello immaginarlo che pregava così, come Piero della Francesca l’ha figurato in questo quadro.

 

Il vero testimone

Ma che cosa significa testimoniare? Che cosa dobbiamo testimoniare? Poiché la testimonianza è di Cristo, ciò che la tua vita deve esprimere è il riferimento a Lui, l’orientamento costante e fedele a Lui. L’ideale della testimonianza non è semplice “coerenza” con certi principi, se questa richiama solo alla tua bravura personale, alla tua correttezza, alla tua onestà. Questi valori, e molti altri,  sono validi parzialmente, ma sono veri fino in fondo e possono essere vissuti davvero solo nel riferimento ad un Altro. Solo allora correttezza e bravura diventano testimonianza di Cristo, e tu sei non soltanto una “brava persona” ma anche un vero “testimone”. Ciò è importante anche per un altro aspetto: l’inevitabile presenza del male nella nostra vita, un male che è incoerenza e controtestimonianza.

Anche qui l’ideale è rendere presente un altro, che è più grande del nostro male, ed è origine del nostro bene, e continuamente ci perdona e ci rinnova.

Se aspettassimo ad essere pienamente coerenti per testimoniare, non cominceremmo mai. Il cuore della testimonianza cristiana è, dunque, la Persona di Cristo: Lo annunciamo, perché una Persona ed una storia si indicano e si raccontano; Lo annunciamo, perché sia chiaro che è Lui il centro e l’origine di quanto cerchiamo di vivere. Lo annunciamo, perché possa affascinare altri come ha affascinato noi.

(A. Maggiolini, Regola di vita cristiana per i giovani).

 

 

Ancora e sempre sul monte di luce       

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(David Maria Turoldo).

 

I testimoni

Paolo VI ha osservato che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascolta i maestri, è perché sono dei testimoni» (Discorso ai membri del «Consilium de Laicis» (2 ottobre 1974), in: AAS 66 (1974) 568). E’ soprattutto ai testimoni che, nella Chiesa, è affidato il tesoro della famiglia: a quei padri e a quelle madri, figli e figlie, che attraverso la famiglia hanno trovato la strada della loro vocazione umana e cristiana, la dimensione dell’«uomo interiore» (Ef 3, 16), di cui parla l’Apostolo, ed hanno così raggiunto la santità. (Cfr. Lettera alle Famiglie, 23).

 

Testimonianza

A coloro che anche oggi “vogliono vedere Gesù”, a quanti sono alla ricerca del volto di Dio; a chi ha ricevuto una catechesi da piccolo e poi non l’ha più approfondita e forse ha perso la fede; a tanti che non hanno ancora incontrato Gesù personalmente; a tutte queste persone possiamo offrire tre cose: il Vangelo; il crocifisso e la testimonianza della nostra fede, povera, ma sincera. Il Vangelo: lì possiamo incontrare Gesù, ascoltarlo, conoscerlo. Il crocifisso: segno dell’amore di Gesù che ha dato sé stesso per noi. E poi una fede che si traduce in gesti semplici di carità fraterna.

(Papa Francesco)

 

Uomo fra gli uomini

Gesù, piccolo come uno di noi,

vulnerabile e nudo,

a metà fra nascita e morte,

fra silenzio e parola;

un uomo venuto dalla polvere,

tessuto di fuoco, di vento e d’acqua,

fra un ventre di donna

e quello della terra; un figlio d’uomo,

per pochi istanti in piedi, ritto

fra i sassi e le stelle;

che uomo che va per la sua strada

fra una locanda chiusa e quella di Emmaus;

un uomo fra ieri e domani,

con la fatica addosso,

con lacrime di gioia negli occhi,

e talvolta un singhiozzo che gli traversa la gola

– e per piangere se ne va in disparte;

soltanto un uomo,

che ha paura di morire come tutti,

e lo dice, ed è morto infatti,

abbandonato da tutti,

abbandonato dal suo Dio, lasciato a se stesso;

un uomo senz’armi né armatura,

indifeso come il vento, parola offerta,

seme nascosto, sale della terra,

fiamma sul monte

piegata dalla tempesta e mai spenta,

fonte viva mille volte calpestata,

ancora chiara e fresca,

sempre pronta per la nostra sete,

vino pronto a essere servito,

pane spezzato pronto sulla tavola;

un uomo, carne e sangue

in mano ai fratelli,

sotto l’ala dello Spirito, in mano a Dio:

uomo fra gli uomini, nella sua solitudine

dove l’amore improvvisamente

si accende come il fuoco

in un fascio di ginestre, si attacca come la brina

ai rami di biancospino;

un uomo immenso, che è nato da Dio,

che è tutto l’uomo e che è Dio,

che è noi stessi, tutti e ciascuno;

in lui noi siamo e senza di lui

non saremmo nulla, o ben poco;

in lui noi siamo, coronati di gloria,

vestiti di forza, appena di sopra degli angeli

e poco meno di Dio; Gesù, l’uomo

Nel quale anche noi possiamo dire:

come un prodigio mi hai fatto e prodigiose sono le tue opere, o Dio!

(Didier Rimaud).

 

Preghiera

Signore, Dio onnipotente,

concedici di lodarti e di ringraziarti

per la tua bontà e il tuo amore,

e per averci fatto conoscere l’Evangelo.

Siamo felici

di portare il nome di cristiani;

e allora facci veramente cristiani.

Dacci occhi per potere cogliere

la tua presenza fra noi.

Purifica il nostro cuore e rendilo

trasparente come vetro

perché possiamo vederti

e lo Spirito Santo possa vivere in noi.

Signore… molti nostri amici

non conoscono il tuo nome

e non hanno visto la tua luce.

Aiutaci a metterci al tuo servizio

e a brillare per te.

Perdonaci se viviamo nell’egoismo               

e lasciamo indebolire la tua luce.

Ti chiediamo tutto questo nel nome              

del Signore Gesù per i cui meriti

siamo stati salvati dal peccato.

(Preghiera di una donna Thai)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ DOMENICANA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.

– E. BIANCHI ET AL., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

ALZATI, VA’ E NON TEMERE

ALZATI, VA’ E NON TEMERE. Vocazioni e Santità: io sono una missione. (cf programma allegato)

Roma, 3-5 Gennaio 2017 Hotel The Church Village – I lavori del convegno saranno trasmessi in diretta streaming. Programma e iscrizioni all’interno. Destinatari: direttori regionali e diocesani della pastorale delle vocazioni, rettori ed educatori dei seminari, animatori/animatrici vocazionali e formatori/formatrici degli istituti di vita consacrata, seminaristi, novizie, catechisti e operatori pastorali.

Il Convegno  si propone di elaborare e approfondire la tematica dell’anno di pastorale vocazionale in corso:  “Alzati, va’ e non temere”.   Esso ci aiuta a fare memoria di molte storie di vocazione, in cui  il Signore invita i chiamati  ad uscire da sé per farsi dono agli altri; ad essi affida una missione e li rassicura con una benedizione costante: “Non temere”.  

DESTINATARI: direttori regionali e diocesani della pastorale delle vocazioni, rettori ed educatori dei seminari, animatori/animatrici vocazionali e formatori/formatrici degli istituti di vita consacrata, seminaristi, novizie, catechisti e operatori pastorali.

NATALE DEL SIGNORE

 

Prima lettura: Isaia 52,7-10

Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

 

Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno. Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza. È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli. Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui. Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.

    Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore. Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.

 

Seconda lettura: Ebrei 1,1-6

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».

 

Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei. Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».

    Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui». C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.

          Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli». L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.

          All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata. In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa. Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 1,1-18 

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

 

 

Esegesi

          Non è mai semplice commentare il prologo giovanneo. In esso, infatti condensa mirabilmente il progetto divino che viene incontro alle aspettative degli uomini, i quali hanno sempre cercato Dio, hanno sempre desiderato vederne il volto, ma ciò non è stato mai possibile, se non “metaforicamente” a Israele, che aveva il Tempio di Gerusalemme, il luogo in cui, ci dicono diversi Salmi, si andava a cercare il volto del Signore.

          A tale attesa offre una risposta il v. 18 del prologo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato». Questo Figlio unigenito, che si sobbarca un compito fondamentale in obbedienza al Padre, è quello stesso Verbo con la cui menzione si apre il Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo». L’inizio e la fine di questo suggestivissimo testo, quindi, si richiamano a vicenda per illuminare ciò che, con altra terminologia, viene definito “mistero”, ossia la volontà di Dio Padre di rivelare se stesso agli uomini attraverso il Figlio, il Verbo, nome che esprime la ricchezza della comunicazione di una realtà ineffabile. A voler essere precisi, il verbo greco che nel v. 18 si traduce di solito con “rivelare” significa letteralmente “essere condotto”: è il Figlio Gesù, il rivelatore, colui che gode della massima intimità con Dio Padre, a portarci verso quest’ultimo, affinché trovi pace la nostra ricerca del volto di Dio.

          L’evangelista, quindi, non ci nasconde che con Gesù è intervenuta una novità del tutto eccezionale. Bisogna ammettere che, con ispirata abilità, egli ci riferisce nel prologo le tre cose fondamentali, di cui continuerà a parlare nel suo Vangelo: a) il primo sguardo va dal “principio” fino al momento in cui il Battista rende testimonianza a Cristo (vv. 1-8); b) il secondo fa concentrare la nostra attenzione sulla bellezza, purtroppo non accolta dall’umanità, del mistero dell’Incarnazione (vv. 9-14); c) infine, troviamo il passaggio dalla guida di Giovanni Battista, che è provvisoria, a quella definitiva del Figlio (vv. 15-18).

          Il movimento del prologo sembra essere quello di una linea che scende verso il basso, perché dalle altezze divine e dall’eternità di quel mondo il Verbo giunge alla bassezza della nostra realtà e nella storia complessa e difficile dell’umanità. Questo movimento che porta ad affermare la rivelazione è come interrotto da quella che non può essere considerata un’intrusione, bensì una preparazione: ci riferiamo all’azione di quell’eccezionale araldo che è Giovanni il Battista, qualificato come “testimone”: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). Il Battista, dunque, rende noto che la “venuta” di Dio è ormai realizzata, al punto da fargli gridare: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,15). È Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che “era” anche prima di nascere tra gli uomini. Egli è colui che poi viene definito Verbo e, ancora, vita e luce; egli è colui che, pur essendo Dio come suo Padre, s’incarna e diventa essere umano per meglio servire l’umanità. La gioia di cui parla il Deuteroisaia nel brano della prima lettura è sostituita qui dallo splendore della luce e dall’abbondanza della vita. Eppure, realisticamente, si annuncia: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta […].Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,4-5.10-11).

          Il mistero del Natale ci invita a prendere coscienza di tutta questa grandezza che nemmeno i profeti avevano potuto immaginare. La presenza in mezzo a noi dell’erede di Dio Padre, Gesù Cristo, « Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente » (Eb 1,3), è un evento così sconvolgente quanto desiderato da rendere difficile il parlarne e da far sentire inadeguato chi vuole accoglierlo.  

 

Immagine della Domenica 

 

NATALE A PORTA DI ROMA  – 2016/2017

 

Giocando a nascondino

«Mi viene in mente a questo proposito una storiella rabbinica riportata da Elie Wiesel. Essa racconta di un ragazzo, chiamato Jeschiel, che un giorno si precipita piangendo nella camera di suo nonno, il famoso rabbino Baruch. Le lacrime gli scorrono sulle guance ed egli si lamenta dicendo: “II mio amico mi ha piantato in asso. È stato proprio ingiusto e sgarbato con me”. “Senti, non puoi spiegarmi meglio come sono andate le cose?”, gli chiede il rabbino. “Sì”, risponde il ragazzo. “Stavamo giocando a nascondino, e mi ero nascosto così bene che il mio amico non riusciva a trovarmi. Allora ha smesso di cercarmi e se n’è andato. Che razza di modo di comportarsi!” Il più bello dei nascondigli ha perso tutto il suo fascino perché l’amico smette di giocare. Il rabbino accarezza il fanciullo sulle guance, anche a lui salgono le lacrime agli occhi mentre dice: “Sì, è davvero un modo di comportarsi che non va. E guarda: con Dio è la stessa cosa. Si è nascosto, e noi non andiamo a cercarlo. Pensa un po’: Dio si nasconde e noi uomini non lo cerchiamo neppure”.

(J. RATZINGER, Sul natale, Torino, Lindau, 2005, 22-25). 

 

Meditazione 

La parola di Dio che si fa evento storico di salvezza (I lettura), che sempre avviene in uno spazio e in un tempo precisi (II lettura), finalmente si è fatta carne (vangelo). Questo il vertice della volontà di amore e di incontro con l’uomo da parte di Dio. L’incarnazione è la comunicazione della vita di Dio all’uomo in Cristo e questa comunicazione è un atto di amore. Il prologo di Giovanni, narrando la comunicazione della rivelazione di Dio all’umanità, non esprime un astratto concetto teologico, ma un evento vitale nell’ordine dell’amore. La rivelazione è comunicata con un atto di amore e come un atto di amore. In effetti, il Lógos, il Verbo che era «rivolto verso Dio» (pròs tòn theòn: Gv 1,1), in posizione di ascolto e di colloquio intimo con il Padre, fatto uomo nel Figlio Gesù Cristo, ha narrato Dio agli uomini grazie al suo essere «rivolto verso il seno del Padre» (eis tòn kólpon toû patròs: Gv 1,18), cioè grazie alla sua obbedienza amorosa alla volontà del Padre. E questo ha consentito ai credenti di indirizzare la propria vita verso la comunione con il Padre: un senso possibile della forma verbale greca exeghésato (Gv 1,18: «ha narrato», «ha fatto l’esegesi»), è «ha aperto la via». Il credente che entra nel movimento di ascolto e obbedienza amorosa del Figlio, si immette nella via della comunione con il Padre. E così per il discepolo amato che durante l’ultima cena pone il capo sul seno di Gesù (en tô kólpo toû Iesoû: Gv 13,23) e riceve la rivelazione sul senso di ciò che sta avvenendo. Il vangelo che egli scrive è dunque frutto di questa comunicazione d’amore e permette al credente che si china su di esso di entrare nel mistero dell’amore di Dio. Commenta Goffredo di Admont: «Il seno di Gesù è la Scrittura. Coloro che amano Dio si sforzano di conoscere la Scrittura al solo fine di pervenire a maggiore conoscenza di Dio, a scoprire in essa il cuore di Dio, il sentire di Dio. Quel sentire che fu in Cristo Gesù e che fonda anche la vita comune e la comunione fraterna». L’intimità con la Scrittura conduce il credente a conoscere il cuore di Dio nella parola di Dio e a ricevere la rivelazione della sua gloria.

Il Verbo che si è fatto carne si è anche fatto libro, vangelo scritto, e come la fede è chiamata a riconoscere il Figlio di Dio nell’uomo Gesù di Nazaret, così essa è chiamata a riconoscere la parola di Dio nelle parole umane della Scrittura. Come i vangeli sono la narrazione scritta della gloria di Dio, la vita di Gesù ne è la narrazione vivente. Con l’incarnazione la parola si è fatta racconto, narrazione esistenziale.

L’incarnazione esprime l’evento per cui colui che era Dio (Gv 1,1), si fece carne (Gv 1,14): il verbo al passato si riferisce a un’azione puntuale, a un fatto storico, a un accadimento nello spazio e nel tempo. Il Dio invisibile ha reso visibile la sua gloria nella carne di Gesù Cristo. La carne, che indica la debolezza e la limitatezza, la fragilità e la mortalità dell’uomo, non è elemento che va negato o superato per incontrare la gloria divina, anzi, è il luogo della gloria di Dio.

Giovanni esprime questo applicando a Gesù, nel corso del vangelo, le affermazioni riferite al Verbo eterno nel prologo. Se il Verbo è colui senza il quale nulla fu (Gv 1,3), Gesù è colui senza il quale i discepoli non possono fare nulla (Gv 15,5); se nel Verbo eterno «era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4), Gesù dice di sé: «Io sono la vita» (Gv 11,25; 14,3), e: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). La carne glorificata di Gesù è la via che guida il credente alla comunione con il Padre. E solo l’accoglienza nella fede della propria carne (ovvero, della propria condizione umana limitata, contingente, caduca) come illuminata dalla luce della gloria di Dio e vivificata dalla resurrezione di Cristo, consente al credente di costruire rapporti di fraternità e comunione che narrino la luce e la vita di Dio agli uomini. Infatti, l’esperienza della gloria di Dio chiede di essere comunicata e la narrazione del Dio invisibile attuata dal Verbo fatto carne deve essere proseguita da parte dei figli di Dio.

 

Preghiere e racconti

 

Natale: tempo di riflessione

«La nascita di Cristo ci sfida a ripensare le nostre priorità, i nostri valori, il nostro stesso modo di vivere. E mentre il Natale è senza dubbio un tempo di gioia grande, è anche un’occasione di profonda riflessione, anzi un esame di coscienza. Alla fine di un anno che ha significato privazioni economiche per molti, che cosa possiamo apprendere dall’umiltà, dalla povertà, dalla semplicità della scena del presepe? Il Natale può essere il tempo nel quale impariamo a leggere il Vangelo, a conoscere Gesù non soltanto come il Bimbo della mangiatoia, ma come colui nel quale riconosciamo il Dio fatto Uomo. E’ nel Vangelo che i cristiani trovano ispirazione per la vita quotidiana e per il loro coinvolgimento negli affari del mondo  sia che ciò avvenga nel Parlamento o nella Borsa. I cristiani non dovrebbero sfuggire il mondo; al contrario, dovrebbero impegnarsi in esso. Ma il loro coinvolgimento nella politica e nell’economia dovrebbe trascendere ogni forma di ideologia. I cristiani combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano, creato a immagine di Dio e destinato alla vita eterna».

(Dall’articolo di BENEDETTO XVI, Tempo di impegno nel mondo per i cristiani, in «Financial Times», 20 dicembre 2012).

 

Lettera a Gesù Bambino 

Caro Gesù bambino, mi permetto di disturbarti perché so che ormai non saranno in molti a farlo. Un esercito di tripponi vestiti di rosso e con barbe posticce ha invaso il tempo a te dedicato e  con il loro ilare frastuono di musichette e di renne volanti  ha offuscato la straordinaria umiltà della tua nascita. Questa folla vociante di buontemponi dagli occhi sbarrati in un’espressione di perenne felicità si cala dalle finestre dei condomini, staziona davanti ai negozi e nelle strade più commerciali delle città. Sono loro ormai a raccogliere i desideri dei nostri bambini. Come non provare simpatia per questi arzilli nonnetti? Non c’è malizia nei loro occhi né traccia di rughe sulle loro guance, dai loro sacchi non esce mai carbone. La loro presenza ci parla di un mondo privo di ombre, un mondo dove tutti si vogliono bene, si fanno regali uniti da una eccitata felicità. C’è del male a essere felici, a desiderare l’armonia? Naturalmente no, forse per questo la schiera di amabili ciccioni è diventata così popolare. Però, caro Gesù bambino, un mondo in cui non esiste l’ombra mi lascia vagamente inquieta. Ci sono tante cose che vorrei chiederti, ma forse la prima e la più importante  è proprio questa. Riporta la coscienza dell’ombra nei nostri cuori, restituisci a tutti noi questa dimensione così umana. Che cos’è infatti l’uomo, senza la consapevolezza del male? Dai tempi di Rousseau ci viene ripetuto che l’uomo nasce naturalmente buono e questa ossessiva ripetizione ha finito con il dare i suoi frutti. La colpa del male che ci circonda, ci viene detto, non è mai in noi, ma sempre al di fuori: è colpa della società, delle ingiustizie, della corruzione, dei nostri genitori, della parte politica avversa, ma il male non dipende mai da una nostra precisa responsabilità. Sono state edificate grandi dittature su quest’idea dittature che hanno causato decine e decine di milioni di morti innocenti  ciononostante continua a essere radicata. Cambiando le condizioni esterne, si continua a ripetere, l’uomo cambierà e sarà in grado di rendere la società più giusta, più tollerante. E se invece la priorità fosse quella di cambiare l’interno? Nelle ultime pagine di Va’ dove ti porta il cuore la nonna scriveva alla nipote: «Ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi, la prima e la più importante. Lottare per un’idea senza avere un’idea di sé è una delle cose più pericolose che si possano fare». Riporta, dunque, nei nostri cuori, caro Gesù bambino, il senso di quella cosa ormai così ridicola, sorpassata e oscurantista che si chiama senso del peccato.

Lo so, questo termine suscita nella maggior parte dei nostri contemporanei dei moti di fastidio o di ilarità: cosa c’entra il peccato con gli uomini moderni che dominano ogni cosa sotto la chiara luce della ragione? Sono convinti, penso, che il peccato sia un anacronistico sistema di controllo delle coscienze imposto dai vari fanatismi religiosi. Ma se invece il peccato fosse, come dice una delle sue etimologie ebraiche più frequenti, prima di tutto un «mancare il bersaglio», uno smarrire la strada, una deviazione di percorso? Deviazione dal nostro cammino di crescita. Che cos’altro è la vita dell’uomo se non un faticoso, affascinante, meraviglioso cammino verso il bersaglio, cioè la piena consapevolezza dell’esistere? Un cammino di continua lotta contro le tenebre che cercano di sopraffarci, dove le tenebre non sono un dispetto fatto al Papa, ma quella forza oscura che costantemente agisce dentro di noi portandoci verso la chiusura, l’egoismo, l’odio per sé e per gli altri mascherato da mille suadenti volti.

Il cammino dell’uomo non è altro che un processo di unificazione. Si nasce divisi, ci sono tante pulsioni in noi in lotta tra loro per predominare. Crescere vuol dire appunto di-scernere, imparare a distinguere ciò che è bene da ciò che non lo è. Il criterio per la distinzione è estremamente semplice: è bene tutto ciò che costruisce, tutto ciò che l’uomo fa per l’uomo nella dimensione dell’apertura e dell’amore; è male tutto ciò che, nel tempo, si dimostra portatore di divisione e di distruzione, anche se all’inizio è apparso benevolo.

Ogni mattina, quando mi sveglio e comincio la giornata, so che dentro di me sonnecchia un potenziale assassino, sento perfettamente viva la grande scimmia che c’è in me, una scimmia pronta a difendere il suo territorio a morsi e a colpi di randello, incapace di elaborare pensieri più complessi di quelli legati alla propria sopravvivenza. Sono però cosciente che invece quello che mi divide dalle grandi scimmie  quel due per cento di diversità genetica  è proprio la possibilità di scegliere e di costruire la mia vita sulla base di questa capacità. Ogni scelta naturalmente è una rinuncia: è rinunciando a delle cose che imparo a distinguere la parte di me che vuole crescere da quella che, invece, vuole mantenermi ferma. In una società bulimica come la nostra, il discorso della rinuncia suona sinistro, eppure senza questo percorso non si potrà mai raggiungere la saggezza e la sapienza, vero scopo della vita dell’uomo. Che senso ha invecchiare, inseguendo il simulacro dell’eterna giovinezza, gonfiandosi le labbra, le guance?

Una società che non accetta il cambiamento, che non riconosce il principio del male è inerme davanti ai mostri che lei stessa produce. È una società che, per anestetizzare la propria coscienza, ha bisogno di alzare sempre più alte le bandiere dell’umanitarismo, della tolleranza, del pacifismo. Sente i demoni salire dentro di sé, ma non sa come tenerli a bada, così usa i surrogati: per non parlare del bene, ci fa indossare gli osceni abiti del buonismo volendo farci credere che indossare la pelle della pecora sia la stessa cosa che di-ventare agnelli. Come dormiamo sereni con le nostre bandiere della pace alla finestra, con le petizioni che firmiamo, con le indignazioni che si susseguono giorno dopo giorno seguendo l’orchestrazione emotiva dei mass media. Com’è bello sentirsi buoni e giusti mentre il mondo intorno a noi è popolato di ottusi, di fanatici, di malvagi. Lottare per la giustizia sulla terra è una cosa importantissima, come tu sai, ma per farlo bisogna avere un cuore indiviso, capace di mettere sempre il mistero della persona in primo piano e non l’abito disonesto del pregiudizio e dell’ideologia.

Ci sono tante altre cose che vorrei chiederti, caro Gesù bambino. Vorrei chiederti, ad esempio, di far sparire il cinismo dalle nostre menti e dai nostri pensieri, di riportare in noi la capacità di accogliere con stupore l’arrivo di un nuovo giorno, sapendo che qualsiasi cosa ci accadrà sarà comunque importante perché ci servirà per imparare. Cancella tutti gli «ismi» dai nostri cuori e riempili di compassione. Compassione per le persone, per gli animali, per le piante, per tutto il mondo che vive assieme a noi e, con noi, condivide il mistero del male. Rendi di nuovo innocenti i nostri bambini che abbiamo trattato come cassonetti della spazzatura buttando loro addosso ogni sorta di porcheria pretendendo poi che diventino delle belle persone e dei bravi cittadini. Ridona ai genitori la capacità di educare e di guardare a ogni figlio come un essere delicato e prezioso da trattare con fermezza e con amore, proteggendolo dalle oscenità del mondo circostante. E infine porta un grande carico i vergogna a tutte le persone che occupano un posto di potere e non agiscono per il bene della comunità. Fai arrossire i corrotti, gli evasori, gli ipocriti, i demagoghi e tutti coloro che vivono proni davanti agli idoli del potere e del denaro. Caro Gesù bambino, fa’ che noi continuiamo a sentirci creature fragili, dal destino misterioso, dal compito affascinante e non automi docilmente succubi del fracasso dei Inedia. Fa’ che siamo capaci di ribellarci a questa oscurità che ci viene fatta passare per luce, alle luci finte, alle barbe finte, alla pance finte, ai pensieri e ai sentimenti finti, alle finte eterne giovinezze. Fa’ che in ognuno di noi torni a radicarsi l’idea che non c’è altro senso del cammino della vita che la costruzione e la ricerca dell’amore.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Torino, Lindau, 2011, 165-169)

 

Andiamo fino a Betlemme!

Miei cari fratelli,

Vorrei essere per voi uno di quei pastori veglianti sul gregge, che la notte del primo Natale, dopo l’apparizione degli angeli, alzò la voce e disse ai compagni: «Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il vincastro, e scendere giù per le gole di Giudea, lungo i sentieri odorosi di stereo e profumati di menta. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori. I quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d’Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste… per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori. Ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni nelle circospezioni di infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all’indietro», è l’unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.

Auguri, allora, miei cari fratelli.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quella della nostra anima sarà libero di smog privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

Buon Natale! Vostro

+ don Tonino, vescovo

(Antonio Bello, Oltre il futuro. Perché sia Natale, Molfetta, Luce e vita/La Meridiana, 1995, 25-27).

 

La notte del Mite

Questa è notte di riconciliazione,

non vi sia chi è adirato o rabbuiato.

In questa notte, che tutto acquieta,

non vi sia chi minaccia o strepita.

Questa è la notte del Mite,

nessuno sia amaro o duro.

In questa notte dell’Umile

non vi sia altezzoso o borioso.

In questo giorno di perdono

non vendichiamo le offese.

In questo giorno di gioie

non distribuiamo dolori.

In questo giorno mite

non siamo violenti.

In questo giorno quieto

non siamo irritabili.

In questo giorno della venuta

di Dio presso i peccatori,

non si esalti, nella propria mente,

il giusto sul peccatore.

In questo giorno della venuta

del Signore dell’universo presso i servi,

anche i signori si chinino

amorevolmente verso i propri servi.

In questo giorno, nel quale si è fatto povero

per noi il Ricco

anche il ricco renda partecipe

il povero della sua tavola.

Oggi si è impressa

la divinità nell’umanità,

affinché anche l’umanità

fosse intagliata nel sigillo della divinità.

(EFREM IL SIRO, Inni sulla Natività 1,88-95.99, in ID., Inni sulla Natività e sull’Epifania, Milano 2003, pp. 134-136).

 

«Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12)

Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.

I pastori

Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori. Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.

Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione. Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.

Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?

 

L’angelo del Natale

Un secondo spunto viene offerto dal messaggio. Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12). Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo. Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie. Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori. È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio. Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.

E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso. Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio. Un bambino inerme. Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione. Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza. A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.

 

La veste del bambino

Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi. Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci. Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle. Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce. Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato. E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze. È qui che Dio continua a vivere da clandestino. A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio. Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?

 

La culla del neonato

La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù. È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.

È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi. La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11). È l’epigrafe della nostra non accoglienza.

La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà. Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.

Possiamo chiudergli la porta in faccia. Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio. Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.

Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno. Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.

(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).

 

Esulta dunque!

Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr. Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr. 1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr. Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6). […] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione. […] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre. Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr. Es 3,14). Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura. […] Ma ora sappi che Cristo è concepito. Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr. Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr. 2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi  38,4.7.17, SC 358, pp. 108-110; 114-116).

 

Il Verbo si è fatto carne

A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr. Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio. Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi. Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine. Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo. Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr. Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr. Col 1,18). Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire. Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).

(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp. 302-304).

 

Il Natale del Signore

Il Natale è tra le feste più importanti della tradizione cristiana. In questa icona della Natività, la Vergine è rappresentata nella grotta mentre prende in braccio il Figlio con un gesto di indicibile affetto. Le genti, i re Magi, i pastori, convocati dagli angeli, manifestano la partecipazione di tutto il mondo alla salvezza. I re Magi, salendo, evocano lo sforzo umano di penetrare i misteri di Dio. Gli angeli, invece, annunciano ai pastori, popolo eletto, che il Mistero è presente: abbiamo solo bisogno della purezza del cuore per riconoscerlo. San Giuseppe è seduto in atteggiamento pensoso; è tentato dal dubbio che questa nascita sia veramente opera divina.

Sopra la grotta, con un raggio azzurro, è raffigurata la stella che ha guidato i Magi fino a Betlemme. La gioia del momento è turbata da presentimenti inquietanti: la grotta richiama una tomba, la culla un sarcofago e il Bimbo è avvolto in fasce come quelle che avvolgono un morto. La nascita di Cristo rimanda alla sua Pasqua di morte e di risurrezione: questo Bambino è il Salvatore del mondo! Nell’icona, però, il dolore non prevale, in tutto risplende la ritrovata pace paradisiaca che è il fine dell’Incarnazione.

 

Oggi

viene svelato il mistero

rimasto nascosto per secoli.

Oggi il Figlio di Dio

diventa figlio dell’uomo…

Maria,

confusa e dolce,

tu guardi il Figlio,

colui che ha le fattezze del tuo volto,

volto umano di Dio,

che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.

Adori il mistero e ti abbandoni

alla sua grandezza.

Ricolmaci, o Madre,

della tua pace,

ridonaci la bellezza della grazia,

e aiutaci a farci grembo a Dio,

perché cresca in noi…

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

NATALE DEL SIGNORE

La nonviolenza, stile di vita

È stato pubblicato il Messaggio di Papa Francesco per la 50ª Giornata della Pace (1° gennaio 2017). Il titolo “La nonviolenza: stile di una politica per la pace” riassume efficacemente il contenuto del testo in cui il Papa ha voluto rimarcare che in un mondo “frantumato”, preda di “una terribile guerra mondiale a pezzi” portata avanti dai “signori della guerra”, la nonviolenza per i cristiani non è un optional, ma l’unica “cura”, come ci ha insegnato Gesù. 

Testimoni e Vangelo. Gli esempi da seguire, indica Francesco, sono prima di tutto declinati al femminile, laddove le donne sono testimoni preziose di “nonviolenza attiva”: come madre Teresa, “icona dei  nostri tempi”, e Leymah Gbowee, attivista liberiana che ha portato agli accordi di pace del 2003. Nel suo appello, il Papa cita il primo Messaggio per la Giornata mondiale della pace, in cui il beato Paolo VI – sulla scia di San Giovanni XXIII nella Pacem in Terris – usò “parole inequivocabili” per rivolgersi “a tutti i popoli, non solo ai cattolici” ed affermare che “la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso, non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile”. Nello stesso spirito Francesco cita Benedetto XVI, per ribadire, con le parole del suo predecessore,  che “il Vangelo dell’amate i vostri nemici” è “la magna charta della nonviolenza cristiana”. Ma non dimentica le altre confessioni, sottolineando che “Nessuna religione è terrorista” e che “Mai il nome di Dio può giustificare la violenza” perché “Solo la pace è santa, non la guerra!”. 

Scuola di pace. Ma dove si coltivano i semi della pace e della nonviolenza? In famiglia, dice il Papa, e ricorda l’”Amoris Laetitia” per ribadire che “le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana”. Infine, il richiamo al “Discorso della montagna”, che è “anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo”. “Operare” con lo stile delle Beatitudini “significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale”. “La Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa”, assicura Francesco.

Appuntamenti. Tra i primi segni messi in campo, sulla scia del Messaggio di Francesco il 31 dicembre si svolgerà la 49ª Marcia nazionale per la pace, promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana, Caritas Italiana, Pax Christi, Azione Cattolica Italiana, organizzata dalla diocesi di Bologna. Il 1° gennaio 2017 nascerà invece in Vaticano il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.

“Delle loro lance faranno falci”

“I segnali che provengono dal mondo potrebbero scoraggiare: che cosa è la celebrazione liturgica – proposta debole e fragile, affidata alla recezione e alla buona volontà degli uomini – in confronto ai conflitti, alle tensioni, alle guerre che serpeggiano e sembrano sul punto di esplodere? In realtà non si tratta di un tempo debole, anche se viene espresso con sobrietà particolare dalla liturgia. È un tempo forte di preparazione e di avvio, che invita a iniziare un nuovo percorso, settimana per settimana, verso il compimento di quella era nuova della storia umana cominciata con il Natale del Signore, che celebreremo nella festa e nella gioia.”
Così Mons. Galantino introduce il Sussidio per l’Avvento e il Natale 2016, curato dall’Ufficio Liturgico Nazionale e disponibile online. Filo conduttore un versetto di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4).
“Un annuncio inaudito apre la Liturgia della Parola della prima domenica di Avvento” – prosegue il Segretario Generale nell’introduzione al Sussidio. “Una profezia che scuote le coscienze, che ha il coraggio di vedere la luce dove altri identificano solo tenebra e non senso”.
“Se noi andiamo verso il Signore, – aggiunge Galantino – in realtà è il suo venire che ci smuove dall’immobilismo e rimette in moto energie sopite, ci libera da stanchezze e pigrizie. Un rinnovato incontro con lui può dar vita a un nuovo segmento del nostro vivere, che dia uno spazio più generoso a Colui che viene”.
“L’auspicio – conclude il Vescovo – è che il Sussidio, in continuità dinamica con il Convegno ecclesiale di Firenze, in piena sintonia con il Magistero di Papa Francesco (fatto di gesti e parole assai eloquenti che ci interpellano) possa favorire nelle comunità cristiane una fruttuosa accoglienza dell’unico Dono, capace di trasfigurare la nostra umanità e di liberare un’esistenza troppo angustiata dalle nostre preoccupazioni, per entrare in un tempo nuovo, gioioso nel ringraziamento e lieto nella comunione”.

Buon 80° compleanno papa Francesco

Oltre 30mila le cartoline d’auguri consegnate a papa Francesco grazie all’iniziativa promossa dal Gruppo Editoriale San Paolo 
Numerosi i messaggi raccolti per gli 80 anni del Pontefice e consegnati direttamente al Santo Padre dai vertici del Gruppo Editoriale San Paolo. Il Dispensario di Santa Marta ha ricevuto una significativa donazione frutto del coinvolgimento dei lettori e del Gruppo. In edicola da domani su “Famiglia Cristiana” e “Credere” ampi servizi dedicati al compleanno del Papa e un supplemento speciale intitolato “Il Papa di tutti”.
 
Milano, 14 dicembre 2016 – In occasione dell’ottantesimo compleanno di papa Francesco che si festeggerà  sabato 17 dicembre, i vertici del Gruppo Editoriale San Paolo sono stati ricevuti in Vaticano dal Santo Padre, in udienza privata, per consegnargli personalmente le oltre 30mila cartoline d’auguri scritte dai lettori delle testate e dei libri della casa editrice. Una dimostrazione d’affetto popolare che ha visibilmente emozionato il Papa, commosso soprattutto dai numerosi disegni e messaggi di amore scritti dai bambini.
L’iniziativa editoriale, che ha coinvolto sia i periodici che le librerie del Gruppo San Paolo tra i mesi di ottobre e novembre, si è anche contraddistinta per la donazione a favore del Dispensario Pediatrico Santa Marta in Vaticano, particolarmente caro al Santo Padre. Alla struttura sanitaria, che offre assistenza pediatrica gratuita alle famiglie in difficoltà, è stata consegnata una cospicua donazione grazie all’impegno generoso di tanti lettori e del Gruppo. L’iniziativa benefica, proseguirà anche nelle prossime settimane permettendo, ai lettori che non lo avessero ancora fatto, di continuare con le donazioni.
«Ringrazio di cuore i lettori delle riviste paoline per i messaggi di auguri e benedico tutti» – ha commentato il Papa- «L’amore concreto, non solo a parole, è la cosa più bella» – ha concluso il Santo Padre durante l’incontro con i vertici del Gruppo Editoriale San Paolo.
Per celebrare il compleanno del Papa, Famiglia Cristiana e Credere, in edicola da domani, propongono servizi e approfondimenti che raccontano l’evento. A disposizione dei lettori anche un supplemento, che ripercorre la vita del Pontefice, intitolato Il Papa di tutti.
 
 

 
Il Gruppo Editoriale San Paolo La Società San Paolo è una Congregazione religiosa fondata nel 1914 in Italia ad Alba dal beato Don Giacomo Alberione. I membri della Società San Paolo, conosciuti come Paolini, operano in 32 nazioni. La loro molteplice attività riguarda: editoria libraria, giornalistica, cinematografica, musicale, televisiva, radiofonica, multimediale, telematica; centri di studio, ricerca, formazione, animazione. Il marchio che caratterizza tutti i prodotti e le attività dei Paolini rappresenta efficacemente la dinamica della loro presenza.

Contemplare l’alba oltre il tramonto. Morte e vita dalla prospettiva della Teologia spirituale

La Giornata di studio proposta dall’Istituto di Teologia spirituale dell’Università Pontificia Salesiana, dopo aver affrontato il tema della mistica, della contemplazione e della misericordia, si concentra quest’anno sullo studio della vita cristiana come preludio dell’eternità. In effetti, sebbene siano numerosi gli studi storici, sociologici, filosofi, psicologici, di letteratura sulla morte, non è un tema tanto frequentato oggi nella teologia e tanto meno nella teologia spirituale.  Sembrerebbe che la nostra cultura, già disinteressata della morte e, quindi, del morire, pretenda anche di rimuovere la vita eterna.

Con questo orizzonte di riferimento, la riflessione degli autori che collaborano nella Giornata di studio e nella pubblicazione del volume privilegia non tanto la dottrina biblico-cristiana sulla fede nella vita eterna e la sua articolazione sistematica o la teorizzazione a favore di una tesi prefissata, ma il vissuto cristiano in quanto oggetto di studio specifico della teologia spirituale. In concreto, la riflessione sulla vita eterna non può prescindere dall’esperienza del morire del morente. Perciò, è opportuno partire metodologicamente dal morire concreto, recuperando così la priorità della vita eterna ed evitare speculazioni inverificabili.

La Giornata di studio del 15 dicembre sarà introdotta dal saluto del Rettore, prof. Mauro Mantovani, e dalla presentazione dello «Status quaestionis» da parte del direttore dell’Istituto di Teologia spirituale, prof. Jesús Manuel García Gutiérrez. Per approfondire l’argomento vengono proposte quattro relazioni in mattinata e la visione di un film nel primo pomeriggio. La prima di esse, quella della prof.ssa Cristiana Freni, docente stabilizzata nella cattedra di Filosofia del Linguaggio della Facoltà di Filosofia presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, offrirà un quadro sintetico fenomenologico sull’«ars moriendi»: Senso della morte come senso della vita. A seguire, il prof. Cesare Bissoli, docente emerito di Bibbia e catechesi, concentrerà la sua attenzione sull’atteggiamento di Cristo di fronte alla sua morte. Dopo l’intervallo, si terranno due relazioni di carattere pedagogico. Nella prima, il prof. Massimo Petrini, professore emerito di Teologia Pastorale Sanitaria e già preside dell’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum”, si soffermerà sul morire del credente: «Come sarà la mia morte? Sarò solo o potrò avere accanto persone care? Che cosa mi aspetta dopo la morte? Sarò accolto dalla misericordia divina?  La seconda relazione, tenuta dalla prof.ssa Lorella Congiunti, vice Rettore della Pontificia Università Urbaniana e docente ordinario nella Facoltà di Filosofia della stessa università, approfondirà l’argomento dell’esperienza dei non credenti dinanzi alla morte: Come muoiono coloro che non credono nell’eternità?

Nel primo pomeriggio la presentazione del film «Io prima di te», fatta dal prof. Rossano Zas Friz De Col, docente di teologia spirituale nella Pontificia Università Gregoriana di Roma, offrirà un motivo di dialogo tra i partecipanti, prima della conclusione della Giornata.  

 

SCARICA DEPLIANT:

Dépliant Giornata studio sulla morte

IV DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Isaia 7,10-14

In quei giorni, il Signore parlò ad Àcaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto». Ma Àcaz rispose «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore». Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele».

 

Il brano di Isaia, che la liturgia utilizza come prima lettura, è uno dei non molti oracoli profetici che si inquadrano in una precisa cornice storica, il 785 a.C. Si tratta di un oracolo risalente veramente al profeta dell’ottavo secolo, pronunziato per il re Àcaz, che regnò su Giuda dal 743 al 727.

    In un momento in cui l’animo del re era profondamente turbato, a causa dello slancio espansivo della potenza assira, che mirava a sottomettere l’intera area della Siria-Palestina, e a causa delle minacce rivoltegli da chi (il re di Damasco e il re di Samaria) voleva attirarlo in una coalizione anti-assira, il profeta Isaia volle richiamarlo alla pura fede in Dio; gli raccomandava di non affidarsi ai suoi calcoli, che lo portavano a mettersi sotto la protezione degli Assiri; gli ripeteva che il futuro della dinastia davidica solo Dio era in grado di garantirlo. Vedendo che Àcaz restava titubante, il profeta gli diede un solenne annunzio: la giovane sposa del re (‘alma) avrebbe avuto il suo primo figlio, come segno e garanzia della divina protezione (v. 14). La forma particolarmente solenne di questo oracolo spinse la stessa tradizione giudaica a proiettarlo verso il futuro e a intenderlo in chiave messianica. Sicché i cristiani non ebbero alcuna difficoltà a intenderlo come una profezia diretta della loro fede nella concezione verginale di Gesù, il vero Emanuele, cioè Dio-con-noi.

 

Seconda lettura: Romani 1,1-7

  Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti. Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!

 

All’inizio della lettera che scrive ai Romani Paolo si autopresenta come «apostolo per chiamata», perché sia chiaro che il suo vangelo non è frutto di opera umana, ma proviene da Dio. Subito dopo introduce l’elemento centrale di questo ‘vangelo’ e precisamente la professione di fede in Gesù come Messia, figlio di Davide, annunciato dalle Scritture antiche e costituito Figlio di Dio in potenza nella risurrezione (vv. 3-4). Per quanto riguarda il titolo di «Figlio di Dio» non significa che Gesù non lo fosse prima della risurrezione, ma la risurrezione lo costituisce tale «in potenza», mentre prima egli era apparso nella debolezza della carne.

    La Chiesa, dunque, nella fede, incessantemente lo proclama Messia, Figlio di Dio, Signore. Quelli cui giunge questo ‘vangelo’ ottengono poi un dono prezioso: sono «amati da Dio e santi per chiamata».

 

Vangelo: Matteo 1,18-24

 Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

 

Esegesi 

     Questo brano del Vangelo dell’infanzia di Matteo è un esempio straordinario di quella che dobbiamo chiamare teologia narrativa. Vogliamo dire che andremmo del tutto fuori strada se intendessimo questo brano evangelico come un racconto di cronaca, quasi fosse il racconto fattoci da un testimone oculare dei fatti narrati. Quando leggiamo questo brano, dobbiamo renderci conto che l’evangelista, con esso, ha voluto evangelizzare i suoi lettori, cioè ha voluto comunicare a loro la verità profonda della nascita di Gesù, senza curarsi di dirci per quali vie e con quali espedienti egli è arrivato a conoscere e a formulare questo mistero che salva.

    Nella frase d’inizio del v. 18, l’evangelista dichiara apertamente che cosa egli vuole trasmettere con il racconto che segue. Dice infatti: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo». Appare evidente che l’oggetto della sua comunicazione è il come della nascita di Gesù. La necessità di questa spiegazione è legata alla frase speciale da lui stesso adoperata nel precedente v. 16, con cui si conclude il quadro genealogico di «Gesù Cristo, figlio di Davide,  figlio di Abramo» (1,1). Mentre per tutti i personaggi del quadro si segue lo schema “Tizio generò Caio…”, per Gesù Cristo, e solo per lui, si adopera una frase diversa e sorprendente: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo» (v. 16). Quando l’evangelista, nell’albero genealogico, ha voluto ricordare la madre di un personaggio (il che si è ripetuto quattro volte), lo ha fatto mettendo sempre in rapporto col padre la nascita del figlio, p. es.: «Booz generò Obed da Rut» (v. 5). Per Gesù, invece, l’evangelista ha nominato Giuseppe solo per dire che egli fu «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù». Una frase del genere esigeva una spiegazione. Il nostro brano assicura il lettore che avrà la spiegazione.

    Essa viene data sotto forma di una narrazione ovvero di un racconto. Da dove l’evangelista abbia preso gli elementi costitutivi del racconto è certamente argomento che merita di essere indagato. Ma questo problema non deve impedirci di cogliere la verità di fede che egli vuole comunicarci. Questa verità è che Gesù è nato per la potenza creatrice dello Spirito divino, escludendo l’apporto generativo di Giuseppe. La teologia cristiana posteriore escogiterà concetti desunti dalla metafisica e attingerà alla terminologia filosofica, per dare al mistero una formulazione ragionevole. Ma l’evangelista non ha ancora queste risorse. Egli si accinge a raccontare, nel suo libro i fatti e le parole di Gesù. Parole e fatti che spingeranno il centurione, comandante del drappello militare che ha eseguito la crocifissione, ad esclamare: «Davvero costui era figlio di Dio!» (Mt 27,54).

    Il nostro racconto può essere strutturato in tre parti. La prima parte contiene quello che può essere considerato l’antefatto: ci viene detto che Giuseppe e Maria si erano ufficialmente impegnati al matrimonio, davanti a testimoni (era questa, in quel tempo, la prima fase del matrimonio tra ebrei, che escludeva i rapporti coniugali) e attendevano di giungere alla seconda fase del matrimonio (la effettiva convivenza, che includeva i rapporti coniugali). Nella parte centrale del racconto, ci è detto come accade il grande mistero della concezione verginale di Gesù; prima che tra i due cominciasse la convivenza coniugale, iniziò, nel seno di Maria, il mistero della generazione di Gesù (v. 18); Giuseppe, uomo giusto, non esitò a cedere il passo a Dio e ai suoi piani misteriosi (v. 19); ma un angelo di Dio intervenne a fargli sapere, in sogno, che Dio includeva anche lui nel suo piano, orientato alla salvezza del mondo, dovendo egli imporre il nome a colui che sarebbe nato dallo Spirito Santo (vv. 20-21). Per sigillare la credibilità dell’avvenimento, che avvolge il messaggio di fede, l’evangelista cita la profezia di Is 7,14, che egli può rendere addirittura più esplicita di quanto non fosse nel testo originale, attingendo alla luce del fatto verificatosi (vv. 22-23). La parte conclusiva del racconto è racchiusa nel v. 25, che ribadisce il mistero della nascita verginale di Gesù, dicendo che Maria, «senza che egli (Giuseppe) la conoscesse, partorì un figlio che egli chiamò Gesù».

    Il problema della composizione letteraria del nostro brano bisogna tenerlo distinto da quello del suo significato di fede. Esso merita certamente di essere approfondito, ma solo dopo avere accolto il messaggio salvifico, con le risorse della raffinata critica letteraria.

  

Immagine della Domenica


IL SILENZIO DI SAN GIUSEPPE

«Lasciamoci “contagiare” dal silenzio di san Giuseppe

 quel silenzio in cui risuona la pienezza di fede

 che egli porta nel cuore,

 e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione.

Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria,

 custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture,

 confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù;

 un silenzio intessuto di preghiera costante,

 preghiera di benedizione del Signore,

 di adorazione della sua santa volontà

 e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza».

(Benedetto XVI, Angelus, 19 dicembre 2005).

 

Meditazione 

      L’annuncio della venuta del Signore, che domina l’Avvento, diviene nella IV domenica, annuncio dell’incarnazione, della sua venuta nella carne, evento annunciato nella profezia isaiana della nascita di un bambino, un discendente regale (I lettura) manifestato dall’annuncio angelico a Giuseppe della nascita di un figlio da Maria per opera dello Spirito santo (vangelo), proclamato dalla confessione di fede che contiene l’annuncio del Figlio nato dalla stirpe di David secondo la carne e costituito Figlio di Dio secondo lo Spirito mediante la resurrezione (II lettura) . Questo annuncio chiede fede e obbedienza: se Àcaz, con la sua disobbedienza, mostra la sua incredulità (I lettura), Giuseppe crede all’angelo e gli obbedisce (vangelo); ciò che Dio ha compiuto in Gesù Cristo e che l’Apostolo annuncia agli uomini è volto a ottenere «l’obbedienza della fede» da parte delle genti, ovvero, la fede che si esprime come obbedienza e l’obbedienza che è fondata sulla fede (II lettura). Vi è un intrinseco rapporto tra fede e obbedienza: la fede consiste nell’obbedire e l’obbedienza consiste nel credere.

    Il testo matteano, chiamato «l’annunciazione a Giuseppe», pone in rilievo la figura di Giuseppe quale uomo di fede e di silenzio. Il silenzio di Giuseppe è segno di forza, di lavoro interiore, di dominio di sé e delle situazioni, di fede. Ed è un silenzio che trova luce nel buio in cui Giuseppe è sprofondato. La gravidanza di Maria mette in crisi la storia che egli stava progettando con lei, eppure il testo biblico suggerisce che non vi è situazione umana, per quanto lacerante o dolorosa o contraddicente, che non possa essere vissuta con umanità e con santità.

    Se la reazione normale sarebbe stata quella di ripudiare la donna, «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Invece di ripudiare Maria, abbandonandola al generale disprezzo e compromettendola pubblicamente, Giuseppe sceglie un’altra soluzione, sceglie una via giusta e umana, giusta perché umana. La giustizia di Giuseppe è nel suo essere umano.

    «Il giusto dev’essere umano» (Oportet iustum esse et humanum: Sap 12,19). Solo questa giustizia, infatti, onora l’immagine di Dio che è nell’uomo, nel creditore come nel debitore, nel santo come nel peccatore. La giustizia umana di Giuseppe guarda alla persona di Maria e non la sacrifica a un’interpretazione letterale delle leggi in cui della persona si vede solo il peccato, la mancanza, l’errore. Vi è qui una parola forte che mette in guardia i cristiani dal rischio di inumanità che i rapporti intraecclesiali possono sempre conoscere: quando il volto di una persona è cancellato dal suo ruolo, quando i singoli sono sacrificati alle leggi ecclesiastiche, quando le relazioni sono spersonalizzate e funzionali, quando la persona diviene mezzo e non fine. La chiesa «esperta di umanità» non può che essere umana, non può che dar prova di questa esperienza con una concreta e quotidiana pratica di umanità. L’annuncio dell’incarnazione diviene anche, per la chiesa, esortazione a essere umana.

    Proprio su questa umanità si innesta la fede che va oltre la giustizia umana e realizza il volere di Dio portando Giuseppe a prendere con sé Maria come sua sposa. Così, lo scandalo diviene rivelazione, l’evento di contraddizione diviene occasione di obbedienza a Dio e di realizzazione della sua opera di salvezza. Non solo Giuseppe non rifiuta, non ripudia, non condanna, ma accoglie, prende con sé, comprende.

    Questo cammino interiore che conduce Giuseppe all’obbedienza della fede avviene tramite la sua riflessione, il suo pensare (Mt 1,20) e tramite l’accoglienza della parola del Signore, parola condensata nella citazione scritturistica di Is 7,14 (Mt 1,22). Il sogno, in effetti, nel mondo biblico è mezzo di rivelazione in quanto veicolo di una parola di Dio. L’elemento decisivo nel sogno non è la visione, ma la parola: «In sogno io parlo a lui», dice Dio a Mosè (Nm 12,6). All’epoca di Gesù, il sogno era chiamato «piccola profezia» al cuore della notte e del sonno simbolo della morte, il sogno sorge come una piccola luce che può rischiarare la vita.

 

Preghiere e racconti

 

La verità di Dio

Giuseppe è della stessa tempra di Maria: un credente in ascolto di ciò che gli avviene. La notizia della maternità prossima di Maria non suscita in lui alcuna reazione difensiva. Di lui non si conserva alcuna parola. Non è una persona che parla o aggiusta le cose a proprio vantaggio: si limita ad ascoltare ciò che l’angelo gli rivela. La verità di Dio è più importante di ciò che Giuseppe vive. E questa verità Giuseppe la rispetta senza alcuna aggressività, senza nemmeno pensare a difendersi. Sia per Maria che per Giuseppe, l’annunciazione è una cosa incredibile. Nessuno può essere all’altezza di una simile verità. Nonostante questo, non vi è nessuno scetticismo, nessun comportamento attendista, nessuna presa di distanza, niente che faccia pensare a un sentimento di rivalsa. Solo fede e abbandono. Maria e Giuseppe hanno rinunciato alla loro verità per entrare in quella di Dio.

E noi? Noi non possiamo essere felici, se non riusciamo a leggere in profondità gli eventi della nostra esistenza. Dio è presente nella nostra esistenza: in nessuna delle sue vicende manca il suo disegno, la sua intenzione di dirci qualche cosa. È una verità da scoprire anche in questo momento.

(G. DANNEELS, Le stagioni della vita, Brescia 1998, 210-211).

 

La storia di Giuseppe

La dinamica dell’incarnazione è oggi possibile intravederla nella storia di Giuseppe, così come ce la narra il vangelo di Matteo. In lui la presenza di Dio si fa scorgere all’interno di un umanissimo e normalissimo comportamento: la perplessità, il dubbio, la necessità di fermarsi per comprendere il da farsi davanti ad un fatto inatteso e sconvolgente. “Mentre stava pensando a queste cose” Dio gli parla, dice il vangelo. Il “sogno” – che nel linguaggio biblico è sinonimo di rivelazione divina – avviene mentre sta pensando, attività umanissima! Non mentre sta dormendo, ma mentre sta vigilando, sta vivendo fino in fondo, da uomo sveglio e pensoso, la situazione di quel momento. E’ dunque mentre come ogni persona sta cercando di riflettere sull’accaduto, che Dio gli dona di trovare un senso nuovo a ciò che gli capitando, rendendolo capace di vedere le cose da un altro punto di vista. Non fuori da una normale attività di riflessione, ma al suo interno, grazie ad essa e tramite essa, Dio si fa presente nella vita di Giuseppe. Lo straordinario si riveste di ordinarietà per farsi vicino alla sua vita di uomo. E così è per il movimento inverso: il dono di questa rivelazione diventa per Giuseppe l’inizio di un cammino umano di maggiore responsabilità e di paternità: “prese con sé la sua sposa”, conclude l’evangelista, indicando l’inizio di una storia familiare che avrebbe percorso il cammino di tutte le famiglie degli uomini e delle donne, con le sue gioie e le sue fatiche. La grazia di Dio diventa in lui responsabilità umana, la rafforza aiutando il pensiero di Giuseppe a diventare scelta di vita, atteggiamento che sa custodire ed amare: non è forse come “custode” che noi ricordiamo la figura di Giuseppe? E custodia non è l’umana, quotidiana scelta di ogni amante autentico, che sa farsi premura e protezione per l’amato? Il dono di Dio spinge Giuseppe verso la normalità e la pienezza della sua vita, in cui riflessione e amore, pensiero e decisione, timore pensoso e coraggio di camminare verso il futuro, ricominciano il loro cammino. I doni di Dio traboccano sempre, dunque, in itinerari umani. E’ la legge dell’incarnazione.

 

San Giuseppe, il Padre che ha protetto Maria e accompagnato Gesù

San Giuseppe, ormai accreditato come esemplare capofamiglia tanto che il giorno della sua festa (19 marzo) è dedicato, appunto, a tutti i papà in realtà dovette confrontarsi continuamente con il vero “Padre” per eccellenza, che ne ha segnato l’ esistenza, che si è intromesso continuamente nel suo cammino, sconvolgendo spesso i criteri comuni, i legittimi sogni e le abituali vie, proprie della nostra umanità. Quale inaspettata vocazione attendeva quell’uomo, mite e buono; “giusto”, come sobriamente annota il Vangelo di Matteo! Lui, padre “putativo”, ha dovuto fare i conti con la Volontà di un Padre infinitamente più grande, che gli ha posto improvvisamente innanzi l’esigenza di incarnare un amore purissimo, verginale, per la più bella e la più santa delle creature: l’Immacolata. Come se ciò non bastasse, fu addirittura chiamato dal Cielo a custodire il tesoro più prezioso, accogliendo, sotto il suo tetto -nella sua casa!- il Signore, il Dio degli eserciti.

Colui che ha creato i cieli con la sua Parola visse con lui, nella famigliarità di Nazareth, imparando a crescere e a diventare uomo attraverso i gesti e le parole di Maria Santissima e del suo Sposo, con il quale Gesù ha lavorato, come apprendista, nella bottega di carpentiere; assimilando i segreti di quell’arte e condividendo la fatica di ogni giorno, come qualunque operaio, in un mirabile scambio di ruoli  tra Creatore e creatura- per il quale l’Onnipotente si è messo umilmente alla scuola dei suoi cari.

È difficile cercare di comprendere che cosa abbia attraversato il cuore di Giuseppe nell’ora della prova, quando scorse i segni inequivocabili di una gravidanza inattesa. Tutto è riassunto in pochi e rapidi tratti, perfetti nella loro sobrietà: mentre pensava a queste cose…

Mentre, nell’ora dell’angoscia, elevava la sua sofferta preghiera all’Altissimo, la luce di una sorprendente rivelazione consolava inaspettatamente il cuore. I disegni di Dio sono sempre imperscrutabili, inaccessibili le sue vie. Ci sono voluti Angeli e visioni notturne per provare a capirne qualcosa in più, per accedere, pur timidamente, al cuore del Mistero, che andava realizzandosi nel purissimo seno di Maria. Senza arrendersi mai, quell’uomo buono si è rimesso sempre in marcia. Ha camminato verso Betlemme; con lo stupore di un bimbo ha inteso i Serafini esultare e i Pastori adorare suo figlio, in quella povera stalla. Ha percorso le vie dell’esilio, ha proseguito, per lunghi anni, a servire la sua Sposa e Gesù nella dimora di Nazareth, tra il lavoro, il sudore, la preghiera e i ritmi della vita quotidiana. Con un amore che non ha eguali, a cui nessun anima potrà mai pervenire, ha protetto e venerato Maria Santissima, con una confidenza e intimità e, al tempo stesso, con una discrezione incomparabili.

Le vie di Dio Padre si sono intrecciate con la sua vita. Ha accettato tutto: di essere padre, senza aver generato suo figlio; di vedere Gesù preso dalle cose del Padre suo, in un rapporto esclusivo, che sovrastava qualunque altro legame. Tutto ha accettato, senza gelosie, in silenzio, in un silenzio che impressiona, che quasi “scandalizza” per la sua fede illimitata, che ci fa piangere di tenerezza pensando alla sua totale e irrevocabile fiducia nel Signore. Tutto ha offerto senza ripensamenti o rimorsi o cedimenti, perché quello era il volere di Jahvé, quella era la Volontà del Padre, di suo Padre, di cui lui ha avuto la impareggiabile grazia di rappresentare in terra l’immagine più credibile e amabile. Con lui ripercorriamo i passi nella fede di chi ha posto la sua totale fiducia nell’Altissimo, non come passivo esecutore di comandi, ma con la piena coscienza e responsabilità di cooperare, da protagonista, a un progetto universale di salvezza, con lo stile sobrio e riservato di chi ama, lavora e opera in silenzio, sotto il solo sguardo di Dio. Tutti abbiamo bisogno di un Padre così, in Cielo, ma anche sulla terra, e non soltanto per avere un riferimento rassicurante -che aiuti a superare i momenti di smarrimento e il vuoto della vita- quanto piuttosto per ritrovare continuamente il senso e la fragranza del nostro cammino, riscoprendo la bellezza delle nostre origini e lo splendore di un orizzonte di luce, che si apre dinanzi agli occhi. Abbiamo bisogno dell’amore forte e senza riserve di chi ci ha generati alla esistenza, ma che sappia anche accompagnare i nostri passi, ridare vigore nella stanchezza, sdrammatizzare nei momenti della prova, indicare la strada. Abbiamo bisogno di padri che sappiano dialogare con i propri figli, anche se spesso è difficile guardarsi negli occhi, per quell’innato pudore che crea riservatezza e imbarazzo, ma che l’affetto aiuta a sciogliere e a far fiorire in un sorriso confidente. Abbiamo bisogno di chi sappia sognare la vita con noi, magari complice delle nostre ingenue birichinate infantili o delle nostre fantasie adolescenziali, ma capace anche di ricondurci alla realtà e di aiutarci ad affrontare, con maturità e responsabilità, la fatica quotidiana. Non si è padri solo perché biologicamente genitori, ma in quanto si dona la vita ai propri figli momento per momento, attraverso il sacrificio quotidiano, il proprio esempio, il dialogo e la preghiera. L’assenza dei genitori è una delle rovine più gravi della nostra epoca, che provoca profonde ferite nel cuore dei ragazzi. Presi dalle proprie occupazioni o vittime delle frequenti sciagure che investono le famiglie incomprensioni, separazioni, divisioni- spesso non si ha il tempo da dedicare ai figli. Abbiamo bisogno, oggi più che mai, della intercessione e della benedizione di quell’umile falegname, prescelto da Dio a custodire la Sacra Famiglia e tutte le nostre case. Per la sua preghiera e per i meriti della sua eroica Fede ritorni la luce e la pace nel nostro spirito. Come lui, impariamo a dedicarci instancabilmente alle cose di Dio e a essere i premurosi custodi della sua Grazia, nel cuore dei nostri cari.

(Tratto da “Maria di Fatima”, mensile della Famiglia del Cuore Immacolato di Maria)

 

Per questo il Verbo si è fatto uomo                                               

Il Figlio congiunse e unì l’uomo a Dio. Se non fosse stato un uomo a vincere il nemico dell’uomo, il Nemico non sarebbe stato vinto secondo giustizia. Del resto se non fosse stato Dio a dare la salvezza, non l’avremmo ricevuta in modo stabile. E se l’uomo non fosse stato unito a Dio, non avrebbe potuto partecipare all’incorruttibilità. Occorreva infatti che il mediatore tra Dio e l’uomo, grazie alla sua parentela con tutti e due, riconducesse l’uno e l’altro all’amicizia e alla concordia e facesse sì che Dio accogliesse l’uomo e l’uomo si offrisse a Dio. In che modo avremmo potuto essere partecipi dell’adozione filiale (cfr. Gal 4,5) se, attraverso il Figlio, non avessimo ricevuto da Dio la comunione con lui e se il suo Verbo non fosse entrato in comunione con noi facendosi carne? […] Per questo il Verbo si è fatto uomo e il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo, affinché l’uomo, mescolandosi al Verbo e ricevendo l’adozione filiale, divenga figlio di Dio. Non potevamo ricevere in altro modo l’incorruttibilità e l’immortalità se prima l’incorruttibilità e l’immortalità non fosse divenuta ciò che siamo noi, affinché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruttibilità e ciò che era mortale dall’immortalità (cfr. 1Cor 15,53-54; 2Cor5,4), affinché ricevessimo l’adozione filiale? Per questo «chi racconterà la sua generazione?» (Is 53,8). Poiché è uomo e chi dunque lo conoscerà? (cfr. Ger 17,9). Lo conosce colui al quale il Padre che è nei cieli lo ha rivelato (cfr. Mt 16,17) facendogli capire che il Figlio dell’uomo (cfr. Mt 16,12), «nato non da volontà di carne ne da volontà d’uomo» (Gv 1,13) è il Cristo, «il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

(IRENEO DI LIONE, Contro le eresie 3,18,7-19,1-2, SC 211, pp. 364-366; 374-376).

 

L’abbraccio di Giuseppe e di Maria

Da questa icona emerge una calda atmosfera di tenerezza e di castità. I due santi sposi si abbracciano con il trasporto e la solidarietà di chi vive nello Spirito.

Dietro a loro c’è il tavolo da lavoro di Giuseppe con gli umili utensili dell’attività quotidiana, segno di una vita ordinaria intessuta di fatica e di gioia, di sofferenza e di speranza.

Sullo sfondo vediamo la città: a sinistra la vecchia Gerusalemme e a destra la nuova.

In alto, un panno rosso indica la protezione divina sull’amore coniugale, mentre il tappeto rosso sotto i piedi degli sposi indica il percorso di reciproca donazione a cui tende la vita di ogni coppia: è un cammino regale e santo, magnifico e benedetto, che da vita a una nuova famiglia, plasmata dalla bontà del Signore per proclamare le sue lodi e per portare nel mondo una scintilla del suo Amore eterno e fedele.

 

Laudato sii, mio Signore,

per questo nostro infinito amore.

A te ritornerà come goccia nel mare.

Laudato sii, mio Signore,

per il forte desiderio di amare

che ci hai posto in cuore…

Laudato sii, mio Signore,

per il desiderio mai saziato di te,

unico Amore,

del quale stesso amore

ci amiamo senza mai sazietà,

per il quale amore è più desiderabile soffrire

che non possederlo.

Laudato sii, mio Signore,

per questa nostra esistenza

che ti degni di condurre provvidente,

e per la quale, grati,

ti benediciamo.

Laudato sii, mio Signore,

per ogni evento della tua volontà,

che su di noi troverà il suo compimento…

Laudato sii, mio Signore,

per il nostro infinito amore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.

Adviento y Navidad, in «Sal Terrae» 101 (2013) 1.184, número monográfico.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

IV DOMENICA DI AVVENTO