51ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

Nel giorno della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, è stato presentato il Messaggio di Papa Francesco per la 51ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, in calendario per domenica 28 maggio 2017.
La fiducia, afferma Papa Francesco, “ci rende capaci di operare – nelle molteplici forme in cui la comunicazione oggi avviene – con la persuasione che è possibile scorgere e illuminare la buona notizia presente nella realtà di ogni storia e nel volto di ogni persona”.
Il filo con cui si tesse la storia sacra tra Dio e l’umanità, ricorda ancora il Papa, “è la speranza e il suo tessitore non è altri che lo Spirito Consolatore”.

In allegato il testo integrale del Messaggio e il manifesto preparato per la Giornata dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali.
Sempre a cura dell’Ufficio, è in linea il sito internet dedicato a raccogliere contributi, approfondimenti e proposte di animazione per la celebrazione della Giornata.

 

Indagine sull’ora di religione

“Di quale «religione» hanno bisogno i giovani per vivere in maniera consapevole nella società attuale? Oggi l’Irc mira alla formazione umana degli studenti, una formazione che non può dirsi completa senza essersi interrogata sulla dimensione religiosa della persona”. Lo ha affermato il Segretario Generale della CEI, il vescovo Nunzio Galantino, presentando la quarta indagine nazionale sull’Insegnamento della religione cattolica, a trent’anni dalla revisione del Concordato.
Il volume, edito dalla Elledici e curato da Sergio Cicatelli e Guglielmo Malizia, si intitola “Una disciplina alla prova”. In allegato una sintesi dell’indagine e il testo dell’intervento di Mons. Galantino.

file attached   Intervento di Mons. Galantino
file attached   Sintesi dell’indagine

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Sofonia 2,3; 3,12-13

 Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore. «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero». Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele. Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta. Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti.

 

  • Queste parole del profeta Sofonia nascono da un medesimo contesto: un lungo periodo di dominazione straniera, quella assira, che aveva introdotto in Israele culti idolatrici, che legittimavano l’ingiustizia e l’immoralità. Per tre volte il popolo è invitato ora a mettersi alla ricerca di Dio. Non si tratta solo di andare a pregare nel tempio del vero Dio, ma di cercarlo nella vita concreta di ogni giorno, con una condotta conforme alla legge divina, che porti la giustizia nella società umana. L’invito a cercare l’umiltà significa farsi piccoli davanti a Dio, riconoscendo la propria indigenza.

         L’essere piccolo è un atteggiamento che si rivelerà decisivo nel momento del giudizio. Tutti coloro che si credono Dio, i superbi e i vanagloriosi, non reggeranno in quel giorno. Resterà solo il nuovo popolo di coloro che confideranno nel nome del Signore, che non sarà più un resto disprezzato dagli altri popoli, perché il Signore sarà con loro. Al centro del mondo nascerà un popolo che ha rinunciato alla violenza, all’oppressione, all’ingiustizia. In quel popolo non esisterà più la miseria, la fame, la guerra o il terrore: «Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti».

     

Seconda lettura: 1Corinzi 1,26-31

Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili.  Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.  Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.

 

  • Paolo invita a giudicare la realtà — e qui in concreto la realtà della comunità di Corinto — con gli occhi di Dio, per il quale quello che è debolezza è potenza, quello che stoltezza è sapienza. Realisticamente i saggi, i potenti e i ricchi hanno in mano le sorti del mondo. Con gli occhi della nostra ragione li vedremmo tra i primi ad essere scelti da Dio. Dio invece sceglie come suoi strumenti i deboli, i piccoli e i disprezzati. Non è Dio che si deve adattare alla mentalità dell’uomo, ma è l’uomo che si deve adattare alla misura di Dio.

         Nella comunità di Corinto c’erano anche sapienti, nobili e ricchi, ma il sapere, la nobiltà e la ricchezza non definivano il cristiano. Anzi dal punto di vista umano la comunità di Corinto non poteva vantare storia passata: era un nulla. È stato Dio a mettere insieme uomini e donne molto diversi tra loro, inserendoli nella comunione di Cristo. Il cristiano, cosciente della propria debolezza, non si vanterà delle proprie forze, dei propri criteri di giudizio, ma di tutto ciò che viene dal Signore, che lo fa rivivere in un modo nuovo. È esclusa perciò qualsiasi vanagloria.

 

Vangelo: Matteo 5,1-12a  

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di

male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra

ricompensa nei cieli».

 

Esegesi

     Il brano del vangelo di oggi è tratto dal «Discorso della montagna» (Mt 5-7), in cui l’evangelista Matteo raccoglie come in un programma vari discorsi di Gesù. Non è la prima parola che ascoltavano i cristiani della chiesa primitiva. Prima avevano già accolto nel cuore la fede attraverso un primo annuncio di Cristo morto e risorto. Già sperimentavano la forza dello Spirito Santo. A questi fratelli la chiesa proponeva quindi un’ulteriore catechesi presentando l’icona dell’uomo nuovo. Ecco, si diceva, quello che diventerete se vi lasciate trasformare dalla forza dello Spirito del Signore che è in voi.

     Il discorso, o catechesi, incomincia con l’espressione «Beati», come la prima parola del Sal 1, con cui inizia il Salterio. Nel Sal 1 è proclamato beato chi ascolta e accoglie nel cuore, meditandola, la legge di Dio, qui è beato chi accoglie con fede la nuova legge, quella del nuovo Mosè, Gesù Cristo.

     L’uomo nuovo nato dal battesimo è felice, perché vede progressivamente delinearsi nella sua vita quello che Gesù disse ai suoi apostoli: egli sarà un uomo povero in spirito, che sa di non poter provocare a forza l’avvento del Regno di Dio, ma è il primo ad attenderlo con umiltà dall’alto. Quest’uomo nuovo sarà anche afflitto, cioè discriminato e perseguitato dal mondo a lui ostile, ma alla fine sarà consolato dal Signore col poter ereditare, come dice il Sal 37,11, la terra, che corrisponde al regno dei cieli. Sarà ancora un uomo e una donna che avrà fame e sete della giustizia, cioè di compiere la volontà di Dio, rivelata nelle Scritture e attuata da Cristo. Saranno uomini che seguiranno le orme di Cristo nelle vie della misericordia e nella disponibilità al perdono, saranno puri di cuore, cioè sinceri nel rapporto con Dio e con il prossimo, pacificatori: promuoveranno attivamente la riconciliazione. Tutti costoro saranno anche perseguitati, come Gesù Cristo, a motivo della loro fedeltà alla volontà di Dio. Si aggiunge infine una beatitudine anche per le comunità che al tempo dell’evangelista sono provate dalla discriminazione per la propria adesione a Gesù Cristo. Queste sofferenze e tribolazioni le uniscono ancor più strettamente a lui. Devono gioire perché, come Gesù Cristo, sperimenteranno anche la gioia della risurrezione.   

 

Immagine della Domenica

 

AMIENS (FRANCIA) –  2015

 


Splendida felicità

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,

ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia,

chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco

e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,

proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno

sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti

all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro,

chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno,

chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica,

chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,

chi non si lascia aiutare;

chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,

chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,

chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo

richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

Pablo Neruda

 

Meditazione

La predilezione di Dio è per i poveri e gli umili (I lettura), per i poveri in spirito (vangelo). La comunità cristiana di Corinto dice la II lettura, che pur proseguendo la lectio semicontinua della I Lettera ai Corinti, rientra in qualche modo nel messaggio unitario delle altre due letture, è formata da persone irrilevanti dal punto di vista sociale ed economico: Dio infatti sceglie ciò che è debole, ignobile e disprezzato per confondere le grandezze mondane.

La parola profetica, che trasmette lo sguardo di Dio sull’uomo, svela che l’autentico popolo di Dio è un resto, un resto formato da chi è giusto, fedele, mite, non orgogliosamente autosufficiente, ma cosciente della sua dipendenza da Dio e del suo status di «cercatore» di Dio e della sua giustizia (I lettura); lo sguardo di Gesù sulle folle svela che il vero discepolo è designato non da un’appartenenza esteriore, ma da una realtà intima fatta di mitezza, purezza di cuore, povertà in spirito, misericordia (vangelo).

Entrare nello spirito delle beatitudini significa entrare nello sguardo di Dio sulla realtà umana e scoprire che, in Cristo, anche situazioni di afflizione o persecuzione possono essere vissute come beatitudine: la beatitudine di chi sa di aver veramente qualcosa in comune con Gesù, il beato per eccellenza perché mite, misericordioso, povero in spirito. La beatitudine offerta è la gioia intima della comunione con il Signore sperimentata in situazioni concrete in cui anche Gesù si è trovato e, soprattutto, che ha vissuto come occasione di amore e di dedizione. È la gioia del servo che si trova là dove anche il suo Signore è stato (cfr. Gv 12,26). È la gioia di chi partecipa al sentire e al volere di Cristo (cfr. Fil 2,5).

Come intendere la beatitudine dei misericordiosi (Mt 5,7)? È la beatitudine di coloro che credono l’umanità e la dignità dell’uomo sempre, anche quando l’uomo stesso, per sua colpa o per disgrazia, l’ha smarrita o opacizzata. La misericordia crede ostinatamente l’umanità del colpevole e la restaura con il perdono. La misericordia è l’amore incondizionato, che ama ciò che non è amabile o che si è reso spregevole; è memoria e pratica della dignità umana nei confronti di chi l’ha offuscata. Essa crede la dignità umana anche del criminale, del pedofilo, del reietto, dell’uomo ridotto a niente, dell’uomo difforme rispetto alla normale e comunemente accettata forma umana, come il Servo di cui parla Isaia 53, il «senza dignità» per eccellenza. La misericordia rispetta l’uomo nella sua nullità, nella sua miseria estrema, quando non è (più) utile o interessante per le condizioni di dipendenza o deprivazione che lo affliggono. La misericordia rifiuta di ridurre l’uomo alle colpe, pur mostruose, di cui può essersi macchiato. E continua a confessare l’umanità di colui che ha perso ragione e memoria, parola e volontà.

E la beatitudine dei miti? La mitezza è l’arte di addomesticare la propria forza, dimostrando di essere più forti della propria forza. Strumento della mitezza è la parola e suo metodo è il dialogo. Se Gesù è la mitezza fatta persona («Io sono mite e umile di cuore»: Mt 11,29), lo è in quanto parola fatta carne, parola interposta da Dio fra sé e gli umani non per imporre loro qualcosa, ma per invitarli alla relazione, a entrare nel dialogo con Lui.

Paolo VI ha ben espresso il fatto che la mitezza è inerente al dialogo: «Carattere proprio del dialogo è la mitezza: il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo…; è pacifico, evita i modi violenti, è paziente e generoso» (Ecclesiam suam 7). È la mitezza che custodisce la parola come fattore di comunicazione e di relazione e la preserva dal rischio di divenire arma. Così la beatitudine dei miti diviene anche giudizio nei confronti di chi non pratica la mitezza e di chi fa della parola uno strumento per sopraffare, per zittire, per imporre, per mistificare, per abusare, per illudere, per ingannare, per adulare.

Ogni beatitudine ha il suo risvolto negativo e implica un giudizio e un appello a conversione nei confronti di chi non è misericordioso, né mite, né povero in spirito, di chi perseguita e calunnia, di chi provoca afflizione, semina guerra e ingiustizia. 

 

Preghiere e racconti

In questa quarta domenica del Tempo Ordinario, il Vangelo presenta il primo grande discorso che il Signore rivolge alla gente, sulle dolci colline intorno al Lago di Galilea. «Vedendo le folle  scrive san Matteo , Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro» (Mt 5,1-2). Gesù, nuovo Mosè, «prende posto sulla “cattedra” della montagna» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, p. 88) e proclama «beati» i poveri in spirito, gli afflitti, i misericordiosi, quanti hanno fame della giustizia, i puri di cuore, i perseguitati (cfr Mt 5,3-10). Non si tratta di una nuova ideologia, ma di un insegnamento che viene dall’alto e tocca la condizione umana, proprio quella che il Signore, incarnandosi, ha voluto assumere, per salvarla.

Perciò, «il Discorso della montagna è diretto a tutto il mondo, nel presente e nel futuro … e può essere compreso e vissuto solo nella sequela di Gesù, nel camminare con Lui» (Gesù di Nazaret, p. 92).

Le Beatitudini sono un nuovo programma di vita, per liberarsi dai falsi valori del mondo e aprirsi ai veri beni, presenti e futuri. Quando, infatti, Dio consola, sazia la fame di giustizia, asciuga le lacrime degli afflitti, significa che, oltre a ricompensare ciascuno in modo sensibile, apre il Regno dei Cieli. «Le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli» (ibid., p. 97). Esse rispecchiano la vita del Figlio di Dio che si lascia perseguitare, disprezzare fino alla condanna a morte, affinché agli uomini sia donata la salvezza.

Afferma un antico eremita: «Le Beatitudini sono doni di Dio, e dobbiamo rendergli grandi grazie per esse e per le ricompense che ne derivano, cioè il Regno dei Cieli nel secolo futuro, la consolazione qui, la pienezza di ogni bene e misericordia da parte di Dio … una volta che si sia divenuti immagine del Cristo sulla terra» (Pietro di Damasco, in Filocalia, vol. 3, Torino 1985, p. 79).

Il Vangelo delle Beatitudini si commenta con la storia stessa della Chiesa, la storia della santità cristiana, perché come scrive san Paolo  «quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1 Cor 1,27-28). Per questo la Chiesa non teme la povertà, il disprezzo, la persecuzione in una società spesso attratta dal benessere materiale e dal potere mondano.

Sant’Agostino ci ricorda che «non giova soffrire questi mali, ma sopportarli per il nome di Gesù, non solo con animo sereno, ma anche con gioia» (De sermone Domini in monte, I, 5,13: CCL 35, 13).

Cari fratelli e sorelle, invochiamo la Vergine Maria, la Beata per eccellenza, chiedendo la forza di cercare il Signore (cfr Sof 2,3) e di seguirlo sempre, con gioia, sulla via delle Beatitudini.

(Benedetto XVI, Angelus, 2011).

 

Il pericolo di diventare ricchi in spirito

«Secondo i Padri della Chiesa, le beatitudini riguardano innanzitutto Gesù che “si fece povero, riducendosi alla condizione di servo” (Basilio, Sul salmo 33,5), che si mostrò mite, pacifico e che fu perseguitato (cf. Origene, Su Luca 38,1-2). Ma va anche osservato che per i Padri “povero in spirito” non designa solo la povertà materiale, ma l’atteggiamento di chi non pensa di salvarsi da sé stesso, ma resta in attesa e confida nel Signore.

“Non ogni povertà è beata, perché spesso è dovuta alla necessità degli eventi, o è provocata  da una vita malvagia”, afferma Cromazio (Discorsi, 41,2). Il discepolo di Gesù si fa “a motivo del Signore”, o “accetta la povertà qualunque ne sia l’origine” (Basilio, Regole brevi 205), nell’amore e nella fiducia nel Signore.

La prima dimensione della povertà in spirito è quella creaturale: nulla ci appartiene, tutto è dono; io non sono mio, sono un dono a me stesso, dono che il Padre mi ha fatto attraverso umane mediazioni e che devo custodire. Povertà in spirito è fidarsi di colui che mi ha pensato, voluto, creato, inviato in questo mondo perché con la mia vita diventassi narrazione del suo amore per gli uomini.

C’è anche un’altra ricchezza che si oppone alla povertà in spirito, quella dell’uomo religioso, di chi si sente giusto, forte delle proprie opere buone. “È ricco in spirito chi ha un’elevata concezione di sé, chi è arrogante e non adempie il precetto di Cristo” (Pseudo-Crisostomo, Opera incompleta su Mt 9,1).

Il povero non ha nulla, non le ricchezze, ma neppure le proprie virtù, le opere buone. È povero anche dei suoi peccati, della parte negativa di sé; tutto questo lo ha consegnato al Signore perché nella sua misericordia lo perdoni e lo trasfiguri. Per Gregorio di Nissa l’umiltà è l’asse dinamico della povertà evangelica: così i poveri sono beati perché conformi al Cristo povero, loro fratello e loro Signore».

(Enzo Bianchi).   

 

Beati voi!

«Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”».

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

 

Le beatitudini nella Bibbia d’Israele

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato 1992,542s.).

 

La felicità delle beatitudini

Le beatitudini indicano il cammino della felicità. E, tuttavia, il loro messaggio suscita spesso perplessità. Gli Atti degli apostoli (20,35) riferiscono una frase di Gesù che non si trova nei vangeli. Agli anziani di Efeso Paolo raccomanda di «ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”». Da ciò si deve concludere che l’abnegazione sarebbe il segreto della felicità? Quando Gesù evoca ‘la felicità del dare’, parla in base a ciò che lui stesso fa. È proprio questa gioia – questa felicità sentita con esultanza – che Cristo offre di sperimentare a quelli che lo seguono. Il segreto della felicità dell’uomo sta dunque nel prender parte alla gioia di Dio. È associandosi alla sua ‘misericordia’, dando senza nulla aspettarsi in cambio, dimenticando se stessi, fino a perdersi, che si viene associati alla ‘gioia del cielo’. L’uomo non ‘trova se stesso’ se non perdendosi ‘per causa di Cristo’. Questo dono senza ritorno è la chiave di tutte le beatitudini. Cristo le vive in pienezza per consentirci di viverle a nostra volta e di ricevere da esse la felicità.

Resta tuttavia il fatto, per chi ascolta queste beatitudini, che deve fare i conti con una esitazione: quale felicità reale, concreta, tangibile viene offerta? Già gli apostoli chiedevano a Gesù: «E noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che ricompensa avremo?» (Mt 19,27). Il regno dei cieli, la terra promessa, la consolazione, la pienezza della giustizia, la misericordia, vedere Dio, essere figli di Dio. In tutti questi doni promessi, e che costituiscono la nostra felicità, brilla una luce abbagliante, quella di Cristo risorto, nel quale risusciteremo. Se già fin d’ora, infatti, siamo figli di Dio, ciò che saremo non è stato ancora manifestato. Sappiamo che quando questa manifestazione avverrà, noi saremo simili a lui «perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).

(J.-M. LUSTIGER, Siate felici, Marietti, Genova, 1998, 111-117).

 

Chi ci separerà dall’amore di Cristo?

Sono indicati come poveri di spirito gli umili e quelli che temono Dio, cioè che non hanno uno spirito borioso. E non conveniva che la beatitudine cominciasse da altro dal momento che deve giungere alla somma sapienza. «Inizio della sapienza, infatti, è il timore del Signore» (Sir 1,12); al contrario, «inizio di ogni peccato è la superbia» (Sir 10,12). I superbi dunque desiderino e amino pure i regni della terra, ma «beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt5,3).

«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5), quella terra, credo, della quale si dice nei salmi: «Sei tu la mia speranza, la mia porzione nella terra dei viventi» (Sal 141[142],6). […] Sono miti, dunque, coloro che non cedono alla cattiveria e non oppongono resistenza al male, ma vincono il male con il bene (cfr. Rm 12,21). Litighino dunque quanti non sono miti e lottino per i beni della terra, per i beni di questo mondo, ma «beati i miti perché avranno in eredità la terra», quella da cui non possono essere scacciati.

«Beati coloro che piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Il pianto è la tristezza per la perdita dei cari… Saranno consolati dallo Spirito santo che soprattutto per questo è detto Paraclito, cioè consolatore, perché a quelli che perdono la gioia in questo mondo dona quella eterna.

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6). Di costoro si dice che amano il bene vero e incrollabile. Saranno dunque saziati di quel cibo, di cui il Signore stesso dice: «Mio cibo è fare la volontà del Padre mio» (Gv 4,34); è questa la giustizia. Essa è quell’acqua di cui chiunque berrà, come egli stesso dice, «scaturirà in lui una sorgente che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).

«Beati i misericordiosi, perché di loro si avrà misericordia» (Mt 5,7). Dice beati quelli che vengono in aiuto ai miseri, perché in cambio saranno liberati dalla miseria. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Sono dunque sciocchi quelli che cercano Dio con gli occhi del corpo, poiché è con il cuore che lo si vede, come è scritto in un altro passo: «Cercatelo nella semplicità del cuore» (Sap 1,1). Un cuore puro è un cuore semplice. E come la luce del giorno si può vedere soltanto con gli occhi puri, così anche Dio non lo si vede se non è puro il cuore con il quale lo si vede.

«Beati gli operatori di pace, perché saranno considerati figli di Dio» (Mt 5,9). Nella pace vi è la perfezione, in essa non vi sono contrasti, perciò gli operatori di pace sono figli di Dio, perché in essi nulla si oppone a Dio e i figli devono mantenere la somiglianza con il Padre. E continua: «Beati coloro che soffrono persecuzione a causa della giustizia, perché di essi è il regno deicidi» (Mt 5,10).

Sono in tutto otto beatitudini […]. L’ottava ritorna, in certo senso, alla prima, perché mostra che essa è stata compiuta e realizzata. Difatti nella prima e nell’ottava è stato nominato il regno dei cieli: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli»; e «Beati coloro che soffrono persecuzioni a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Dice infatti la Scrittura: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35).

(AGOSTINO DI IPPONA, Il Discorso del Signore sul monte, 1-3, Opere di sant’Agostino, parte I/X/2, pp. 84-90).

 

Essere felici donandosi

«E’ bene dare quando si è richiesti, ma è meglio dare quando, pur essendo non richiesti, comprendiamo i bisogni degli altri. E per chi è generoso, il cercare uno che riceva è gioia più grande che non il dare. E c’ è forse qualcosa che vorresti trattenere? Tutto ciò che hai un giorno o l’altro sarà dato via. Perciò dà adesso, sì che la stagione del dare sia la tua, non quella dei tuoi eredi». 

(G. Kahlil Gibran).

 

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa,

proteggi e guida questi giovani uomini e giovani donne del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera di Giovanni Paolo II, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.

– E. BIANCHI ET AL., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

Settimana per l’unità dei cristiani

Si celebra dal 18 al 25 gennaio la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. “L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione” è il tema di quest’anno, in cui ricorre il quinto Centenario della Riforma protestante, il materiale per la preghiera è stato preparato proprio dalle Chiese cristiane tedesche, attraverso la Comunità di lavoro delle Chiese cristiane in Germania, l’organismo ecumenico in cui sono rappresentate tutte le tradizioni cristiane. In occasione della Settimana, anche i Presidenti del CCEE e della KEK hanno pubblicato un messaggio congiunto: “Riconciliazione – L’amore di Cristo ci spinge”.
“Nell’Introduzione teologico pastorale al tema di quest’anno, stilata dal Gruppo locale tedesco insieme alla Commissione internazionale – spiegano monsignor Ambrogio Spreafico, Presidente della Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI; Pastore Luca Maria Negro, Presidente Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia; Metropolita Gennadios, Arcivescovo Ortodosso d’Italia e Malta ed Esarca per l’Europa Meridionale -, si sottolinea che al comitato preparatorio è apparso subito chiaro che i materiali per la Settimana avrebbero dovuto avere due accenti: da un lato, la “celebrazione dell’amore e della grazia di Dio”, in particolare mettendo in rilievo quella “giustificazione per sola grazia” che è stata ed è al centro della teologia delle Chiese della Riforma. Dall’altro, un accento “penitenziale”, nel riconoscimento delle profonde divisioni di cui ha sofferto la Chiesa in seguito all’evento del 1517, offrendo al tempo stesso l’opportunità di fare ulteriori passi verso la riconciliazione”.
Sul sito dell’Ufficio nazionale per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso è disponibile il Sussidio.
 

Quello che non so di te

Un progetto per le scuole promosso dall’Istituto Toniolo, in collaborazione con Formazione Permanente dell’Università Cattolica. Si tratta di un corso di alta formazione per insegnanti dal titolo “Quello che non so di te – Fedi e culture in dialogo” che si propone di affiancare insegnanti ed educatori che si trovano tutti i giorni a confrontarsi con ragazzi e ragazze di religioni e provenienze differenti per capire meglio comportamenti e convinzioni  altrui e promuovere così una cultura del dialogo. Per partecipare è necessario iscriversi on line entro il 6 febbraio.

Il corso inoltre si collega idealmente al concorso artistico-letterario “Quello che non so di te”, a cui avete aderito come partner, rivolto agli studenti e agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado di tutta Italia (per maggiori informazioni: www.quellochenonso.it). La finalità è quella di favorire occasione di conoscenza e di dialogo fra ragazzi e ragazze di religioni e culture differenti.

Scarica gli allegati:

La Smemoratezza di Dio. Papa Francesco conversa con Stefania Falasca

«A me piace pensare che l’Onnipotente ha una cattiva memoria. Una volta che ti perdona, si dimentica. Perché è felice di perdonare».

In questa intervista rilasciata per Avvenire a Stefania Falasca, che affronta i temi della misericordia e dell’ecumenismo alla luce del Vaticano II e del Vangelo, le parole di papa Francesco sono uno spiraglio che lascia trasparire il suo sguardo su una Chiesa che è «a metà» del percorso scaturito dal concilio.

In questo contesto, dottrina e carità, teologia e preghiera non vanno contrapposte. È inoltre necessario rifuggire la tentazione dell’autoreferenzialità e i rigorismi che nascono «dal voler nascondere dentro un’armatura la propria triste insoddisfazione», come accade ai personaggi del film Il pranzo di Babette.

 

Gli autori

Stefania Falasca, dottore di ricerca, editorialista e vaticanista del quotidiano Avvenire, si è occupata di tematiche storico-culturali, ha curato approfondimenti monografici nell’ambito della storia della Chiesa e ha realizzato reportage come inviata, in particolare dall’America Latina.

Marcello Semeraro, vescovo di Albano, è segretario del Consiglio dei cardinali per l’aiuto al Santo Padre nel governo della Chiesa universale e membro della Congregazione delle cause dei santi. È presidente del consiglio d’amministrazione del quotidiano Avvenire.

 

 

La Smemoratezza di Dio. Papa Francesco conversa con Stefania Falasca

(Introduzione del vescovo Marcello Semeraro)

Editrice: EDB (con Avvenire)

III DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 8,23b-9,3

In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.  Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Mádian.

 

  • Nel contesto storico della vittoriosa campagna militare di Tiglat Pileser, re assiro, si legge il presente annuncio di liberazione. Il brano vive di una luce di speranza. Si apre con uno stridente contrasto tra il passato di umiliazione e un futuro di gloria. «Zàbulon e Nèftali» (8,23) sono due tribù del Nord che hanno come frontiera il monte Tabor. Il loro territorio fu vinto da Tiglat Pileser nel 732. Costui ne deportò l’élite, causando la loro «umiliazione» (cfr. il Sal 136,23, dove ‘umiliazione’ rimanda a ‘esilio’) che ora viene riscattata con un annuncio di trionfo. La gloria si concretizza in due immagini: la luce che rischiara la strada al popolo in cammino e la gioia che si prova quando si partecipa alla mietitura e alla divisione del bottino (9,2).

         Alla fine si da il vero motivo della gloria futura: è un’esperienza di liberazione. È qui che la gioia trova un motivo preciso. Si allude alla liberazione dal gravoso peso degli Assiri, reso ancora più duro da un atteggiamento di persecuzione («bastone del suo aguzzino»: 9,3). La vittoria è fatta risalire direttamente a Dio («tu hai spezzato») che anche in questo caso è intervenuto in modo inaspettato e strepitoso, come altre volte; si riporta il caso di Gedeone che con l’aiuto di Dio vinse i Madianiti (cfr. Gdc 7,15-25). Fu un evento che fece storia (cfr. Sal 83,10; Is 10,26) e simboleggia i prodigiosi interventi di Dio a favore del suo popolo. La gloria di Dio si rivela diventando gloria per il suo popolo. Il profeta gioioso annuncia una primavera di vita che ha in Dio la sua origine. Il testo prepara la comprensione del vangelo, dove Gesù stesso annuncia l’irruzione della signoria di Dio (il suo regno) nella storia degli uomini.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 1,10-13.17

Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.  Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?  Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

 

  • Dopo il saluto d’apertura e il rendimento di grazie al Signore per la ricchezza spirituale di cui ha colmato la comunità di Corinto, Paolo affronta senza indugi il primo argomento della lettera, il problema su cui gli preme fare subito chiarezza: le fazioni che dividono la giovane chiesa e rischiano di vanificare l’annuncio del Vangelo di Cristo.

         v. 10 — Con la consueta immediatezza Paolo comincia per così dire dal fondo, dall’esortazione conclusiva, espressa con foga e passione: “Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”. Le motivazioni verranno solo dopo: l’essenziale è mantenere l’unità nella fede. Paolo la descrive con tre espressioni, due in positivo che si rafforzano a vicenda e ne racchiudono una terza, in negativo: siate unanimi nel parlare («diciate tutti la

    stessa cosa» implica non solo identità di contenuti, ma concordia nell’operare), non vi siano divisioni («scismi»), siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.

         vv. 11-12 — Successivamente, Paolo spiega cosa ha provocato questo suo accorato intervento: qualcuno (non sappiamo chi siano i «familiari di Cloe») gli ha riferito l’esistenza di gruppi contrapposti nella comunità. Il fatto è sintetizzato da Paolo in un solo, incisivo versetto: non è il caso di soffermarsi sul merito delle divergenze, di analizzare le ragioni degli uni o degli altri. Ciò che Paolo respinge non è una deviazione dottrinale o un’eresia, ma il fatto stesso della divisione, l’esistenza di fazioni personalizzate che si richiamano a un nome, fosse pure quello di Cristo, per escludere altri fratelli dalla comunità. L’apostolo ricorda quattro di queste fazioni: di Paolo, di Apollo, di Cefa, di Cristo, e le respinge tutte, anche quella «di Paolo» e quella «di Cristo», come contrarie alla carità e al Vangelo.

       v. 13 — Il suo grido accorato è una duplice domanda retorica: È forse diviso il Cristo? Dividere la comunità significa infatti lacerare il corpo stesso di Cristo. Richiamarsi ad altri maestri, fossero pure gli apostoli, autentici testimoni dell’evangelo, significa sostituire al Cristo, mediatore unico della salvezza, uomini che sono soltanto suoi discepoli: Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?

         v. 17 — Paolo accenna brevemente al proprio ministero, nomina le poche persone che ha battezzato, per allontanare da sé qualsiasi sospetto di faziosità, sconfessando pienamente il «partito di Paolo». Il suo compito è l’annuncio del Vangelo, e questo unicamente nel nome di Gesù Cristo, nel segno della kenosi, della «stoltezza della croce», e non della «sapienza di questo mondo». L’apostolo non si vanta della propria capacità oratoria, al contrario, respinge da sé ogni «sapienza di parole» (sofia logou), per non svuotare della sua potenza la croce di Cristo.

 

Vangelo: Matteo 4,12-23   

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono. Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

 

Esegesi 

     Siamo all’inizio del Vangelo di Matteo. Dopo l’introduzione costituita dal «Vangelo dell’infanzia», la missione di Gesù — preparata dalla predicazione del Battista (3,1-12), dal battesimo al Giordano (3,13-17) e dalle tentazioni nel deserto (4,1-11) — ha finalmente inizio. Matteo la collega esplicitamente con il Battista: quando l’arresto interrompe la predicazione di Giovanni, Gesù inizia la propria, con le stesse parole: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (3,2 e 4,17).

     Tre brevi sezioni sono facilmente riconoscibili in questa pericope, contrassegnate tutte e tre dal riferimento alla Galilea contenuto nel primo versetto.

     1) Inizio della predicazione, sua ambientazione geografica e biblica (4,12-17).

     Secondo la tradizione, il luogo in cui Giovanni battezzava non era lontano dalla foce del Giordano nel Mar Morto, e Gesù si sarebbe poi ritirato sul «Monte della Quarantena», a ovest di Gerico, ai margini del deserto di Giuda.                                                      

     Dalla Giudea, saputo dell’arresto di Giovanni, Gesù si sposta in Galilea, non più a Nazaret (la sua città) ma a Cafarnao, sulla riva settentrionale del lago di Tiberiade. La precisazione geografica non basta però a Matteo, preoccupato ancor più di sottolineare ogni collegamento della storia di Gesù con le profezie dell’Antico Testamento, attraverso le cosiddette «citazioni di compimento»: «…perché si compisse ciò che era stato detto…». Eccolo quindi indicare che la Galilea, posta tra il Giordano e la «Via del Mare», corrisponde ai territori delle tribù di Zabulon e Neftali (a ovest e a nord del lago), con la citazione di Is 8,23-9,1. La Galilea è detta «dei pagani», o «dei Gentili», perché molto frequentata dai pagani provenienti dalle nazioni confinanti (la provincia romana di Siria a nord e a ovest, la Decapoli a est del lago). Qui ha inizio la predicazione di Gesù, in continuità ideale con il Battista: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

     2) Chiamata dei primi discepoli (4,18-22).

     Sulle rive del «mare di Galilea» (il lago) Gesù incontra e chiama i primi discepoli. Sono due coppie di fratelli, tutti pescatori (Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni). I due brevi racconti si corrispondono in parallelo; gli uni e gli altri interrompono senza indugio il lavoro in cui sono impegnati, abbandonano tutto (le reti e la barca; Giacomo e Giovanni anche il padre Zebedeo) e seguono Gesù.

     La singolarità di questo rabbi itinerante salta subito all’occhio da alcuni particolari: contrariamente alla prassi del tempo, secondo cui l’aspirante discepolo sceglieva il maestro cui affidarsi per la sua formazione, qui è Gesù che sceglie i suoi discepoli; non viene proposto loro lo studio della Torah né una particolare dottrina o prassi, ma semplicemente la sequela di Gesù. Gesù stesso quindi si offre come via, come dottrina, come legge; e la prospettiva indicata è farsi suoi imitatori nel chiamare altri a seguirlo: «pescatori di uomini».

     3) Sintesi dell’attività di Gesù (4,23-25).

     L’ultima sezione sintetizza l’attività di Gesù e ne indica l’efficacia: l’accorrere delle folle e l’aumento del numero dei seguaci.

     Nel v. 23, una serie di quattro verbi offre un quadro vivace e dinamico. Gesù percorreva (periēghen) la Galilea: è lui che si mette alla ricerca degli uomini per portare loro la salvezza. Insegnava (didaskōn) nelle sinagoghe: la sua parola parte dalla radice della Torah e dei profeti. Annunciava (kērussōn) il vangelo del regno: è il contenuto centrale del messaggio di Gesù e dei suoi. Guariva (therapeuōn) tutti i mali: l’annuncio del vangelo è inscindibile dai gesti di liberazione dal male compiuti da Gesù. 

 

Immagine della Domenica 


Camminare 

«Togli ad un viaggiatore la speranza di arrivare

e gli avrai tolto anche la forza di camminare»

(Guglielmo di S. Thierry).

 

Meditazione

L’esperienza della salvezza espressa come irruzione della luce in un contesto di tenebra: questo il messaggio che unisce il testo di Isaia e il vangelo. La zona del nord d’Israele, dove erano stanziate le tribù di Zabulon e di Neftali, in passato umiliate sotto la mano del sovrano assiro che le assoggettò, smembrò in tre distretti (Is 8,23b) e ne deportò la popolazione, conosceranno una liberazione (I lettura): la salvezza è qui una liberazione sul piano storico; Gesù che si stanzia in quella medesima regione è la salvezza di Dio fatta persona: la salvezza si situa sul piano teologico (vangelo). Se la salvezza operata da Dio per le zone settentrionali d’Israele appare come una rinascita a popolo di zone ridotte precedentemente a non-popolo, la venuta di Gesù in Galilea provoca la rinascita di alcuni uomini galilei, dei pescatori, a pescatori di uomini, a discepoli di Gesù. La salvezza è qui colta nella sua dimensione esistenziale. La luce che Gesù è si irradia e suscita una chiamata alla sequela e un invio in missione: la salvezza è una nuova nascita, un venire alla luce.

L’arresto di Giovanni Battista segna la fine del suo ministero pubblico e l’inizio del ministero di Gesù. Il ritiro (Mt 4,12) è il luogo spirituale che consente a Gesù di assumere la fine di Giovanni e decidere l’inizio del proprio ministero. Il ritiro appare luogo di elaborazione della perdita, di confronto con la paura, di assunzione della solitudine, di lettura della realtà alla luce della parola di Dio (cf. la citazione del passo di Isaia: Mt 4,15-16), di accoglienza di un’eredità e infine di elaborazione della decisione nella piena assunzione della propria responsabilità. Responsabilità nei confronti di Dio, di Giovanni, ma anche delle persone che, senza Giovanni, abitavano in zone tenebrose, prive della luce che Giovanni irradiava. Persone che, per Matteo, non sono solamente dei figli d’Israele, ma anche dei pagani: la «Galilea delle genti» (Mt 4,15) comprendeva una popolazione mista di ebrei e pagani. La luce postpasquale della resurrezione si riflette sul Gesù che si stabilisce a Cafarnao, anticipando la manifestazione del Risorto in Galilea (Mt 28,16-20).

Gesù inizia il suo ministero situandosi in continuità con il suo predecessore. In effetti, le parole della sua predicazione sono le stesse di Giovanni: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17; cfr. Mt 3,2). In Gesù però la pregnanza delle parole sulla vicinanza del Regno è molto più forte: egli stesso, nella sua persona, narra il regnare di Dio. Gesù appare come successore di Giovanni che ne accoglie l’eredità e la vivifica innovandola con la sua presenza messianica. Sempre la trasmissione della fede e della vita spirituale è opera di testimonianza, di martyría: Giovanni è testimone di Dio nella sua vita e nella sua morte (a cui prelude il suo arresto: cfr. Mt 11,2-15; 14,3-12), così la sua vita diviene eloquenza, parola, messaggio di Dio stesso (Mt 21,25). E Gesù, sull’esempio di Giovanni e accogliendone il messaggio, consegna la propria vita al cammino che Dio gli dischiude indirizzandolo sulle orme di Giovanni.

La continuità con Giovanni diviene subito novità dell’agire di Gesù: egli chiama con estrema autorità alla sua personale sequela. E la chiamata chiede all’uomo di realizzare il proprio nome (Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni) nella sequela di Cristo; di ordinare la propria umanità alla luce di Cristo, del suo cammino e della sua promessa («Vi farò pescatori di uomini»: Mt 4,19); di lasciare tutto (il lavoro, la famiglia: Mt 4,20.22) con atto di libertà e di impegnare anche il futuro in un «sì» che viene detto in un momento preciso e di cui non si possono sapere le conseguenze («subito … lo seguirono»: Mt 4,20.22). Il «subito» della sequela immediata e senza condizioni deve divenire durata, perseveranza, definitività, e questo è possibile solo se si rinnova nel prosieguo del cammino il ringraziamento per la vocazione ascoltata e accolta un tempo, la fiducia nella misericordia del Signore, la docilità al suo Spirito, la preghiera umile al Signore.

 

Preghiere e racconti

 

Metto nelle vostre mani il vangelo

Sapientemente il Signore diede inizio alla sua predicazione da quel messaggio che era solito predicare Giovanni: «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2), non per abolire l’insegnamento di Giovanni, ma per darle ulteriore conferma. Se infatti avesse predicato così mentre Giovanni ancora predicava, forse avrebbe dato l’impressione di disprezzarlo, ora invece, poiché ripete tali parole mentre Giovanni è in prigione, non da segno di disprezzarlo, bensì di confermarlo. Confermò l’insegnamento di Giovanni per testimoniare che gli era un uomo degno di fede. […]

«Mentre camminava lungo il mare, Gesù vide due fratelli, Simone e Andrea» (Mt 4,18). Prima di dire o fare qualcosa, Cristo chiama gli apostoli affinché nulla resti nascosto delle sue parole e delle sue opere e così, in seguito, possano dire con fiducia: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,20). Li vede non nel corpo, ma nello spirito, non guardando il loro aspetto esteriore, ma i loro cuori. E li sceglie non perché fossero apostoli, ma perché potevano diventare apostoli. Come l’artigiano, che ha visto delle pietre preziose, ma non tagliate, le sceglie non per quello che sono, ma per quello che possono diventare. […]

E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mt 4,19), cioè vi renderò maestri affinché con la rete della parola di Dio afferriate gli uomini da questo modo di vivere falso, incostante, tempestoso, instabile, insidioso, sempre pericoloso e mai sicuro per nessuno nel quale gli uomini non camminano di loro volontà, ma sono trascinati controvoglia, quasi a forza. La violenza dell’Avversario, facendo sorgere in loro molti cattivi desideri, dona loro l’illusione di fare la loro volontà. In realtà, li seduce e li spinge a operare il male affinché gli uomini si divorino a vicenda come i pesci più forti divorano sempre i più deboli. Con la rete afferrate gli uomini per trasportarli nella terra del corpo di Cristo, ricca di frutti; fatene delle membra del suo corpo, nella terra ricca di frutti, dolce, sempre tranquilla, dove se c’è tempesta non è per portare alla rovina, ma per mettere alla prova la fede e per far fruttare la pazienza. Affinché gli uomini camminino liberamente e non siano trascinati, affinché non si divorino a vicenda, ecco io metto tra le vostre mani un evangelo nuovo.

(ANONIMO, Commento incompleto a Matteo, om.6,17; 7,18-19, PG 56, 673-675).

 

Conversione

«Convertitevi e credete all’Evangelo!» (Marco I, 15 ); «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicinissimo!» (Matteo 4,17). La richiesta di conversione è al cuore delle due differenti redazioni del grido con cui Gesù ha dato inizio al suo ministero di predicazione. Collocandosi in continuità con le richieste di ritorno al Signore di Osea, di Geremia e di tutti i profeti fino a Giovanni Battista (cfr. Matteo 3,2), anche Gesù chiede conversione, cioè ritorno (in ebraico teshuvah) al Dio unico e vero. Questa predicazione è anche quella della chiesa primitiva e degli apostoli (cfr. Atti 2,38; 3,19) e non può che essere la richiesta e l’impegno della chiesa di ogni tempo.

Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. 1 Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,21), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso. Solo una chiesa sotto il primato della fede può dunque vivere la dimensione della conversione. E solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiate dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri. Ma se non c’è conversione, non si annuncia la salvezza e si è totalmente incapaci di richiedere agli uomini un cambiamento. Di fatto, dei cristiani mondani possono soltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di vedere l’efficacia della salvezza: così essi sono di ostacolo all’evangelizzazione e depotenziano la forza dell’Evangelo. Dice un bel testo omiletico di Giovanni Crisostomo: «Non puoi predicare? Non puoi dispensare la parola della dottrina? Ebbene, insegna con le tue azioni e con il tuo comportamento, o neobattezzato. Quando gli uomini che ti sapevano impudico o cattivo, corrotto o indifferente, ti vedranno cambiato, convertito, non diranno forse come i giudei dicevano dell’uomo cieco dalla nascita che era stato guarito: “È lui?”. “Sì, è lui!” “No, ma gli assomiglia”. “Non è forse lui?”». Possiamo insomma dire che la conversione non coincide semplicemente con il momento iniziale della fede in cui si perviene all’adesione a Dio a partire da una situazione «altra», ma è la forma della fede vissuta.

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, 67-70).

 

La conversione di Paolo, modello della vera conversione cristiana

Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l’inventore di questo messaggio? Se esso fosse l’Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l’inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini e di parabole.

Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre “tornare indietro” (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all’alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. “Convertitevi a me […], tornate indietro dal vostro cammino perverso”, diceva Dio nei profeti (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5).

Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all’inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù.

Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. “Convertitevi e credete” non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! “Prima conversio fit per fidem“, dirà san Tommaso d’Aquino, la prima conversione consiste nel credere.

Dio ha preso l’iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l’uomo deve solo accogliere, nella fede, l’offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull’uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: “Venite, tutto è pronto!”. È l’appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l’ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l’occasione!

L’Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L’unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede “nel Vangelo” (“credete al Vangelo”), ora si configura come fede “in Gesù Cristo”, “nel suo sangue” (Rm 3, 25).

Quello che l’Apostolo esprime mediante l’avverbio “gratuitamente”(dorean) o “per grazia”, Gesù lo diceva con l’immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull’amore di Dio, come i bambini fanno leva sull’amore dei genitori.

Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di “chiamata”, anziché di conversione. C’è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio.

A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c’è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: “Convertitevi e credete al vangelo”? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l’Apostolo con le parole: “Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso” (2Cor 3,16).

La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell’accettare Cristo, nel “rivolgersi” a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto.

 

La metanoia: un’opera della grazia in noi

Credo che ci siano molti fattori critici di cui prendere coscienza riguardo a questa metanoia, questo radicale cambiamento di prospettiva. Tuttavia, ce n’è uno in particolare che mi sembra fondamentale, ed è il fatto che la metanoia è un’esperienza di fede e, quindi, un’opera della grazia. Solo Dio può fare di una persona un credente, e solo credendo in Gesù possiamo assumere la sua visione. La fede non è, e non è mai stata, una questione di intelligenza o di capacità logica, perché, se così fosse, tutti gli individui con un’intelligenza superiore e capacità logica diventerebbero dei credenti. La fede è, piuttosto, per le persone con la mentalità aperta e un cuore coraggioso: la fede è per i giocatori d’azzardo disposti a puntare tutto su Gesù.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 49).

 

La prima attività dello Spirito

La prima attività o energia dello Spirito in noi è la metànoia, la conversione o pentimento. Questo volgersi indietro del nostro nous (metanoia), questo cambiamento del cuore, è il nostro primo momento di verità davanti a Dio, a noi stessi e ai fratelli. Alcuni padri della chiesa ritenevano che essa comportasse normalmente il battesimo delle lacrime, a loro avviso il chiaro segno che lo Spirito si stava impossessando del corpo di un uomo: l’uomo capitola, la sua resistenza va in frantumi, ed egli piange. Si potrebbero vedere dei paralleli a quest’esperienza con esperienze analoghe riscontrate nella psicanalisi: ha luogo una sorta di catarsi. L’uomo piange e si arrende, si arrende allo Spirito santo, a quella nuova consapevolezza di se stesso che gli è possibile acquisire mediante il battesimo delle lacrime. Mi sembra di poter dire che la conversione, il pentimento, non è solo un tema del quale è difficile parlare ai nostri giorni, ma è anche  visti i complessi che attanagliano l’uomo moderno  uno dei più difficili da mettere a fuoco con precisione e da vivere autenticamente. E tuttavia rimane essenziale. Il pentimento è oggi qualcosa che suscita repulsione. Ci troviamo a vivere in un periodo di transizione tra la nevrosi ossessiva (se così si può chiamarla) che caratterizzava il periodo immediatamente precedente al nostro, e l’effervescenza e l’aggressività adolescenziali di un periodo che si sta liberando da tale nevrosi. A chi è già divorato dall’angoscia l’evidenza del peccato può creare soltanto un’angoscia ancor più insopportabile. Il peccato era del tutto intollerabile nell’epoca precedente alla nostra, e gli uomini cercavano di liberarsene ricorrendo a quella che i padri erano soliti chiamare dikaioma, la pretesa di esser giusti, l’autogiustificazione: non si era in grado di portare il peso del peccato? E allora ci si convinceva d’esser giusti mediante un’osservanza esteriore della legge, o piuttosto, di un certo numero di regole. In realtà, in questo modo non si fa che sfuggire alla conversione, alla metànoia. Oggi, invece, manifestiamo un’effervescenza e un’aggressività adolescenziali che sono altrettanto nevrotiche, e per le quali il peccato è altrettanto insostenibile; la soluzione odierna consiste tuttavia nel dire che non esiste il peccato.

(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, 9-20).

 

Conversione

«Quando sono diventato frate speravo di convertire il mondo intero. Sarò felice se riuscirò a salvare me stesso. E mi sono accorto che sono io che devo essere diverso e non l’altro».

(Davide Maria Turoldo)

 

Paraboletta tra il tenero ed il malizioso

In principio la Fede muoveva le montagne solo quando era assolutamente necessario, per cui il paesaggio rimaneva per millenni uguale a se stesso.

Ma quando la fede cominciò a propagarsi e alla gente sembrò divertente l’idea di smuovere le montagne, queste non facevano altro che cambiare di posto ed era sempre più difficile trovarle nel luogo dove le avevano lasciate la notte precedente.

Cosa che naturalmente creava più difficoltà di quante ne risolvesse.

La brava gente preferì allora abbandonare la fede e ora le montagne rimangono al loro posto.

Solo poche persone hanno di tanto in tanto qualche fremito.

 

Preghiera

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo,

continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione.

Giorno e notte spero soltanto una cosa:

che tu mi mostri la tua misericordia

e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore.

Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento,

a una preghiera sincera e umile e a una generosità libera e spontanea.

Vedo così chiaramente la strada da seguire!

Comprendo così bene che mi è necessario venire a te.

Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te;

ma il mio cuore esita,

il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro,

vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…».

O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami,

che tu mi aspetti a braccia aperte?

Come un padre con le lacrime agli occhi,

tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai dato.

Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a te.

Solo quando verrò liberamente a te,

quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli affanni

e confesserò liberamente le mie vie sbagliate

e chiederò liberamente misericordia,

solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.

Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa,

ascolta il mio desiderio di ritornare a te.

Non lasciarmi solo nella mia lotta.

Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto.

Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria. Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.

– E. BIANCHI ET AL., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

Verso il Sinodo. Falabretti: la Chiesa ha bisogno della voce dei giovani!

Ascolto, educazione, disponibilità a ridiscutere convinzioni e metodi. Nel Sinodo sui giovani, e nel viaggio che da venerdì 13 gennaio la Chiesa ha intrapreso con il testo-base e la lettera del Papa, don Michele Falabretti vede questo e molto altro. Da responsabile del Servizio nazionale di Pastorale giovanile è abituato allo sguardo “lungo”. Che prova a spingere sino all’assemblea in Vaticano, autunno 2018.

Che cosa ci dicono i due testi diffusi ieri?
Esprimono l’impegno e la voglia di coinvolgere i giovani in un percorso nel quale non sono destinatari di un lavoro svolto da altri su di loro ma vengono chiamati a diventare protagonisti, soggetti attivi, centro di una grande questione pastorale che è nelle mani di tutta la comunità cristiana, a ogni livello. Anche solo questo fa capire di fronte a quale opportunità ci troviamo. I giovani non sono oggetti di un’analisi scientifica, quasi si trattasse di una specie in via di estinzione: sulle nuove generazioni è chiamata in causa tutta la Chiesa.

Le Gmg sono il segno che la Chiesa si è messa sempre più in gioco su questo aspetto. Dov’è la novità del Sinodo?
I giovani vanno ascoltati, la Chiesa ha bisogno della loro voce. Lo spazio per loro è andato ampliandosi con un’accelerazione che fa comprendere come non li si può pensare destinatari di un messaggio che funziona da solo. La vera, grande novità è però nella scelta stessa del tema tra i tanti possibili per l’assemblea.

Perché il Papa ha voluto mettere al centro del Sinodo proprio i giovani?
Forse perché parlando di giovani si mettono in questione anche gli adulti e la Chiesa. Da sempre i cristiani cercano di consegnare a chi viene dopo di loro quanto hanno di più caro: la fede, il Vangelo, il segreto di una vita cui l’incontro vivo con il Signore dà senso pieno. Ma oggi la maggior parte dei giovani non ha una vera occasione per questa consegna. Il Sinodo ci chiede di considerare gli aspetti complessi di questo passaggio generazionale. Dunque, si parla di giovani ma anche di adulti.

Che cosa può rappresentare questo Sinodo per la Chiesa?
Una bellissima occasione per chiederci cosa stiamo facendo per trasmettere la fede e metterci in ascolto di tutti i giovani, vicini o lontani che siano. Attenzione, però: non pensiamo a qualcuno che ci dirà “cosa fare” ma a un processo che ci mette in discussione su alcuni temi decisivi, come la relazione educativa.
Una novità è nel metodo: il questionario che aveva segnato i due Sinodi sulla famiglia viene riproposto con una formula più diretta.

Che lavoro suggeriscono queste domande?
Lo dico con una battuta: se si trattasse solo di rispondere ce la caveremmo in una settimana. Dentro quelle domande, invece, ce n’è una più grande: ai cristiani quanto stanno a cuore i loro figli? Ho l’impressione che ci siamo un po’ stancati della “questione educativa”, ma non possiamo tornare ad accorgersi della sua importanza solo quando accade il fattaccio di cronaca… L’educazione è cura, compagnia, ascolto, condivisione, ha a che fa- re più con la bellezza che con il dramma.

Quindi un Sinodo sui giovani ma anche sulla “questione educativa”?
Il nostro è un tempo nel quale si fatica a essere adulti: ora c’è l’ossessione di restare giovani, perdendo di vista che si tratta di una fase della vita e non di una condizione ideale. Nel ’68 gli adulti volevano imporsi in quanto tali, oggi cercano di sembrare eternamente giovani. La strada è antitetica, il risultato identico: l’incomprensione del mondo giovanile.

Quale percorso immagina da oggi al 2018?
Vedo anzitutto un confronto ecclesiale a ogni livello, sino alla parrocchia più “periferica”, su come la Chiesa annuncia il Vangelo, e su quali sono le condizioni per arrivare a destinazione. C’è poi l’ascolto sincero e attento dei giovani là dove si trovano, non solo nei “nostri ambienti”: vanno costruite occasioni che consentano di interpellarli sulla loro vita, ad esempio nel mondo digitale. Dovremmo chiedergli in cosa sperano, quel che li fa piangere, di cosa hanno paura, cosa cercano. Da qui parte ogni possibile incontro con il senso dell’esistenza. Per troppo tempo abbiamo pensato che per convincerli bastasse enunciare i valori, magari con tutte le lettere maiuscole. Oggi quella che per noi è una verità evidente non si impone da sé ma solo se è persuasiva, e per esserlo va accompagnata da domande e gesti.

Il Sinodo invita a parlare di “vocazione”: in quale senso?
Noi cristiani pensiamo che si diventa grandi anche ascoltando un’altra voce, mentre molti giovani sono convinti di poter essere felici solo ascoltando se stessi. La sfida è far incrociare questa fame di libertà con la consapevolezza che non ci si realizza da soli ma nella relazione. Con gli altri, e con Dio.

Francesco Ognibene (Avvenire, 14.01.2017)

LEGGI la Lettera del Santo Padre Francesco ai giovani
LEGGI il Documento Preparatorio della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi

Una disciplina alla prova

Il Servizio Nazionale per l’IRC, insieme all’Ufficio Nazionale per l’Educazione, la Scuola e l’Università, al Centro Studi per la Scuola Cattolica e agli Istituti di Sociologia e di Catechetica dell’Università Salesiana di Roma, hanno promosso una ricerca dal titolo: “UNA DISCIPLINA ALLA PROVA” che raccoglie la “Quarta indagine nazionale sull’IRC a trent’anni dalla revisione del Concordato”. La presentazione del volume si terrà il 17 gennaio 2017 presso il palazzo del Vicariato di Roma.
In allegato, l’invito alla presentazione.
 

Animatori: c’è luce in sala

Si espandono le frontiere digitali della comunicazione. Il Web diventa sempre più anche per le sale della comunità lo strumento ideale per informare, condividere contenuti e organizzare incontri sul territorio delle diocesi. «Gli interessi culturali delle persone – spiega don Adriano Bianchi, presidente dell’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec), da meno di un mese alla guida anche della Federazione italiana stampa cattolica (Fisc) – deve trovare una corrispondente proposta significativa nelle nostre sale della comunità.

Per questo la comunicazione digitale richiede da parte nostra un’attenzione sulla formazione delle persone che animano e lavorano nelle nostre realtà. Moltissime sale hanno risposto a questo bisogno comunicativo creando siti, pagine Facebook e profili Twitter. I nostri sono luoghi di proposta dove si intercetta una serie di persone che non sono immediatamente vicine al contesto ecclesiale. L’anima della sala della comunità è quella di essere una soglia, ‘un complemento del tempio’, come diceva San Giovanni Paolo II».

L’importanza di essere aggiornati sull’uso dei nuovi media digitali, social e app non nasce però «dalla preoccupazione di essere efficaci come istituzione o come parrocchia», sottolinea don Davide Milani, presidente dell’Ente dello Spettacolo e responsabile della comunicazione in diocesi di Milano.

«Quello che ci sta a cuore è rendere consapevoli adulti, educatori e ragazzi rispetto alla potenza, alle opportunità e ai rischi della comunicazione digitale. Ci sono infatti due fenomeni che nascono: il tecnicismo esagerato che porta ad affidarsi ai media digitali come unica soluzione a ogni problema, senza riflessione critica, senza applicare opportuni criteri di prudenza d’uso. Il secondo e opposto fenomeno è il tecnoscetticismo, tipico di chi non conosce gli strumenti e li critica. La scelta di una parrocchia, di una sala o di una comunità di non utilizzare i media digitali mina la comunicazione all’esterno e priva di un necessario contributo che la comunità cristiana può dare». «Le iniziative delle sale di comunità – aggiunge Bianchi – partono dalla musica, dal cinema e dal teatro per comunicare contenuti e riflessioni che rispondono ai bisogni culturali reali». Un esempio chiaro è «il cineforum che, prendendo spunto dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, affronta le questioni legate alla famiglia. Supportate da una giusta comunicazione in tutti i canali digitali, le nostre proposte culturali possono raggiungere un pubblico vasto. Siamo chiamati a essere una piazza frequentata dalle persone che comunicano nelle reti sociali, così come occorre esserci nei luoghi digitali che le persone frequentano abitualmente ». «L’azione della diocesi di Milano per la formazione degli animatori – sottolinea Milani – è far crescere consapevolezza per insegnare a leggere e scrivere in digitale, non tanto per creare una tecno-abilità ma per diffondere una giusta alfabetizzazione digitale. La nostra prima domanda è: qual è l’obiettivo? La risposta, nella formazione alla comunicazione digitale è comunicare la bellezza di questa esperienza. Negli anni abbiamo lavorato per modellare la figura del responsabile parrocchiale della comunicazione, nel 2017 affronteremo casi concreti di comunicazione in parrocchia. Quello che ci interessa è ‘alimentare il fuoco’, acceso dai bisogni educativi e dalla conseguente comunicazione».

da Avvenire del 10 gennaio 2017, pag. 18