VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 49,14-15

Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai.

 

  • In Israele, prima di ripudiare la moglie, il marito doveva riflettere a lungo perché si trattava di una scelta irreversibile, non erano ammessi ripensamenti, non gli era più permesso di riprendersela. In esilio, a Babilonia, Israele si sente una sposa ripudiata. Sa di essere stata infedele, di aver tradito il suo Dio, ha abbandonato ogni speranza di ricostruire il rapporto d’amore infranto e, mestamente, va ripetendo: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (v. 14). È il lamento con cui inizia la lettura di oggi ed è l’espressione della dolorosa esperienza di chiunque, caduto nell’abisso del peccato, si rende conto di aver fatto scelte di morte ed è convinto che anche il Signore lo rifiuti. Questi pensieri sorgono quando vengono proiettati in Dio i nostri criteri di giudizio e le nostre meschinità. Compare allora il Dio suscettibile, permaloso e persino vendicativo. Questa deformazione del suo volto è la più subdola delle astuzie diaboliche e il Signore si premura di cancellarla. Per bocca del profeta dichiara: «Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Io ti riprenderò con immenso amore» (Is 54,6-7).

  •      Il suo amore non è una risposta ai meriti o alle dimostrazioni di affetto dell’uomo, è una passione incontenibile che prescinde dalle nostre opere buone, è come l’amore di una madre – ecco la nuova, commovente metafora introdotta dalla lettura di oggi (v. 16) — un amore incondizionato e invincibile. Una madre ama il figlio non perché è riamata, ma perché è suo figlio e lo amerà sempre, qualunque cosa egli faccia.

         Quest’immagine ha già in sé una forte risonanza emotiva, tuttavia, per comprenderne tutta la ricchezza, vale la pena ricordare alcune celebri figure di madri bibliche: il sublime eroismo di Rispa che «dal principio della mietitura dell’orzo, fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia», vegliò i cadaveri dei figli consegnati alla morte da Davide (2Sam 21); il coraggio della madre di Mosè che sfida l’ordine del faraone pur di salvare il figlio (Es 2,2-9); il tormento della meretrice che accetta di essere privata del figlio purché non venga ucciso (1Re 3,16-17); la forza d’animo della madre che incoraggia i figli ad affrontare la morte per non rinnegare la fede (2Mac 7). Tutta questa carica di emozioni e di sentimenti è presente nell’immagine dell’amore di una madre e aiuta a comprendere con quale passione Dio ama e si interessa dell’uomo.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 4,1-5

 Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele. A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.

 

La parola del vangelo è il più grande dono che si possa ricevere, per questo è facile non solo provare profonda simpatia e riconoscenza per chi lo ha offerto, ma anche legarsi fin troppo al messaggero. Accade oggi ed è accaduto anche nella comunità di Corinto dove, a causa dell’attaccamento all’uno o all’altro degli apostoli, erano sorti dei partiti: alcuni si gloriavano di appartenere a Pietro, altri ad Apollo, altri ancora a Paolo (1Cor 1,12).

  •      Il brano di oggi conclude la lunga trattazione di questo argomento, iniziata con il severo monito: «Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?» (1Cor 1,13).

         Paolo impiega il plurale – «Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (v. 1) – perché non parla solo di sé, si riferisce a tutti gli annunciatori del vangelo. Con due termini espressivi ne definisce il ruolo: sono servi (hypêrétai in greco) cioè inservienti che liberamente hanno accettato di svolgere un incarico; sono dei subordinati, dei dipendenti a servizio di un signore, Cristo; sono degli amministratori (oikónomoi in greco, economi) non dei padroni, hanno in mano beni che appartengono a Dio, a loro sono stati solo affidati affinché li facciano fruttare. Agli amministratori si richiede solo la fedeltà (v. 2). Chi annuncia il vangelo – intende dire Paolo – deve avere un’unica preoccupazione: trasmettere il messaggio del Maestro, senza nulla aggiungere e nulla togliere. Il padrone non gli chiederà se è riuscito a convincere molte persone, se si è accattivato la simpatia degli uomini, se ha ricevuto applausi e approvazioni; domanderà soltanto se ha annunciato il vangelo secondo verità, senza cedere agli opportunismi, senza scendere a compromessi, senza rispetti umani.

         Nella seconda parte del brano (vv. 3-5) Paolo risponde alle critiche che i corinzi gli muovono. Assicura che non è per niente preoccupato dei giudizi pronunciati su di lui, siano essi di approvazione o di condanna. Non è ai corinzi che deve rendere conto del proprio operato, ma a Dio. Non si fida nemmeno del giudizio della sua coscienza, anche se, onestamente, riconosce che non gli rimprovera nulla (v. 4). Tiene presente questo giudizio, ma non lo considera definitivo, attende quello del Signore che verrà pronunciato al termine della dura «giornata di lavoro». Le parole dell’Apostolo non sono un invito a ignorare il giudizio che una comunità pronuncia su chi svolge un ministero. La comunità ha il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere sull’operato dei ministri e amministratori e questi non possono arrogarsi il diritto di agire in modo arbitrario e di «comportarsi da padroni» (1Pt 5,3). Ma non va dimenticato che, solo alla fine, «ciascuno riceverà da Dio la lode».

 

Vangelo: Matteo 6,24-34

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?  Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

 

Esegesi 

     Il bambino che perde i genitori non può stare solo, ha bisogno di avere qualcuno in cui riporre la sua fiducia, qualcuno che gli dia sicurezza. Egli cerca spontaneamente un modello, un punto di riferimento nella vita. Capita anche con Dio: non se ne può fare a meno, non si può rimanerne orfani; chi lo rifiuta, lo rimpiazza subito con un sostituto. Il pericolo non è l’ateismo, ma la scelta del dio sbagliato. Molti credono che, nell’alto dei cieli, ci sia un Padre che si prende cura di loro; costoro sono convinti che egli prova per loro anche sentimenti materni: si interessa, con affetto e sollecitudine, dei loro bisogni. Se egli è padre di tutti, gli uomini non sono dei compagni di viaggio, dei vicini più o meno simpatici, più o meno meritevoli di attenzioni; non sono degli antagonisti con i quali competere o, peggio ancora, dei nemici da combattere, ma dei fratelli da amare e aiutare. Non tutti accettano questo Padre. A chi lo rifiuta si presenta subito, con tutto il suo incantevole fascino, il più seducente, il più subdolo degli idoli, il denaro. Il vangelo di oggi inizia con una denuncia della pericolosità di quest’idolo (v.24).

     Matteo ci ha conservato il termine aramaico – mamônâ – usato da Gesù. È significativo: deriva dalla radice ‘aman che vuol dire offrire sicurezza, essere solido, affidabile. Il denaro, come Dio, garantisce ogni bene a chi gli presta culto: dona cibo, bevande, salute, piaceri, divertimenti; ma cosa chiede in cambio? Come ogni dio, esige tutto. Dio è il punto di riferimento dei pensieri, delle azioni, della vita dell’uomo e vuole essere amato «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). Anche il denaro pretende il coinvolgimento totale dei suoi devoti. Per amor suo bisogna essere disposti a rinunciare alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare persino moglie e figli (per loro non ci sarà più tempo!), bisogna essere pronti anche a uccidere. Coloro che adorano il denaro hanno tutto, ma non sono più uomini, divengono schiavi. «L’attaccamento al denaro – scrive l’autore della lettera a Timoteo – è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono, da se stessi, tormentati con molti dolori» (1Tm 6,10) ed è un’idolatria (Ef 5,5).  La prima follia in cui trascina l’adorazione di mamônâ e l’accumulo. Chi accumula si illude di aver trovato un obiettivo concreto e gratificante che dia un senso alla vita, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della morte. «Lasciare in eredità» è un palliativo. Il Padre che sta nei cieli si colloca agli antipodi: invita alla rinuncia all’uso egoistico del denaro. Non chiede di «non rubare», di fare elemosine, ma di instaurare un rapporto com-pletamente nuovo con i beni; propone la condivisione, l’attenzione ai bisogni dei fratelli. Qualunque forma di accumulo egoistico è una violazione del primo comandamento: «Non avrai altro dio all’infuori di me» (Es 20,3).

Nessuno può servire a due padroni; o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro. Non è possibile servire Dio e mamônâ. Noi vorremmo tenerceli buoni tutti e due, convinti che quello che non ci concede l’uno ce lo darà l’altro. Ma i due non sono soci in affari, sono antagonisti, non possono stare insieme nel cuore dell’uomo, danno ordini opposti. Il Padre che sta nei cieli ripete: «Ama, aiuta tuo fratello, dà cibo a chi ha fame, vesti chi è nudo, offri la tua casa a chi è privo di casa». Il denaro ordina invece: «Sfrutta il povero, non dare nulla gratuitamente, non preoccuparti di chi è nel bisogno, stima e apprezza le persone in proporzione di ciò che possiedono». Il distacco dai beni è uno dei temi ricorrenti nel vangelo ed è uno dei più difficili da assimilare. L’uomo infatti si affeziona ai tesori di questo mondo, è portato a idolatrarli fino a dimenticare l’eredità «che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, quella che è conservata nei cieli» (1Pt 1,4).  Fin dal suo primo discorso – quello della montagna dal quale è tratto il brano di oggi – Gesù mette in guardia i discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21). A chi lo vuole seguire chiede di dare anche il mantello e raccomanda di non volgere le spalle a chi chiede un prestito (Mt 6,40.42). Le richieste di Gesù sono paradossali e sconcertanti. Prima di decidersi ad accettarle, non si può non chiedersi: Che ne sarà della mia vita? Che cosa mangerò, che cosa berrò, come mi vestirò? Chi mi assicura che avrò poi il sufficiente per vivere? Non mi pentirò di aver rinunciato alla sicurezza che offre il denaro accumulato e goduto? Non sarà meglio limitarsi a elargire qualche elemosina?

È a questi interrogativi che Gesù risponde nella seconda parte del vangelo di oggi (vv. 25-34) dove invita alla fiducia nel Padre che sta nei cieli, che si prende cura dei figli e che non lascerà mancare il necessario a chi ha creduto in lui. Le immagini con cui è presentata la premura di Dio nei confronti delle sue creature sono deliziose: «Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (vv. 26-29). Dà quasi l’impressione di essere un ingenuo sognatore, di proporre una vita spensierata, giuliva, ma completamente staccata dalla realtà. Non è così. Gesù non suggerisce il disimpegno, l’ozio, il disinteresse o la rassegnazione, propone un rapporto nuovo con i beni: non l’accaparramento, ma la condivisione fondata sulla fiducia nella provvidenza di Dio. Il richiamo è all’esperienza dell’esodo: Israele era un popolo in cammino, non poteva accumulare, piantava tende provvisorie, non costruiva magazzini solidi e inamovibili; la manna non poteva essere raccolta in quantità maggiore a quella necessaria per un giorno, altrimenti marciva e si riempiva di vermi (Es 16,17-20); la terra non era proprietà di nessuno, ciascuno possedeva solo, per un momento, quella piccola superficie che calpestava, poi, quando muoveva in avanti il suo piede, quella terra non gli apparteneva più, diveniva proprietà di chi lo seguiva. In questo modo Dio aveva educato il suo popolo al distacco dai beni che, pur necessari alla vita, sono corruttibili e passeggeri, ma seducono, incantano e fanno distogliere lo sguardo dalla meta.

I rabbini notavano che gli israeliti avevano seguito Mosè nel deserto senza mai chiedergli: «Come potremo attraversare il deserto, senza portare con noi provvigioni per il viaggio?». Gesù non condanna la programmazione, la previdenza ma la preoccupazione per il domani, l’ansia che fa perdere la gioia di vivere e porta inevitabilmente ad accumulare e a trasformare in idoli disumanizzanti i beni di questo mondo.  Non preoccupatevi: è un verbo che nel brano di oggi viene ripetuto per ben tre volte. Sono un’eco delle sagge riflessioni del Siracide: «Molti ne uccide la preoccupazione e non c’è utilità nell’affanno. La preoccupazione per il sostentamento fa perdere il sonno, lo allontana più di una malattia» (Sir 30,23-31,2). L’affanno è comune tanto al povero quanto al ricco; il denaro non solo non elimina le inquietudini e le preoccupazioni, ma le acutizza e le esaspera. Conosciamo le notti insonni dei padri di famiglia disoccupati, senza soldi, con moglie e figli da mantenere; tuttavia sappiamo che le ansie non servono a nulla, non aiutano a risolvere i problemi del cibo e del vestito, sono un inutile dispendio di energie. Gesù suggerisce il suo rimedio a questa malattia: sollevare lo sguardo verso l’alto, verso il Padre che sta nei cieli. Questo non significa rimanere con le mani in mano, ma affrontare la realtà con cuore nuovo. Alle parole di Gesù fa eco l’autore della Lettera agli ebrei: «La vostra condotta sia senza avarizia accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò mai» (Eb 13,5). Anche di fronte alle difficoltà più gravi, Gesù invita a mantenere la pace interiore perché la vita dell’uomo è nelle mani di Dio che non abbandona i suoi figli, li accompagna in ogni istante, benedice i loro sforzi e il loro impegno.

 

Meditazione 

     Nel proporci l’ascolto del Discorso della montagna, il lezionario domenicale omette alcuni brani. Dopo aver proclamato la conclusione del capitolo quinto nella scorsa domenica, oggi giungiamo al v. 24 del capitolo sesto, tralasciando così la sua prima parte. Il testo con cui si apre il capitolo sesto (e che ascoltiamo ogni anno all’inizio della Quaresima, nel ‘mercoledì delle ceneri’) ha una sua importanza e costituisce una chiave di interpretazione dell’intero discorso. Può essere utile richiamarlo brevemente, perché ci offre una prospettiva preziosa per comprendere l’invito che Gesù ci rivolge in questa domenica, incentrato in particolare sul nostro rapporto con la ricchezza e con gli altri beni creaturali.

All’inizio del capitolo sesto Gesù parla di tre opere fondamentali della pietà ebraica, attraverso le quali siamo chiamati a vivere la nostra buona relazione con Dio (la ‘giustizia’, stando al termine usato da Matteo): l’elemosina, la preghiera, il digiuno. Al centro c’è la preghiera, parlando della quale Gesù consegna ai discepoli il Padre Nostro, che costituisce un po’ il cuore dell’intero discorso. Tuttavia, la preghiera non sta senza l’elemosina, vale a dire senza la giusta relazione con gli altri uomini nella forma della condivisione e della solidarietà, non del possesso, del potere o del dominio; né sta senza il digiuno, vale a dire il rapporto con i beni della terra, da vivere non nella voracità o nella ricchezza, ma nell’accoglienza, nella gratitudine, nella povertà. Per Gesù la giusta relazione con Dio è autentica quando trasforma il nostro modo di relazionarci con gli altri uomini e con i beni della terra. D’altra parte, è proprio nel nostro modo di vivere il digiuno e l’elemosina, e tutto ciò a cui simbolicamente rimandano, a rivelare la verità del nostro rapporto con Dio. Di queste tre relazioni si intesse non solo il brano più specifico del capitolo sesto, ma l’intero discorso, nella sua architettura complessiva. Infatti, nella sua prima parte (nel cosiddetto discorso delle antitesi) è in gioco il nostro rapporto con gli altri; al centro – all’inizio del capitolo sesto – c’è il nostro rapporto con Dio, vissuto nella preghiera, nell’elemosina e nel digiuno; infine, nell’ultima parte, subito dopo che Gesù ha parlato del digiuno, emerge più nitidamente il tema della relazione con i beni. Appaiono allora in tutta la loro nitidezza l’importanza e il valore che Gesù assegna al rapporto con le ricchezze: da esso dipende, e non in modo accidentale o secondario, il nostro stesso rapporto con quel Dio che siamo invitati a chiamare ‘Padre’. Detto in altri termini, la qualità filiale della nostra relazione con il Dio ‘Padre nostro’ dipende strettamente anche dal modo con cui ci rapportiamo con i beni della terra.

     Anche per questo motivo Gesù è così perentorio: «Non potete servire Dio e la ricchezza». Custodiamo probabilmente nella memoria la traduzione precedente, che conservava il termine aramaico: «non potete servire Dio e mammona». Termine interessante questo, poiché sembra derivare dalla stessa radice da cui proviene il termine ‘amen’. Qual è l’amen, il fondamento stabile, solido, duraturo, della nostra vita: Dio o mammona? Dio oppure le ricchezze e i beni della terra? Gesù non sembra tollerare esitazioni o compromessi: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro» (6,24).

     L’immagine metaforica del padrone evoca allusivamente un aspetto vero della ricchezza e del suo morso velenoso: essa ha un potere e una violenza di dominio sul cuore dell’uomo, e per questo si pone in modo radicale in alternativa a Dio, che è l’unico vero Signore della nostra vita, anche se, diversamente dalla ricchezza, la sua signoria è liberante. Non ci rende schiavi. Ci fa appunto rapportare con Dio non come con un ‘padrone’, ma come con un ‘padre’. Torna a emergere un aspetto che abbiamo già avuto modo di sottolineare nelle domeniche precedenti: la ‘giustizia superiore’ di cui parla Gesù in questa ampia sezione del Vangelo di Matteo è la giustizia del ‘figlio’, non quella del ‘servo’ o dello ‘schiavo’.

     La signoria di Dio è per la nostra libertà e ci libera dagli affanni e dalle preoccupazioni angosciate. L’affanno dal quale Gesù ci mette in guardia, o sul quale ci sollecita a vigilare, non deriva tanto da un modo sbagliato di cercare o di gestire i beni, il denaro, i propri desideri. La sua radice scende più in profondità: nell’autosufficienza di chi pensa di dover badare a se stesso senza altri riferimenti, e si illude di poterlo fare. Potremmo dire che è l’affanno di chi cerca se stesso nei propri possessi. Il problema vero rimane sempre lo stesso: pretendere di tenere la propria vita ben stretta in pugno, o di poterla progettare con l’opera delle proprie mani e l’estro del proprio ingegno.

     Comprendiamo allora meglio l’esortazione di Gesù a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia (v. 33). Relazionarsi da figli con un Dio che ci è padre, lasciare che sia lui a regnare sulla nostra vita, eliminando il potere che su di noi possono avere altri signori e altri idoli, purificare il nostro cuore dall’illusione di poter essere noi gli unici signori e artefici della nostra esistenza, tutto questo ci conduce ad avere un rapporto diverso con tutti i beni di cui pure la nostra vita ha bisogno. Non si tratta di non cercarli più, ma di non cercarli con affanno e con preoccupazione. Un cuore pre-occupato è appunto un cuore occupato prima e da altro, soprattutto da uno sguardo ricurvo su di sé, sui propri bisogni, sulle proprie mancanze, sulle proprie autonome possibilità…

     L’invito di Gesù è ad aprire il cuore, ad allargare lo sguardo, alzandolo da sé verso l’alto, per contemplare il modo stesso di essere e di agire di Dio. Questo è lo sguardo di Gesù che, anche nelle più piccole e insignificanti realtà (almeno all’apparenza), quali possono essere gli uccelli del cielo o i gigli del campo, sa discernere la presenza di Dio e la sua cura amorevole. Cercare il regno di Dio e la sua giustizia significa anche questo: riconoscere che la propria vita, come quella del cosmo intero, è custodita da Dio e dal suo volere che è la misericordia e la salvezza di tutti e di tutto, come il Discorso della montagna insistentemente ricorda. Il Padre è comunque colui che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).

     «Cercate anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (6,33). Chi cerca il regno di Dio torna ad accogliere in modo nuovo e diverso ogni altra persona e ogni altro bene o realtà, poiché tra se stesso e tutto ciò che incontra, o con cui si relaziona, riconosce la presenza stessa del Padre, che conferisce significato e consente di vivere in modo giusto i rapporti di cui la nostra esistenza quotidianamente si intesse. Come ci ha ricordato l’inizio del capitolo sesto, mettere al centro la relazione con Dio ci permette di vivere in modo diverso la relazione con gli altri (l’elemosina e non il potere) e con i beni della terra (il digiuno e non il possesso vorace). La giustizia superiore del discepolo del Regno è la giustizia del figlio, di colui che sa che la propria vita trova il suo stabile fondamento non nell’opera delle proprie mani, ma in ciò che riceve da Dio. Nel rimanere nella stabile relazione con il Padre, vero fondamento, amen non illusorio della propria vita.

 

Immagine della Domenica

CAMPO DI GIRASOLI LUNGO IL CAMMINO DI SANTIAGO – ESTATE 2007

 


Come i gigli dei prati e gli uccelli del cielo 

Bisogna abbandonare il passato alla misericordia di Dio,

il presente alla nostra fedeltà

e il futuro alla divina Provvidenza.

(Francesco di Sales)

 

Preghiere e racconti

La ricchezza

La ricchezza diventa un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

 

La Divina Provvidenza

Al centro della Liturgia di questa domenica troviamo una delle verità più confortanti: la divina Provvidenza. Il profeta Isaia la presenta con l’immagine dell’amore materno pieno di tenerezza, e dice così: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (49,15). Che bello è questo! Dio non si dimentica di noi, di ognuno di noi! Di ognuno di noi con nome e cognome. Ci ama e non si dimentica. Che bel pensiero… Questo invito alla fiducia in Dio trova un parallelo nella pagina del Vangelo di Matteo: «Guardate gli uccelli del cielo – dice Gesù –: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. … Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (Mt 6,26.28-29).

Ma pensando a tante persone che vivono in condizioni precarie, o addirittura nella miseria che offende la loro dignità, queste parole di Gesù potrebbero sembrare astratte, se non illusorie. Ma in realtà sono più che mai attuali! Ci ricordano che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Finché ognuno cerca di accumulare per sé, non ci sarà mai giustizia. Dobbiamo sentire bene, questo! Finché ognuno cerca di accumulare per sé, non ci sarà mai giustizia. Se invece, confidando nella provvidenza di Dio, cerchiamo insieme il suo Regno, allora a nessuno mancherà il necessario per vivere dignitosamente.

Un cuore occupato dalla brama di possedere è un cuore pieno di questa brama di possedere, ma vuoto di Dio. Per questo Gesù ha più volte ammonito i ricchi, perché è forte per loro il rischio di riporre la propria sicurezza nei beni di questo mondo, e la sicurezza, la definitiva sicurezza, è in Dio. In un cuore posseduto dalle ricchezze, non c’è più molto posto per la fede: tutto è occupato dalle ricchezze, non c’è posto per la fede. Se invece si lascia a Dio il posto che gli spetta, cioè il primo, allora il suo amore conduce a condividere anche le ricchezze, a metterle al servizio di progetti di solidarietà e di sviluppo, come dimostrano tanti esempi, anche recenti, nella storia della Chiesa. E così la Provvidenza di Dio passa attraverso il nostro servizio agli altri, il nostro condividere con gli altri. Se ognuno di noi non accumula ricchezze soltanto per sé ma le mette al servizio degli altri, in questo caso la Provvidenza di Dio si rende visibile in questo gesto di solidarietà. Se invece qualcuno accumula soltanto per sé, cosa gli succederà quando sarà chiamato da Dio? Non potrà portare le ricchezze con sé, perché – sapete – il sudario non ha tasche! E’ meglio condividere, perché noi portiamo in Cielo soltanto quello che abbiamo condiviso con gli altri.

La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori. Egli dice: «La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?» (Mt 6,25). Per fare in modo che a nessuno manchi il pane, l’acqua, il vestito, la casa, il lavoro, la salute, bisogna che tutti ci riconosciamo figli del Padre che è nei cieli e quindi fratelli tra di noi, e ci comportiamo di conseguenza… La via per la pace è la fraternità: questo andare insieme, condividere le cose insieme…

(PAPA FRANCESCO, Angelus, 2 marzo 2014)

 

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

 

Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.

Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno?

Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.

Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).

 

 

La fiducia nel Padre celeste

Nella Liturgia odierna riecheggia una delle parole più toccanti della Sacra Scrittura. Lo Spirito Santo ce l’ha donata mediante la penna del cosiddetto “secondo Isaia”, il quale, per consolare Gerusalemme abbattuta dalle sventure, così si esprime: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). Questo invito alla fiducia nell’indefettibile amore di Dio viene accostato alla pagina, altrettanto suggestiva, del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i suoi discepoli a confidare nella provvidenza del Padre celeste, il quale nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e conosce ogni nostra necessità (cfr 6,24-34). Così si esprime il Maestro: “Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno“.

Di fronte alla situazione di tante persone, vicine e lontane, che vivono in miseria, questo discorso di Gesù potrebbe apparire poco realistico, se non evasivo. In realtà, il Signore vuole far capire con chiarezza che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Chi crede in Dio, Padre pieno d’amore per i suoi figli, mette al primo posto la ricerca del suo Regno, della sua volontà. E ciò è proprio il contrario del fatalismo o di un ingenuo irenismo. La fede nella Provvidenza, infatti, non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani. E’ chiaro che questo insegnamento di Gesù, pur rimanendo sempre vero e valido per tutti, viene praticato in modi diversi a seconda delle diverse vocazioni: un frate francescano potrà seguirlo in maniera più radicale, mentre un padre di famiglia dovrà tener conto dei propri doveri verso la moglie e i figli. In ogni caso, però, il cristiano si distingue per l’assoluta fiducia nel Padre celeste, come è stato per Gesù. E’ proprio la relazione con Dio Padre che dà senso a tutta la vita di Cristo, alle sue parole, ai suoi gesti di salvezza, fino alla sua passione, morte e risurrezione. Gesù ci ha dimostrato che cosa significa vivere con i piedi ben piantati per terra, attenti alle concrete situazioni del prossimo, e al tempo stesso tenendo sempre il cuore in Cielo, immerso nella misericordia di Dio.

(Santo Padre Benedetto XVI, Angelus, 27.02.2011).  

 

L’imperativo biblico: amare le persone e usare le cose

L’imperativo biblico è piuttosto chiaro: dobbiamo amare le persone e usare le cose. Gesù ci avverte che, ovunque sia il nostro tesoro, lì ci sarà anche il nostro cuore. Sento il Signore dirci: “Risparmiate il vostro cuore per l’amore, e date il vostro amore solo alle persone: a voi stessi, al vostro prossimo e al vostro Dio. Non date mai il vostro cuore alle cose: se lo farete, quella cosa, qualunque essa sia, diventerà gradualmente la vostra padrona, vi conquisterà e vi terrà stretti al guinzaglio della dipendenza. Le preoccupazioni che ne deriveranno, vi renderanno inquieti e vi terranno svegli la notte. Quel che è peggio, se date il vostro cuore a una cosa, ben presto inizierete a invertire in modo radicale le vostre priorità. Quando si incomincia ad amare le cose, si iniziano ad usare le persone per ottenere queste cose, per avere sempre più cose. È dunque opportuno osservare che la Bibbia non dice che il denaro è la causa di ogni male, bensì che l’amore per il denaro è la causa di ogni male. Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile. Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più. Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi. Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…]

La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).

 

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa. Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono  necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

 

Dire Dio

Dio! dice la porta schiudendosi

sulla strada piena di passanti.

Dio! dice l’ape posandosi

sulla ciotola cerchiata di luce.

Dio! dice il vento che rigira

senza fine la sua fronda familiare.

Dio! dice il tordo chinandosi

per bere il cielo nello stagno.

Dio! dice la neve ricoprendo

di lana le fredde carreggiate.

Dio! dice il bambino vedendosi

giocare nelle braccia di sua madre.

E solo, quaggiù, l’uomo attende

per dire Dio a modo suo.

(M. Carême, Il sapore del pane)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ DOMENICANA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.

– E. BIANCHI ET AL., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

VII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Levitico 19,1-2.17-18

 Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».

 

  • «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo inizia la lettura.

         Nel linguaggio corrente, per santo si intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano santi i templi perché distinti, «ritagliati» dal mondo profano e riservati alla divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.

         Santi erano gli oggetti sacri che non potevano essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio, assolutamente diverso da tutto ciò che esiste. Cosa pretendeva dunque il Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere «santo»? Voleva forse che vivesse separato dagli altri popoli?

         Israele ha inteso in questo modo il comando di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che avrebbero potuto portarlo all’idolatria. Per mantenere questa «santità», ha moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un pagano.

         Essendo questa la mentalità comune, si rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c’è un testo – ed è quello che ci viene proposto oggi — in cui la «santità» è intesa in modo completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente osservanze di prescrizioni rituali.

         Per essere santi basta condurre una vita diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, ri-nunciare al rancore e alla vendetta e amare «il tuo prossimo come te stesso» (vv. 3.17-18).

         Quest’ultima clausola, assieme alla famosa raccomandazione del libro dei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere» (Prv 25,21), è il punto più alto cui è giunta la morale dell’Antico Testamento. Tuttavia, in essa è ancora presente un limite: l’amore richiesto non è universale; l’interpretazione rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d’Israele.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 3,16-23

Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.

 

  • La comunità è come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la costruzione introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema severità: «Dio – assicura Paolo – distrug-gerà lui» (v. 17). È l’immagine tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l’estrema gravita di un’azione.

         Nella seconda parte della lettura (vv. 18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la «sapienza di Dio» e quella «degli uomini». Le discordie derivano dal fatto che i mèmbri della comunità seguono la «sapienza di questo mondo», opposta a quella di Dio.

         Nella sua lettera, Paolo ha già detto che «il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini» (1,18.21.23), oggi afferma che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. 19).

         L’Apostolo non intende svalutare o disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.

         Questo pensiero introduce nelle interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad alcuni testi dell’Antico Testamento, interpretazioni che propongono scelte morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla «sapienza di questo mondo»

 

Vangelo: Matteo 5,38-48

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

 

Esegesi

     Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l’interpretazione di Gesù circa quattro testi della Toràh d’Israele. Oggi viene presentata quella relativa ad altri due.

     La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d’accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?

     Nelle società arcaiche dove non c’era un potere statale capace di mantenere l’ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.

     Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: «Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta sette volte» (Gn 4,23-24). È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,23-25). Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto.

     È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. «Occhio per occhio e dente per dente» equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt’altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.

     Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l’equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).

     I rabbini del suo tempo insegnavano: «Sii ucciso, ma non uccidere», ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti! Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.

     Ora ecco la sorpresa, Gesù non l’accetta e dice ai suoi discepoli: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio»; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l’ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.

     Il primo riguarda la violenza fisica: «se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra…» (v. 41).

     Quando si riceve uno schiaffo, se l’aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un’offesa gravissima, punita in Israele con un’ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: «tu pórgigli anche l’altra».

     «Buoni sì, ma non stupidi!», si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch’egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l’altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l’ingiustizia, a sopportare l’umiliazione, piutto-sto che reagire facendo del male al fratello.

     L’unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un’altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un’altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell’umanità.

     Il secondo esempio si riferisce all’ingiustizia economica (v. 40).

     In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un’ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).

     Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null’altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l’ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.

     Il terzo esempio è l’abuso del potere (v. 41).

     Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).

     Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: «Se un soldato ti requisisce l’asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso».

     Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: «se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due». Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convenire l’aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall’amore.

     Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore…) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.

     Gesù dice al discepolo: «Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.

     Nell’ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (vv. 43-48). Nell’Antico Testamento il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici.

     Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: «Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile» (Sal 139,12-22).

     Espressione di questo odio è l’invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: «Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio».

     Ci sono però nella Bibbia – è bene ricordarlo – altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Prv 24,29) e si raccomanda l’amore al nemico: «Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l’opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.

     In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».

     È l’apice dell’etica cristiana, è la richiesta dell’amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.

     Alcuni saggi dell’antichità hanno fatto proposte morali elevate: «Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici» (Diogene). «Proprio dell’uomo è amare anche coloro che lo percuotono» (Marco Aurelio); ma l’imperativo Ama i tuoi nemici è un’invenzione di Gesù.

     Il secondo comando – pregate – suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l’amore per «chi ci perseguita», per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cie-lo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.

     Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l’indole del Padre celeste «egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!

     Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei «figli di Dio» è l’amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.

     La conclusione addita la meta irraggiungibile: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).

     La perfezione del giudeo consisteva nell’esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l’amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell’uomo — compreso il nemico – colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.

 

Meditazione

     Quando ne sentiamo parlare o, peggio ancora, la sappiamo nuovamente riapplicata, abbiamo un sussulto alle viscere e ci assale un moto di disgusto. Eppure, per quanto possa apparirci difficile da credere, la legge del taglione venne introdotta quale efficace strumento per evitare il debordare della violenza incontrollata e porre un argine alla ‘legge del più forte’. A una offesa si potrà (o si dovrà?) contrapporre analoga ferita: non di più! Se abbiamo però il coraggio di non censurare pensieri e sentimenti che irrompono dentro di noi quando qualcuno ci tocca sul vivo, magari mettendo a nudo qualche tratto vergognoso della nostra esistenza, forse la legge ‘dell’occhio per occhio’ non ci apparirebbe così arcaica e primitiva, scoprendo anzi di essere capaci di ben peggiori violenze: quante volte abbiamo maledetto, imprecato – se non abbiamo addirittura augurato una rapida dipartita da questa terra – a chi (ci) faceva del male ‘gratuitamente’, senza ragione alcuna? Se situazioni aberranti ridestano fortunatamente in noi la capacità di scandalizzarci e di intervenire, la nostra reazione non è forse sempre commisurata alla colpa commessa (contro di noi)…

     Comunque sia, le parole di Gesù riportate nel brano evangelico di questa settimana aprono la strada a un cammino infinito, stimolando le migliori energie positive che possono sprigionarsi anche da ognuno di noi. L’apparente contraddizione tra Primo e Nuovo Testamento, tra «avete inteso che fu detto» (5,38.43) e «ma io vi dico» (5,39.44), è solo la riproposizione religiosa della legge del taglione sopra citata: quelle norme, introdotte addirittura nel testo biblico, per cercare di evitare un male peggiore e l’insorgere dell’arbitrarietà, sono ora accostate allo splendore massimalista del desiderio del Signore: «Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). La speranza di un mondo riconciliato e unito nell’amore non è favola per bambini ma vigoroso ed esigente programma esistenziale del discepolo di Gesù.

     È estremamente facile entrare in rotta di collisione con altri ma quanto è difficile ricucire un tessuto relazionale! Concretamente, cosa si può fare nei confronti del malvagio? Un’arte laboriosa si richiede… Un primo passo, già estremamente impegnativo, è non replicare al male con il male (cfr. 5,39-41), bloccare in sé quella spontanea reazione di vendetta che ci illude falsamente di ristabilire una qualche forma di giustizia e legalità. Non chiudere i ponti, arrivare a prestare a chi domanda (cfr. 5,42) suppone la capacità di riuscire a vedere nella persona richiedente – ‘il cattivo’ – almeno una scintilla di quel bene che altri – e magari lui stesso – non riesce più a scorgere: sperare pertanto in un cambiamento della persona è dare credito, dare fiducia a quel desiderio di umanità e autenticità che abita le profondità di ognuno di noi.

     Gesù arriva addirittura a chiedere il superamento della reciprocità: un amore autentico non calcola ma si offre generosamente, perché «pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13,9). E ci sferza con decisione, quasi irridendo quei nostri sforzi che ci appaiono impari: «se amate quelli che vi amano, cosa fate di straordinario?» (5,46.47). Va precisato che così dicendo Gesù non banalizza affatto l’amicizia o mette a un livello inferiore l’amore che può esistere tra coniugi: si sta parlando del caso del ‘nemico’, di cui mai si chiede di diventare amico. Sono situazioni differenti!

     Forse mai come in questa situazione ci appare debole la nostra carne: come si può amare chi ci è stato o ci è ancora nemico? Senza entrare nelle infinite e reali sfumature dei singoli casi personali, su cui peraltro ognuno di noi è chiamato a verificarsi, comprendiamo come solo grazie all’azione dello Spirito santo ci possa essere offerta la possibilità di incamminarci su questo erto ma liberante cammino di crescita. Quella preghiera che sale incessantemente al Padre dal Signore risorto e che ci viene domandata anche verso i nostri persecutori (5,44) è forse l’espressione più completa di quella perfezione d’amore che Gesù ha testimoniato durante tutta la sua esistenza.

     Vigiliamo sui nostri sentimenti e facciamone attenta verifica: stupiti dall’amore di Gesù, che ci ha amati mentre eravamo ancora nemici (cfr. Rm 5,10), saremo in grado di purificare il nostro cuore e camminare nella via dell’amore.

 

Immagine della Domenica

 

CAMPI DI CASTIGLIA  –    2005


Una leggenda irlandese

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affiggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono. Le caratteristiche richieste erano le seguenti: 1) amare Dio e 2) amare gli altri esseri umani.

Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente potè mettersi in viaggio alla volta del castello. Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano: «Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?»

Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente potè accedere nella sala del trono.

Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore. «Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada».

«Sì», rispose il re. «Quel mendicante ero proprio io». «Ma non siete un vero mendicante. Siete il re». «Sì, sono il re». «Perché avete fatto questo?», chiese, allora, il giovane. «Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali. Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore. Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani. Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!»

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 109-110)

 

Preghiere e racconti

 

L’amore universale

“Parlando dell’amore, ci si riferisce di solito all’amore fra genitori e figli, marito e moglie, parenti, amici. Dipendendo per natura dai concetti di “io” e “mio”, questo amore è imprigionato nell’attaccamento e nella discriminazione. La gente vuole amare soltanto i propri genitori, il proprio coniuge, i propri figli e nipoti, i propri parenti e i propri amici. Poiché è irretita nell’attaccamento, teme i mali a cui sono esposte le persone amate e se ne preoccupa prima che accadano. Poi, quando le disgrazie vengono, la sofferenza è tremenda. L’amore fondato sulla discriminazione genera il pregiudizio, ovvero indifferenza e persino ostilità nei confronti di coloro che escludiamo dal nostro amore. Attaccamento e discriminazione sono cause di sofferenza per noi stessi e per gli altri. In realtà, l’amore a cui tutti gli esseri aspirano è l’amore universale. Nell’amore universale vi è compassione e dedizione. Compassione e dedizione non sono limitate ai genitori, al coniuge, ai figli, ai parenti, agli amici, ma si allargano a tutta l’umanità e a tutti gli esseri. Compassione e dedizione hanno come fine la felicità di tutti e non pretendono nulla in cambio. Senza di essi, senza l’amore universale, la vita è senza gioia. Con la compassione e la dedizione agli altri, con l’amore universale, la vita si colma di pace e di gioia.”

(Thich Nhat Hanh, Old Pth White Clouds (1991); trad. It. Vita di Siddharta il Buddha, Ulbaldini, 1992, pag. 189)

 

Abbi misericordia di tutti, perché la misericordia trova fiducia presso Dio

Un fratello della Libia venne da abba Silvano sul monte Panefo e gli disse: «Abba, ho un nemico che mi fa del male; quand’ero nel mondo mi ha rubato il mio campo, mi ha spesso teso insidie, ed ecco che ha assoldato della gente per avvelenarmi. Voglio consegnarlo al giudice». L’anziano gli disse: «Fa’ ciò che ti da pace, figliolo». E il fratello disse: «Abba, se riceve il castigo, la sua anima non ne trarrà profitto?». L’anziano disse: «Fa’ come ti pare, figliolo». Il fratello disse all’anziano: «Alzati, padre, preghiamo e poi vado dal giudice».

L’anziano si alzò e dissero il «Padre nostro». Come giunsero alle parole: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12), l’anziano disse: «Non rimettere a noi i nostri debiti, come noi non li rimettiamo ai nostri debitori». Il fratello disse: «Non è così, padre». «È così, figliolo, – disse l’anziano – se veramente vuoi andare dal giudice per vendicarti, Silvano non fa altra preghiera per te». E il fratello si prostrò e perdonò al suo nemico.

Di abba Macario il Grande dicevano che diventò, come sta scritto, un dio sulla terra (cfr. Sal 81 [82] ,6), perché, come Dio copre il mondo, così abba Macario copriva le debolezze che vedeva come se non le vedesse, e quelle che udiva, come se non le udisse.

Abba Teodoro di Ferme interrogò abba Pambo: «Dimmi una parola!». Con molta fatica gli disse: «Teodoro, va’, abbi misericordia di tutti, perché la misericordia trova fiducia presso Dio».

(PADRI DEL DESERTO, Detti, in Detti editi e inediti dei padri del deserto, Bose, 2002, pp. 223; 297-298).

 

Amore del nemico

«Amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani.» Queste parole di Tertulliano (Ad Scapulam 1,3), che vogliono esprimere la differenza cristiana, vertono significativamente sull’amore per i nemici.

Questo appare come vera e propria sintesi del Vangelo: se tutta la Legge si sintetizza nel comando dell’amore di Dio e del prossimo (Marco 12,28-33; Romani 13,8-10; Giacomo 2,8), la vita secondo il Vangelo trova il suo compimento nelle parole e nei gesti di Gesù che indicano nell’amore del nemico l’orizzonte della prassi cristiana. Dice infatti Gesù: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Luca 6,27; cfr. Luca 6,28-29.35; Matteo 5,43-48) e tutta la sua vita – fino al momento della lavanda dei piedi anche a Giuda, colui che si era fatto suo nemico; fino alla croce, luogo del suo amore «fino alla fine» per i suoi (Giovanni 13,1); fino alla preghiera per i suoi carnefici mentre lo crocifiggevano (Luca 23,33-34) – attesta questo amore incondizionato rivolto anche al nemico. Il cristiano, chiamato ad assumere il sentire, il pensare, il volere di Cristo stesso (cfr. Filippesi 2,5), si trova dunque sempre confrontato con questa esigenza.

Ma occorre chiedersi: è realmente possibile amare il nemico, e amarlo mentre manifesta la sua ostilità e inimicizia, il suo odio e la sua avversione? È umanamente possibile tale scandalosa simultaneità? L’esperienza infatti ci rivela che il fascino per l’assolutezza dell’amore del nemico svanisce in assoluta dimenticanza e diviene incapacità di dargli consistenza esistenziale di fronte alle precise e concrete situazioni di inimicizia. E forse già questo rappresenta un primissimo, e umanamente fondamentale, momento del cammino verso l’amore del nemico. Inoltre il cristiano è portato dal Vangelo a vedere in se stesso il nemico amato da Dio e per cui Cristo è morto: questa è l’esperienza di fede basilare da cui soltanto potrà nascere l’itinerario spirituale che conduce all’amore per il nemico! Scrive Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatori e nemici, Cristo è morto per noi» (cfr. Romani 5,8-10). Su questa esperienza di fede occorre innestare la progressività di una maturazione umana che conduce ad acquisire il senso positivo dell’alterità, la capacità dell’incontro, della relazione e quindi dell’amore. Già l’Antico Testamento, quando invita l’israelita ad amare il prossimo come se stesso, propone una sorta di itinerario: «Io sono il Signore, non coverai odio verso tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Levitico 19,17-18). Anzitutto è richiesta l’adesione di fede a colui che è il Signore, quindi l’israelita è chiamato a impedirsi sentimenti di odio (atteggiamento negativo), poi a correggere colui che fa il male (atteggiamento positivo) proibendosi di farsi vendetta da sé (atteggiamento negativo) e amando così il suo prossimo come se stesso (atteggiamento positivo). All’amore si arriva attraverso un cammino, un esercizio.

L’amore non è spontaneo: esso richiede disciplina, ascesi, lotta contro l’istinto della collera e contro la tentazione dell’odio. Così si perverrà alla responsabilità di chi ha il coraggio di esercitare una correzione fraterna denunciando «costruttivamente» il male commesso da altri. L’amore del nemico non va confuso con la complicità con il peccatore! Anzi, proprio la libertà di chi sa correggere e ammonire chi compie il male nasce dalla profondità della fede e da un amore per il Signore che sono la necessaria premessa per l’amore del nemico.

Chi non serba rancore e non si vendica, ma corregge il fratello, è infatti anche in grado di perdonare: e il perdono è la misteriosa maturità di fede e di amore per cui l’offeso sceglie liberamente di rinunciare al proprio diritto nei confronti di chi ha già calpestato i suoi giusti diritti. Chi perdona sacrifica un rapporto giuridico in favore di un rapporto di grazia! Anche Gesù, quando chiede di amare il nemico, immette il credente in una tensione, in un cammino. Dallo sforzo per superare sempre di nuovo la legge del taglione, cioè la tentazione di rendere il male che si è ricevuto, il credente deve pervenire a non opporsi al malvagio, a contrapporre al male l’attivissima passività della non violenza, fidando nel Dio unico Signore e Giudice dei cuori e delle azioni degli uomini. Anzi, mossi dalla convinzione che il nemico è il nostro più grande maestro, colui che può veramente svelare ciò che abita il nostro cuore e che non emerge quando siamo in buoni rapporti con gli altri, i credenti possono obbedire alle parole del loro Signore che invitano a porgere l’altra guancia, a devolvere anche la tunica a chi vuole toglierci il mantello…

Ma perché tutto questo sia possibile è indispensabile ciò che sempre è ricordato dai Vangeli accanto al comando di amare i nemici, e cioè la preghiera per i persecutori, l’intercessione per gli avversari: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,44). Se non si assume l’altro – e in particolare l’altro che si è fatto nostro nemico, che ci contraddice, che ci osteggia, che ci calunnia – nella preghiera, imparando così a vederlo con gli occhi di Dio, nel mistero della sua persona e della sua vocazione, non si potrà mai arrivare ad amarlo! Ma deve essere chiaro che l’amore del nemico è questione di profondità di fede, di «intelligenza del cuore», di ricchezza interiore, di amore per il Signore, e non semplicemente di buona volontà!

(E. BIANCHI, Parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 169-172).

 

La via dell’amore

Guardate per quale via Dio va verso gli uomini, verso i suoi nemici. È la via che la Scrittura stessa chiama stoltezza, la via dell’amore sino alla croce. Riconoscere la croce di Gesù Cristo come l’invincibile amore di Dio verso tutti gli uomini, verso di noi come verso i nostri nemici: questa è la più grande sapienza. O crediamo che Dio ami noi più di quanto ama i nostri nemici? Crediamo forse di essere i beniamini di Dio? La croce non è proprietà privata di nessuno: essa appartiene a tutti gli uomini,  ha valore per tutti. Dio ama i nostri nemici – ecco quel che ci dice la croce – per loro egli soffre, per loro conosce la miseria e il dolore, per loro ha dato il suo Figlio amato. Per questo è di capitale importanza che dinanzi a ogni nemico che incontriamo, subito pensiamo: Dio lo ama, per lui Dio ha dato tutto. Anche tu, ora, dagli ciò che hai: pane, se ha fame; acqua, se ha sete; aiuto, se è debole; benedizione, misericordia, amore. Ma lo merita? Sì. Chi infatti merita di essere amato, chi è bisognoso del nostro amore più di colui che odia? Chi è più povero di lui? Chi più bisognoso di aiuto, chi più bisognoso di amore del tuo nemico?

Hai mai provato a considerare il tuo nemico come qualcuno che, in fondo, ti sta dinanzi nella sua estrema povertà, e ti prega, senza poter dar voce alla sua preghiera: «Aiutami, donami quell’unica cosa che mi può ancora essere di aiuto a liberarmi dal mio odio, donami l’amore, l’amore di Dio, l’amore del Salvatore crocifisso»? Tutte le minacce, tutti i pugni protesi sono in definitiva un mendicare l’amore di Dio, la pace, la fraternità. Tu respingi il più povero dei poveri, lo metti alla porta, quando respingi il tuo nemico […]. Il carbone ardente brucia e fa male, quando ci tocca. Anche l’amore può bruciare e far male. Ci insegna a riconoscere quanto miseri siamo. È il dolore bruciante del pentimento quello che si fa sentire in colui che, nonostante l’odio e le minacce, trova solo amore, nient’altro che amore Dio ci ha fatto conoscere questo dolore. Quando lo abbiamo sperimentalo, ecco, è scoccata l’ora della conversione.

(D. BONHOEFPER, Memoria e fedeltà, Magnano 1979, 117s. e 123s., passim).

 

Pregare per i nostri nemici

I cristiani si ricordano a vicenda nelle preghiere (Rm 1,9; 2Cor 1,11; Ef 6,8;Col 4,3) e così facendo danno aiuto e forse salvezza a coloro per i quali pregano (Rm 15,30; Fil 1,19). Ma il testo decisivo sulla preghiera di compassione va al di là delle preghiere per i propri fratelli cristiani, per i membri della comunità, per gli amici e i parenti. Gesù dice senza possibilità di equivoci: «Io vi dico: amate vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44); e nel profondo della sua agonia sulla croce, prega per coloro che lo stanno uccidendo: «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 25,54). Qui viene reso visibile il vero significato della disciplina della preghiera. Pregare ci fa portare al centro del nostro cuore non solo coloro che ci amano, ma anche quelli che ci odiano. Questo e possibile unicamente se siamo disposti a fare dei nostri nemici parte di noi stessi, convertendoli in tal modo innanzitutto nel nostro cuore. La prima cosa che siamo chiamati a fare quando pensiamo agli altri come a dei nemici, è pregare per loro. Non è davvero cosa facile.

Ci vuole disciplina per far entrare nel profondo del nostro cuore coloro che ci odiano o coloro verso i quali nutriamo sentimenti di ostilità. Le persone che ci rendono la vita difficile e ci causano frustrazione, dolore e anche danno, sono le ultime ad avere una probabilità di trovare posto nel nostro cuore. Eppure ogni volta che superiamo l’intolleranza nei confronti dei nostri antagonisti e siamo disposti ad ascoltare il grido di coloro che ci perseguitano, riconosciamo anche in loro dei fratelli e delle sorelle.

Pregare per i nostri nemici è, dunque, un evento concreto, l’evento della riconciliazione. È impossibile innalzare i nostri nemici alla presenza di Dio e contemporaneamente continuare a odiarli. Visti nel contesto della preghiera, anche il dittatore senza scrupoli e il torturatore perverso cessano di apparire come oggetto di paura, di odio e di vendetta, perché quando preghiamo siamo al centro del grande mistero della divina compassione. La preghiera trasforma il nemico in amico e per questo è l’inizio di una nuova relazione. Probabilmente non c’è preghiera tanto potente quanto quella per i nostri nemici. Ma è anche la preghiera più difficile, perché è la più contraria ai nostri moti naturali. Questo spiega perché alcuni santi ritengono la preghiera per i nemici il principale criterio di santità.

(J.M. Nouwen, Compassione, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 41).

 

Per imparare l’amore di Dio

Se vuoi imparare l’amore di Dio, devi cominciare col pregare per i tuoi nemici. È più difficile di quanto sembri. Pregare per gli altri ci obbliga a volere ciò che è meglio per loro, il che è tutt’altro che facile se, per esempio, riguarda un compagno di scuola che parla male di te, una ragazza che considera qualcun altro più attraente di te, uno che si proclama tuo amico e che ti sfrutta per tanti piccoli favori che non vorresti fargli, o un collega che fa del suo meglio per soffiarti il posto. Eppure, ogni volta che preghi – ma preghi davvero – per i tuoi nemici, ti accorgi che il tuo cuore si rinnova.

Nel contesto della tua preghiera, scopri subito che i tuoi nemici sono in realtà esseri umani come te, amati da Dio come sei amato tu. Ne deriva che gli steccati che hai eretto tra ‘lui e me’, ‘noi e loro’, ‘il nostro e il loro’ scompaiono. Il tuo cuore guadagna in profondità e ampiezza e si apre sempre più a tutti gli esseri umani che Dio nel suo amore fa vivere qui in terra.

Mi riesce difficile immaginare una via per giungere all’amore che sia più concreta della preghiera per i nemici. Ti obbliga infatti ad accettare la verità non sempre gradita che, agli occhi di Dio, tu non sei ne più degno né meno degno di essere amato di quanto lo siano gli altri, e crea una consapevolezza di profonda solidarietà con tutti gli uomini. Crea inoltre in te una compassione universale e un cuore sempre più libero dall’istinto di ricorrere alla sopraffazione e alla violenza. E avrai la grande gioia di scoprire che ti è impossibile arrabbiarti con coloro per i quali hai veramente pregato. E vedrai che comincerai a parlare in un altro modo a loro o di loro e che sarai proprio deciso a fare del bene a chi in qualche modo ti ha fatto del male.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 64).

 

Con tutto il cuore

Se ami Dio senza amare il prossimo,

ami soltanto un’immagine e di un amore immaginario.

L’amore di Dio che non sia nel contempo servizio del prossimo,

è un’immensa menzogna che uno racconta a se stesso…

Se ami il prossimo senza amare Dio,

che amore è questo?

E’ l’istinto del gregge e gusto del calore

e del tanfo della moltitudine,

è la paura di stare da soli, è il piacere di strofinarsi agli altri

oppure odio in comune di qualche altro gregge.

Se ami te stesso senza amare né Dio né il prossimo

questo amore è il contrario dell’amore.

Ma se ami Dio e il prossimo senza amare te stesso,

l’amor tuo non è un dono,

poiché non si può far dono di ciò che non si ama;

è il contrario di un dono: è un oblio;

è il contrario di un sacrificio: è un suicidio.

E’ perdita, non amore, poiché in te non vi è nessuno

che possa amare.

Ordunque, ama Dio per amore del prossimo e di te stesso

ama il prossimo per amore di Dio e di te stesso

ama te stesso per amore del prossimo e di Dio.

Non opporre gli opposti, anzi congiungili nell’amore.

(Lanza del Vasto)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ DOMENICANA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.

– E. BIANCHI ET AL., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

VII DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

Fiducia e speranza, un percorso cinematografico

Nel Messaggio per la 51° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, papa Francesco invita gli operatori della comunicazioni e la comunità tutta a offrire una testimonianza della “buona notizia”: raccontare il contesto sociale e le dinamiche relazionali in maniera attenta e realistica, badando bene però di non sottrarre all’informazione anche una luce di speranza. Per questo, l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e la Commissione nazionale valutazione film della CEI (Cnvf) offrono, a partire da giovedì 2 febbraio, una proposta cinematografica nel segno della “buona notizia”. Si tratta di un ciclo di schede film ragionate, pubblicate ogni settimana fino al 28 maggio sul portale dedicato alla Giornata e sul sito Cnvf.it (sezione: “sguardi di fede”). Il percorso rappresenta una scaletta culturale “per agire”, per animare il territorio attraverso cineforum parrocchiali, sale della comunità oppure l’attività didattica di docenti o catechisti.
Ogni settimana sarà pertanto segnalato un film – disponibile al cinema o reperibile in dvd – adatto alla riflessione, corredato da un approfondimento dell’opera in chiave educational, dalla menzione di ulteriori spunti cinematografici e con richiami alla scheda di valutazione pastorale del film (sempre a cura della Cnvf).

Le pellicole indicate nel programma appartengono a generi e stili narrativi diversi, che permettono di esplorare la società in tutte le sue sfaccettature, mettendo in evidenza nodi problematici e sfide del quotidiano, ma rivelando comunque un messaggio di speranza e una possibilità di riscatto. Nella scelta si alternano quindi commedie frizzanti come “Ho amici in Paradiso” di Fabrizio Maria Cortese, che declina la malattia e la disabilità con rispettoso umorismo, a duri ritratti di una burocrazia distante dal tessuto sociale come in “Io, Daniel Blake” di Ken Loach.

Per maggiori informazioni sul percorso e per chiarimenti sulle proposte – anche in relazione al pubblico di riferimento – è possibile contattare la Commissione nazionale valutazione film all’indirizzo: cnvf@chiesacattolica.it

 

Calendario delle proposte:

Giovedì 2 Febbraio: Ho amici in Paradiso (2016) di Fabrizio Maria Cortese
Giovedì 9 Febbraio: Veloce come il vento (2016) di Matteo Rovere
Giovedì 16 Febbraio: La pazza gioia (2016) di Paolo Virzì
Giovedì 23 Febbraio: Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi
Giovedì 2 Marzo: Race. Il colore della vittoria (Race, 2016) di Stephen Hopkins
Giovedì 9 Marzo: Gli invisibili (Time Out of Mind, 2014) di Oren Moverman
Giovedì 16 Marzo: Marie Heurtin. Dal buio alla luce (Marie Heurtin, 2016) di Jean Pierre Ameris
Giovedì 23 Marzo: Oceania (Moana, 2016) di Ron Clements, John Musker
Giovedì 30 Marzo: Sully (2016) di Clint Eastwood
Giovedì 6 Aprile: Fiore (2016) di Claudio Giovannesi
Mercoledì 12 Aprile: Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake, 2016) di Ken Loach
Giovedì 20 Aprile: Brooklyn (2016) di John Crowley
Giovedì 27 Aprile: Paterson (2016) di Jim Jarmush
Giovedì 4 Maggio: Piuma (2016) di Roan Johnson
Giovedì 11 Maggio: La ragazza senza nome (La fille inconnue, 2016) di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Giovedì 18 Maggio: Silence (2016) di Martin Scorsese
Giovedì 25 Maggio: Collateral Beauty (2016) di David Frankel

«CATECHETICA ED EDUCAZIONE»

“Progetto educativo e IRC”

L’Istituto di Catechetica (ICA), a partire dal 2014, ha avviato una progettazione triennale dedicata all’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC), in particolare alla formazione in servizio dei Docenti di religione di ogni ordine e grado. Le iniziative si collocano nel fecondo solco di attività dedicate all’istruzione religiosa, all’educazione religiosa e alla pedagogia religiosa, che per oltre un trentennio hanno visto l’ICA in prima fila, in particolare attraverso la preziosa dedizione del compianto Prof. Zelindo Trenti.

L’offerta formativa e articolata in un Seminario di Studio preparatorio (destinato a Ricercatori, Esperti e Cultori della materia), un Convegno e un Corso residenziale, aperti a Insegnanti di Religione di ogni ordine e grado di scuola; tutte e tre le iniziative sono a carattere nazionale.

La tematica generale del triennio –“Educazione, apprendimento e insegnamento della religione” – accosta l’insegnamento religioso con attenzione particolare ad aggiornate questioni scolastiche e nel quadro generale di un’attenta riflessione pedagogica, in modo da offrire un qualificato contributo al decennio in corso, dedicato per l’appunto all’educazione.

La prima annualità è stata riservata a osservare la situazione dell’istruzione religiosa (sul triplo versante degli studenti, dei docenti e della disciplina) e a sottolinearne le prospettive educative. Il secondo momento ha concentrato l’attenzione sulle due situazioni dell’educazione e dell’apprendimento, sempre riferite all’insegnamento della religione. La finalita e stata quella di tematizzarne in maniera aggiornata la differenza e complementarita, sia in un quadro pedagogico generale, sia in un approccio didattico specifico, per cogliere risorse, apporti, problemi e limiti. La terza tappa è tutta dedicata al tema della cittadinanza, dell’articolazione dei valori e dell’educazione.

Il presente numero della Rivista intende offrire all’attenzione dei lettori la riflessione proposta da studiosi ed esperti in occasione del Corso IRC 2016, tenutosi dal 3 al 9 luglio presso l’Hotel S. Chiara di Chianciano Terme.3 Il tema – “Progetto educativo e IRC” – risponde alla logica del percorso formativo, poiche cerca di evidenziare come il lavoro scolastico – e quindi l’insegnamento della religione –si muova in un orizzonte di relazioni educative, che vedono protagonisti allievi, insegnanti e la disciplina stessa. Gli esiti positivi e le ripercussioni problematiche non sono mai unidirezionali; il profilo di cio che accade a scuola non e statico ma processuale; il ≪gioco  apprendimento/insegnamento non riguarda solo lo studente, ma tutti gli attori in campo, compresa la stessa disciplina; le condizioni culturali, contestuali e quelle strutturali di esercizio del lavoro scolastico e dell’istruzione religiosa hanno ripercussioni positive e negative nell’esito dei processi educativi ed apprenditivi. L’insegnamento della religione puo svolgere un ruolo originale e critico in un quadro scolastico che va modificandosi e pone l’accento in maniera esigente su questioni a cui viene dato un nome nuovo, ma che non sempre sono novita in senso assoluto.

Ecco perche la prospettiva e quella dell’educar-ci nelle situazioni tipicamente scolastiche, facendo eco al tema del Convegno IRC, realizzato nel mese di marzo 2016.

Collocare l’IRC in un percorso educativo richiede una visione progettuale, che valorizza un approccio pluridisciplinare in una fondata cornice epistemologica. In questa linea J.L. Moral segnala che viviamo una mutazione culturale senza precedenti e, quindi, abbiamo bisogno di ripensare l’antropologia, l’umanesimo, la religione, l’educazione e la scuola. Ripensare per ricostruire: un’antropologia che consideri l’uomo come ≪animale simbolico≫, come liberta, linguaggio e relazione; un umanesimo nel pluralismo contemporaneo; un’educazione e una scuola che cercano un progetto comune, l’affermazione cioe dell’≪umano autentico≫ a partire dalla dignità universale e dai diritti umani. Il contributo di G. Usai evidenzia che il rinnovamento dell’educazione religiosa e caratterizzato dalla valorizzazione della religione come risorsa umanizzante, che getta nuova luce anche sull’apprendimento di contenuti, sull’esercizio di abilita e lo sviluppo di competenze specifiche. Si presentano nuove sfide sul versante ermeneutico, pedagogico ed etico. Giacche lo studio del mondo religioso richiede un approccio multidimensionale e confluisce in una vasta azione educativa, viene offerta una definizione dell’educazione che ne esprima i tratti consoni all’esperienza scolastica e che possa supportare adeguatamente l’istruzione religiosa.

Sul versante psico-pedagogico tre interventi forniscono basi argomentate ad un agire educativo e scolastico efficace. Z. Formella propone come base teorica per organizzare un intervento psico-educativo il contributo di U. Bronfenbrenner, sottolineando il legame tra la qualità della relazione educativa e il livello dell’apprendimento, per cui il segreto del successo scolastico e riconducibile in buona misura alle qualità complessive dell’insegnante. Altro riferimento a un modello di agire educativo e quello offerto da D. Grząziel, che concentra l’attenzione sulla “razionalità ctnologica”, evidenziandone risorse e limiti dell’applicazione in campo educativo, grazie a una lettura in prospettiva antropologica. Anche G. Cursio fa riferimento a un approccio teorico, quello dello studioso P. Meirieu, e alla teoria dei compiti di sviluppo, presente nella ricerca di P. Gambini, per esplorare termini fortemente connessi con l’educazione: progetto, cambiamento, studente. I compiti di sviluppo possono essere interpretati come “domande educative implicite” in base alle quali progettare le esperienze di apprendimento scolastico e la “scrittura del diario” puo divenire un’efficace strategia per il cambiamento.

L’area didattica e stata esplorata più direttamente attraverso altri tre contributi. Partendo dalla necessità che i docenti siano in grado di progettare un curricolo di insegnamento e dall’osservazione che i singoli non sempre hanno sviluppato competenze specifiche, M. Pellerey offre suggerimenti operativi, non solo per individuare valide metodologie, ma soprattutto per realizzare una progettazione in maniera efficace e sistematica. Spostando l’attenzione piu direttamente sull’insegnamento della religione cattolica e facendo riferimento alle Indicazioni Nazionali per l’IRC, C. Carnevale sottolinea come l’obiettivo dello sviluppo delle specifiche competenze proietta l’insegnamento della religione in un orizzonte educativo. Infatti la costante educativa, che fa da sfondo ai percorsi di IRC per i diversi gradi scolastici, trova la sua configurazione tra gli ambiti riguardanti la persona, l’esistenza, il linguaggio religioso e l’interpretazione della realta.

Secondo M. Wierzbicki l’insegnamento della religione deve svolgersi a partire dalle competenze di base della disciplina e dalla conoscenza dei modelli e degli schemi linguistici fondamentali per esprimere il trascendente. La capacita umanizzante della religione, insieme con la flessibilita dei processi di apprendimento, l’integrazione e l’interdisciplinarieta sostengono gli insegnanti ad aprirsi sempre piu all’innovazione delle conoscenze e delle competenze.

Infine, il contributo di Corrado Pastore completa la visione d’insieme attorno al “ progetto educativo e IRC”, spostando l’attenzione sull’educazione nella Bibbia: tema importante anche se non molto studiato. Attraverso un breve e documentato excursus sui contesti educativi e i principali concetti pedagogici presenti nel testo biblico, si ricava il nodo in cui Dio ha cercato di educare il popolo d’Israele e Gesù i suoi discepoli. L’attenzione e volutamente spostata dalla concreta cornice storico-culturale che ha prodotto il testo alla radice del suo contenuto e quindi allo “stile educativo”, al “metodo educativo”, all’itinerario di approccio alla vita. La visione d’insieme delle cose, la lettura sapienziale del mondo, il metodo per accostare proficuamente e costruttivamente la realtà esattamente ciò a cui in fondo dovrebbe mirare apprendimento/insegnamento, ciò a cui educativamente offre il suo specifico contributo l’IRC, ciò a cui vorrebbe lavorare la scuola italiana, quando cerca di applicarsi alla questione dell’“innovazione” e delle “competenze”.

 

I MEMBRI DELLSTITUTO DI CATECHETICA

catechetica@unisal.it

 

 Per scaricare il secondo numero in formato pdf entra nel banner: “RIVISTA DI CATECHETICA ED EDUCAZIONE” dalla home della rivista 

VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Siracide 15,16-21

Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà. Grande infatti è la sapienza del Signore; forte e potente, egli vede ogni cosa. I suoi occhi sono su coloro che lo temono, egli conosce ogni opera degli uomini. A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare.

 

«Se vedi una persona saggia, va’ presto da lei; il tuo piede consumi i gradini della sua porta» (Sir 6,36). Questa frase avrebbe potuto essere scritta all’entrata della scuola che, fra la fine del III e l’inizio del II secolo a. C., Ben Sira (il Siracide) aveva aperto a Gerusalemme. Ai giovani discepoli che seguivano le sue lezioni e che, d’altra parte, si sentivano anche attratti dalle proposte seducenti del mondo ellenistico ed erano affascinati dalle lusinghe della vita pagana, egli indicava il cammino della vita, insegnava la Toràh, la sapienza di Dio. Era anche un poeta, Ben Sira. La Toràh era per lui «come un cedro del libano, come un cipresso sui monti dell’Ermon, come una palma in Engaddi, deliziosa come le rose di Gerico»; ne assaporava il profumo, «come di cinnamomo e balsamo, come mirra scelta»; vedeva la sapienza uscire dai suoi rotoli e traboccare «come il Giordano nei giorni della mietitura» (Sir 24,13-24). Incantato dalla bellezza della legge di Dio, trasmetteva la sua passione agli alunni. Insegnava loro: «Davanti a ogni uomo stanno la vita e la morte, il fuoco e l’acqua»; ognuno deve scegliere, è libero e responsabile delle proprie azioni, può costruire o rovinare la propria esistenza. Se prende decisioni insensate la colpa non è di Dio che ha fatto bene ogni cosa, ma soltanto sua. Non v’è alcuna costrizione interiore a peccare. L’uomo può dominare i propri istinti (Sir 21,11), può controllare i propri desideri e le proprie passioni (Sir 20,30). Se compie il male, se devia dai sentieri tracciati dalla Toràh attira su di sé sventure e disgrazie (Sir 40,10), se invece segue i cammini indicati dal Signore avrà vita e benedizione. Così si esprimeva Ben Sira, il vecchio saggio, desideroso di orientare i suoi figli e i suoi discepoli sulla via tracciata dalla Legge di Dio.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 2,6-10

 Fratelli, tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta scritto: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano». Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio.

 

A Corinto c’era chi si inorgogliva, chi, per mettersi in mostra, faceva sfoggio di sapienza e predicava il vangelo ricorrendo a sottili ragionamenti, come facevano i filosofi. Paolo dà un giudizio severo di queste persone: chi si comporta in questo modo — afferma — non si è ancora reso conto che, dal punto di vista umano, la proposta della fede è una follia: è l’invito a divenire discepoli di un uomo giustiziato. Solo dei «pazzi» possono rischiare la vita accettando la sua proposta e solo chi è ancora più «pazzo» può decidere di divenirne messaggero e paladino. Nulla di irrazionale nella fede cristiana – sia chiaro! – nulla che ripugni alla ragione, ma indubbiamente la proposta di donare la vita cozza con il buon senso umano. Esiste però – continua Paolo – una «sapienza» cristiana, non «di questo mondo», naturalmente, ma del mondo di Dio, una sapienza che può essere capita solo dai «perfetti», cioè, dai «cristiani adulti» (v. 6). L’Apostolo che ha appena affermato di essersi presentato ai corinzi «in debolezza e con molto timore e trepidazione», privo della sapienza che sovrabbonda nei discorsi persuasivi dei filosofi (1Cor 2,3-4), ora colloca anche se stesso fra questi sapienti che hanno ricevuto, per mezzo dello Spirito, una speciale rivelazione dei misteri di Dio (v. 10). Di che si tratta? Di quella che è chiamata «sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta» (vv. 7-8), di quella che, in altre lettere, è detta semplicemente «mistero», «mistero taciuto per secoli eterni, ma rivelato ora» (Rm 16,25-26), «mistero nascosto da secoli» (Col 1,26). È il disegno divino della salvezza universale. Questo progetto era noto da tutta l’eternità soltanto a Dio e nessuno poteva immaginare quale meraviglia egli stesse preparando. Ora che si sta realizzando, il «mistero» può essere contemplato nel suo progressivo svelarsi e Pietro afferma che, in cielo, gli stessi angeli mantengono gli occhi fissi sul mondo, ansiosi di scorgere e di godere di quanto Dio sta compiendo (1Pt 1,12). L’autore della Lettera agli efesini ripropone, in altre parole, la stessa, commovente idea. Gli angeli – dice -scoprono il mistero di Dio osservando ciò che avviene nella chiesa: «Ora si sta manifestando nel cielo, per mezzo della chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio» (Ef 3,10).  Ciò che Dio sta attuando oltrepassa i desideri e le speranze degli uomini. Adattando un versetto del libro di Isaia (Is 64,3), Paolo descrive così la sorpresa che attende coloro che hanno la fortuna di poter scrutare questo mistero: «occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (v. 9).

 

Vangelo: Matteo 5,17-37

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.  Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo! Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio. Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».

 

Esegesi

«Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato» (Bar 4,4). Così Baruc esprimeva l’orgoglio del suo popolo e la sua riconoscenza al Signore che aveva indicato a Israele «la via della sapienza» (Bar 3,27), nella Toràh, nel «libro dei decreti di Dio» (Bar 4,1). Essendo opera di Dio, la Toràh non può essere né smentita né contraddetta. «La Scrittura non può essere annullata» – ha dichiarato Gesù (Gv 10,35) – perché Dio non può avere ripensamenti o rinnegare quanto ha detto in passato o apportarvi correzioni. Il cammino da lui tracciato dall’Antico Testamento ha validità perenne. Nella prima frase del vangelo di oggi Gesù ribadisce questa verità: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (v. 17). Se sente il bisogno di chiarire la sua posizione, significa che qualcuno ha avuto l’impressione che egli, con il suo comportamento e con le sue parole, stesse demolendo le convinzioni, le attese e le speranze di Israele, basate sui testi sacri. Gesù era rispettoso delle leggi e delle istituzioni del suo popolo, ma le interpretava in modo originale; il suo punto di riferimento non era la lettera del precetto, ma il bene dell’uomo. Per amore all’uomo non esitava a violare anche il sabato e questa sua libertà suscitava stupore, perplessità e anche irritazione nelle autorità religiose. Tuttavia, più che la sua mancata osservanza delle prescrizioni dei rabbini, ciò che creava sconcerto era il suo messaggio, la nuova Toràh che aveva proclamato sul monte, una Toràh che sconvolgeva i principi e i valori su cui era fondata l’istituzione religiosa e civile d’Israele. Mosè aveva promesso: «Tutti i popoli della terra ti temeranno; il Signore ti concederà abbondanza di beni; ti metterà in testa e non in coda e sarai sempre in alto e mai in basso» (Dt 28,10-13). Come poteva Gesù dichiarare di essere in sintonia con l’Antico Testamento se proclamava beati i poveri, i perseguitati, gli oppressi e se annunciava, per i suoi seguaci, difficoltà, sofferenze e persecuzioni? Il suo messaggio era in aperto contrasto con le Scritture. Leggendo i profeti, Israele si era convinto che il messia avrebbe instaurato un regno eterno, glorioso; avrebbe dato «agli afflitti di Sion una corona di gloria invece della cenere», mentre per i nemici avrebbe promulgato «un giorno di vendetta per il nostro Dio» (Is 61,2-3). Nei momenti più drammatici della sua storia, Israele ritrovava in queste promesse la ragione per continuare a credere e a sperare in un futuro migliore. Come mai Gesù deludeva queste attese? Ecco come chiarisce la sua posizione e le sue scelte: le promesse fatte da Dio – spiega – si compiranno tutte, non ne cadrà nemmeno una. Prima che il mondo sia finito, quanto è stato scritto si realizzerà, ma in modo inatteso e la sorpresa sarà tanto grande che persino le persone pie, devote, sincere, come il Battista, correranno il rischio di veder vacillare la loro fede e di rimanere scandalizzate (Mt 11,6).  In questa luce vanno intesi i detti di Gesù che concludono la prima parte del vangelo di oggi, riguardanti l’osservanza dei precetti anche minimi e la giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei (vv. 19-20). I precetti cui fa riferimento non sono quelli dell’antica legge, ma le beatitudini. Sono queste beatitudini la nuova proposta, la nuova giustizia che porta a compimento, conduce alla perfezione quella antica, quella che gli scribi e i farisei – bisogna riconoscerlo –praticavano in modo esemplare. Come nella pratica dell’antica legge c’era chi si accontentava della fedeltà ai precetti più importanti e trascurava gli altri, così nell’adesione alla proposta delle beatitudini c’è chi si attiene al minimo (ammirarle, approvarle, appoggiare chi ha il coraggio di praticarle) e c’è chi è coerente fino in fondo e fa scelte coraggiose e decise. Agli occhi di Dio – dichiara Gesù, con un certo umorismo – i primi appariranno come «i minimi», gli altri invece saranno giudicati grandi, saranno considerati «rabbini» nel regno dei cieli, saranno cioè persone da additare come modelli agli altri discepoli. Nella seconda parte del vangelo (vv. 20-37) vengono presentati quattro esempi del balzo in avanti, richiesto a tutti coloro che vogliono entrare nel regno dei cieli. Si tratta di quattro disposizioni che si ritrovano nell’Antico Testamento e che non vengono smentite, ma spiegate in modo originale. Gesù ne evidenzia tutte le implicazioni: parte dalla Toràh di Mosè – che era il punto di arrivo, il vertice raggiunto dalla «giustizia» degli scribi e dei farisei – e va oltre, propone la meta ultima di questa Legge. Gli esempi che porta sono sei, ma il vangelo di oggi ne riprende soltanto quattro, gli altri due ci verranno proposti domenica prossima. Sono introdotti tutti con la stessa formula stereotipa: «Avete inteso che fu detto agli antichiMa io vi dico…».  Non ucciderai (vv. 21 -26). È il primo caso che viene preso in considerazione. È una disposizione chiara, che non ammette eccezioni e che condanna qualunque forma di omicidio (Gn 9,5-6). L’uomo non ha potere sulla vita di un suo simile, quand’anche fosse un criminale (Gn 4,15). La vita umana è sacra e intangibile dal momento in cui sboccia fino a quando, naturalmente, si conclude. Questo era già chiaro nella Toràh antica, ma, per entrare nel regno dei cieli, è necessario capire che il non uccidere comporta molto di più. Ci sono altri modi – subdoli, sofisticati, occulti, camuffati – di uccidere.  Se ci fossero raggi X capaci di rilevare il cimitero celato nel nostro cuore ci spaventeremmo. Tra i morti troveremmo coloro ai quali abbiamo giurato di non rivolgere più la parola, coloro ai quali abbiamo negato il perdono, coloro ai quali continuiamo a rinfacciare l’errore commesso, coloro cui abbiamo tolto il buon nome con maldicenze o calunnie, coloro che abbiamo privato dell’amore e della gioia di vivere…  Gesù insegna che il comandamento che ordina di non uccidere ha tante implicazioni che vanno ben oltre l’aggressione fisica. Chi usa parole offensive, chi si adira, chi alimenta sentimenti di odio ha già ucciso suo fratello (v. 22). L’omicidio parte sempre dal cuore. Non si può odiare un uomo e continuare a sentirsi in pace con se stessi. Non si riesce a uccidere se prima non ci si è convinti di avere a che fare con chi non è uomo, non merita di vivere e quindi è bene che venga eliminato. Quest’opera denigratoria è portata avanti mediante le parole, ripetendo a se stessi, come uno spietato ritornello: è «stupido», è «pazzo». Così si giunge, senza rimorsi, a pronunciare la sentenza: merita «il rogo».  È questo cuore crudele e ingiusto — insegna Gesù — che va disarmato. All’opera di demonizzazione dell’uomo, egli contrappone il suo giudizio: è un fratello. Per tre volte ripete questa parola (vv. 22-24), come un antidoto per guarire il cuore dal veleno dell’odio, mantenuto vivo e incrementato dalle parole cattive. Poi affronta alla radice i conflitti: introduce il tema della riconciliazione. Ne richiama anzitutto il dovere e l’importanza (vv. 23-24).  Lo spunto è preso da una pratica religiosa di Israele. Prima di entrare nel tempio per offrire sacrifici, era necessario sottoporsi a delle meticolose purificazioni. Gesù dichiara che non è il corpo che ha bisogno di essere puro, ma il cuore: la riconciliazione con il fratello sostituisce tutti i riti purificatori. Insegnavano i rabbini che la più importante delle preghiere giudaiche — lo Shemà Israel — una volta iniziata, non poteva più essere interrotta, per nessuna ragione, nemmeno se un serpente si fosse attorcigliato attorno alla gamba dell’orante. Gesù afferma che, per riconciliarsi con il fratello, si deve addirittura piantare a metà non solo lo Shemà Israel, ma perfino l’offerta del sacrificio nel tempio. Difficile trovare nella cultura ebraica un’immagine più efficace per sottolineare l’importanza della riconciliazione. Chi la rifiuta, chi non la ricerca a ogni costo si autoesclude dal «regno dei cieli».  Avevano assimilato bene questa lezione i primi cristiani. L’autore della Lettera agli efesini raccomandava: «Non tramonti il sole sulla vostra ira» (Ef 4,26) e qualche anno prima, nella giovane comunità di Antiochia di Siria, era stata emanata questa disposizione: «Nel giorno del Signore, chi è in discordia con il suo prossimo non si unisca a voi prima di essersi riconciliato, affinché il vostro sacrificio non sia contaminato» (Didakè 14,1-2). Due secoli dopo, un vescovo delle stesse regioni esortava i suoi fratelli nell’episcopato con queste parole: «Pronunciate le vostre sentenze il lunedì affinché, avendo tempo sino al sabato, possiate risolvere il dissenso (fra i mèmbri delle vostre comunità) e per la domenica rap-pacificare quanti sono tra loro in discordia» (Didascalia 2, 59,2). Dopo aver richiamato il dovere della riconciliazione, Gesù ne sottolinea l’urgenza (vv. 25-26). Non può essere dilazionata. Un cristiano non dovrebbe mai aver bisogno di ricorrere ai tribunali per ottenere giustizia, dovrebbe sempre riuscire a mettersi d’accordo prima con il suo fratello. Comunque, nel caso preferisca intentare processi piuttosto che sopportare l’ingiustizia, tenga presente che se si presenta davanti a Dio in disaccordo con il fratello, non verrà da lui riconosciuto come figlio. Le immagini severe della prigione, delle guardie, dell’obbligo di pagare fino all’ultimo spicciolo non vanno materializzate. Sono tipiche della cultura semitica e del lin-guaggio rabbinico; sono introdotte solo per richiamare, in modo energico, la necessità inderogabile della riconciliazione. Per ottenerla il discepolo deve essere disposto a qualun-que rinuncia. Dopo aver parlato del comandamento di non uccidere, Gesù passa al problema dell’adulterio (vv. 27-30). La lettera della Toràh sembrava vietare solo le azioni cattive. Gesù, com’è solito fare, va invece al cuore e coglie le esigenze più profonde di questo comandamento. Due sono i mèmbri del corpo che bisogna essere disposti ad amputare: l’occhio destro e la mano destra. Non si tratta di mutilazioni materiali, ma del faticoso autocontrollo di cui parla anche Paolo: «Tratto duramente il mio corpo e lo tengo soggiogato perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9,27). La Geenna è la valle che delimita a sud-ovest la città di Gerusalemme; era l’immondezzaio della città, il luogo maledetto dove erano stati sacrificati e bruciati al dio Moloc i bambini; si riteneva che lì ci fosse la porta che introduceva nel mondo dei demoni. Chi non sa imporsi le necessarie rinunce nel campo della sessualità corre il rischio di gettare tutto il proprio corpo (la propria persona) nella Geenna (nella spazzatura). Questo non è un castigo di Dio, ma la conseguenza del peccato.

Il terzo caso riguarda il divorzio (vv. 31-32). Dio ha voluto il matrimonio monogamico e indissolubile. La Bibbia lo afferma con chiarezza, fin dalle prime pagine: «I due formano una carne sola» (Gn 2,24). Per la durezza del cuore dell’uomo si è introdotto però, anche in Israele, il divorzio. Andando contro la consuetudine, le tradizioni e le interpretazioni dei rabbini, Gesù riporta il matrimonio alla purezza delle origini ed esclude la possibilità di separare ciò che Dio ha stabilito che rimanga unito. Le parole chiare di Gesù però non conferiscono a nessun discepolo la licenza di giudicare, di condannare, di umiliare di emarginare coloro che hanno fallito nella loro vita coniugale. Si tratta, in genere, di persone che sono passate attraverso grandi sofferenze e che hanno vissuto situazioni drammatiche. Per loro si rivela a volte impossibile realizzare il progetto cristiano di matrimonio. La comunità è chiamata a manifestare nei loro confronti la tenerezza e la comprensione del Maestro che non ha spento il lucignolo fumigante né spezzato la canna incrinata (Is 42,3).         

     Il quarto caso è quello del giuramento (vv. 33-37). Durante l’esilio a Babilonia gli israeliti avevano assimilato, fra le altre cattive abitudini, anche quella di giurare a sproposito. Arrivavano al punto di non fare più un’affermazione senza accompagnarla con qualche imprecazione. Per evitare di pronunciare il nome di Dio ricorrevano a formule meno impegnative: giuravano per il cielo, per il tempio, per la terra, per i loro genitori, per la loro testa. Un saggio del II secolo a. C. raccomandava: «Abitua la tua bocca a non giurare, abituati a non nominare il nome del Santo» (Sir 23,9). Gesù prende posizione contro quest’abitudine sconsiderata e lo fa con la sua solita radicalità: «Non giurare neppureSia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno» (vv. 33-37).  Non era tanto la profanazione del nome del Signore che lo preoccupava. Ci sono altri elementi che rendono inaccettabile un giuramento. Anzitutto esso presuppone una conce-zione pagana di Dio che è immaginato come un vendicatore, pronto a scagliare i suoi fulmini contro bugiardi e spergiuri; poi è il sintomo di una società in cui regnano la diffidenza, la sfiducia, la slealtà, il sospetto reciproci. Nella comunità dei discepoli di Gesù il giuramento è inconcepibile perché essa è costituita da persone dal «cuore puro» (Mt 5,8), guidate dallo spirito di verità (Gv 14,17; 16,13), che bandiscono dalla loro vita ogni menzogna – come raccomanda Paolo: «Deposta la menzogna, parlate ognuno al vostro prossimo secondo verità, poiché siamo mèmbri gli uni degli altri» (Ef 4,25; 1Pt 2,1).

 

Meditazione 

    In queste prime domeniche del Tempo ordinario la liturgia ci sta facendo ascoltare quello che, a partire da sant’Agostino, siamo abituati a definire il Discorso della montagna, con il quale Gesù, nel Vangelo secondo Matteo, inaugura la sua proclamazione del Regno dei cieli. Ne abbiamo già ascoltato l’apertura, con l’annuncio sconvolgente delle beatitudini (IV Domenica), le quali consentono al discepolo di essere sale della terra e luce del mondo (V Domenica). In questa domenica entriamo in quella sezione del discorso solitamente chiamat a ‘delle antitesi’: «avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico…».

     La liturgia non può farci leggere il discorso di Gesù che in questo modo, sezionandolo in piccoli brani, con il rischio tuttavia di perdere il respiro unitario del testo, che ne consente anche la più piena comprensione. Forse vale la pena, più che commentare le singole affermazioni di Gesù, gettare anzitutto uno sguardo complessivo sul loro insieme, per comprendere meglio la prospettiva fondamentale della ‘legge superiore’, diversa da quella degli scribi e dei farisei, che Gesù propone al discepolo del Regno dei cieli (cfr. Mt 5,20). Diversa e superiore, eppure tale da non abolire neppure uno iota o un solo trattino della Legge di Mosè, ma da condurli al loro compimento (cfr. vv. 17-19). Suonano paradossali, se non contraddittorie, queste affermazioni di Gesù; ci aiutano però a intuire che la ‘legge superiore’ del discepolo non consiste tanto in un contenuto differente, ma in un atteggiamento di fondo – del ‘cuore’ si potrebbe dire – con il quale egli deve accogliere e vivere la parola di Dio rivelata nella Legge e nei Profeti, e che ora giunge a compimento in Gesù. Non un cuore preoccupato semplicemente della scrupolosa osservanza dei precetti, ma teso a cercare in ogni realtà e in ogni gesto della vita il volto del Padre e la relazione con lui. Ciò esige la conformazione a quel suo volere che si manifesta in un amore per tutti i suoi figli, tale da far sorgere «il suo sole sui cattivi e sui buoni», e da far «piovere sui giusti e sugli ingiusti» (5,44), come ascolteremo domenica prossima. Non si tratta di osservare diligentemente dei comandamenti, ma di lasciarsi istruire dalla parola di Gesù per diventare sempre più simili alla perfezione del Padre che è nei cieli, che consiste proprio nella qualità straordinaria del suo amore per tutti i suoi figli. La legge superiore di cui parla Gesù non è quella del servo, preoccupato con il suo agire di meritare la ricompensa del suo padrone, ma quella del figlio, grato di poter accogliere nella propria vita l’amore gratuito e preveniente del Padre. Ciò che fa non mira a conquistare un premio o a meritare un salario, ma ad accogliere e a far fruttificare in sé un dono che sempre lo precede. Quindi, non si tratta di fare cose diverse, ma di vivere con un cuore diverso. Tale è anche la sapienza di cui ci parla il libro del Siracide nella prima lettura, che consiste nel discernere la via della vita da quella della morte, ben sapendo che Dio «a nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare» (Sir 15,20), non perché sia un giudice inflessibile pronto a punire il trasgressore, ma perché è un Padre buono che desidera che ogni suo figlio viva, e viva un’esistenza libera e responsabile, da figlio appunto, non da servo né tantomeno da schiavo. Tale è anche la sapienza di cui scrive l’apostolo Paolo alla comunità di Corinto, riversata nei nostri cuori dallo Spirito, che ci introduce nella profondità di Dio, in una comunione d’amore che trasforma la nostra vita, consentendole di accogliere tutto ciò che Dio ha preparato «per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).  Gesù, dunque, non è venuto ad abolire, ma a dare compimento. Nella tradizione rabbinica ‘compiere’ o ‘abolire’ la Legge lo si dice in rapporto a tre atteggiamenti fondamentali: compie la Legge chi la interpreta bene, mentre la abolisce chi la interpreta male; compie la Legge chi le obbedisce, mentre la abolisce chi le disobbedisce; infine, compie la Legge chi fa più di quello che il precetto prescrive, mentre la abolisce chi fa meno.

Questi tre atteggiamenti ricordati dalla tradizione rabbinica li ritroviamo tutti nel modo con cui Gesù si è rapportato alla Toràh di Mosè. Innanzitutto egli ha compiuto la Legge in quanto le ha obbedito integralmente: infatti, in lui si è realizzata pienamente la volontà salvifica di Dio, custodita e rivelata dalla Legge e dai Profeti. In secondo luogo Gesù ha compiuto la Legge in quanto ha indicato il di più che c’è in ogni precetto. Ha cioè interpretato ogni precetto con radicalità, risalendo sempre alla radice della volontà del Padre che in quel precetto si esprimeva. Questo atteggiamento emerge in modo limpido proprio nella sezione delle antitesi. Uccidere non è solamente togliere la vita a qualcuno. Anche adirarsi con lui, o insultarlo, o calunniarlo significa ucciderlo. Infatti, adirarsi o insultare il fratello ha proprio questo significato: esprime il desiderio che l’altro non ci sia. Questo esempio sulla prima antitesi relativa all’omicidio aiuta a comprendere anche un secondo modo con cui Gesù radicalizza la Legge: egli non solo risale alla radice della volontà di Dio, ma scende alla radice del cuore dell’uomo. La giustizia o l’ingiustizia non riguardano soltanto la sfera delle azioni, ma anche quella più profonda delle intenzioni e dei desideri del cuore. Uccido l’altro non soltanto quando lo elimino dalla faccia della terra, ma inizio già a ucciderlo quando lo espello dallo spazio del mio cuore; quando anche con una sola parola offensiva esprimo il desiderio che egli non esista o che almeno non abbia nulla a che fare con la mia vita. Infine, Gesù ha compiuto la Legge perché l’ha interpretata bene, indicando quale sia il suo giusto criterio ermeneutico: ricondurre tutti i numerosi precetti a un unico centro costituito dal primato dell’amore, fondato sulla stessa perfezione del Padre. Amore dunque radicato in un ‘come’: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). Un ‘come’ che dice non imitazione, ma fondazione, secondo la logica che pervade l’intero discorso del monte: la relazione, o la comunione d’amore con il Padre, fonda e trasforma il nostro modo di essere e di agire. Diventa importante, allora, capire l’anima profonda di queste norme del Signore. È   un’anima contemplativa. […] La novità introdotta da Gesù consiste soprattutto nello sguardo rivolto al Padre. La novità vera è la comunione di Gesù con l’amore del Padre, la conoscenza profonda che Gesù ha del Padre. Siamo qui nel cuore della morale cristiana che non è norma, precetto, legge, ma è comunione di vita, è Spirito Santo, come dice Paolo nella lettera ai Romani nel cap. 8: «La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù». Il cristiano è senza legge, purché abbia l’occhio rivolto verso Dio. Quando il cristiano, guidato dallo Spirito, è figlio; quando diventa sempre più figlio, allora non ha bisogno di legge, perché questo sguardo rivolto verso Dio gli permette di entrare in tutte le legislazioni di questo mondo per far emergere dal di dentro un cammino di amore che tende alla massimalità, a quella pienezza di amore che è stata svelata dallo sguardo di Dio.

 

Immagine della Domenica

 

Arik e la Torah

Arik mi ha indicato un alberello aggrappato a un palo di sostegno. «Vedi, in noi – come negli alberi – c’è un naturale desiderio di salire, di innalzarci. Magari è sepolto sotto chili di scorie, ma esiste. È una sorta di nostalgia che dimora nella parte più profonda di ogni uomo. La vita però è complessa e piena di contrasti e noi, abbandonandoci unicamente al giudizio della nostra mente, rischiamo di sbagliare direzione, di venir abbagliati da qualche finto sole. Per questo esiste la Torah, è come il tutore di quel giovane albero, ci aiuta a salire dritti, ad andare incontro al cielo senza farci spezzare dalle tempeste di vento.»

(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 192-193).

Enebro de la Borrega (Moral de Hornuez/Segovia) –   Natale 2005


Preghiere e racconti

La verità del cuore

Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore (Matteo 5,27-28). Siamo sinceri: leggere questa parola di Gesù è un po’ come prendere una sportellata in faccia. Soprattutto, se si tiene conto che nel Vangelo di Matteo la si trova nello stesso discorso in cui Gesù pronuncia le beatitudini (cfr. 5,1-12). Suona molto dura e il primo pensiero che viene, almeno a me, è: ma chi si salva, allora? Sì, perché nessuno di noi credo possa dire che i suoi pensieri non sono mai stati toccati da un desiderio “illecito”. Il punto è il senso del detto: vuole essere colpevolizzante e punitivo, per ingenerare sensi di colpa? Ricordiamo che Gesù aveva appena affermato di non essere venuto ad abolire la Legge, ma per portarla a compimento (cfr. 5,17), il che equivale a svelarne il senso più profondo. In questo caso si tratta, innanzi tutto, di prendere atto della realtà di noi stessi: la nostra capacità di amare è limitata, zoppicante, è soggetta a cadute. Un comportamento esteriormente irreprensibile non basta, perché dentro di noi c’è sempre altro e le ombre sono inevitabili. Tenendo conto, poi, che l’infedeltà non è solo un fatto sessuale: si può tradire l’altro anche con il lavoro, la carriera, il perseguimento ossessivo e ostinato dei propri obiettivi individuali. Allora, significa che le nostre storie d’amore, le nostre famiglie, le nostre promesse si reggono su delle menzogne? Dipende se intendiamo l’amore come un ideale di perfezione o come (di fatto irraggiungibile) o come una realtà di cui prendersi cura, con la perseveranza di chi apprende un’arte e s’impegna in una costruzione.

Il Vangelo non fa altro che operare una “cardiognosi”: ci fa conoscere la verità del nostro cuore, ci mette davanti a noi stessi. E’ proprio la qualità del cuore, da cui dipende tutta la nostra vita umana e di fede, a essere al centro del discorso: La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! (Matteo 6,22-23)

Svelare la verità del nostro cuore è il primo passo per educarlo, per accendere luce in esso e alimentarla. Senza false illusioni e senza la pretesa, molto egocentrica, di salvarci da soli. E’ un compito che richiede invece umiltà e capacità di affidamento. Penso si possa leggere nello stesso tempo l’esortazione Amoris laetitia di papa Francesco come indicazione di un percorso di educazione del cuore, di “costante maturazione” (n. 134): 135. Non fanno bene alcune fantasie su un amore idilliaco e perfetto, privato in tal modo di ogni stimolo a crescere. Un’idea celestiale dell’amore terreno dimentica che il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto, il vino maturato col tempo. Come hanno ricordato i Vescovi del Cile, «non esistono le famiglie perfette che ci propone la pubblicità ingannevole e consumistica. In esse non passano gli anni, non esistono le malattie, il dolore, la morte […]. La pubblicità consumistica mostra un’illusione che non ha nulla a che vedere con la realtà che devono affrontare giorno per giorno i padri e la madri di famiglia». È più sano accettare con realismo i limiti, le sfide e le imperfezioni, e dare ascolto all’appello a crescere uniti, a far maturare l’amore e a coltivare la solidità dell’unione, accada quel che accada.

(Christian Albini)

 

“Scegli la vita”

«Io ti ho posto davanti la vita e la morte, / la benedizione e la maledizione; / scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza…» (Dt 30,19).

«Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, / non indugia nella via dei peccatori…» (Sal 1,1). La strada della morte che il primo Salmo ci chiede di non imboccare la stiamo percorrendo, tutti quanti. La morte è diventata il pastore che seguiamo docilmente fino al suicidio universale che essa ci ha convinto a preparare con le nostre mani. E perché la sua opera sia perfetta, ci rende ciechi a quanto con esse costruiamo. La strada della morte si riassume in poche cifre: due miliardi di uomini affamati sul pianeta, centinaia di milioni di uomini asserviti a regimi politici assassini, negatori di tutti i valori ai quali fingiamo di credere, alcune centinaia di milioni di vittime assassinate dalle guerre e dai conflitti dell’ultimo secolo. La strada della vita si apre di fronte a noi, ma noi voltiamo la testa, rifiutandoci non solo di imboccarla, ma anche di prendere coscienza della sua esistenza. Di fronte ai pericoli del nostro tempo, la strada della vita apre all’uomo possibilità sino a ieri inimmaginabili di progresso della conoscenza, di approfondimento, libertà, liberazione e salvezza. Quest’ordine ha cessato di essere un pio desiderio, per diventare la condizione certa della sopravvivenza dei mondi. Ciò determina la necessità di un risveglio spirituale che ci renda attenti alle realtà create dalla nostra scelta e dalla nostra speranza (…). Nella lotta contro la bestia che cova in ogni uomo, la Bibbia, i Vangeli e il Corano, come i Veda dell’India o i testi che celebrano le Quattro Nobili Verità del buddhismo, levano per i credenti le loro armi spirituali di fronte agli strumenti di violenza e di morte della bestia. Fin dalla nascita, ci troviamo di fronte a un mondo che non ammette l’indifferenza. Recitate il Decalogo in ebraico, in greco, in arabo o nelle 2170 lingue in cui le dieci Parole sono attualmente tradotte: incontrerete un mondo che richiede di fare una scelta fra la luce e le tenebre, fra la vita e la morte. Esistono infatti due vie e noi ne siamo avvisati: il mondo è diviso in due. Si impone quindi una scelta, che costituisce la necessità e il rischio di tale scissione. Quest’ultima esprime una realtà evidente: le tenebre e la luce si spartiscono l’universalità fisica e spirituale del reale. Rileggiamo il Decalogo. Ognuna delle Dieci parole descrive il mondo della luce e dell’unità, dell’amore e della vita, opposto a quello della divisione, dell’idolatria, dell’assassinio, dell’adulterio, del furto, della menzogna e della bramosia, governati dalle tenebre e dalla morte. Mosè, insieme con Gesù e Muhammad, ci ordina: «Scegli dunque la vita, perché tu viva».

(A. Chouraqui, I Dieci Comandamenti).

 

Invito alla preghiera

G Come può un giovane conservare pura la vita? Mettendo in pratica le tue parole.

T Ti cerco con tutto il cuore: fa’ che non mi allontani dai tuoi comandamenti.

G Conservo nel mio cuore le tue istruzioni e non sarò colpevole verso di te.

T  Ti rendo grazie, Signore,  perché mi insegni le tue leggi.

G  Le mie labbra vanno ripetendo tutte le decisioni che hai preso.

T  Seguire i tuoi precetti mi dà gioia come avere un’immensa ricchezza.

G  Voglio meditare i tuoi decreti, non perdo mai di vista le tue vie.  

T  Le tue leggi mi rendono felice, non dimenticherò le tue parole.

G  Dona a me, tuo servo, la vita: metterò in pratica le tue parole.

T  Aprimi gli occhi e contemplerò i frutti stupendi della  tua legge. (dal Salmo 119)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ DOMENICANA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.

– E. BIANCHI ET AL., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

La scelta dell’ora di religione

L’insegnamento della religione cattolica è scelto da quasi il 90% degli studenti, segno di una marcata vivacità educativa che continua a raccogliere consensi in un’epoca segnata da profonde trasformazioni sociali.
A poche settimane dalla pubblicazione del rapporto “Una disciplina alla prova”, la Presidenza della CEI nel Messaggio in vista della scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2017-2018, ricorda l’importanza dell’istruzione religiosa “chiave di lettura fondamentale della realtà”, dove gli insegnanti, “testimoni credibili”, accompagnano i ragazzi nel loro “personale ed autonomo percorso di crescita”.
 
In allegato il testo del Messaggio.
  

don Zelindo Trenti

 Colleghi e collaboratori

Con tutto l’Istituto di Catechetica condivido l’esperienza del lutto di D. Zelindo. Ho vissuto per tanti anni insieme, ed insieme abbiamo fatto numerose battaglie per la cultura della diffusione del Regno. Ma ora egli è nella gloria di Dio e gode del premio delle sue fatiche. Purtroppo, non godo di buona salute e non mi posso muovere, ma avrei desiderato partecipare al suo rito di commiato da questo mondo. Comunque offro la mia preghiera di suffragio e sono in comunione con tutti coloro che lo hanno conosciuto in questo pellegrinaggio terreno.

D. Giuseppe Morante  giuseppemorante@alice.it

 

Lo ricordiamo nella preghiera e ringraziamo Dio per il tanto bene che ha cercato di fare, lavorando intensamente anche dopo l’emeritato. Che possa ora riposare dalle fatiche nella diletta schiera degli operai evangelici con tanti altri che lo hanno preceduto.

Joseph Gevaert joseph.gevaert@donbosco.be

 

Ci uniamo con l’affetto, la stima e la preghiera alla comunità dell’UPS e in particolare all’Istituto di Catechetica per la morte di Don Zelindo Trenti.

Ho conosciuto e apprezzato il suo tratto umano, la sua competenza scientifica e la sua intraprendenza nel campo pedagogico e catechetico.

Un grazie particolare va a Don Zelindo per aver guidato l’Istituto delle VDB e dei CDB.

Il Signore lo accolga tra i servi buoni e fedeli. Colgo l’occasione per porgere un cordiale saluto a te e confratelli ICA

Don Giuseppe Ruta e Comunità ispettoriale

D. Pippo Ruta giusepperuta@itst.it

 

Mi associo al cordoglio della vostra Comunità accademica per la riconoscenza che devo a un Amico sincero e generoso, a un Collega intraprendente ed entusiasta, a uno Studioso assiduo e attento al problema educativo dei giovani e alla formazione pedagogica dei docenti. Auspico che altri, dentro e fuori la vostra Comunità scientifica, ne colgano il testimone. 

Flavio Pajer fpajer@lasalle.org

 

Grazie della comunicazione, anche se mi ha colto di sorpresa e mi addolora molto.
Don Zelindo, per me, era un caro amico, oltre che un riferimento, come studioso di pedagogia religiosa e di problemi che riguardano l’ IRC.
Mi spiace di non essere con te e la comunità salesiana in questo momento, ma mi unisco spiritualmente alla vostra preghiera di suffragio.
Il Signore, che conosce le intenzioni e i segreti dei cuori, accolga don Zelindo nella pace del suo amore. Un caro saluto e un abbraccio a te e a tutti gli amici dell’Istituto di Catechetica.

Don Roberto Mynet r.rezzaghi@mynet.it

 

Don Zelindo è tornato alla casa del Padre, guidato dal quel ‘presagio’ dell’Infinito che ha sempre saputo scorgere nell’umano. Oltre al raffinato intellettuale e all’instancabile lavoratore, Zelindo è stato un uomo buono. Il tratto cortese e signorile era espressione di una grande finezza d’animo e di una profonda spiritualità, così che sapeva scegliere per i suoi amici non solo le pagine più intense dei suoi autori – Buber, Marcel, Gadamer- ma anche vini pregiati, nel piacere del dono e della condivisione. Il suo pensiero pedagogico è stato caratterizzato da orizzonti ampi, da intuizioni profonde, molto lontane da certi didatticismi ristretti e sterili. Una visione dell’alunno e del suo potenziale chiara e sapiente che ci comunicava in modo particolare in quelle giornate di studio, ma soprattutto di amicizia cordiale, trascorse tra le montagne del suo Trentino. Mi piace salutarlo con alcuni versi del poeta portoghese Ferdinando Pessoa che, come lui, sapeva vedere oltre:

Tutto quello che sogno o che mi accade, ciò che finisce o mi viene a mancare, È come una terrazza che dà su qualcos’altro. È quest’altro che è bello….

Buon cammino, caro Zelindo, maestro e amico. 

Franca Kannheiser

 

Dio Padre di Gesù Cristo nel suo infinito amore renda giustificato per sempre il nostro caro Zelindo.

Noi lo ringraziamo per il dono della sua persona che è vissuta accanto a noi. Per il suo sorriso e per la sua mansuetudine. Per l’amicizia e per la solidarietà. Per tutto quello che è stato per quelli che lo hanno incontrato. Filosofo incessantemente aperto alla ricerca. Pedagogista sollecito della comprensione e dell’accompagnamento di ogni persona. Mistico contemplatore della bellezza parlante del Dio del creato. Il suo ricordo continui a beneficare la nostra vita.

Lucillo Maurizio maurizio.lucillo@gmail.com

 

Figlie di Maria Ausiliatrice

 

Cari fratelli tutti dell’Istituto di Catechetica,
con dolore, per il vuoto che ci lascia, abbiamo appreso la notizia della partenza di don Zelindo.

Un caro fratello che ricordo con affetto, stima e riconoscenza per il contributo da lui dato alla riflessione sull’educazione religiosa e l’insegnamento scolastico della religione.
Noi, docenti dell’Auxilium che l’abbiamo conosciuto e stimato, l’abbiamo ricordato nella preghiera e continueremo a farlo perché ci aiuti e ci stia ancora vicino nel Signore Gesù.
Con affetto grande.
Sr. Maria Luisa Mazzarello mlmazzarello@pfse-auxilium.org

 

Ricordando con stima grandissima il caro D. Zelindo porgo condoglianze ed assicuro il ricordo nella preghiera mia e della comunità fma

Sr.Lorenzina fma  lorcolosi28@gmail.com

 

Presento le mie condoglianze per la scomparsa del nostro caro don Zelindo, chiamato dal Padre a godere per sempre dei frutti della sua operosa vita di professore e di sacerdote. La Madonna lo accolga fra le sue braccia! La preghiera per lui è assicurata.

Sr. Maria Dosio  mdosio@pfse-auxilium.org

 

Portiamo in noi un grato ricordo di don Trenti.

Ancora porgo sentite condoglianze

Sr Rosangela Siboldi  fmarsiboldi fmarsiboldi@gmail.com

 

Porgo le mie vive condoglianze e assicuro il ricordo nella preghiera di suffragio per il caro confratello. Grazie per il testo dell’omelia. È un dono gradito… sia per quanto è detto di don Zelindo, sia per come è stato detto da un confratello che testimonia  la preziosità della fratellanza lungo il cammino della vita. Fraternamente

Sr. Cettina Cacciato cettinafma@gmail.com

 

Ancora prego per don Zelindo e per voi. Non mi sembra vero…  Mi torna spesso in mente e quindi prego. Ancora condoglianze e … coraggio con l’aiuto di Maria SS.

Sr. Maria Piera MANELLO mpmanello@pfse-auxilium.org

 

Lo conoscevo e ammiravo tanto per la sua dedizione al ministero a cui era chiamato.

Ringrazio vivamente di avermi inviato l’omelia di Don Bissoli.

Era veramente così la vita di don Zelindo. Il Signore era al centro della sua vita.

È stata una dolorosa sorpresa la notizia della sua morte.

Prego con tutti voi per il suo eterno riposo e vi sono vicina con la preghiera e l’affetto.

Sr. Marìa Inés Oholeguy mioholeguy@pfse-auxilium.org

 

Grazie mille don Corrado per la notizia.

Preghiamo e ringraziamo il Signore per questa vita donata che ci stimola tanto.

Suor Albertine Ilunga albertine_ilunga@yahoo.fr

 

Con pena leggo della morte di Don Zelindo, l’ho sempre sentito un fratello e ho avuto tanti aiuti per il mio insegnamento di Catechetica all’ ISSR di Genova.  Assicuro la mia preghiera di suffragio.

Sr Eliana FMA  Eliana Bignasco bignascoeliana@gmail.com

 

Membri dell’AICa (Associazione Italiana catecheti)

 

Care amiche e cari amici dell’AICa apprendiamo la dipartita al cielo di Don Zelindo Trenti, di cui si stanno oggi celebrando i funerali.

Siamo addolorati da questa notizia e siamo grati al Signore per la sua esistenza votata a Dio nel campo della pedagogia religiosa, dell’attenzione alla cultura e ai linguaggi nel rivolgere l’atto catechistico nelle diverse fasi di età. È stato un maestro e tutti noi abbiamo avuto modo di beneficiare dei suoi studi. Lo ricordiamo con piacere e assicuriamo alle comunità salesiane dell’UPS e in particolare all’Istituto di Catechetica il nostro cordoglio e la nostra vicinanza. 

don Carmelo Torcivia, presidente AICa  ctorcivia59@gmail.com

 

Grazie per questa notizia triste, ma carica di speranza cristiana per noi credenti!

Ricordo con stima e amicizia don Zelindo, non dimentico il suo lavoro di ricerca nell’ambito della pastorale giovanile e soprattutto dell’IRC. Un altro punto di riferimento sicuro dell’Istituto di catechetica se ne va! Lo ricorderò questa sera nella S. Messa: riposi nella pace del Signore.
Ti chiedo poi la cortesia di portare la mia partecipazione al vostro dolore al Rettore dell’Università e a tutti i Colleghi dell’Istituto. Un fraterno saluto.

don Antonio Bollin abollin@vicenza.chiesacattolica.it

 

ho saputo subito la triste notizia di don Zelindo e l’ho ricordato al Signore con tanta riconoscenza.

Saottini Don Daniele d.saottini@chiesacattolica.it

 

Una notizia che mi addolora molto. Io ho goduto molto della presenza e della docenza di don Zelindo all’UPS. E non sapevo che stesse male. Mi unisco al vostro dolore con la preghiera e l’amicizia. Don Zelindo è stato un esempio splendido come sacerdote salesiano e docente.

Ringrazio il Signore per avercelo donato. In unione di preghiera,

Sr. Rosaria Attanasio r.attanasio@paoline.it

 

Mi sento molto vicino a tutti Voi salesiani con i quali ho collaborato e dai quali ho ricevuto grandi insegnamenti, per la mia professione di docente di IRC.
Con Don Zelindo abbiamo fatto molte esperienze, sia di Catechetica, che di l’IRC.
Mi unisco a tutti Voi con la preghiera nel ricordo di Don Zelindo.

Maria Grazia Pau mariagrazia.pau@tin.it

 

Partecipiamo al vostro lutto per la morte di don Trenti con un ricordo particolare nella preghiera. Con gratitudine per la collaborazione e amicizia.

Sr. Gabriella Collesei g.collesei@paoline.it

 

Stamani ho ricordato don Zelindo nella messa Ringraziando il Signore per averci donato una persona che ha testimoniato fraternamente sapienza evangelica, culturale e pastorale. Buona e santa quaresima a te e agli amici Dell’Istituto che ricordo cordialmente.

Sr. Sara Teti s.teti@paoline.it

 

Ex-allievi Dipartimento di Pastorale giovanile e catechetica

 

Ricordo don Zelindo come docente e amico, e nella preghiera lo accompagno al premio celeste. Un saluto a tutti i maestri della catechetica UPS.

Don Antonio Napolioni, vescovo di Cremona

antonio.napolioni@gmail.com

 

Stamattina dinanzi alla salma di Zelindo, mentre pregavo per lui, contemplavo il suo volto e mi venivano in mente tanti incontri e dialoghi; sentivo anche la ricchezza del suo pensiero, che ha segnato profondamente la riflessione catechetica e pedagogico-religiosa, e che ci lascia in eredità. Nel suo volto ho visto la dignità e il senso di accettazione della malattia, con cui ha vissuto l’ultimo periodo della sua vita. Ho visto soprattutto uno sguardo in avanti, di attesa e di invocazione, come di prontezza all’incontro. “Attesa”, ”invocazione”, ”incontro”: parole chiavi della sua esplorazione fenomenologica dell’esperienza; con queste parole faceva emergere la struttura costitutivamente religiosa dell’esperienza e quindi la sensatezza e la ragionevolezza dell’incontro col Cristo. Queste parole lo appassionavano, le sentiva profondamente. È bello, per me, averle lette nel suo volto.

Sono molto riconoscente a Zelindo. Ho ricevuto da lui tanti stimoli belli di pensiero, tanta disponibilità al dialogo, al confronto animato, appassionato, sempre rispettoso e sereno. Il suo impegno intellettuale era sempre legato a una grande attenzione ai rapporti umani e a una grande disponibilità di amicizia. Dio, che non delude coloro che lo invocano e che lo attendono, gli doni la gioia dell’incontro!

Salvatore Curro salvatorecurro.csi@gmail.com

 

Grazie della notizia. Poco fa ho aperto la pagina dell’UPS e ho visto la notizia che mi si è mosso il cuore. Mio caro don ZelindoTrenti! Un grande uomo, un grande uomo di Dio! È stato il mio relatore della tesi di licenza e quella di dottorato. Non dimenticherò mai i suoi gesti quando stavo a Roma e la mia famiglia stava in mezzo alla guerra. Ci incontravamo poi nei convegni. Abbiamo scambiato gli auguri natalizi fino a qualche anno fa. Così era anche un’amico e lo rimane per sempre nel mio ricordo di gratitudine. Grazie di tuttto, caro don Trenti! Dio La ricompensi mille volte con la sua presenza divina – faccia a faccia! Le mie condoglianze alla communita’ salesiana, all’Istituto di catechetica e all’UPS intera. Zagreb, Croazia

Ana Thea Filipovic ana.filipovic1@zg.htnet.hr

 

Esprimo il più sincero cordoglio ai Salesiani e ai familiari di don Zelindo. Esprimo la più profonda gratitudine al Signore per il dono di don Zelindo, sacerdote semplice, rispettoso e timorato di Dio. Dio lo abbia in gloria! Con affetto e stima

D. Vincenzo Annicchiarico – Vincenzo Annicchiarico vincenzoannic@libero.it

 

Partecipo al vostro dolore per la perdita di un grande studioso e di un santo salesiano. Lo ricordo con riconoscenza e affetto anche per quanto ha scritto per la nostra editrice. Dal Cielo continui il suo ministero di sacerdote che guida le anime all’incontro con la spiritualità e con il Maestro.

don Valerio Bocci vbocci@elledici.org

 

Grazie don Corrado. Lo ricordo con tanto affetto. Un saluto a tutti voi

d. Eros Dal Cin eros.dalcin@tiscali.it

 

Mi unisco alla vostra preghiera conservando nel cuore la mia gratitudine per quello che ho da lui ricevuto sperando che ora abbia dal Signore un “orizzonte ermeneutico” chiaro e completo della verità che ha sempre insegnato a tutti noi con tanta passione e dedizione ….don carlo 

carlolavermicocca@gmail.com

 

Voglio esprimere la mia vicinanza alla famiglia salesiana e alla comunità dell’università per la scomparsa di Don Zelindo Trenti. Come ex alunno ho un ricordo caro e vivo della sua umanità riservatezza e delicatezza di don Zelindo. Un saluto caro ed un ricordo e vicinanza nella preghiera.
Sac. Rocco Coppolella  rocco.coppolella@tiscali.it

 

Grazie per la comunicazione. E’ stato per me un grande insegnante. Molto del suo sapere è stato da me “appreso”. Una preghiera speciale.

don Umberto umberto.cocconi@libero.it

 

Ricordo don Zelindo come docente preparato e appassionato. Io ora vivo a Torino, nel mio lavoro mi è di grande aiuto la formazione ricevuta all’UPS. Grazie di cuore e ricordo nella preghiera don Zelindo. Condoglianze a tutta la comunità salesiana.

Rosanna Bertoglio rosanna.bertoglio@virgilio.it

 

Persona eccezionale! è stato mio docente. Mi ha dato tanto insieme a tutti voi formatori dell’UPS.  Uniti nella preghiera.

Sr Anna Maria D’Angelo  anna.dangelo7@tin.it

 

Veramente è stato un grande uomo e un grandissimo professore. Dio sia sempre con lui. Faccio un memento… Dio dia il riposo e la pace eterna! Con speranza in Dio,

don Alois Hirja alois_hirja@yahoo.it

 

Tante Grazie per l’informazione della scomparsa di don Zelindo. Lo conoscevo bene e prego per Lui. L’eterno riposo dona a Lui o Signore… Saluti dalla Polonia.

Wojciech Osial mrwosial@interia.pl

 

Mi dispiace tanto. E sono felice di aver potuto essere uno studente di Don Zelindo. Uniti nella preghiera.

Rafal Ziajka SDS rafal.ziajka@mailsds.org

 

Mi dispiace tanto. Ci accompagnerà dal celo.

sr. Marijana Mohoric mmarijana2001@yahoo.com

 

Ho appena letto il messaggio della nascita al cielo del nostro carissimo professore Don Trenti. Grazie per tutto quello che abbiamo avuto da Don Trenti attraverso i suoi insegnamenti e con il suo sorriso. Preghiamo per lui e sappiamo che il Signore gli darà un posto accanto a lui nella sua dimora. Con affetto. 

Suor Marie Godelive, FdM, srmgodemaheshe@yahoo.fr

 

La ringrazio per l’informazione su don Trenti. Sono in comunione nella preghiera per lui. 

Affido alla misericordia di Dio don Zelindo. 

Sua Ex alunna Maddalena Thuy (Vietnam) mdphamthuy@yahoo.com

 

Grazie per l’informazione. Io lo ricordo, è stato mio professore.

Ricardo Grzona Ricardo Grzona

presidencia@fundacionpane.org

 

Sincere condoglianze a tutta la famiglia salesiana,
Panayotis Ghekas pgkekas@hotmail.com

 

La nostra preghiera e gratitudine. Un grande professore!!

Pe. Jânison de Sá janison.sa@gmail.com

 

Con affetto e gratitudine vi accompagno dalla Spagna… Ringrazio per la comunicazione, e stato un dono per me condividere con Lui il percorso della mia formazione e la passione per la pastorale e la catechetica. Vi sono vicina e presente con la mia preghiera.

Joana Martin Gutiérrez, Religiosa di Maria Immacolata  jmartingutierrez@yahoo.es

 

Certamente è una brutta notizia per tutti noi che abbiano conosciuto don Zelindo. Grande professore e una persona stupenda. Dalla Colombia una preghiera per lui.

orlandoolave25 orlandoolave25@yahoo.com

 

Agradezco a Dios por el don concedido en la persona de Don Zelindo Trenti. Resuena en mi mente y en mi trabajo catequético y de educación religiosa la necesidad de ayudar a los jóvenes a descubrir en sus vidas la presencia de Aquel que nos trasciende. Descanse en Paz. Va mi recuerdo desde Centroamérica a todo el Instituto de Catequética.
Balbino Juárez, Marista  balbinoj@hotmail.com

 

Le agradezco me enviara la triste noticia del fallecimiento de nuestro querido profesor don Zelindo Trenti. Tengo la dicha de haberle tenido como profesor y como asesor de tesis de bachillerato. Y tengo un bonito recuerdo de su persona, su cercanía y su sencillez. Desde estas tierras centroamericanas me uno a su dolor por la pérdida, pero también a la alegría y a la esperanza que une. Un fuerte abrazo que se haga extensivo a todos los profesores del UPS. Atentamente,

Daniel Martín de Paz <elorejas2@hotmail.com>

 

Agradezco muchísimo por hacerme participar de la Pascua de mi apreciado, recordado y querido profesor. El dirigió la tesis de mi doctorado: “La Dimensión Educativa de la Experiencia Religiosa”. Le estoy muy agradecida, sus palabras, escritos, me han ayudado no solo alcanzar mi mayor título profesional, sino a vivir lo cotidiano como un llamado de la trascendencia. Un saludo fraterno

Miriam Bernarda Gallego Condoy mgallego@ups.edu.ec

Universidad Politécnica Salesiana  Ecuador

 

Insegnanti di Religione

 

Ringrazio per questo ricordo di Don Zelindo. Non potendo essere presente alla Messa di domani, ti prego, durante la preghiera, di farti portavoce del mio ringraziamento personale e di molti colleghi per il dono di aver conosciuto questo sacerdote salesiano dedito all’educazione che ha permesso a molti di noi di incontrarsi e crescere in sapienza e umanità.

Giuliana Migliorini giulianamigliorini@gmail.com

 

Sono rattristata per la perdita di D. Zelindo Trenti, una persona che è stata determinante per la mia formazione di docente di religione e di Persona insieme a tutta l’equipe di lavoro (prof. Malizia, Lever, Pajer, ecc.) che nelle estati dal 1991 al 2000 o 2003 (conclusione del 1° Master in Pedagogia

religiosa) ha lavorato insieme a lui. Mi piace ricordarlo con noi lassù a Vigo di Fassa o a Corvara, tra le Dolomiti che lui amava tanto, sempre attento e delicato, con la parola e il sorriso giusto al momento opportuno per ciascuno. Credo che non sia un caso che il Signore se lo sia ripreso proprio il giorno in cui D. Zelindo si è dato completamente a Dio. È un grande segno… Ringrazio tutta la Famiglia Salesiana per questo Figlio così speciale e per tutti gli altri che ancora lavorano e operano per la formazione di tanti giovani e docenti. Con viva riconoscenza.                        

Ivana Pizzolato ipizzolato@libero.it

 

Cari amici del prof. don Zelindo Trenti, ci uniamo nella preghiera al dolore per il distacco di don Zelindo e alla gioia per la festa in cielo che lo avrà accolto come servo fedele, buono, giusto e sapiente. Grazie Zelindo per le piccole cose che di primo acchito ci tornano in mente: grazie per il sorriso di vero “salesiano”, anche quando i nostri figli da piccoli al Corso sulle Dolomiti ti hanno chiamato “don Pepito”, per non averne colto esattamente il nome; e per l’accoglienza signorile  e  l’attenzione  seria e cordiale sempre riservata nelle relazioni con  tutti e con ciascuno; grazie per le belle passeggiate estive sui sentieri di montagna che accompagnavano la scrupolosità “trentina” negli orari di lavoro  e nel rigore del ritmo delle giornate di studio; grazie per la qualità del vino e dei liquori che offrivi a tavola sempre uniti al “vino buono ” della conversazione dalla narrazione  sempre formativa e dal ragionamento  pertinente e puntuale; grazie per l’infaticabile tensione a ripensare l’educazione religiosa e a tenerci aggiornati, riconciliandoci con le tensioni del fare scuola e le lentezze italiane  al rinnovamento dell’IRC; grazie per l’amicizia e la simpatia “controllata” che offrivi con generosità alle persone di tutte le età; e per l’amicizia “accademica” condivisa  e incoraggiata  intorno alla ricerca, alla conoscenza, alla qualificazione professionale che ci ha uniti nelle tante diversità di storie personali dalle Alpi alla Sicilia.

Grazie Signore della Vita e della Sapienza che don Zelindo ci ha proposto con le categorie del “linguaggio religioso”, della  “invocazione” e della “trascendenza”,  ma facendo sempre riconoscerne il Volto e l’Incarnazione; grazie Signore perché ci hai fatto incontrare ed accompagnare da un “maestro” non contrapposto al “testimone”; grazie per i frutti che vorrai donare all’operosa  e copiosa semina di idee, progetti  e collaborazioni, per il bene dell’Italia, della Chiesa, delle nuove generazioni, delle istituzioni accademiche e formative, che abbiamo avuto il dono di sperimentare insieme. Condivideremo volentieri eventuali iniziative in memoria di don Zelindo. Con affetto,

Giorgio Bellieni e Caterina Borrello  gbellieni@virgilio.it

 

Addolorata ho appreso della dipartita di don Zelindo, ringrazio Dio di avercelo prestato per un tratto della nostra vita. Io devo molto ai suoi insegnamenti e ai suoi consigli, l’estate scorsa al corso tenuto a Roma ho avuto il piacere di vederlo e salutarlo, era sofferente ma il suo sorriso e le sue parole dolci e rassicuranti come sempre, lo voglio ricordare così. Cordoglio alla famiglia Salesiana a me molto cara, una preghiera per tutti così avrebbe voluto don Zelindo, con affetto

Margherita Valisena marghevalisena@yahoo.it

 

Sono vicina con la preghiera a tutta la comunità salesiana, assicuro preghiera per l’anima di Don Zelindo. Non lo dimenticherò mai e pregherò sempre per lui lo ricordo per la sua semplicità, per il suo grande amore che versava nei confronti delle persone e per l’amore che nutriva nei confronti della natura. Grazie don Zelindo sei ritornato alla casa del Padre, adesso guidaci da lassù. Con affetto e riconoscenza

Rosa Buffalo  rosabuffalo@tiscali.it

 

Grazie per questa bella foto! Don Zelindo, maestro gentile e sapiente è stato per me esempio straordinario di dolcezza nei modi, rispetto del pensiero altro e rigore nella ricerca. Custodirò la sua memoria per sempre nel mio cuore. Un abbraccio in Cristo e in Don Bosco

Romilda Saetta romilda.saetta@tin.it

 

La tua nascita al mondo dell’eterna vita, rianima la tensione al bene, al bello, al vero che la tua presenza e la tua vita di testimone, maestro, appassionato educatore ci ha fatto sperimentare nei percorsi formativi promossi e realizzati in  profetica dedizione per noi.  Grazie Don Zelindo e lode alla Trinità per la tua identità pensosa vigile entusiasta luminosa elevata. Grazie alla Famiglia dei Padri Salesiani che ci ha fatto vivere la comunione di tanto dono. Dal cielo irradia la tua benedizione sul campo in piena semina che hai lasciato. Addio. Con affetto e grati al Sommo.

Giovanna Di Luciano giovannadl@virgilio.it

 

Grazie per l’immagine di d. Zelindo… Insegnante profondo e attento nella ricerca continua nell’insegnamento ed educazione della fede. Il Signore lo abbia nella sua luce e gloria. R.I.P.

Pinuccia Vacca tizy.11@tiscalinet.it

 

Permettetemi di esprimere la mia stima per il prof. Zelindo che ha saputo trasmettere con passione i tanti principi per una buona didattica. Lo ricorderò sempre.

Antonella Grotteria IRC della diocesi di Crotone-Santa Severina. antonella.grotteria@gmail.com

 

Grazie della bellissima foto del nostro caro Professore,

Brunetta Amidei Maurizio Righi maurizio.righi@tin.it

 

Un grande uomo, un grande sacerdote, un grande educatore: non ci farà mancare il suo sollecito aiuto dal cielo, nella gioia dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Anna Paola Cardinali annapaola.cardinali@gmail.com

 

Partecipo al dolore per la perdita di un uomo di grande spessore umano e culturale.

Anna Lucía Risotto da Belvedere marittimo (CS) annalucia.risotto@istruzione.it

 

Tendré presente en mis oraciones al Padre Zelindo. Un hombre y un sacerdote con una sensibilidad como pocos y una profundidad enorme.

Cecilia Zulli <amancay28@hotmail.it>

Una disciplina alla prova

Il volume riporta i risultati della ricerca promossa dall’Istituto di Sociologia dell’Università Pontificia Salesiana, dal Servizio Nazionale per l’Insegnamento della Religione Cattolica della CEI, dall’Ufficio Nazionale per l’Educazione, la Scuola e l’Università della CEI e dal Centro Studi per la Scuola Cattolica della CEI. A trent’anni dall’avvio del nuovo corso dell’Irc dovuto alla revisione concordataria è lecito tentare un bilancio di questa esperienza, guardando soprattutto ai problemi che si ponevano inizialmente. L’indagine costituisce il contributo più innovativo e impegnativo allo studio dell’Irc.

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Isaia 58,7-10

Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio»  

 

  • La pratica del digiuno è conosciuta presso tutti i popoli. Fin dai tempi più remoti si digiunava quando ci si trovava in situazioni di pericolo o si era colpiti da sventure, quando la grandine o le cavallette distruggevano i raccolti, quando le piogge tardavano. Questo sacrificio volontario aveva lo scopo di commuovere Dio, placarlo, convincerlo a porre fine ai suoi castighi. Durante i giorni di digiuno si indossavano abiti sdruciti, ci si cospargeva il capo di polvere e cenere, si rinunciava ai rapporti sessuali, non si faceva il bagno, si andava scalzi, si dormiva per terra.

     La lettura di oggi va collocata nel contesto di uno di questi momenti di digiuno. Siamo nel V secolo a. C., il tempo del post-esilio. Il popolo è tornato da Babilonia, ma le promesse

fatte dai profeti tardano a realizzarsi. Invece della sospirata comunità pacifica si è instaurata una società dominata da arrivisti e profittatori. Ovunque ci sono violenze, angherie, di-scordie. Per convincere Dio a intervenire e porre rimedio alla situazione, si indice un digiuno nazionale, rigoroso, severo.

     Nulla cambia, tutto continua come prima e in molti si insinua il sospetto che la pratica del digiuno sia inefficace.

     Ci si chiede: perché digiunare se il Signore non ascolta ed è come se non ci fossimo sottoposti a mortificazioni e rinunce? (Is 58.3).

     La lettura di oggi dà una risposta a questo interrogativo. La colpa del mancato cambiamento – spiega il profeta – non è del Signore, ma del modo errato di praticare il digiuno, ridotto a una sterile autopunizione, a una dolorosa penitenza. Questo digiuno non ottiene alcun risultato perché sottopone, sì, il corpo a privazioni, ma non cambia il cuore.

     Il vero digiuno, quello che produce effetti prodigiosi, consiste nel condividere il proprio pane con chi ha fame, nell’ospitare in casa i miseri senza tetto, nel dare un vestito a chi è nudo, nel non distogliere gli occhi da chi, uomo come noi – nostra stessa carne, anche se diverso è il colore della sua pelle e sono differenti la cultura e la religione – vive al nostro fianco in condizioni disumane (v. 7).

     Questo comportamento nuovo ottiene miracoli: in breve tempo cura le ferite della società, risolve le situazioni di disagio, crea rapporti fraterni e fa nascere una comunità in cui splendono la giustizia e la gloria di Dio (v. 8).

     Nella seconda parte della lettura (vv. 9-10) viene indicata un’altra caratteristica del vero digiuno: l’impegno a togliere di mezzo ogni forma di oppressione, il puntare il dito e il parlare arrogante. Non basta fare la carità e l’elemosina, è necessario porre fine a tutti gli atteggiamenti di ambiziosa superiorità che causano umiliazioni, ingiustizie, discrimina-zioni.

     Dopo questo nuovo chiarimento, il profeta riprende, con insistenza quasi eccessiva, il tema della condivisione del pane. Vuole che il popolo assimili l’interesse, la premura, la sollecitudine di Dio nei confronti di chi ha fame.

     La conclusione della lettura introduce il tema della luce che verrà ripreso nel vangelo: se praticherai questa nuova giustizia «brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».

     Gli israeliti si ritenevano luce del mondo per la loro devozione a Dio, per la pratica religiosa impeccabile: solenni liturgie, canti e preghiere, sacrifici e olocausti. Non era questo il culto gradito al Signore; non erano queste le opere che avrebbero fatto diventare Israele luce del mondo, ma la pratica della giustizia e dell’amore all’uomo.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 2,1-5

 Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

 

  • I cristiani di Corinto – lo abbiamo sottolineato domenica scorsa – non appartenevano alle classi sociali elevate, erano tutti di umili origini, gente che non contava nella società (1Cor 1,26). Questo fatto è interpretato da Paolo come un segno della preferenza di Dio per le persone disprezzate e senza meriti.

     La sua scelta non va però intesa come un rovesciamento classista (sarebbe una nuova discriminazione), ma come logica conseguenza dell’amore di Dio: egli non ama chi può vantare dei meriti, ma chi ha bisogno del suo amore.

     Nel brano di oggi l’Apostolo riprende e sviluppa questo tema ponendo a confronto la sapienza umana e la potenza di Dio e porta l’esempio concreto della sua persona.

     Comincia con un richiamo alla sua predicazione (vv. 1-2). Non si è presentato a Corinto per insegnare una nuova dottrina. Se lo avesse fatto, avrebbe avuto bisogno di possedere la «eccellenza della parola o della sapienza». In Grecia era apprezzata la sapienza, la capacità – come diceva Platone – di «indagare il vero in quanto vero; sollecitudine dell’anima sostenuta dalla retta ragione». Ogni discorso privo del supporto della dimostrazione razionale e delle risorse prestigiose del pensiero dei filosofi era deriso e ritenuto frutto di ignoranza, di creduloneria, di religiosità ingenua.

     In questo contesto culturale Paolo ha annunciato un messaggio umanamente assurdo: ha chiesto di credere alla proposta di vita fatta da un uomo giustiziato. Non fu solo il contenuto della sua predicazione a essere scandaloso. Era la sua stessa persona — debole, timorosa, incapace di parlare – a essere la meno indicata a portare avanti con successo una così grande missione (vv. 3-5). Al riguardo circolava fra i corinzi una battuta che aveva provocato la reazione risentita dell’Apostolo: «Le sue lettere – si diceva – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua capacità di fare discorsi è modesta» (2Cor 10,10).

Della sua scarsa abilità oratoria, Paolo era cosciente; ne aveva avuto una dimostrazione ad Atene quando aveva tentato, senza successo, di convincere gli ascoltatori ricorrendo al linguaggio sublime dei filosofi (At 17,16-34) e un anno dopo, a Troade, ne ebbe la riconferma: durante la sua predica un giovane si era addormentato ed era caduto dalla finestra (At 20,9).

     Malgrado questa mancanza di supporti umani, il vangelo aveva avuto una notevole diffusione a Corinto. Come mai?, viene da chiedersi. Perché – spiega Paolo – la parola di Dio è forte per se stessa e la sua penetrazione nel cuore degli uomini non dipende dai mezzi umani, ma dalla «manifestazione dello spirito e della sua potenza». L’Apostolo non si riferisce ai prodigi, ai miracoli che avrebbero convinto i corinzi ad accogliere il vangelo, ma al frutto dello spirito: la forma di vita nuova che, pur in mezzo a miserie e debolezze umane, era stata adottata da molti membri della comunità.

 

Vangelo: Matteo 5,13-16

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 

Esegesi

     Per definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo di oggi Gesù impiega una serie di immagini. Li indica anzitutto come il sale della terra (v. 13).

     I rabbini d’Israele erano soliti ripetere: «La Toràh – la Legge santa data da Dio al suo popolo – è come il sale e il mondo non può stare senza sale». Facendo propria questa immagine e applicandola ai discepoli, Gesù sa di usare un’espressione che può suonare provocatoria. Non smentisce la convinzione del suo popolo che ritiene le sacre Scritture «sale della terra», ma afferma che anche i suoi discepoli lo sono, se assimilano la sua parola e si lasciano guidare dalla sapienza delle sue beatitudini.                                

     Sono molte le funzioni del sale e probabilmente Gesù intende riferirsi a tutte. La prima e più immediata è quella di dare sapore ai cibi. Fin dai tempi antichi il sale è diventato per questo il simbolo della «sapienza». Anche oggi si dice che una persona ha «sale in testa» quando parla in modo saggio oppure che una conversazione è «senza sale», quando e noiosa, priva di contenuto. Paolo conosce questo simbolismo, infatti, ai colossesi raccomanda: «La vostra conversazione sia sempre gradevole, condita con sale» (Col 4,6).

     Intesa così, l’immagine indica che i discepoli devono diffondere nel mondo una saggezza capace di dare sapore e significato alla vita Senza la sapienza del vangelo che senso avrebbero la vita, e gioie e i dolori, i sorrisi e le lacrime, le teste e i lutti? Quali sogni e quali speranze potrebbe alimentare l’uomo su questa terra? Difficilmente andrebbe oltre quelli suggeriti dal Qoelet: «È meglio mangiare, bere e godere dei beni nei pochi giorni di vita che Dio dà: è questa la sorte dell’uomo» (Qo 5,17).                    

     Chi è imbevuto del pensiero di Cristo assapora invece altre gioie, introduce nel mondo esperienze di felicità nuove e ineffabile, offre agli uomini la possibilità di sperimentare la stessa beatitudine di Dio.

     Il sale non serve solo per dare sapore ai cibi. È usato anche per conservare gli alimenti, per impedire che divengano avariati.

     Questo fatto richiama la corruzione morale e, per associazione d’idee, le forze negative, gli spiriti maligni. Contro di loro gli antichi orientali si premunivano usando il sale. È a questa convinzione atavica che si collega, ancor oggi, il rito di spargere il sale per immunizzare da malefici e iettature.

     Il cristiano è sale della terra: con la sua presenza è chiamato a impedire la corruzione, a non permettere che la società, guidata da principi malvagi, si decomponga e vada in disfacimento. Non è difficile constatare, ad esempio, che, dove non c’è chi richiama, chi rende presenti i valori evangelici, si diffondono più facilmente la dissolutezza, l’odio, la violenza, la sopraffazione. In un mondo dove è messa in dubbio l’intangibilità della vita umana, dal suo sorgere al suo spegnersi naturale, il cristiano è sale che ne ricorda la sacralità. Dove si banalizza la sessualità e le convivenze e gli adulteri non sono più chiamati con il loro nome, il cristiano richiama la santità del rapporto uomo-donna e il progetto di Dio sull’amore coniugale. Dove si cerca il proprio tornaconto, il discepolo è sale che conserva, ricordando a tutti e sempre la proposta, eroica a volte, del dono di sé.

     Il sale era usato anche per confermare l’inviolabilità dei patti: i contraenti compivano il rito di consumare insieme pane e sale o sale soltanto. Questo accordo solenne era detto «alleanza di sale». È chiamata con questo nome l’alleanza eterna stipulata da Dio con la dinastia di Davide (2Cr 13,5).

     I cristiani sono sale della terra anche in questo senso. Testimoniano l’indefettibilità dell’amore di Dio: mostrano che nessun peccato potrà mai incrinare il patto di fedeltà che lo lega all’uomo e, con la loro vita, danno prova che anche all’uomo è possibile rispondere a questo amore, basta lasciarsi guidare dallo Spirito. 

     La «parabola» del sale si conclude con un richiamo ai discepoli a non divenire «insipidi». L’immagine assume una connotazione piuttosto sorprendente: i chimici assicurano che il sale non si corrompe, eppure Gesù mette in guardia i discepoli dal pericolo di perdere il proprio sapore. Per quanto possa apparire strano, Gesù li considera capaci di fare qualcosa di assurdo, di impossibile, come rovinare il sale: possono far perdere al vangelo il suo sapore.

     C’è un solo modo di combinare questo guaio: mischiare il sale con altro materiale che ne alteri la purezza e la genuinità. Il vangelo ha un suo gusto e bisogna lasciarglielo, non va snaturato, altrimenti non è più vangelo.

     La parabola del sale è raccontata subito dopo le «beatitudini». Il cristiano è sale se accoglie integralmente le proposte del Maestro, senza aggiunte, senza modifiche, senza i «ma», i «se» e i «però» con cui si tenta di ammorbidirle, di renderle meno esigenti, più praticabili.

     Per esempio, Gesù dice che bisogna condividere i propri beni, che si deve porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette… è questo il gusto caratteristico del sale evangelico. Ma incombe sempre la tentazione di aggiungerci un po’ di «buon senso»: non si deve esagerare, bisogna pensare anche a se stessi, se si perdona troppo gli altri se ne approfittano, non si deve ricorrere alla violenza, a meno che non sia necessario… È così che il vangelo viene «addolcito», che diventa «praticabile»… ma perde il suo sapore. È il fallimento della missione, indicato metaforicamente con l’immagine del sale gettato sulla strada: viene calpestato, come la polvere cui nessuno presta attenzione né attribuisce alcun valore.

     La seconda funzione assegnata ai discepoli è quella di essere città posta sul monte (v. 14).

     Ancor oggi, lo sguardo di chi percorre le strade dell’alta Galilea è attratto dai numerosi villaggi posti sulle cime delle montagne e lungo i clivi delle colline. È impossibile non notarli e, specialmente in primavera, quando i vermigli anemoni ricoprono le campagne che li circondano, appaiono deliziosi. Quasi sempre gli scavi archeologici comprovano che le sommità, sulle quali sorgono, erano abitate fin dai tempi più remoti.

     Gesù, cresciuto in uno di questi villaggi, li ha indicati ai discepoli come un’immagine della loro missione: con la loro vita fondata su principi nuovi, essi dovranno richiamare l’attenzione del mondo.

     Non è l’invito a farsi notare, a mettersi in mostra. Un simile atteggiamento contraddirebbe la raccomandazione a non praticare le buone opere davanti agli uomini, per essere notati, a non suonare la tromba per richiamare l’attenzione quando si fa l’elemosina (Mt 6,1-2).

     Il richiamo di Gesù è a un famoso testo di Isaia, dove si annuncia che il monte del tempio del Signore «sarà eretto sulla cima dei monti, sarà più alto dei colli e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli… Poiché da Gerusalemme uscirà la parola del Signore» (Is 2,2-5).          

     D’ora in avanti — assicura Gesù — non sarà più a Gerusalemme che i popoli guarderanno, ma alle comunità dei suoi discepoli. Saranno loro ad attirare gli sguardi ammirati degli uomini… se avranno il coraggio di impostare la vita sulle sue beatitudini.

     Collegata all’immagine del monte c’è quella della luce (vv. 14-16).

     I rabbini dicevano: «Come l’olio porta luce al mondo, così Israele è luce per il mondo» e ancora: «Gerusalemme è luce per le nazioni della terra». Si riferivano al fatto che ritenevano Israele depositario della sapienza della legge che Dio, per bocca di Mosè, aveva rivelato al suo popolo.

     Qualche rabbino aveva però intuito che non solo la parola delle sacre Scritture, ma anche le opere di misericordia erano luce e sosteneva che il primo ordine dato da Dio all’inizio della creazione: «Sia la luce!» si riferiva non a una luce materiale, ma alle opere dei giusti.

     Chiamando i discepoli «luce del mondo», Gesù dichiara che la missione affidata da Dio a Israele era destinata a continuare attraverso di loro. Sarebbe apparsa in tutto il suo splendore nelle loro opere di amore concrete, verificabili. Sono queste opere che Gesù raccomanda di «far vedere». Non vuole che i suoi discepoli si limitino ad annunciare la sua parola senza impegnarsi, senza lasciarsi compromettere, senza giocarsi la vita su questa parola.

     La prova che gli uomini sono stati raggiunti da questa luce si avrà quando essi daranno gloria al Padre che sta nei cieli.

     La loro reazione potrebbe però essere anche opposta e inattesa. Potrebbero essere infastiditi dalle opere dei cristiani e reagire indispettiti.

     Non si deve subito presupporre che questo dipenda da una loro disposizione malevola. In genere non è il bene che disturba, ma la percezione di qualche ombra di esibizionismo, di qualche cedimento all’ambizione, alla vanità, all’autocompiacimento. Queste sbavature, nemmeno consapevoli, che accompagnano spesso anche i gesti più nobili, privano l’opera buona della sua caratteristica più squisita, più sublime, più «divina»: il soave profumo del disinteresse e totale gratuità.

     I discepoli sono chiamati a compiere il bene senza attendersi alcun plauso, alcuna ammirazione, «la loro destra deve sapere ciò che fa la sinistra» (Mt 6,3). Non è a loro dovranno essere rivolte le lodi, ma a Dio.

     L’ultima immagine è deliziosa: veniamo introdotti nell’umile dimora di un contadino dell’alta Galilea dove, alla sera, si accende una lampada di terracotta a olio, la si pone su un supporto di ferro e la si colloca in alto, in modo che possa illuminare anche gli angoli più reconditi dell’abitazione. A nessuno passerebbe per la mente di nasconderla sotto un vaso.

     L’invito è a non occultare, a non velare le parti più impegnative del messaggio evangelico. I discepoli non devono preoccuparsi di difendere o di giustificare le proposte di Gesù, devono solo annunciarle, senza paura, senza timore di venire derisi o perseguitati. Esse saranno per gli uomini come una lampada che «brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e si levi la stella del mattino» (2Pt 1,19).

Meditazione 

«Il giusto risplende come luce».

     Il ritornello del salmo responsoriale ci suggerisce in quale prospettiva accostare i testi della liturgia della Parola di questa domenica, al cui centro risuona l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli affinché riconoscano di essere sale della terra e luce del mondo.

     Il profeta Isaia annuncia che sorge come luce persino nelle tenebre chi pratica la giustizia e la misericordia, vive nella compassione verso i bisogni degli altri, lotta contro l’oppressione e sa consolare le afflizioni.

     L’apostolo Paolo evidenzia un altro aspetto della luminosità del discepolo: è colui che non solo pone al centro del suo annuncio «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2), ma assume nella sua testimonianza la logica della Croce, riconoscendo nella propria debolezza lo spazio in cui può manifestarsi la potenza di Dio e del suo Spirito. Non la sapienza umana abbandonata a se stessa, ma la sapienza trasfigurata dall’amore di Dio, pienamente manifestatesi nel mistero pasquale, diviene luce che può rischiarare il cammino degli uomini, orientando le loro scelte, sostenendo le loro fatiche.

     Dall’accostamento di queste due letture emerge così come l’essere sale e luce non dipende solamente dal contenuto delle proprie azioni o delle proprie parole, ma anche dallo stile che le accompagna e le sostiene. È decisivo, per essere davvero discepoli di Gesù Cristo, e Cristo crocifisso, non solo il che cosa si fa o si dice, ma il come, con quale sapienza e con quale stile.

     Accostiamo questo testo di Matteo dopo aver ascoltato, nella domenica precedente, la proclamazione delle beatitudini, con cui Gesù apre il cosiddetto Discorso della montagna, e occorre innanzitutto notare il nesso che collega queste due pagine. ‘Luce del mondo’ e ‘sale della terra’ sono proprio coloro la cui vita umile e povera, mite e disarmata, appare piccola, insignificante, marginale rispetto a un mondo che spesso si manifesta loro ostile. Eppure sono proprio loro ciò di cui il mondo non può fare a meno, così come la vita non può mancare di sapore e di luce. Le due immagini alludono a entrambi gli aspetti: un’assoluta necessità che si manifesta però in un’apparente debolezza.

     Assoluta necessità: non si può vivere senza luce, così come senza sale.

Il Siracide afferma: «Le cose di prima necessità per la vita dell’uomo sono: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, succo di uva, olio e vestito (Sir 39,26). Conosciamo del resto i molteplici usi del sale nell’antichità, come pure ai nostri giorni: non solo condisce, ma purifica, conserva; in molte culture è simbolo di sapienza, di amicizia, di condivisione della stessa mensa.

     Al pari della luce, dunque, il sale risulta necessario alla vita dell’uomo, al suo gusto e al suo sapore, così come sono indispensabili la relazione e l’amicizia; eppure rimane una realtà debole, poco appariscente, esposta al rischio di venire trascurata. E. Schweitzer, commentando questo testo, sottolinea che sua moglie, quando deve scrivere una ricetta di cucina per qualche amica, elenca tutti gli ingredienti, ma di certo non si preoccupa di precisare che occorre anche il sale. Va da sé che ci vuole, e proprio per questo non se ne esplicita la necessità. Rimane nascosto, come accade alle cose più preziose della vita, e alla luce stessa. Se devo descrivere un panorama, parlerò di ciò che vedo, del profilo dei monti e delle case, degli alberi e delle strade, ma non citerò la luce, che pure è ciò che consente di vedere ogni cosa. Nelle metafore del sale e della luce sono dunque presenti entrambi questi aspetti: si tratta di realtà essenziali, ma nello stesso tempo nascoste e deboli, e proprio per questo sottoposte a due possibili tentazioni. La prima è che vengano trascurate, senza che se ne colga l’importanza. È la tentazione del mondo, che non sa riconoscere il valore della testimonianza evangelica resa dal discepolo di Gesù. C’è però anche la tentazione opposta, quella del discepolo, che può trascurare il proprio valore, la propria dignità, senza metterla a servizio del mondo; oppure la può occultare in un anonimato che non annuncia e non comunica più nulla.

     Dobbiamo anche osservare l’indicativo presente che risuona in modo molto netto e forte nelle parole di Gesù. «Voi siete il sale della terra; voi siete la luce del mondo». Non un futuro, non un esortativo, tantomeno un imperativo, ma un indicativo presente: siete! Coloro ai quali Gesù si rivolge sono già ora sale e luce. Non possono né debbono fare qualcosa per diventarlo, e l’esserlo non dipende da una qualche loro virtù o qualità particolari; tanto meno da un loro merito. È l’azione gratuita di Dio, che regna su di loro, è la prossimità del Regno che Gesù dona alla loro vita a renderli tali. Devono tuttavia vigilare per non perdere, o meglio per non sprecare questo dono, poiché il sale può perdere sapore e la luce rimanere nascosta. Che il sale abbia sapore e che una lucerna faccia luce sono eventi che non hanno nulla di straordinario e di sorprendente. La vera sorpresa che sconcerta è che il sale sia senza sapore o che la lucerna, anziché collocata ben in vista sul lucerniere, venga nascosta sotto un moggio.

     I chimici ci spiegano che il sale non può perdere il sapore. Eppure, sembra dire Gesù, può accadere. Il paradosso ricorda una semplice realtà: il sale diventa insipido e inutile, tanto da essere gettato via, non perché perda il suo sapore, ma perché non viene utilizzato per dare sapore ad altro. L’immagine simmetrica della lucerna aiuta a comprendere meglio: a cosa serve una lampada che viene nascosta sotto un moggio? Non serve più a nulla. Non perde la sua luce, continua a risplendere, ma soltanto per se stessa, nascosta com’è sotto il moggio. Nessuno può rallegrarsi alla sua luce. Anche al sale può accadere la stessa sorte: non perderà il suo sapore, ma a che cosa serve se non condisce i cibi nei quali deve sciogliersi per far risaltare la loro bontà al palato? Il discepolo non è chiamato a vivere la beatitudine del Regno per se stesso, ma per donare sapore e luce al mondo intero. Se per paura di contaminarsi con il mondo, di perdersi in esso, rifiuta di sciogliersi come sale nei cibi; o se per paura dell’ostilità e del rifiuto, anziché collocarsi come lampada ben visibile su un lucerniere, si nasconde al sicuro, in un ambito circoscritto e protetto, a che cosa serve? Non serve più a nulla: può essere gettato via e calpestato dagli uomini.

     Occorre però vivere questa testimonianza vigilando sul ‘come’. Il sale non può perdere sapore, ma in se stesso ha un pessimo gusto. Nessuno di noi prende del sale e lo mangia da solo, e se lo fa ne prova disgusto. Qualcosa di simile accade alla luce: illumina e consente di vedere, ma se qualcuno fissasse a occhio nudo una fonte luminosa intensa, ne rimarrebbe abbagliato. Il sale da solo non nutre la vita, ma è indispensabile per dare sapore a tutti i cibi di cui ci nutriamo. Ne esalta le qualità donando loro un sapore più pieno che rallegra il palato. La luce in se stessa non si vede, ma senza luce non si vede nulla di ciò che esiste. Se entro in una stanza buia, i mobili già ci sono, anche se ancora non li scorgo; apro una finestra, penetra la luce ed ecco che tutto emerge dall’oscurità così da poterlo riconoscere e ammirare.

     Tale deve essere lo stile della testimonianza del discepolo. Nella storia è già presente il Signore con la sua azione, anche se in modo nascosto e misterioso. Il discepolo è colui che, con un po’ di sale e un po’ di luce, deve far emergere questa presenza così che gli uomini possano vederla, riconoscerla, assaporarla nella sua bellezza. Il Signore è già presente nella storia, anche nelle storie sbagliate, segnate dal peccato, dal fallimento, dal dolore, da tante altre ferite come quelle ricordate dal testo di Isaia. Occorre però che ci siano un po’ di sale e un po’ di luce perché tale presenza nascosta diventi manifesta. Non basta la luce, perché non è sufficiente vedere; occorre anche il sale, poiché è necessario gustare, assaporare, mangiare. La comunione con il Signore non è questione soltanto di ascolto e di visione; implica assimilazione, nutrimento, interiorizzazione, giungere a gustare un altro sapore della vita. Inoltre il sale, oltre a condire, preserva, purifica, conserva. Occorre anche purificare e conservare, preservandoli dalla corruzione, dalla dimenticanza, dall’indifferenza, i segni discreti e misteriosi della presenza di Dio.

 

Immagine della Domenica 


 

 

BOCCIOLO IMMENSO DI LUCE

Magnifico e multicolore, crei la luce coi tuoi occhi divini.

La terra è cieca quando tu scompari, bel sole, raggiante splendore.

 Tu attraversi i cieli splendida luce dal luminoso candore…

Tu ti svegli in bellezza, sparviero del mattino, altissimo, inaccessibile,

bocciolo immenso che si schiude sull’oceano, apportatore di luce, distruttore di oscurità.

(Inno egizio)

 

Preghiere e racconti

 

Voi siete la luce del mondo

Nel Vangelo di questa domenica il Signore Gesù dice ai suoi discepoli: “Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo ” (Mt 5,13.14). Mediante queste immagini ricche di significato, Egli vuole trasmettere ad essi il senso della loro missione e della loro testimonianza. Il sale, nella cultura mediorientale, evoca diversi valori quali l’alleanza, la solidarietà, la vita e la sapienza. La luce è la prima opera di Dio Creatore ed è fonte della vita; la stessa Parola di Dio è paragonata alla luce, come proclama il salmista: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 119,105). E sempre nella Liturgia odierna il profeta Isaia dice: “Se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio” (58,10). La sapienza riassume in sé gli effetti benefici del sale e della luce: infatti, i discepoli del Signore sono chiamati a donare nuovo “sapore” al mondo, e a preservarlo dalla corruzione, con la sapienza di Dio, che risplende pienamente sul volto del Figlio, perché Egli è la “luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Uniti a Lui, i cristiani possono diffondere in mezzo alle tenebre dell’indifferenza e dell’egoismo la luce dell’amore di Dio, vera sapienza che dona significato all’esistenza e all’agire degli uomini.

(Benedetto XVI, Angelus, 6 febbraio 2011).

 

«La vostra luce brilli»

Che cosa ci comandi quindi? Di vivere, facendo sfoggio delle nostre buone opere e cercandogli onori? Assolutamente no; io non dico nulla del genere. Infatti, non ho detto: «Cercate di mostrare le vostre opere buone». E non ho detto neppure: «Fatene sfoggio», ma ho detto «la vostra luce brilli», cioè: la vostra virtù sia eminente, la vostra fiamma calda, la vostra luce splendente. Infatti, quando raggiunge questo livello, la virtù non può restare nascosta, anche se colui che la possiede facesse di tutto per mantenerla in ombra. Tenete quindi davanti a loro una condotta irreprensibile ed essi non avranno alcun serio motivo di accusarvi; ma, anche se aveste migliaia di accusatori, nessuno potrà ricacciarvi nell’ombra. E il termine luce è ben scelto; infatti, nulla mette tanto in luce un uomo, anche se volesse passare del tutto inosservato, quanto lo splendore della virtù. Si direbbe che egli è rivestito dei raggi del sole, ma è ancor più splendente, poiché, invece di dirigere i suoi raggi verso la terra, egli attraversa persino il cielo.

(Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, 15,6-7).

 

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto.  La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri, e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade, mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce. Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!  La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto  attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio  portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,  le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi  in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni… chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane, come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,  gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,  ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti, e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore, abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori, non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,  né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe: la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce.

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole)

 

La verità interiore

La vita interiore ci rivela i nostri limiti e le nostre negatività. È ricerca di luce ed esperienza di illuminazione, ma dove la luce splende nel fondo delle tenebre. È necessario toccare questo fondo buio di sé per conoscere la luce. Uno splendido racconto mistico musulmano (di Suhrawardî), in forma di dialogo, dice:

– O sapiente, dove si trova la fonte della vita?

– Nelle tenebre. Se vuoi partire alla ricerca di questa fonte, mettiti i sandali e avanza nel cammino dell’abbandono confidente, finché arriverai alla regione delle tenebre.

– Da che parte si trova il sentiero per questa regione?

– Da qualunque parte tu vada, se sei un vero pellegrino, tu compirai il viaggio.

– Che cosa segnala la regione delle tenebre?

– L’oscurità di cui si prende coscienza. Quando colui che intraprende questo cammino vede se stesso come uno che è nelle tenebre, allora comprende che egli era anche prima e fino allora nella Notte, e che la luce del Giorno non ha ancora raggiunto il suo sguardo. Eccolo, il primo passo dei veri pellegrini. Il cercatore della fonte della vita nelle tenebre passa attraverso ogni sorta di stupori e angosce. Ma se è degno di trovare questa fonte, finalmente dopo le tenebre contemplerà la luce. Allora non dovrà fuggire davanti alla luce, perché questa luce è uno splendore che, dall’alto dei cieli scende sulla fonte della luce (Cf. H. Corbin, «L’Archange empourpré: récit mystique de Sohrawardî», in Hermès 1 (1963), p. 21).

È la luce della notte, delle tenebre, è la vita trovata là dove muore qualcosa, è il cammino della vita interiore, il descensus ad cor che porta a vedere le proprie tenebre, ad accettare le proprie limitatezze e a integrarle in un’esperienza di pacificazione e di unificazione.

Chi vede la propria ignoranza e la conosce può entrare nella vera sapienza; chi vede i limiti della propria mortalità e temporalità può entrare nella vita; chi vede i propri limiti affettivi può entrare nell’autenticità dell’amore. Chi non accetta di vedere i propri limiti non potrà neppure iniziare a superarli o meglio, forse, a traversarli. Allora, questa illuminazione che viene dalla conoscenza delle proprie tenebre appare chiaramente come esperienza di resurrezione: se toccare il fondo del proprio cuore è esperienza di morte, la luce che si intravede è ingresso in una nuova vita. Allora si disvela l’uomo interiore (2Cor 4,16; Rm 7,22; Ef 3,16 e 1Pt 3,4 che parla dell’«uomo nascosto del cuore» là dove la Bibbia CEI traduce «l’interno del vostro cuore»), ovverosia una vita interiore che dà forza, unificazione pace, serenità, anche nel declinare delle forze e nell’andare verso la morte. Si sia credenti o no, se questa vita interiore è presente, forse si potrà fare della morte un compimento, non una fine. E si potrà dare vita alla propria vita.

(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 25-26).

 

Mia luce e guida

Signore, tu sei la luce e io la nebbia.

Io so che tu sei la mia luce, e non so come sono ne chi sono.

Tu mi conosci, mi interroghi e mi ami.

Illuminami affinché io ti conosca,

e, conoscendo te, giunga a conoscere me stesso.

Non so mettere in ordine i valori

delle realtà nelle quali vivo immerso.

Illumina tutto il mio essere

affinché sappia far ordine nella mia vita

secondo i tuoi valori e secondo le tue priorità.

Io non so amare, aiutami ad amare come ami tu,

con l’universalità e con le preferenze del tuo amore.

La mia sensibilità è annebbiata

dall’egoismo e dalla ricerca di me stesso.

Fa’ che, con la tua luce, veda dentro di me

e veda tè stesso che entri nel profondo del mio cuore

e, conoscendoti, io non resti nella nebbia.

Le mie forze sembrano sempre mancarmi.

Io non sono nulla, sono nebbia.

Fa’ che la tua luce mi purifichi, mi rallegri e mi dia forza.

Fa’ che la tua luce mi faccia scorgere la verità,

guarisca e illumini la mia cecità. 

Clemente Arranz Enjuto

 

Preghiera

O Padre, non vogliamo possedere nessun vanto, nessuna gloria ma solo il nome del tuo Figlio crocifisso e risorto, un nome più prezioso e potente dell’oro e dell’argento per far alzare e camminare chi ha bisogno di speranza. È la sua Parola la luce che ci affidi perché si ravvivino i luoghi imprigionati dalle tenebre, è il vangelo la lampada che non si consuma, il sapore incorruttibile da dare all’esistenza. E sorgeranno le nostre opere buone, come un sole che non tramonta, perché acceso al tuo splendore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ DOMENICANA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.

– E. BIANCHI ET AL., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)