I cristiani non rinuncino a Gerusalemme: pellegrini in Terra Santa per confrontarsi con la complessità del mondo

In un editoriale su Famiglia Cristiana del 23 luglio Andrea Riccardi parla di Gerusalemme, città contesa dove la pace appare lontana, città santa delle tre religioni monoteistiche, luogo verso cui tornare da pellegrini e da lì guardare al mondo e alla sua complessità.

Lo Stato d’Israele festeggia cinquant’anni dalla proclamazione di Gerusalemme come capitale “unita e indivisibile” (dal 1967 controlla la parte orientale della città, prima della Giordania). Tuttavia la questione tra palestinesi e israeliani resta irrisolta: continua un conflitto che ha infiammato il mondo arabo e musulmano, il quale considera Gerusalemme una sua città santa. Qui i cristiani sono una piccola minoranza. Eppure la città significa molto per il mondo cristiano.

Nel Novecento, il pellegrinaggio è divenuto un fatto di popolo. Alcuni cristiani si sono stabiliti nella città. La Terra Santa ricorda ai cristiani la storia d’Israele, quella dei Vangeli e della prima comunità. Vedere questa terra aiuta a rileggere le Scritture. Eppure oggi Gerusalemme sembra un po’ remota nell’orizzonte dei cristiani. Sono diminuiti i visitatori, forse per timore degli attentati. Ma c’è anche meno attrazione. Non siamo divenuti più provinciali e concentrati su noi stessi?

La Terra Santa è invece una lezione a uscire dal proprio ambiente e confrontarsi con la complessità del mondo: memoria e attualità, genti e religioni diverse, conflitti. Visitando il memoriale della Shoah Yad Vashem si sente il dramma dell’ebraismo, il ritorno alla terra, il bisogno di sicurezza. Anzi, spiace che taluni pellegrinaggi cattolici non vadano a Yad Vashem. A Gerusalemme s’incontra il cristianesimo orientale, così sofferente in Medio Oriente. Qui sono le radici della nostra fede. Ritornare alle radici e misurarsi con la complessità dell’oggi aiuta a concepirsi cristiani in modo aperto all’altro e alla speranza.

C’è bisogno di ritornare a Gerusalemme per comprendere come la speranza non diminuisca in una realtà abitata da tanti altri rispetto a sé. Il cristiano è un pellegrino: il cristianesimo è l’unica delle tre religioni monoteistiche che non controlla politicamente la terra delle sue origini. Forse per questo i discepoli di Francesco d’Assisi sono stati i religiosi più familiari alla Terra Santa, tanto che nel 2017 si celebra l’ottavo centenario dell’arrivo dei primi frati, che furono una presenza evangelica rispetto alla conquista crociata. In un tempo globale, segnato da tante chiusure, non bisogna guardare di più il mondo nella prospettiva di Gerusalemme?

Cittadinanza e IRC: percorsi educativi

A Chianciano Terme, nella gradevole cornice della Val D’Orcia, si è svolto anche quest’anno dal 2 all’8 luglio il Corso di aggiornamento a carattere nazionale per Insegnanti di Religione Cattolica di ogni ordine e grado scolastico. L’équipe dell’Istituto di Catechetica che segue in particolare il settore IRC ha portato a termine il percorso triennale di formazione proposto agli IdR sul tema generale Educazione, apprendimento e insegnamento della religione.

Un lavoro avviato nel 2014-2015 con attenzione pedagogica alla situazione dell’istruzione religiosa sul triplo versante degli studenti, dei docenti e della disciplina (Analisi della situazione e prospettive educative); proseguito del 2015-2016 tematizzando in maniera aggiornata distinzione e complementarità tra educazione e apprendimento/insegnamento in relazione al lavoro scolastico e nello specifico all’Insegnamento della Religione (Educazione e apprendimento). La terza tappa ha completato il percorso, ragionando sul legame cittadinanza-IRC, radicato nel più generale rapporto religione-cittadinanza.

Superando una visione del tema puramente funzionale, ovvero relegata a questioni di equilibrio sociale e ordine pubblico, si è centrato il discorso sul riconoscimento reciproco di religione e cittadinanza per favorire lo sviluppo della dimensione politica, etica e religiosa della personalità umana. In realtà la questione centrale della ragion pratica moderna risiede nella relazione tra alleanza, patto e contratto. Se il contrattualismo è la procedura ordinaria della cultura democratica contemporanea, un’azione educativa aggiornata non può esimersi dall’introdurre le nuove generazioni in questo ecosistema. Ma contemporaneamente non può rifiutare di testimoniare che il riconoscimento mutuo tra le persone, la valorizzazione della diversità e la ricerca delle costanti di umanizzazione – cioè l’alleanza – sono il presupposto e il fondamento di ogni accordo politico e contratto sociale.

La religione cresce nel terreno dell’alleanza e può partecipare le sue risorse di senso all’ambito politico ed etico, ma solo rispettando le procedure normative della legittimità culturale e democratica. Se educare equivale ad “apprendere a vivere” – oggi ancor di più a “convivere” – e la scuola è un continuo esercizio di tale apprendimento, l’Insegnamento della Religione si trova nel cuore dell’esperienza scolastica, in quanto mutuo riconoscimento tra le persone, convivenza pacifica, pratica dei valori civili, apprezzamento della diversità, accostamento critico ai pilastri della cultura umana. Nuovo perno educativo in questo momento storico si può trovare proprio nella nozione di cittadinanza. Attorno a tale importante esperienza si può rileggere l’identità dell’Insegnamento della Religione ed evidenziare l’apporto che esso può dare – in quanto disciplina scolastica – al progetto della scuola e a percorsi di umanizzazione.

Una grande sfida per l’istruzione religiosa sta nel cercare la sintesi tra il lineamento antropologico fondamentale della ricerca di senso e attribuzione di significato alla realtà, la risposta rintracciabile nella dimensione trascendente dell’esistenza, le concrete vie di configurazione di una convivenza pacifica, perché tendenzialmente giusta. Giustizia e appartenenza – temi tipicamente legati alla religione – devono amalgamarsi affinché la cittadinanza assuma il volto di un cosmopolitismo radicato, che permetta a tutti di diventare cittadini del mondo, a partire dalla propria terra, senza dimenticare di essere uomini e donne del proprio tempo.

In tale direzione si è sviluppata l’offerta formativa del Corso, attraverso la comunicazione di contenuti aggiornati nelle lezioni frontali delle varie aree scientifiche (epistemologica/biblico-teologica/psicologica/pedagogica/didattica/sociale), l’approfondimento nelle sessioni plenarie e l’esercitazione pratica nei laboratori pomeridiani. I partecipanti hanno apprezzato tutti i momenti proposti e lo hanno dimostrato attraverso l’impegno individuale e collettivo, che ha prodotto delle interessanti sintesi, condivise nella sessione finale.

I relatori (Proff. J.L. Moral, F.V. Anthony, Z. Formella, A. Farina, D. Grządziel, T. Doni, C. Pastore, M.S. Wierzbicki, G. Usai) hanno fornito abbondanza di contenuti e documentazione. I laboratori (guidati dai Proff. Cristina Carnevale, Giuseppe Cursio, M. Pinella Etzi e Renata Gianni), seguendo un percorso strutturato, hanno visto il confronto in verticale, tra insegnanti appartenenti a tutti gli ordini di scuola, dall’Infanzia alla Secondaria di 2° Grado. Dato il tema del Corso, l’intento preciso è stato quello di mettere ogni docente a contatto con la realtà degli altri gradi scolastici e di costruire percorsi educativi valorizzando la peculiarità di ogni segmento formativo, accompagnando il cittadino-studente in un completo itinerario formativo, in cui la dimensione religiosa della vita trovi l’attenzione culturale che merita e abbia occasione di sviluppare il suo potenziale educativo.

Il lavoro laboratoriale è stato aperto nel pomeriggio del 3 luglio da una sessione dedicata alla IV Indagine Nazionale sull’IRC Una disciplina alla prova. Il Prof. Sergio Cicatelli – curatore della Ricerca insieme con il Prof. Guglielmo Malizia – ne ha esposto i risultati, approfonditi in quattro sessioni parallele tematiche e in un question time conclusivo. Il tempo di studio ha avuto il pregio di consentire a tutti un confronto delle situazioni locali con la realtà nazionale dell’IRC, attraverso l’esame di dati aggiornati.

In questo senso è da segnalare anche che ai partecipanti è stata fornita una Bibliografia di recente pubblicazione (Moral José Luis, Cittadini nella Chiesa, cristiani nel mondo. Antropologia, catechetica ed educazione, LAS, Roma 2017; Cicatelli Sergio – Malizia Guglielmo (a cura), Una disciplina alla prova. Quarta indagine nazionale sull’insegnamento della religione cattolica in Italia a trent’anni dalla revisione del Concordato, Elledici, Torino 2017; Ricci Alessandro – Formella Zbignew, Lo psicologo dell’educazione nella Scuola, Morcelliana, Brescia 2017; Bay Marco, I giovani nelle statistiche sociali, LAS, Roma 2017), oltre al vademecum con tutti i contenuti e le indicazioni operative del Corso.

I lavori del Corso sono stati onorati nella giornata del 6 luglio dalla presenza del Dott. Luca Salvini dell’Ufficio Scolastico Regionale della Toscana, che ha effettuato l’ispezione di rito per conto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Un grazie va a tutti coloro che sono stati compagni di fatica, ma che hanno vissuto in amicizia e collaborazione l’opportunità di un confronto ricco professionalmente e umanamente qualificante.

Un grazie anche alla Direzione e allo Staff dell’Hotel S. Chiara di Chianciano Terme, che ha creato la cornice logistica adatta, ha fornito un servizio di qualità ed ha mostrato anche quest’anno attenzione alle finalità e alle esigenze tipiche del Corso IRC.

Giampaolo Usai

 

Qualche foto dell’evento:

 

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Sapienza 12,13.16-19

Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono. Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con  tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona  speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

 

 

  • Questo brano della Sapienza ci orienta a vedere anche l’elemento negativo della zizzania nell’orizzonte positivo della misericordia di Dio, che si specifica qui come sua «indulgenza». In questo libro, il più recente degli scritti dell’AT, si rievoca la storia dell’esodo e della conquista del Canaan, ma rileggendo, a distanza di tempo, gli antichi racconti bellici in chiave più «pacifista». In questo cambio di atteggiamento si osserva l’influsso culturale dell’ellenismo cosmopolita e fin troppo aperto alle diverse tradizioni religiose. L’autore, forzando a senso unico l’antico racconto delle spietate battaglie di Giosuè, le interpreta come un atto di indulgenza di Dio verso i cananei, che non vennero distrutti tutti imme-diatamente ma con una certa gradualità: «anche con loro, perché uomini, fosti indulgente, mandando loro le vespe come avanguardia del tuo esercito, perché li distruggessero a poco a poco… colpendoli a poco a poco, lasciavi posto al pentimento, sebbene tu non ignorassi che la loro razza era perversa» (Sap 12,8.10). Su questo esempio immediatamente precedente si basa poi la considerazione di carattere generale contenuta nella pericope liturgica, che culmina nella bella confessione di fede «ci governi con molta indulgenza» (v. 18b). E subito dopo, nel v. seguente, si sottolinea il doppio fine pedagogico di questa indulgenza divina. In primo luogo, c’è in vista l’educazione dello stesso popolo di Dio che deve imparare ad «amare gli uomini» (lett. «ad essere fìlanthropos); ma in secondo luogo c’è pure l’intenzione di provocare al pentimento (metanoia) lo stesso popolo cananeo del quale si sono ricordati prima i vizi, che rendevano impura la terra santa (Sap 12,3-6.11).

 

Seconda lettura: Romani 8,26-27

 Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.

 

 

  • Paolo parla qui della condizione dei cristiani, che pur godendo ancora soltanto degli inizi della redenzione, hanno tuttavia in sé il dono dello Spirito, che rende i credenti capaci di adeguare i loro desideri ai disegni di Dio. Il dono dello Spirito è il vero inizio del regno di Dio nel cuore degli uomini, di cui i credenti costituiscono una parte che anticipa il suo allargamento al resto dell’umanità. Noi stessi, come credenti, siamo consapevoli della nostra debolezza, che viene soccorsa sì dallo Spirito, ma solo attraverso i suoi «gemiti», che segnalano una situazione non ancora soddisfacente né pervenuta al suo compimento. Così ci ritroviamo nella prospettiva dell’attesa e della pazienza propria del brano evangelico.

 

Vangelo: Matteo 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

 

 

Esegesi

 

     Questo brano evangelico è aperto e chiuso dalla parabola del grano e della zizzania, prima con la sua esposizione, e poi con la sua spiegazione aggiunta alla fine. In tutto possiamo distinguervi cinque parti.

     1) Il grano e la zizzania (vv. 24-30)

     Ancora una volta, come abbiamo visto per la parabola del seminatore domenica scorsa, si deve fare attenzione a quale sia il particolare più saliente attorno a cui ruota tutta la parabola. Dobbiamo escludere che si voglia mettere sullo stesso piano, a parità d’importanza, il grano e la zizzania. Questo secondo elemento negativo ha un valore secondario, in quanto serve solo a far emergere una circostanza che consiglia di attendere sino al tempo della mietitura per raggiungere in forma ottimale il fine desiderato di riporre il raccolto nel granaio. La presenza della zizzania non può ostacolare la maturazione del grano seminato nel campo.

     Questa parabola è esclusiva di Mt. Il termine zizzania (plur. da zizanion) da cui deriva l’italiano «zizzania», è noto nella grecità solo dal Vangelo di Matteo, che lo usa soltanto in questa parabola. Si traduce anche con «loglio» ed è simile alla spiga di grano finché questa è verde. Usando lo stesso simbolo, Gesù dirà ancora in 15,13: «Ogni pianta che non è stata piantata dal Padre mio celeste sarà sradicata». Da parte sua Paolo inviterà a rimettersi al futuro giudizio del Signore: «Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1Cor 4,5).

     2) Il granello di senape (vv. 31-32)

     A differenza della parabola precedente, che ci potrebbe fuorviare nel dare un peso eccessivo all’aspetto negativo che può ostacolare lo sviluppo del regno di Dio nel cuore dell’umanità, questa del granello di senape presenta soltanto l’aspetto positivo di questa realtà misteriosa. Bisogna soltanto sottolineare che il dinamismo di questa crescita non è autonomo da Dio, ma dipende sempre dalla sua grazia, che lui lascia agire in modo discreto ed imprevedibile al centro della storia.

     3) Il lievito (v. 33)

     Questa parabola, anche se si passa dall’attività agricola all’ambiente domestico, è simile alla precedente, in quanto si parla ancora dello sviluppo del regno di Dio, che permea gradualmente la pasta dell’umanità. Ma tenendo conto che una parabola evidenzia solo un aspetto del regno di Dio, forse vale la pena di sottolineare più l’aspetto della profonda penetrazione di questo dono nella storia che non la progressione quasi scontata e naturale del suo avanzamento. Il dono di Dio deve essere sempre rinnovato, e dobbiamo avere la consapevolezza di ricominciare ogni giorno daccapo nell’accoglierlo di nuovo, senza troppe illusioni sul nostro passato che ce ne possa garantire il possesso. Che la senape diventi un grande albero è un’espressione iperbolica che rientra nello stile parabolico, mentre il riferimento agli uccelli si riferisce alla visione di Dan 4,9, dove essi rappresentano i popoli sottomessi dell’impero di Nabucodònosor. Ma qui l’immagine ha un carattere più familiare, e non politico, in quanto indica l’accoglienza generosa di cui anche i piccoli possono dar prova.

     4) Perché Gesù parla in parabole (vv. 34-35)

     La motivazione data qui sull’uso del discorso parabolico sembra diversa da quella, negativa, fornita sopra, nei vv. 13-15 (vedi: domenica XV). Anche se ci si rapporta ancora alla folla, in quanto distinta dai discepoli, il ricorso alle parabole non è più per nascondere la rivelazione del regno di Dio di fronte agli estranei, ma per manifestarla anche a loro, oltre che ai discepoli. Infatti si cita il Sal 78,2, dove questo passo introduce una rievocazione della storia nazionale rivolta ad Israele, invitato a saper trarre le dovute lezioni dal suo passato. Il testo del passo è un po’ trasformato, per passare da un orizzonte nazionale a quello più universale indicato con la «fondazione del mondo». In realtà gli elementi naturali che costituiscono l’ordinamento del mondo si prestano a servire, attraverso le immagini utilizzate nelle parabole, come veicolo di una verità superiore, qual è il regno di Dio rivelato da Gesù.

     5) Spiegazione della parabola della zizzania (vv. 36-43)

     Un esame attento di Mt 13 ci rivela un testo non omogeneo che ha avuto una sua lunga gestazione nella tradizione orale e poi nella stessa redazione di ogni evangelista. Ancora una volta, come abbiamo visto per l’altro caso della spiegazione della parabola del seminatore (vedi: domenica XV), ci troviamo di fronte ad una composizione della comunità cristiana, che attualizza per se stessa la parabola di Gesù, forzando un po’ il suo significato iniziale per adattarle alle sue condizioni più recenti. Ora si vuole raccomandare di avere pazienza con il miscuglio di buoni e cattivi che si trova a convivere nella stessa comunità cristiana o anche, per la comunità di Matteo, con i problemi derivanti dalla coesistenza della Chiesa con Israele. Così l’accento si sposta, dalla certezza dell’esito finale che sarà per volere di Dio, certamente positivo, all’esortazione morale di vivere con pazienza e indulgenza le difficoltà della vita presente.

 

Meditazione

     La mitezza di Dio nel suo agire con gli uomini (prima lettura), mitezza narrata dal padrone del campo nella parabola della zizzania (vangelo), costituisce un elemento unificante prima lettura e vangelo.

     Costitutiva dell’agire di Dio, la mitezza è essenziale anche agli uomini e all’agire ecclesiale. Essa non appare tanto come debolezza o impotenza, ma come volontà e capacità di dominare la propria forza, di governarla, di addomesticarla, di orientarla. La mitezza di Dio appare come pazienza, attesa dei tempi dell’uomo, fiducia accordata all’uomo: «Dopo i peccati, tu concedi il pentimento» (Sap 12,19). La mitezza appare ancora come non esclusione, non estirpazione, capacità di non dare giudizi ultimativi e senza scampo, ma come capacità di convivere con il negativo (parabola della zizzania). La mitezza, come capacità di mettere limiti alla propria forza, appare metodo di convivenza che si oppone alla logica della società tecnologica che ha come fine il proprio accrescimento e autopotenziamento e che ritiene ammissibile e perfino doveroso tutto ciò che è tecnicamente fattibile.

     La parabola della zizzania ha una dimensione ecclesiologica. La chiesa di Matteo è un corpus mixtum, nel senso che vi fanno parte dei cristiani provenienti dal giudaismo e dal paganesimo, ma anche nel senso che in essa vi sono forti e deboli, semplici e istruiti, persone maggiormente sante e altri che più facilmente cadono preda del peccato e del vizio. E questa, in verità, è la realtà di ogni comunità cristiana. Come già del gruppo dei Do-dici riunito attorno a Gesù. Così, la chiesa appare una scuola di pazienza e un’occasione di esercizio della mitezza.

     Gesù proclama «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35), e nel far questo enuncia il necessario scandalo che resterà fino alla fine del mondo: la presenza della zizzania accanto e in mezzo al buon grano; la presenza della divisione e dell’inimicizia che traversa il campo che è il mondo, ma che traversa anche le chiese, le comunità cristiane, e il cuore di ogni uomo. E accanto a questo c’è anche lo scandalo della pazienza di Dio che lascia che il male cresca insieme al bene, che l’empio prosperi accanto al giusto. Gesù non strappa la zizzania, non recide il fico improduttivo (Lc 13,8-9), non caccia Giuda dal gruppo dei Dodici, anzi, egli si inchina, si prostra davanti a colui che si è fatto suo nemico personale, si fa suo servo lavandogli i piedi, non interviene trattenendolo dal suo peccato, ma lo lascia fare, continuando a chiamarlo amico. Ed ecco che le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, cioè il segreto della storia umana agli occhi di Dio, diviene rivelazione nella croce di Cristo. Scandalo del male nella storia e scandalo della pazienza di Dio si sintetizzano nell’ingiusta morte di croce del Figlio di Dio. Ecco il mistero del Regno, le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo: la croce divina, quella croce che l’apologeta Giustino vedeva già inscritta nella creazione.

     L’annuncio del giudizio, presente nella spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,39-43), è ancorato su una predicazione che proclama la misericordia e propugna una prassi ecclesiale quotidiana di pazienza verso i peccatori. L’orizzonte del giudizio escatologico, che incombe sul singolo credente e sulla chiesa nel suo insieme, è ciò che consente al cristiano e alla chiesa di mettere in pratica nell’oggi la pazienza che il vangelo richiede. E di lottare contro la tentazione dell’impazienza di anticipare il giudizio già nell’oggi. L’impazienza consiste nel presumere di sapere già oggi chi è il cattivo e chi il buono, qual è il grano e quale la zizzania (piante che si assomigliano molto), e nel pretendere di eliminare questa per lasciare solo quello.

     Le parabole del grano di senape e del lievito (Mt 13,31-33) presentano lo sviluppo vitale straordinario che sgorga da un seme minuscolo seminato per terra (e per gli antichi il seme seminato muore) e da un po’ di lievito che, nascosto nella pasta, la fa fermentare tutta. Siamo di fronte al mistero pasquale, al mistero della morte feconda di Cristo.

 

Immagine della domenica


 

CAMMINANDO

L’amico assaporava e riassaporava di gusto questo concetto: “Niente di più bello che trovare camminando ciò che unicamente camminando si cerca”. E telefonando a sua moglie, insegnante di lettere, glielo ripeteva in latino: “Nihil mihi jucundius quam deambulando invenire quod eundo quaero”.

 

Preghiere e racconti

 

La parabola del grano di senape e la Chiesa

«La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr. Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. […] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

 

Il piccolo seme di senape

«…quando il piccolo seme ruzzolò dalle mani del vecchio contadino in mezzo ai grossi grani di frumento echeggiò tra le zolle una risata impercettibile. Chissà com’era capitato lì quel semino ridicolo! Neppure le vecchie erbe del fossato lo conoscevano. L’avena, già alta, propalò al vento il suo parere: “Divento gialla se ne uscirà una fogliolina sola”.

Il piccolo seme si sentì avvilito da quelle voci di disprezzo, che il vento sparpagliava dappertutto; ma non si rattrappì, né si rassegnò ad essere soltanto un piccolo seme nero per sempre. Qualcosa doveva esser pure capace di fare! Sognò di crescere alto fino a sovrastare anche il granoturco…”Chissà se l’avena diventerà gialla per davvero”, pensò. Voleva riuscirci a tutti i costi! Lasciò che i grossi semi di frumento si crogiolassero pigramente a deriderlo; egli affondò subito le radici nel terreno umido e succoso… Fu un inverno faticosissimo per lui. Venne l’estate ed i viandanti additavano meravigliati una pianta alta e vasta, dominante sulla distesa del grano.

Passò anche il Signore, la vide, indovinò l’enorme fatica del piccolo seme nell’inverno e volle premiare con una sua parola la sua fiducia in se stesso: “Guardate il seme di senape, è il più piccolo dei semi, eppure cresce come un albero, sì che i passeri si abbandonano sicuri sui rami robusti”. E il piccolo seme, là sotto, moriva di gioia».

 

Vigiliamo e siamo sobri

Il Signore dichiara apertamente di essere il seminatore del buon seme, che in questo mondo, come in un campo, non smette di seminare nei cuori degli uomini la parola di Dio come un buon seme affinché ciascuno di noi, in proporzione al seme seminato in se stesso da Dio, produca frutti celesti e spirituali.

Ma egli insegna anche che il nemico, il diavolo per soffocare in noi il seme di Dio vi semina sopra la zizzania della cattiveria e dell’ingiustizia. Dice infatti: «Mentre gli uomini dormivano, venne il nemico e seminò la zizzania in mezzo al grano e se ne andò» (Mt 13,25). Il Signore mostra che il diavolo semina la zizzania sugli uomini che dormono, cioè su quelli che per negligenza, oppressi dalla loro infedeltà come dal sonno dell’inerzia, dormono sui divini precetti. Di costoro l’Apostolo dice: «Quelli che dormono, infatti, dormono di notte e quelli che sono ebbri sono ebbri di notte. Noi invece evitiamo di dormire come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,7.6). Le vergini stolte, di cui leggiamo nel vangelo, erano sicuramente oppresse dal sonno dell’inerzia e dell’infedeltà; non avevano preso l’olio nei loro vasi e non poterono dunque andare incontro allo sposo (cfr. Mt 25,1-12). Perciò è somma preoccupazione di questo nemico del genere umano, del diavolo, seminare la zizzania sopra il buon grano. Ma chi, scacciato da sé il sonno dell’infedeltà sarà sempre e fedelmente vigilante per il Signore, non potrà essere sorpreso da tale seminatore notturno.

(CROMAZIO DI AQUILEIA, Commento a Matteo 51,1, Scrittori dell’area santambrosiana, pp. 324).

 

Sotto ogni cuore c’è il volto e il cuore di Dio Amore

“Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo. Per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all’amore, perché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è il volto e il cuore di Dio Amore “.

(P. MAZZOLARI).

 

La Chiesa, mescolanza di forti e di infermi, di buoni e di cattivi

Tale è quindi la composizione della Chiesa, mescolanza di forti e di infermi, di buoni e di cattivi, di peccatori ipocriti e di peccatori scandalosi: l’unità della Chiesa contiene tutto e approfitta di tutto. I fedeli vedono negli uni tutto ciò che si deve imitare e in tutti gli altri ciò che si deve superare con coraggio, riprendere con energia, sopportare con pazienza, aiutare con carità, ascoltare con condiscendenza, guardare con tremore. E coloro che restano in piedi e coloro che cadono servono allo stesso modo alla Chiesa: i suoi fedeli vedono in questi ultimi l’esempio della loro vigliaccheria e negli altri la convinzione, sono da tutto stupiti, da tutto edificati., da tutto confusi, da tutto incoraggiati, sia dai colpi della grazia sia dai colpi del rigore e della giustizia.

 (J.B. Bossuet, Lettere a una signorina di Metz)

 

Il peccatore e il santo

Il peccatore e il santo sono due giunti essenziali, complementari reciprocamente complementari, che agiscono l’uno sull’altro e la cui articolazione costituisce tutto il segreto del cristianesimo.         

(Ch. Péguy, Un nuovo teologo: Fernand Laudet)

 

Il peccato della Chiesa

Capita spesso di imbattersi in cristiani i quali pensano che le espressioni anti-evangeliche presenti nella loro Chiesa siano da addebitare in gran parte all’istituzione, sotto tutte le sue forme. Pensano quindi che, per liberare il carisma e la santità del popolo cristiano, se ne dovrebbe continuamente diffidare. Anzi, probabilmente si dovrebbe proclamare la morte della Chiesa-istituzionale, così come si è proclamata la morte di Dio nell’ateismo purificatore…

      Ma sarebbe troppo facile fare dell’istituzione abusiva o poco adeguata il capro espiatorio del peccato del corpo ecclesiale, popolo di peccatori. Il peccato della Chiesa si radica spesso nella mancanza di alta tensione mistica ed evangelica. Essenzialmente, nella mancanza di fede, nella mancanza di passione per l’avventura della santità secondo le beatitudini evangeliche… Potranno contestare il peccato della Chiesa solo i cristiani che la desiderano santa e hanno già fatto una qualche esperienza di una Chiesa più fedele al vangelo, in forza del loro personale impegno mistico e missionario; coloro che soffrono nel loro essere cristiani a causa delle malformazioni del Corpo con il quale sono solidali.

(P.A. Liégé, La Chiesa di fronte al suo peccato)

 

L’erbaccia del male

L’erbaccia del male,

dice Dio,

vedo bene che prolifera!

Il suo vigore vi spaventa?

Non abbiate più paura:

io mandato mio figlio.

Ma non sperate che strappi,

né che bruci:

ad ogni giorno la sua pena.

Lo mando a seminarvi

il buon grano;

lavorate per portare frutto.

Quanto ai rovi,

al loglio?

Quanto al male?

Abbiate pazienza:

io sono lento all’ira!».

(A. Haquin – R. Lejeune, Venga il tuo regno)

 

La pazienza

La pazienza è l’arte di vivere l’incompiutezza e la parzialità. La pazienza è necessaria per chi vive nella storia l’attesa del Regno: essa si declina come pazienza nei confronti di Dio, della chiesa e di se stessi. Nei confronti di Dio, perché Dio non ha ancora adempiuto, per sempre e per tutti, le promesse di guarigione dei ciechi e degli zoppi, dei muti e dei sordi, le promesse di salvezza dal male, dal peccato, dalla morte; nei confronti della chiesa, perché la comunità cristiana spesso si mostra inadempiente rispetto alle esigenze evangeliche; nei confronti nostri, perché scopriamo in noi inadeguatezze e difformità rispetto alla nostra vocazione. La pazienza è «forza nei confronti di se stessi» (Tommaso d’Aquino), capacità di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione. E questo grazie al fatto che la pazienza è sguardo in grande (makrothymía) sulla realtà, su Dio, sulla chiesa, su noi stessi. La pazienza è grandezza d’animo e si concretizza nell’amore: «l’amore pazienta» (1 Cor 13,4).

 

Preghiera

Signore Gesù, tu che sei buono, semini pieno giorno nel campo della Chiesa, in ciascuno di noi, amore, pace e gioia. Ma poi, il nemico, il tenebroso, viene a seminare la zizzania: pensieri, desideri, sentimenti ostili, tradimenti segreti che fanno scendere la notte anche nel nostro cuore. Donaci lo Spirito di vigilanza per non lasciarvi invadere dal maligno; rendici forti e umili per sostenere ogni tentazione e per riprendere dopo i nostri cedimenti. Fa’ che non pretendiamo dagli altri una perfezione che noi stessi non abbiamo; donaci occhi che sappiano vedere nel campo oltre la zizzania anche il buon grano; donaci un cuore che sappia amare come te nell’umile pazienza, senza stancarsi mai. 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Mysterion: rivista di ricerca in teologia pastorale

La rivista Mysterion si prefigge lo scopo di costituire per i lettori un punto di riferimento per condividere la riflessione teologica sul vissuto religioso, in generale, e su quello cristiano, in particolare, nel confronto rinnovato con le problematiche sociali, religiose e culturali del nostro tempo.

 

Scarica il numero 19° della rivista

Sulla scia dei numeri precedenti, il presente numero della rivista vuole mettere in evidenza gli aspetti epistemologici della teologia spirituale, prima di procedere nello studio di alcuni altri temi specifici della spiritualità cristiana: la conversione, la trasformazione interiore, il desiderio, l’antropologia del limite e la guida spirituale dei giovani.

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XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 55,10-11

Così dice il Signore: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».

 

  • L’ottimismo soggiacente a questa immagine della terra resa fertile dalla pioggia e dalla neve, è in sintonia con l’interpretazione positiva della parabola del seminatore proposta nel Vangelo. Questi due versi così pieni di speranza, chiudono il messaggio salvifico del Secondo Isaia (Is cc. 40-45) immediatamente prima della conclusione contenuta nei vv. 12-13 seguenti. Tutto il discorso di questo profeta, che annuncia e prepara la fine imminente dell’esilio babilonese (587-538 a.C.), fa un uso abbondante di immagini legate alla vegetazione, proiettata per contrasto nello scenario desolato del deserto che separa Babilonia dalla Palestina. Il deserto si deve riempire di piante e di corsi d’acqua (cf 41,18-19), per alleggerire i disagi degli esuli che, come in un nuovo esodo, fanno ritorno in patria.

         Ma l’immagine usata nel nostro piccolo brano, ha ormai dimenticato le sperdute distese del deserto, per far riferimento al piccolo pezzo di terra coltivato della Palestina, che ha bisogno della pioggia e della neve perché il contadino che l’ha prima seminato possa vedere coronati i suoi sforzi. L’efficacia di questa irrigazione naturale per il raccolto è qui l’immagine della stessa parola di Dio che, scendendo dall’alto come promessa di salvezza, è stata annunciata dal profeta ad un popolo sfiduciato ed incredulo. In una visione di fede, la natura tutta, come la storia, è subordinata alla volontà di Dio, che le ordina alla salvezza dell’uomo.

         Il tema della vegetazione viene ripreso, con toni ancora più lirici, nel salmo responsoriale (Sal 65,10-14), che ci riporta un inno di ringraziamento per il raccolto che è stato abbondante grazie alle piogge che il Signore ha mandato nella terra. Egli ha benedetto ogni fase dei lavori agricoli a partire dal momento in cui tracciavano i solchi con l’aratro. Ma anche i pascoli hanno fruito della sua benedizione. Ora nella terra d’Israele «tutto canta e grida di gioia» (v. 14).

 

 

Seconda lettura: Romani 8,18-23

Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per  entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.  Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.

 

  • È dalla X Domenica che leggiamo brani della Lettera ai Romani, la quale ci accompagnerà fino alla XXIV Domenica: essa ci presenta in compendio tutta la storia della salvezza secondo la più tipica visione di S. Paolo. Il brano di oggi, che tratta del compimento escatologico della salvezza, crea un forte contrasto con il senso di gioiosa compiutezza che si riscontra nel Salmo responsoriale. Non siamo più a goderci i frutti del raccolto della terra, ma ad attendere il rivestirsi di gloria dell’intera creazione, che geme e soffre nelle doglie del parto. Perciò ci troviamo in una condizione di caducità e di gemito.

         Questo aspetto negativo è ricordato solo in funzione della speranza della compiutezza della nostra salvezza, che comprende pure la redenzione del nostro corpo, e perciò la liberazione da tutti i disagi legati alla nostra condizione corporale. La nostra redenzione si è compiuta ancora, in uno stadio germinale, con il dono dello Spirito.

 

Vangelo: Matteo 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.  Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

 

Esegesi 

     Il c. 13 del Vangelo di Matteo raccoglie sette parabole sul mistero del regno dei cieli. È  un insegnamento che Gesù offre a una folla innumerevole, pur nella consapevolezza che pochi lo accoglieranno: le prime reazioni alla sua missione lo lasciano già presagire. La domanda che pongono i discepoli (v. 10) e la risposta di Gesù (vv. 11-17) ribadiscono ulteriormente il significato di questa parabola che apre la serie. Attraverso le immagini del seme e del terreno, infatti, è rappresentata la vicenda della parola di Dio, che come un seme ha un immenso potenziale di vita, ma può svilupparlo solo a misura dell’accoglienza che riceve. La forma parabolica somiglia all’involucro coriaceo di certi semi: protegge il significato dell’insegnamento di Gesù, perché «a colui che non ha» il desiderio sincero di comprendere e convertirsi sia «tolto anche quello che ha»: l’ascolto disimpegnato, l’interesse superficiale di un momento (vv. 10-13). Eppure Dio, nella sua gratuità, supera l’ostinazione che indurisce il cuore dell’uomo: il seminatore della parabola getta ovunque la sua semente, senza risparmio e senza calcolo; la «parola del Regno» (v. 19) va comunque annunziata (vv. 3s. e 14s.) e proposta alla collaborazione di ciascuno. E questa incomincia con un ascolto attento, intenso, disponibile alla Parola, così che essa possa penetrare profondamente nel cuore e risanarlo (v. 15b). Il centro dell’essere umano, infatti, può essere malato: durezza, superficialità, molteplicità di interessi egoistici sono i mali messi in luce dall’immagine dei terreni in cui il seme non potrà svilupparsi (vv. 19-22). Ma quando

la Parola è accolta da un cuore buono, giungerà sicuramente ad effetto e porterà il suo frutto di grazia, in misura variabile a seconda della corrispondenza di ciascuno al dono di Dio (v. 23).

 

Meditazione 

     Che sia paragonata alla pioggia e alla neve che fecondano la terra e consentono ai semi di fruttificare (prima lettura) o al seme seminato dal seminatore che da frutto in proporzioni diverse (vangelo), la parola di Dio manifesta un’efficacia che non è assolutamente dell’ordine della magia, ma che richiede la sinergia dell’uomo.

     Il testo di Is 55,10-11 afferma che la parola uscita dalla bocca di Dio non ritornerà al Signore «senza effetto». Vi è un iter della parola di Dio che è compiuto quando essa, dopo essere stata pronunciata da Dio, ritorna a Dio. Ed essa vi ritorna in forma di lode e ringraziamento, di supplica e invocazione, di preghiera personale e comunitaria, di orazione e di liturgia. Non a caso la preghiera dei Salmi, risposta umana alla parola di Dio, è inglobata dal Canone biblico nella Scrittura che contiene e trasmette la parola di Dio. Analogamente al dinamismo dell’incarnazione, la parola di Dio ritorna a Dio in forma di parola umana, avendo suscitato una parola umana. La parola di Dio è davvero tale quando è ascoltata e celebrata, quando è riconosciuta e diviene fonte di dialogo. Concretamente, la parola di Dio, che è anche storia ed evento, una volta riconosciuta e discreta nella realtà, suscita una risposta orante a Dio. La preghiera e la liturgia compiono la parola di Dio.

     La parabola del seminatore (Mt 13,3-9) diviene, nella spiegazione (Mt 13,18-23), un insegnamento sull’ascolto, sulla responsabilità umana che la parola di Dio suscita. E l’ascolto della parola di Dio appare come un lavoro, una vera e propria ascesi.

     I tre tipi di terreno in cui il seme resta infruttuoso, mentre rivelano ostacoli e resistenze che l’ascolto della parola incontra nel cuore umano, indicano anche delle disposizioni spirituali che aiutano la parola a radicarsi e a fruttificare. Sono gli elementi fondamentali dell’ascesi dell’ascolto.

     L’interiorizzazione. Il seme seminato lungo la strada e mangiato dagli uccelli prima ancora che possa germogliare simboleggia l’ascolto superficiale, cioè senza interiorizzazione, assunzione ed elaborazione profonda della parola stessa. Senza questo lavoro interiore la parola non può diventare principio vitale che guida l’uomo nel suo vivere (Mt 13,4.19).

     La perseveranza. Il seme caduto su terreni petrosi denuncia un tipo di ascolto infruttuoso perché non accompagnato dalla necessaria perseveranza. È rivelativo di «colui che ascolta la parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha radice in se stesso ed è in-costante; venendo una tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si scandalizza». Matteo dice che quest’uomo è próskairos, cioè «uomo di un momento», incapace di far divenire storia la sua fede, di sottoporre la fede alla prova del tempo. Essendo senza radice, egli non sa resistere nelle difficoltà e nelle persecuzioni che la parola stessa provoca (Mt 13,5.20-21).

     La lotta spirituale. Il seme seminato tra le spine e rimasto soffocato rinvia all’uomo che, pur avendo ascoltato la parola, rimane sedotto da altre parole, dalle tentazioni mondane, dalla ricchezza, dai «piaceri della vita» (come aggiunge Lc 8,14). Insomma è colui che non sa porre in atto la necessaria lotta interiore e spirituale per trattenere la parola, per combattere i pensieri e le tentazioni, e così si lascia distrarre e sedurre dagli idoli (Mt 13,7.22).

     Le resistenze alla parola di Dio sono le resistenze alla conversione (Mt 13,15), alla fatica del cuore che, per accogliere la parola, deve lasciarsi purificare dalla parola stessa. Noi temiamo la purificazione e lo spogliamento prodotti in noi dall’accoglienza del seme della parola, così come i terreni non profondi, sassosi, o infestati dai rovi (Mc 4,1-9.13-20) non accolgono la semente perché per farlo dovrebbero lasciarsi dissodare dai sassi, ripulire dai rovi, arare e sarchiare (cfr. Is 5,1-7).

     L’ascolto della parola di Dio avviene sempre all’interno della dinamica pasquale, nel quadro di una morte e di una resurrezione. Non a caso, l’antica esegesi cristiana vedeva nel seme caduto sulla terra buona e che porta frutto nella misura del cento i martiri, cioè coloro che lasciano dispiegare pienamente in sé il dinamismo pasquale.

 

Immagine della domenica


 

¡CAMINA!

“Si no puedes volar, corre;

si no puedes correr, camina;

si no puedes caminar, arrástrate.

Pero hagas lo que hagas,

tienes que seguir hacia adelante”.

(Martin Luther King)

 

Preghiere e racconti

 

Qualche seme germoglierà e illuminerà il cammino

“Un contadino si diresse verso i campi per seminare. Ma accadde che rovesciò una parte delle sementi lungo il cammino, e subito arrivarono gli uccelli a banchettare.

Poi, per l’accanimento della sfortuna, un’altra parte fu versata in una pietraia: germogliò quasi subito, perché c’era soltanto un velo di terra sopra i sassi. Quando il sole divenne cocente, le piccole gemme seccarono, poiché non avevano radici.

Un’altra parte ancora scivolò tra i rovi e, crescendo, fu soffocata dalla malerba, che gli impedì di produrre alcunché.

L’ultima semente fu sparsa su una terra grassa e feconda. Attecchì e diede molti frutti – e un seme ne produsse trenta, un altro sessanta e un altro ancora cento.

Ecco perché dovete spargere le vostre sementi in tutti i luoghi nei quali vi troverete a passare : qualche seme germoglierà e illuminerà il cammino delle generazioni a venire.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 175)

 

Perché occorre seminare in se stessi

Uno di questi grandi maestri anonimi, però, è stato per me un vicino di casa, Pinot […] Aveva un bellissimo orto in un terreno che in seguito dovette cedere per fare spazio alla costruzione della cantina sociale del paese: Pinot ogni mattina scendeva nell’orto a lavorare per poi tornare a casa verso le undici con ortaggi e verdure che servivano per il pranzo e la cena. […] Quell’uomo semplice e buono mi ripeteva sempre: «Ricordati che per fare un orto ci vuole acqua, letame, ma soprattutto una ciuènda! » Sì, per l’orto non basta che ci siano gli elementi che fanno crescere una pianta, ci vuole anche la ciuènda, la recinzione fatta di canne – più tardi sostituite dalla rete metallica – e di pali che protegge l’appezzamento di terra dagli animali che minacciano di devastarlo: cani, conigli, a volte il cinghiale, più raramente anche altre persone attratte dall’idea di poter raccogliere senza aver seminato. Così, alla fine dell’inverno e anche ogni volta che si apriva qualche varco, aiutavo Pinot a riparare la ciuènda e più che i segreti della coltivazione degli ortaggi imparavo una lezione di vita perché l’orto è una grande metafora della vita spirituale: anche la nostra vita interiore abbisogna di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. L’orto, come lo spazio interiore della nostra vita, è luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Solo così, nell’attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti a suo tempo.

Mi sono quindi appassionato molto presto all’orto, soprattutto alle piante aromatiche: prezzemolo, basilico, borragine, erba cipollina, menta, timo, maggiorana, rosmarino… Piantavo talmente tante piante di rosmarino, che Pinot si lamentava, perché sottraevano terreno agli ortaggi: «Basta rosmarini, quelli non si mangiano!».           

Io però ero già allora affascinato e sedotto dai profumi e dagli aromi che emanano da quelle pianticelle: umili erbe che, utilizzate con discernimento e sapienza, sanno rendere gloriose con la loro gratuità le pietanze più sostanziose. Così, a quattordici anni chiesi in dono a mio padre di affittare per me un fazzoletto di terra dove potessi avere il «mio» orto. Venni esaudito e da allora non sono mai riuscito a vivere senza accudirne uno: arrivato a Bose per iniziare una vita monastica, ho subito avviato un orto – che ora altri conducono, ricavandone frutti meravigliosi in ogni stagione -, e anche oggi continuo a tenere un orticello vicino alla mia cella, interamente dedicato alle erbe aromatiche. Non riusci-rei a vivere senza quest’orto che non solo da gusto ai cibi, ma mi insaporisce l’anima. […]      Sono momenti in cui ripenso sovente con gratitudine a Pinot, che mi insegnò tramite l’orto ad avere un sano rapporto con le «cose»: non mi spiegava solo a piantare, seminare, far crescere, ma mi aiutava anche a capire perché occorre seminare in se stessi, coltivare se stessi, far crescere se stessi e attendere i frutti.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 94-96).

 

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern).

 

L’importante e’ seminare

Semina, semina:

l’importante è seminare

-poco, molto, tutto-

il grano della speranza.

Semina il tuo sorriso

perché splenda intorno a te.

Semina le tue energie per affrontare le battaglie della vita.

Semina il tuo coraggio per risollevare quello altrui.

Semina il tuo entusiasmo,

la tua fede

il tuo amore.

Semina le più piccole cose,

il nonnulla.

Semina e abbi fiducia:

ogni chicco arricchirà

un piccolo angolo della terra

(Ottaviano Menato).

 

Il piccolo seme piantato in un suolo fertile

La fecondità della nostra piccola vita, una volta riconosciuta e vissuta come la vita di colui che è Amato, va oltre qualunque cosa si possa immaginare. Uno dei più grandi atti di fede è credere che i pochi anni che viviamo su questa terra sono come un piccolo seme piantato in un suolo molto fertile.

Perché questo seme porti frutto, deve morire. Noi spesso vediamo o sentiamo solo l’aspetto finale della morte, ma il raccolto sarà abbondante anche se noi non ne siamo i mietitori.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 101)

 

Il seminatore uscì a seminare

Ecco, il seminatore uscì a seminare (Mt 13,3). Per qual motivo uscì? Per distruggere la terra piena di spine? Per punire gli agricoltori? No, affatto; uscì per coltivare la terra, per prendersi cura di essa e seminare la parola della fede […]. Il Signore diceva questa parabola per mostrare che dispensava a tutti la sua parola con generosità. Come infatti il seminatore non distingue il terreno sottostante, ma getta semplicemente il seme senza fare distinzioni, così anche lui non distingue tra il ricco e il povero, tra il sapiente e l’ignorante, tra chi è negligente e chi è pieno di zelo, tra chi è coraggioso e chi è vile, ma parla a tutti e compie quanto dipende da lui, sebbene preveda ciò che accadrà.

Così si comporta in modo che si possa dire: «Che cosa dovevo fare che non abbia fatto?» (Is 5,4). I profeti parlano del popolo come di una vigna: «Il mio amato possedeva una vigna» (Is 5,1 ) e: «Ha divelto una vite dall’Egitto» (Sal 79 [80], 9). Gesù invece ricorre al paragone della semina […]. Ma da cosa deriva, dimmi, che sia andata perduta la maggior parte della semina?

Non a causa di colui che gettava il seme, ma della terra che l’accoglieva, cioè di colui che non presta ascolto. E perché non dice che parte l’accolsero i negligenti, e andò perduta; parte i ricchi e la soffocarono; parte gli sciocchi e l’hanno abbandonata? Perché non vuole colpirli severamente per non gettarli nella disperazione, ma lascia la riprovazione alla coscienza degli ascoltatori. Questo non si è verificato soltanto per la semina, ma anche per la rete, poiché anch’essa portò molte cose inutili. Dice questa parabola per preparare i discepoli e ammonirli a non scoraggiarsi anche se la maggior parte di quelli che accolgono la parola si perdono. E difatti questo accadde anche al Signore; colui che certamente sapeva in anticipo che questo sarebbe accaduto, non si astenne dal seminare. Ma, si potrebbe osservare, come può essere ragionevole seminare sulle spine, sul terreno sassoso, sulla strada? Nel caso dei semi e della terra non sarebbe ragionevole; nel caso invece delle anime e degli insegnamenti questo merita lode. A ragione il contadino potrebbe essere rimproverato di comportarsi così perché non è possibile che il terreno sassoso diventi terra, né che la strada non sia più strada, né che le spine non siano spine, ma nel caso degli esseri dotati di ragione non è così. È possibile infatti che il terreno sassoso si trasformi e divenga terra fertile e che la strada non sia più calpestata e non sia esposta a tutti i passanti, ma diventi terreno pingue e che le spine siano eliminate e i semi abbiano la massima libertà di crescere. Se non fosse possibile, il Signore non seminerebbe. Se non in tutti è avvenuto il cambiamento, non è stato a causa del seminatore, ma a causa di quelli che non hanno voluto cambiare, perché egli ha fatto quanto era in lui e se quelli hanno abbandonato la sua opera, non è responsabile colui che ha mostrato tale bontà nei confronti degli uomini.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 44,2-3, PG 57,467-468).

 

Risonanza della tua Parola

La tua Parola, o Dio,

è lampada ai miei passi

luce alla mia strada.

(Sal 118,105)

La tua Parola

hai detto

è lampada ai miei passi

e luce al mio sentiero.

Il seme caduto in buon terreno

significa colui che ode la parola

e l’accoglie

ed essa dà frutto.

(Mt 13,23)

La tua Parola

hai detto

è seme che fruttifica

quando il cuore è un terreno

libero e buono.

Come pioggia o neve

che scendendo dal cielo

non vi fanno ritorno senza aver irrorato

e fecondato la terra,

tale è la mia Parola.

(Is 55,10)

La tua Parola

hai detto

è come pioggia o neve

che irrora e fa

germogliare

e non ritorna al Padre

senza compiere quello

per cui fu mandata.

Viva è la Parola di Dio

ed efficace, più tagliente

d’una spada a due tagli.

(Eb 4,12)

La tua Parola

hai detto

è spada affilata

che penetra nel profondo

e lacera per guarire.

Ecco, verranno giorni,

 dice il Signore Dio

in cui manderò la fame nel paese

non fame di pane, né sete di acqua

ma d’ascoltare la Parola del Signore.

(Am 8,11)

La tua Parola

hai detto

molto più dell’acqua disseta,

molto più del pane sfama.

Canto è diventato per me

la tua Parola

mentre vado pellegrinando (Sal 118,54).

La tua Parola

hai detto

è canto per il cuore

lungo la strada

del mio pellegrinare.

La tua Parola

io l’ho capito,

Signore

è il cuore dell’essere

e la sua rivelazione.

Fa’ ch’io diventi

povera e vuota

per accoglierla,

pura e silenziosa

per darne RISONANZA.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

 

Qui potest capere, capiat

Guardate, guardate Dio che attraversa la terra come un seminatore e prende il suo cuore a due mani e lo getta su tutta la superficie della terra!… Si direbbe che per lo più egli getta ad occhi chiusi, a caso e al vento, questa semente che gonfia il suo grembiule. Qui potest capere, capiat. Qui habet aures audiendi, audiat. C’è la pietra, c’è il terreno indurito dal passaggio dei passanti; ci sono i rovi e le altre erbacce, ci sono gli uccelli del cielo, ci sono le intemperie! Pazienza! Ma c’è anche la buona terra e quell’orecchio nella profondità del nostro essere che è un utero, quell’interesse, quell’appropriazzione, quella conservazione.

(P. Claudel, Io credo in Te).

 

Io ti saluto, Parola

Io ti conosco, Parola,

così pazientemente costruita,

con i tuoi archetti

più tenaci delle nostre voci.

Io ti saluto, Parola,

liberata dall’essere detta,

che ci trae fuori da noi stessi

come cervo fuori dalle selve.

Io ti circondo, Parola,

ti voglio preda e docile;

tu maturi blu e libera

e mi inventi a tua volta.

Se, geloso della tua cima,

io ti salgo, Parola,

la mia ombra provvisoria

si annulla a ogni svolta.

(A. Chedid, Controcanto).

 

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca)

  

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

 

Preghiera

Perché la tua parola, o Signore, non cada ai bordi del cammino

e Satana la sradichi dai nostri cuori,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, non cada sul suolo indurito

e l’incostanza ci vinca alla prima tentazione,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, non cada in mezzo alle

spine e gli affanni e le ricchezze ci seducano,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, cada in un cuore che sa ascoltare

e produca in noi frutti abbondanti,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, cada in un cuore che sa conservare e meditare

e ci renda esecutori obbedienti della tua volontà, noi ti preghiamo.

(COMUNITA’ ECUMENICA DI BOSE, Davanti a  Dio, Torino, Gribaudi, 1977). 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO  

Cittadini nella Chiesa, cristiani nel mondo

«Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?»: malgrado titolo e sottotitolo suggeriscano molte altre cose, sono queste le domande essenziali a cui vuole rispondere il libro. Si tratta, dunque, di antropologia o, meglio ancora, di suggerire un’antropologia esperienziale ed ermeneutica in grado di armonizzare i dati riconosciuti dalla comunità scientifica – a livello sia biologico che culturale –, che accolga alcune delle sfide più sconcertanti dell’attuale cambio epocale. In primis, l’«inedito stato di coscienza» delle donne e degli uomini contemporanei, segnato precisamente da un profondo mutamento antropologico che include un concetto di uomo e di mondo interamente nuovo: mondo adesso definito più come evoluzione e storia che come natura; uomo inteso come essere in perpetua creazione di sé stesso. Tale trasformazione ha portato con sé anche la mutazione sia delle strutture di credibilità – spostate verso il valore assoluto della persona, l’autonomia della coscienza, la creatività e l’autenticità, la libertà e il pluralismo di progetti – che il modo di comprendere e avvicinare la realtà, oramai collegato alla secolarizzazione e alla laicizzazione, in quanto espressioni di una razionalità «non dipendente» o semplicemente non deduttiva.

L’antropologia è il supporto determinante di ogni cultura. Dando per scontato che le profonde mutazioni antropologiche in corso si riflettono in tutti gli ambiti della vita personale e sociale, in questo testo se ne prendono in considerazione due: l’ambito dell’educazione e quello catechetico. Sicuramente l’identità e la prassi cristiana in genere, così come la riflessione catechetica e l’azione catechistica in particolare, dipendono dalla sottostante immagine di uomo; altrettanto possiamo dire dell’educazione. Infine, la relazione dell’antropologia con la catechetica e con l’educazione porta a concludere che forse è arrivato il momento di trasformare il classico desiderio di formare «buoni cristiani e onesti cittadini» in quello altrettanto impegnativo ma certamente più adeguato ai nostri tempi di «cittadini nella Chiesa e cristiani nel mondo».

 

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INTRODUZIONE

La giornata della scuola al #meeting17

Mercoledì 23 agosto sarà una giornata particolare al Meeting di Rimini. Il fitto programma della manifestazione, infatti, ospiterà una serie di eventi interamente dedicati alla scuola. Sarà un’occasione per incontrare tante persone intorno ad una domanda: come la scuola può contribuire a educare e formare persone capaci di affrontare da protagonisti la realtà di oggi?

 

Questo il programma della giornata:

Ore 11.15 – Salone Intesa Sanpaolo B3
UNA SCUOLA DA GRANDI
Partecipano: Anna Frigerio, Preside Liceo Classico e Scientifico della Fondazione Sacro Cuore di Milano; Michele Monopoli, Preside Liceo Classico Cesare Beccaria di Milano; Francesca Zanelli, Insegnante al Liceo Statale Erasmo da Rotterdam. Interviene Susanna Mantovani, Docente di Pedagogia Generale e Sociale all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

Ore 13.00 – Sala Poste Italiane A4
INVALSI-VALUTAZIONE
Partecipano: Piero Cipollone, Vice Capo Dipartimento Bilancio e controllo della Banca d’Italia; Luisa Ribolzi, Responsabile Area formazione GruppoCLAS; Elena Ugolini, Preside del Liceo Malpighi di Bologna. Introduce Daniela Notarbartolo, Insegnante.

Ore 15.00 – Sala Neri
AUTONOMIA E PARITÀ NELLA SCUOLA
Partecipano: Claudia Giudici, Presidente Reggio Children; Sabino Pavone, Presidente della scuola Waldorf Novalis di Conegliano Veneto, docente dell’istituto e Vice Presidente della Federazione delle Scuole Steiner Waldorf in Italia; Gabriele Toccafondi, Sottosegretario di Stato del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

Ore 19.00 – Sala Poste Italiane A4
RAPPORTO CON IL TESTO: OSPITARE L’ALTRO
Partecipano: Stefano Arduini, Docente di Linguistica generale all’Università di Urbino e Presidente Fondazione San Pellegrino; Raffaela Paggi, Preside della Scuola Secondaria di Primo Grado della Fondazione Sacro Cuore di Milano; Davide Rondoni, Poeta e scrittore. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

Sono inoltre in programma alcuni momenti di dialogo e approfondimento all’interno della mostra “Nuove Generazioni” (Padiglione A1, tema inclusività) e all’interno dello spazio “What 2.0” (Padiglione A5/C5, tema didattica/apprendimento e nuove tecnologie/valore educativo delle discipline scientifiche). Nel Padiglione Piscine Est verrà allestito un luogo dove potersi incontrare durante tutta la giornata, anche con i protagonisti ascoltati negli incontri. Sul sito e sui social (Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, ecc.) verranno pubblicati video e interviste con i protagonisti del mondo della scuola, utili a promuovere questa giornata prima del Meeting.

Per approfondire: https://www.meetingrimini.org/news/default.asp?id=676&id_n=18269&utm_source=meeting&utm_medium=email

Per ogni esigenza e informazione contattare l’Ufficio Convegni del Meeting al numero 0541.783100 e/o all’indirizzo mail segreteria.convegni@meetingrimini.org

​XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

lettura: Zaccaria 9,9-10

Così dice il Signore: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra»

 

 

  • Il testo profetico che stiamo leggendo, riflette la situazione della comunità giudaica dopo l’esilio, sotto la dominazione straniera, all’epoca delle campagne di Alessandro Magno. Il profeta vuole rispondere alla domanda angosciante del popolo: Chi governa il mondo? Alessandro o il Signore che abita in Sion?

         Il Signore invierà in Gerusalemme un re messianico, che si presenterà non come il grande re macedone, ma in modo umile, vincendo non con le armi della violenza e mediante il gioco delle alleanze politiche. Anche il popolo messianico, se vuole realmente avere la vittoria, deve rinunciare alla violenza, alla vendetta delle armi: l’arco di guerra sarà spezzato.

         Per questo la città di Gerusalemme è invitata alla gioia. Presto arriverà questo re liberatore, che stabilirà la giustizia e la salvezza. Cavalcherà un asino pacifico: non userà quindi la forza militare come gli altri re. Con la sua parola annunzierà la «pace» universale. Il suo dominio pacifico sarà fondato sulla non-violenza

 

Seconda lettura: Romani 8,9.11-13

Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.  E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.

 

 

  • La «carne» per Paolo non indica qui il corpo, o la sessualità dell’uomo, ma il modo di vivere dominato dall’egoismo e dal peccato. È lo stato di un uomo che, schiavo delle proprie paure di morire, non riesce a donarsi a nessun altro se non a se stesso. Essere sotto il dominio dello «spirito», significa invece un’esistenza suscitata e guidata dallo Spirito Santo.

         Il cristiano appartiene a Cristo perché ha il suo Spirito, cioè ha fatto l’esperienza di essere morto e risorto con lui. Riproduce in sé gli stessi atteggiamenti del Servo del Signore che non ha resistito al male.

         Ora egli può non vivere più nella carne, cioè costretto continuamente a difendersi, perché accerchiato dalle paure di perdere la propria vita donandosi agli altri. Può invece vivere nello Spirito, cioè fare le opere dello Spirito, che sono quelle dell’amore gratuito perfino ai nemici.

 

Vangelo: Matteo 11,25-30

 In quel tempo Gesù disse:  «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

 

 

Esegesi

     Dopo aver rimproverato severamente le città sulla riva del lago di Genesaret, per non aver accolto la buona notizia del Regno di Dio, Gesù osserva che attorno a lui c’è della gente che lo ascolta. Sono i piccoli: gente senza parola, gli oppressi e gli affaticati, obbligati a portare pesi insopportabili, un cumulo di precetti che impediscono un libero incontro con Dio. E Gesù benedice Dio che rivela i segreti della sua sapienza proprio a questi piccoli.

     Il brano inizia con una lode al Padre, l’unico che ha saldamente in mano le sorti del cielo e della terrà, eppure si china dolcemente verso il povero e l’umile. Gesù esprime la sua gioia perché vede che questo si sta realizzando nei suoi discepoli che lo seguono e l’ascoltano. Dio ha distrutto così la sapienza dei sapienti e ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti.

     Ma come avviene questa rivelazione? Per mezzo di Gesù Cristo, la sapienza personificata. A lui il Padre ha dato tutto (cf. Dn 7,13-14). Solo lui, il Figlio, può comunicare la conoscenza del Padre.

     E guardando le folle stanche e sfiduciate, senza pastore, Gesù le invita a cercare in lui il vero riposo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Invece della legge dei farisei egli offre loro le parole del «Discorso della montagna» (Mt 5-7). Agli occhi umani questo sembrerebbe una beffa. Ma solo per chi non ha lo spirito del Figlio, che è mite e umile di cuore. Gesù, che sta per incominciare una lotta contro le forze del male che lo porteranno alla morte violenta in croce, affronta questa battaglia con lo spirito mite dell’agnello. Questo stesso spirito egli dona ai poveri e ai deboli che lo seguono.

 

Meditazione

     La prima lettura presenta una figura messianica connotata dalla canawah, che è piccolezza e umiltà. Il re di cui parla Zaccaria è un curvato, un obbediente; secondo la versione greca dei LXX è un mite, come Gesù nel testo evangelico. E tanto nel re di Zaccaria quanto nel messia Gesù, la connotazione di umiltà e mitezza non si esaurisce sul piano morale, ma è elemento rivelativo dell’essere e dell’agire di Dio. Matteo presenta Gesù come figura di rivelazione e di iniziazione alla rivelazione: mentre, con la sua umiltà, rivela l’umiltà di Dio, Gesù si propone anche come fonte di umiltà per i suoi discepoli.

     Nel testo evangelico, il versetto 25 inizia affermando che Gesù, «rispondendo» o «prendendo la parola», disse… Gesù reagisce con la preghiera («Ti rendo lode, Padre») a quanto narrato precedentemente: nel capitolo undicesimo emerge la constatazione dello scarso interesse suscitato dalla persona, dalla predicazione e dalle opere di Gesù (cfr. Mt 11,1-24). Gesù integra nella preghiera l’insuccesso, mette tutto davanti al Padre e conferma il suo «sì», il suo «amen», la sua decisione irrevocabile di adesione a Lui. Il suo «sì» al Padre non è condizionato dal successo della sua missione, ma è un’adesione radicale che anche situazioni sfavorevoli o contraddittorie non intaccano.

     La preghiera di Gesù ringrazia il Padre non tanto per l’azione di nascondimento nei confronti di alcuni, quanto per l’azione di rivelazione nei confronti di altri. L’adesione di alcuni, definiti piccoli e semplici, che, credendo alla parola e alle opere compiute da Gesù, hanno colto in lui la rivelazione del Padre, diviene svelamento e giudizio del cuore di altri, la cui sapienza intellettuale e dotta si rivela inconsistente davanti alla semplicità dei piccoli: «Grande è la misericordia di Dio: egli rivela i suoi segreti agli umili» (Sir 3,20 secondo il testo ebraico).

     Le parole di Gesù nei vv. 28-29 abbozzano un vero e proprio itinerario di sequela del discepolo. Abbiamo anzitutto la chiamata: «Venite a me»; quindi la necessaria rinuncia alla volontà propria per obbedire alla volontà del Signore («prendete il mio giogo»). Per «volontà propria» non si intende la libera determinazione dell’uomo, ma la sua volontà egocentrica, autoreferenziale, «carnale». Quindi c’è l’attitudine discepolare, l’obbedienza del discepolo al suo maestro e Signore («Imparate da me») e infine il riposo, la pienezza di vita trovata nel Signore («troverete ristoro per la vostra vita»).

     Il «giogo» di Gesù non designa dettami religiosi o comandi da eseguire, ma una relazione, un legame, onorando così l’etimologia della parola (l’indoeuropeo yug, cfr. anche il sanscrito yoga) che designa l’azione di «riunire», «mettere insieme». Il giogo di Gesù leggero e soave è in continuità con il comando biblico di amare e con l’idea che colui che ama fa con gioia la volontà dell’amato. Anche l’atto di comandare l’amore, assurdo se posto in bocca a un terzo, è pienamente sensato se posto in bocca all’amante. L’amante può dire «Amami!», l’amante può chiedere amore.

     Gesù promette riposo a chi assume il suo giogo (cfr. Mt 11,29). Un’esistenza credente che sia perennemente stressata dagli impegni pastorali e si configuri come frenetica attività che non conosce sosta e riposo, dimentica quell’affidamento a Cristo che è fonte di riposo nella fatica e di consolazione nelle contraddizioni. E che plasma il volto del credente non a immagine e somiglianza di manager iperattivi e sempre nervosi, ma del Cristo mite e umile, paziente e benevolo.

     Al tempo stesso, un giogo resta un giogo e nulla toglie la fatica di portarlo. Amare è un lavoro impegnativo e la sequela Christi comporta sforzo e fatica. Di fronte alla tentazione diffusa di eliminare dal vivere ciò che è faticoso e comporta sofferenza in nome dell’idolatria del «tutto, subito e senza sforzo», occorre ribadire che non si danno grandi realizzazioni umane e spirituali senza fatica, dedizione, sacrificio. Né possiamo dimenticare che il giogo dell’obbedienza portato da Gesù durante tutta la sua vita è divenuto, alla fine della sua vita, un portare la croce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine della domenica

 

 

 

 

 
 

RIETI – 2017

 

 

 

 

 

 


VACANZE

Agli studenti di San Giovanni quando andavano in vacanze estive, dava questo consiglio: «Approfittate le vostre vacanze, godetevi il vostro viaggio, prendete delle note, osservate, confrontate. Tutto deve essere fatto con moderazione e non superi alle risorse. C’è chi può viaggiare solo nella fantasia, con l’aiuto di qualche buon libro, c’è chi non bisogna contare i soldi. Andate via … Un viaggio ben fatto, piccolo o grande, valgono la pena di un recesso o di un altro premio.  Il contatto con il grande spettacolo della bellezza abbellisce l’anima»

(LÉON DEHON, Discorso sullo studio della geografia, 31 luglio 1886, citato da A. DUCAMP, Le Père Dehon e son Oeuvre, 696).

 

Racconti e preghiere

 

 

Beati i miti

 Il nostro campo è invaso dall’ingiustizia. Tutte le risposte del mondo all’ingiustizia sono violenza attiva o consentita. Opporvi la dolcezza del Cristo è scandalo.

 Chi può misurare il coraggio richiesto a coloro che accettassero questo scandalo della mitezza? Ma c’è scandalo più grande ed autentico, questo dello scandalo dei cristiani che hanno lasciato a un Gandhi la responsabilità di levare nel mondo una massa di uomini che si affidavano alla forza incoercibile di quella mitezza?

 E tuttavia, ancora una volta, non c’è scelta. Il Cristo “mite ed umile di cuore” è un fatto. Non possiamo né rettificarlo né adattarlo.

(Madeleine DELBRÊL, Noi delle strade, Gribaudi, 2008, Milano, 123).

 

Zelo e umiltà

«Occorre che vi sia l’insieme di zelo e di umiltà, del riconoscimento cioè dei propri limiti. Da una parte lo zelo: se veramente incontriamo Cristo sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi. […] Ma questo zelo, per non diventare vuoto e logorante per noi, deve collegarsi con l’umiltà, con la moderazione, con l’accettazione dei nostri limiti. E poco oltre aggiungeva che il nostro dev’esser anche tempo di interiorità. Infatti, potremo servire gli altri, potremo donare solo se personalmente anche riceviamo, se cioè noi stessi non ci svuotiamo. Da quest’esperienza di interiorità potremo ricevere in dono sempre di nuovo un grande arricchimento. Solo così potremo trasmettere agli uomini «più di quello che è nostro, vale a dire: la presenza del Signore».

(Benedetto XVI, Discorso ai sacerdoti e ai diaconi permanenti della Baviera, il 14 settembre 2006).

 

Preghiera di un pagliaccio

Padre, sono un fallito, però ti amo.

Sono vari anni che sto nelle tue mani, presto verrà il giorno in cui volerò da te…

La mia bisaccia è vuota, i miei fiori appassiti e scoloriti, solo il mio cuore è intatto.

Mi spaventa la mia povertà però mi consola la tua tenerezza.

Sono davanti a te come una brocca rotta, però con la mia stessa creta puoi farne un’altra come ti piace…

Signore, cosa ti dirò quando mi chiederai conto?

Ti dirò che la mia vita, umanamente, è stata un fallimento, che ho volato molto basso.

Signore, accetta l’offerta di questa sera…

La mia vita, come un flauto, è piena di buchi…

ma prendila nelle tue mani divine.

Che la tua musica passi attraverso me e sollevi i miei fratelli, gli uomini, che sia per loro ritmo e melodia, che accompagni il loro camminare, allegria semplice dei loro passi stanchi…

(Manoscritto spagnolo).

 

L’amicizia

“L’amicizia possiede le medesime peculiarità dell’acqua di un fiume: può aggirare gli ostacoli, superare le rocce, adattarsi a valli e monti, trasformarsi in un lago per colmare una conca e proseguire il suo cammino.

Così come il fiume non dimentica che la sua meta è il mare, l’amicizia non scorda che la sua unica ragion d’essere è dimostrare l’amore verso gli altri.”

 

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 104-105).

 

Essere bambini

Mentre la beata Umiliana giaceva nel suo letto, dentro la sua cella, chiusa nella torre, ecco un bambino di quattro anni o poco meno, dal volto bellissimo. Giocava con impegno proprio nella sua cella davanti a lei. Quando lo vide provò una grande gioia e rivolgendogli la parola disse: O amore dolcissimo, o carissimo bambino, non sai fare altro che giocare? E il bambino con il suo sguardo tranquillo le rispose: Che altro volete che faccia? E la benedetta Umiliana umilmente disse: Voglio invece che tu mi dica qualcosa di bello su Dio. E il bambino disse: Credi che sia bene che uno parli di se stesso? E con queste parole disparve.

(fra’ Vito da Cortona)

 

Mite e umile di cuore

Cristo è ancor oggi per noi un maestro mite e colmo d’amore per gli uomini che continua a prendersi cura della nostra salvezza. Lo dichiara apertamente nei vangeli come abbiamo appena letto: «Venite, imparate da me perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,28-29). Quant’è grande la condiscendenza di colui che ci ha fatto! La creatura non abbia timore! Venite, imparate da me. Il Signore è venuto a consolare i suoi servi che erano caduti. Ecco come si comporta Cristo: si mostra pieno di compassione; sebbene il peccatore dovesse essere punito, sebbene la stirpe di quelli che provocavano la sua ira dovesse essere annientata, egli rivolge parole di pace ai colpevoli. «Venite, imparate da me, perché sono mite e umile di cuore» (ibidem).

      Dio è umile, l’uomo orgoglioso. Il giudice è clemente, il colpevole superbo. Le parole dell’artefice sono umili, quelle dell’argilla sembrano quelle di un re. […] Venite, osservate la sua ineffabile bontà. Chi non amerà il Signore che non colpisce? Chi non ammirerà il giudice che supplica a favore del colpevole? La semplicità delle sue parole ti stupisce. «Io sono il Creatore e amo la mia opera. Io sono l’artista e ho cura di ciò che ho plasmato. Se volessi ricorrere alla mia autorità, non libererei l’umanità caduta; se non curassi la sua malattia incurabile con farmaci appropriati, non guarirebbe; se non la confortassi, morirebbe; se mi limitassi a minacciarla, perirebbe. Per questo motivo pongo su di lei che giace a terra l’unguento della bontà. Mi piego su di lei pieno di compassione per rialzarla dalla sua caduta. Chi sta in piedi non può rialzare da terra chi è caduto se non si china a tendergli la mano. «Venite, imparate da me perché sono mite e umile di cuore». Non dico parole vane vi ho mostrato le mie opere; il «perché sono mite e umile di cuore» vedilo da ciò che sono diventato. Guarda la forma, pensa alla dignità e venera la mia condiscendenza a causa tua. Pensa da dove sono venuto, dove mi trovo a conversare con te. Il cielo è il mio trono e io sto a parlare con te. Nell’alto sono glorificato e nella mia paziente bontà non mi adiro «perché sono mite e umile di cuore».

(PSEUDO-GIOVANNI CRISOSTOMO, Basso martire, in PG 50,721-722)

 

Il segreto di un bambino

Non si può amare un bambino per la sua abilità e per ciò che fa, in quanto egli non può ancora nulla, non fa ancora assolutamente nulla di utile; non si può amare un bambino per il fatto che possiede o dovrebbe mostrare qualcosa di speciale;  al contrario, egli non ha ancora nulla di proprio, se lo si vuole amare, gli si deve voler bene per se stesso. Questo è tutto il segreto di un bambino, che ci costringe con il semplice suo esserci ad amarlo e vive dell’essere amato gratuitamente. In questo, ossia nel fatto di pensare così di noi stessi, starebbe la nostra redenzione; nell’avere, una buona volta, il coraggio di vivere gratis e di avere fiducia in noi stessi, di sentirci legittimati semplicemente per il fatto di esistere.

(E. DREWERMANN, Psicologia del profondo e esegesi, I, 505 s.)

In mitezza e umiltà

«Essi però non comprendevano quelle parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,32). Tale ignoranza da parte dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza della loro mente, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore. Questi uomini che vive-vano ancora secondo la carne ed erano ignari del mistero della croce, si rifiutavano di credere che colui che essi avevano riconosciuto quale Dio vero sarebbe morto ed essendo abituati a sentirlo parlare in parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, cercavano di attribuire un senso figurato anche a quello che diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione. «E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”. Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mc 9,33-34). Sembra che la discussione tra i discepoli a proposito del primo posto fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che qui era stato affidato loro qualcosa di segreto. Ma già da prima erano convinti, come racconta Matteo (cfr. Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del Regno dei cieli, e che la chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome. Ne concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri o che Pietro era superiore a tutti. Il Signore, vedendo i pensieri dei discepoli, cerca di correggere il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà e fa loro intendere che non si deve cercare di essere primi; così, dapprima li esorta con il semplice comandamento dell’umiltà e, subito dopo, li ammaestra con l’esempio dell’innocenza del bambino. Dicendo infatti: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37) […] li esorta, a motivo della loro malizia, a essere anche loro come bambini, cioè a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia e la devozione senza ira. Prendendo poi in braccio il bambino, indica che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili e che, quando avranno messo in pratica il suo comandamento: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), solo allora potranno gloriarsi.

(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco, CCL 120.n. 551).

 

Preghiera

A volte, Signore, la piccolezza del mio essere creatura mi appare inadeguata e insufficiente a contenere i miei più grandi desideri. E faccio di tutto per rompere quelli che avverto come limiti al mio bisogno di espandermi, di ‘sentirmi grande’: essere più degli altri, ricevere più degli altri, contare più degli altri.

Tu vieni incontro a questo prepotente bisogno di emergere e mi proponi di metterlo a servizio dell’amore, facendomi l’ultimo di tutti, il servo di tutti, il più pacifico, il più mite, il più misericordioso, accogliente verso tutti…

Manda dall’altro il tuo Spirito di sapienza, perché faccia della mia vita un’opera di pace.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2 Re 4,8-11-16a

Un giorno Eliseo passava per Sunem,  ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei.
Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».
Un giorno che passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò. Eliseo [disse a Giezi, suo servo]: «Che cosa si può fare per lei?».  Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio». Eliseo disse: «Chiamala!». La chiamò; ella si fermò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia».

 

 I versetti riportati nella prima lettura sono stati tratti dal ciclo di Eliseo, che ricalca da vicino quello di Elia. Essi ci propongono un esempio di ospitalità generosa da parte di una ricca donna di Sunem. Il profeta era stato da lei mentre passava dal suo paese. La donna, per ospitarlo meglio si fa costruire una stanza al primo piano di sopra, che arreda in modo che Eliseo possa starci tranquillo e comodo. Il motivo per cui si preoccupa di ospitarlo al meglio che le è possibile è quello che egli è «un uomo di Dio, un santo» (2 Re 2,9).

La donna agisce per rispetto all’inviato da Dio, non per tornaconto. Nei versetti 12-13, che sono stati omessi nella lettura, la donna rifiuta i favori che Eliseo le propone. Il profeta però, si sente in dovere di ricompensarla di tanta generosità e su consiglio del servo Giezi, che faceva da intermediario nei suoi rapporti con la donna, le promette la fecondità. Il dono di un figlio alla donna sterile è ricorrente nella Bibbia a partire dal figlio di Sara e Abramo, Isacco, concepito in tarda età per dono di Dio e annunciato in un contesto di ospitalità (cf Gn 18.1-10)

 

Seconda lettura: Romani 6,3-4.8-11

 Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?

Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.

Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

 

Il cristiano con il battesimo è unito a Gesù Cristo morto e risorto. Paolo esprime questa verità con l’immagine del rito battesimale dell’immersione. Immerso nell’acqua, il catecumeno partecipa alla morte e alla sepoltura di Gesù: ciò segna per lui la fine di quella solidarietà nel peccato che accomuna tutti gli uomini (cfr. Rm 5,12.15).

Gesù non è soltanto morto, ma è stato risuscitato dal Padre, che in lui ha manifestato definitivamente il suo amore salvatore. I battezzati, uniti a Gesù risorto, nella fede vivono già la ‘vita nuova’ e definitiva (v. 4b.8-9). Gesù ha condiviso la medesima nostra natura umana: ha subito la morte, ma risorgendo ha sconfitto per sempre la morte e il peccato. Anche la natura umana in Cristo vive ora la piena comunione con Dio (v. 10). I cristiani, essendo intimamente uniti a Cristo Gesù, devono coerentemente abbandonare ogni comportamento peccaminoso e vivere per Dio (v. 11).

 

Vangelo: Matteo 10,37-42

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.

Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.

Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

 

Esegesi

          I primi due versetti della pericope del Vangelo di Matteo (10,37-39), che leggiamo oggi, riassumono le richieste radicali del comportamento del discepolo che vuole seguire Gesù. Sia pure in forma attenuata rispetto a Luca (14,26), che ha l’espressione a prima vista ancora più urtante: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, i figli, i fratelli, le sorelle ed anche la propria vita, non può essere mio discepolo», anche Matteo esprime chiaramente che la scelta per Gesù deve essere primaria e assoluta.

Si tratta della radicalità richiesta dal precetto dell’amore di Dio che si deve amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (Dt 6,5; cf Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27). A Dio bisogna affidarsi completamente e seguire la sua volontà, come ha fatto Gesù stesso. Il discepolo deve imitare il maestro e seguire Gesù «via» (Gv 14,6) che conduce al Padre.

Per ben tre volte in questi due versetti è ripetuta la formula «non è degno di me»: solo chi fa una scelta radicale per Dio, come Gesù stesso ne ha dato l’esempio, può dirsi suo vero discepolo.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà e chi l’avrà perduto la sua vita per me, la ritroverà (Mt 10,39; cf 16,26; Mc 8,35; Lc 9,24; Gv 12,25).

Questo versetto ci indica che non si deve buttare la propria vita con disprezzo, ma se si è data la vita per Gesù, vale a dire per amore di Dio, la si ritrova. Come Dio ha accettato la vita di Gesù, spesa per la giustizia a favore di tutti gli esseri umani fino al punto di accettare la passione e la morte in croce, e lo ha risuscitato, così farà col discepolo, che spende la sua vita per Gesù, vale a dire vive come ha vissuto Gesù.

Teniamo presente, per non cadere nell’aberrazione di disprezzare la nostra vita e quella degli altri, che il sacrificio richiesto da Gesù comporta una promessa di vita e che l’amore di Dio per il quale si deve fare una scelta radicale è strettamente legato all’amore del prossimo, come Gesù stesso ci ha mostrato in tutta la sua vita.

I versetti 40-42 riportano tre insegnamenti di Gesù sul dovere dell’accoglienza. «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Queste parole identificano il mandato con il mandante, per cui chi accoglie il discepolo accoglie Gesù e quindi Dio Padre che ha mandato Gesù.

Matteo pone l’accento sull’accoglienza della persona del discepolo come tale e non sul suo insegnamento, come fa Luca (10,16): «Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me e chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato».

Paolo da come un esempio di accoglienza — secondo questo insegnamento di Gesù — quella data dai Galati nei suoi riguardi: «mi avete accolto come un angelo di Dio, come Gesù Cristo» (Gal 4,14).

La sentenza del versetto 41 promette a chi accoglie un profeta o un giusto la stessa ricompensa del profeta e del giusto. Si arriva così all’ultimo versetto della pericope che loda anche un gesto semplice come «dare un bicchiere di acqua», ma non a una persona in vita come poteva essere un profeta o un giusto stimato da tutti, ma a «uno di questi piccoli», quindi a un discepolo senza nessuna carica o distinzione (cf Mc 10,41).

Nella comunità di coloro che si proclamano discepoli di Gesù bisogna dare un esempio chiaro di uguaglianza di tutti i membri, ciascuno deve mettersi a servizio degli altri, non fare distinzione di persone. Nella comunità cristiana, anticipo e segno del regno di Dio deve manifestarsi il capovolgimento dei rapporti rispetto alle convenzioni delle società umane «i primi saranno ultimi e gli ultimi saranno i primi» (cf. Mt 19,30).

 

Meditazione

                    Nel nostro tempo, in molti ambiti della vita personale e sociale, facciamo l’esperienza di come sia difficile accogliere ‘l’altro’: lo straniero o anche il vicino di casa; l’anziano genitore o il figlio concepito; il malato cronico o terminale, chi semplicemente fa scelte differenti dalle nostre. Avvertiamo che accogliere è correre un rischio: quello di rinunciare a qualcosa di nostro in favore dell’altro; e ci spaventiamo. E poi, l’altro che uso farà dell’accoglienza che gli offro?

          Eppure, correre il rischio può significare una scoperta: quella dell’amore che cresce. L’altro non è primariamente uno sconosciuto da cui difendersi, è piuttosto un mistero di ricchezze da scoprire. Il Signore ci ricorda che nella persona che accogliamo è percepibile la sua stessa presenza. Rinunciare ad un po’ di spazio e ad un po’ di tempo, allargare i legami affettivi per abbracciare nuove amicizie, condividere quello che siamo, che sappiamo, che abbiamo non è deprivazione, ma condizione di fecondità.

          Logica assurda secondo le esigenze stringenti di una rigida contabilità dare/avere. Logica di un amore che ha donato la propria vita per far vivere tutti: l’amore del signore Gesù. È la logica che ogni battezzato fa propria. Qual è la mia?

 

Immagine della Domenica

 
 

LE VACANZE

Nel Salmo 46 il Signore esorta i credenti a vedere le meraviglie che opera per gli uomini, a contemplare il giorno in cui farà cessare le guerre e poi impartisce loro un comando: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”. La Vulgata fedelmente traduce: “Vacate et videte quoniam ego sum Deus”. “Vacate”, cioè fermatevi, da cui l’italiano “vacanza”.

Sì, le vacanze sono giorni in cui ci si ferma, si lascia il proprio lavoro, si abbandonano i riti quotidiani, si parte dal luogo abituale per dimorare in un luogo diverso, più o meno lontano, un luogo “altro”, al mare, in montagna, in collina, visitando città. Questo Salmo mi ha suggerito che in vacanza, una volta che ci si è veramente fermati per vivere quiete e silenzio, si possono vedere le opere di Dio, ci si può esercitare a contemplarle.

Il rischio, infatti, è quello di vivere le vacanze freneticamente, inventandosi mille cose da fare pur di non fermarsi, di non ascoltare il silenzio, di non cogliersi come creatura che vive e respira in mezzo a tante altre co-creature sulla terra: una terra che a volte si congiunge al mare, una terra sopra la quale si stende il cielo, tenebroso di notte, solare di giorno. Le vacanze, dunque, non sono forse il momento di pensare semplicemente alla terra, al mare, al cielo? Non solo il tempo per cercare di cogliere queste tre dimensioni che costituiscono il nostro quotidiano, ma che nel quotidiano ci sfuggono?

La terra: spazio su cui siamo buttati uscendo dal grembo di nostra madre, crosta dura sulla quale impariamo a camminare prima di capirne la realtà di sfera che gira attorno al sole; terra che scopriamo soprattutto nell’adolescenza e nella giovinezza, dopo averla assaggiata e toccata nell’infanzia; terra che con la maturità sentiamo di poter chiamare madre; terra che richiede tempo per essere conosciuta, gustata e, di conseguenza, amata.

Dobbiamo percorrerla, lavorarla, guardarla con il desiderio di chi attende da lei i frutti, occorre contemplarla nella sua vegetazione e nei suoi deserti, scrutarla e a poco a poco abitarla e renderla abitabile per noi, occorre essere convinti della necessità di amarla come noi stessi e, per questo, di lasciarla più bella di come l’abbiamo ricevuta.

In vacanza, specie in montagna e in collina, ci sono sempre occasioni per vederla e contemplarla, anche se sovente fremiamo per la bruttezza dovuta alla nostra voglia di sfruttarla e di abbrutirla con costruzioni indegne dell’uomo prima ancora che della terra. C’è sempre un albero che chiede di essere guardato, c’è sempre un orizzonte che desta emozioni, c’è sempre una pietra che fedele, immobile al suo posto, ci parla. E vedere i colori della terra arata – penso alle crete senesi… – non ci fa forse gridare alla terra “madre mia!”, liberandoci persino dalla paura di essere un giorno da lei accolti per sempre?

Se poi si va al mare, si incontra questa pianura blu srotolata davanti a noi che ci invita a solcarla, ad andare oltre, a navigare verso terre sconosciute: il mare non chiede di essere abitato ma attraversato. Per me, se c’è un luogo di contemplazione, è la spiaggia, spiaggia che cerco silenziosa, selvaggia, così da comprendere meglio quel continuo baciarsi tra terra e mare, quel bacio che è scambio di sabbia e di acqua… Il mare è tremendo, suscita anche paura, eppure non cessa di invitarci a sfidarlo, anche su una piccola barca che corre incontro alle onde…

Amo il mare nel sole cocente d’estate e nella tenue luce dell’inverno. È sempre lui, il mare, che sembra narrarci con il suo mormorio di acqua quel che è solo gemito e grido verso la terra e il cielo. In riva al mare sono portato a pensare: anche il libro che leggo riparandomi dai raggi del sole mi sembra più eloquente, più capace di farmi sognare.

E infine, sopra alla terra e al mare, ecco il cielo: di giorno abbaglia, ma al mattino, soprattutto all’aurora e all’alba sembra vivere, nel mutare del colore e nel crescere della luminosità. È l’ora in cui il cielo chiede di essere osservato, quando a poco a poco si spengono le stelle e all’orizzonte si affaccia la luce. Quanti però a quell’ora preferiscono dormire, perdendosi così lo spettacolo del cielo che si veste di luce per il giorno che inizia… Dalla mia bisaccia, in quest’alba in cui sto scrivendo, traggo pensieri di pace anche per costoro e per tutti i lettori in vacanza.

(Enzo Bianchi)

 

Preghiere e Racconti

 

Tutto è così familiare

Mio Dio, mi dai dei tesori da custodire, fa’ che li custodisca e li amministri bene. […] Mi piace aver contatto con le persone. Mi sembra che la mia intensa partecipazione porti alla luce la loro parte migliore e più profonda, le persone si aprono davanti a me, ognuna è come una storia, raccontatami dalla vita stessa. E i miei occhi incantati non hanno che da leggere. […] Sono ammalata, non ci posso far niente. Più tardi raccoglierò tutte le lacrime e le paure, laggiù. In fondo lo faccio già in questo letto.

Forse è per questo che ho la febbre e il capogiro? Non voglio essere il cronista di orrori. E neanche di fatti sensazionali. Ancora stamattina ho detto a Jopie: eppure arrivo sempre alla stessa conclusione: la vita è bella. E credo in Dio. E voglio stare proprio in mezzo ai cosiddetti ‘orrori’ e dire ugualmente che la vita è bella. E ora eccomi coricata in un angolino con febbre e capogiro, e non posso far nulla. Poco fa mi sono svegliata con la gola secca, ho afferrato il mio bicchiere ed ero così riconoscente per quel sorso d’acqua, ho pensato: se solo potessi andare in giro fra quelle migliaia di uomini ammassati laggiù e potessi offrire un sorso d’acqua ad alcuni di loro. Ogni volta mi dico: su, non è poi così grave, sta’ tranquilla, non è così grave, sta’ tranquilla.

Quando capitava che una donna o un bambino affamato si mettessero a piangere dietro uno dei nostri tavoli di registrazione, mi mettevo dietro di loro, quasi a proteggerli, le mie braccia incrociate sul petto, sorridevo un pochino e dentro di me dicevo a quell’esserino rannicchiato e smarrito: tutte queste cose non sono poi così gravi, non sono proprio gravi. Rimanevo là e c’ero, si poteva far altro? A volte mi sedevo vicino a qualcuno, passavo un braccio intorno a una spalla, non dicevo molto e guardavo le persone in faccia. Nulla mi era nuovo, non una di quelle espressioni di dolore umano. Tutto mi pareva così familiare, come se sapessi e avessi già vissuto ogni cosa. E alla fine di ogni giornata mi dicevo sempre: voglio tanto bene agli uomini (E. HILLESUM, Diario 1941-1943, Milano 19925, 232s.).

 

L’accoglienza

Gesù si esprime qui in modo radicale, senza paura di essere frainteso, di perdere consensi. Usando un modo di parlare tipicamente semitico, Gesù ci mette di fronte a un’alternativa radicale, costringendoci a dichiarare quali sono le nostre priorità.

Si esprime in termini antitetici: «amare di più, amare più di me», che non vanno presi alla lettera, ma compresi nel loro significato. Quali sono le cose, le persone, le realtà veramente fondamentali della nostra vita? Non solo quelle che dichiariamo a parole, bensì quelle che veramente dentro di noi riteniamo essere degli assoluti? La relazione con il Signore non può essere una delle tante, accanto al giusto, doveroso, amore che dobbiamo avere nei confronti di padre, madre, figli, figlie, ecc.

L’amore per Gesù, la relazione con Lui è quella fondamentale, che ci permette poi di vivere tutte le altre in modo corretto, assegnando a ogni persona il giusto posto nella nostra vita.

Gesù inoltre ci invita ad accogliere non solo quelli della nostra cerchia, i parenti stretti e gli amici, ma anche i profeti, i giusti, e i piccoli, che sono qui i missionari itineranti del Vangelo. Si crea così una famiglia allargata, una fraternità più ampia, centrata sulla relazione con Gesù. Accogliere il profeta non è facile, perché la sua parola può creare divisione, non perché cerchi la rissa, ma perché spesso smaschera le ipocrisie, le viltà, i compromessi presenti in ogni vita, e li giudica alla luce della parola. Questa è la sua vocazione, questo il servizio che egli rende al Vangelo, e noi dobbiamo accoglierlo come un dono, non come un guastafeste.

Ciò è possibile se i rapporti tra gli uomini, all’interno della comunità cristiana, saranno gestiti obbedendo alle parole di Gesù.

Così avvenne già nella storia del profeta Eliseo e della donna di Sunem, la quale ricevette un dono insperato, un figlio, proprio a seguito dell’accoglienza da lei riservata al profeta. La vita accolta fiorisce, a sua volta, in vita, un’esperienza accessibile anche a noi oggi.

 

Infinitamente amabile

Ti amo, mio Dio,

e il mio unico desiderio

è di amarti fino all’ultimo respiro della mia vita.

Ti amo, Dio infinitamente amabile,

e preferisco morire amandoti,

piuttosto che vivere

un solo istante senza amarti.

Ti amo, Signore,

e l’unica grazia che ti chiedo

è di amarti eternamente.

Mio Dio, fammi la grazia

di morire amandoti

e sapendo che ti amo.

Mio Dio, a misura

che mi avvicino alla mia fine,

fammi la grazia

di aumentare il mio amore

e di perfezionarlo.

 (Curato d’Ars, Scritti scelti)

 

Preghiera quotidiana

Rendici degni, Signore, di servire i nostri fratelli

in tutto il mondo che vivono e muoiono in povertà e fame.

Dà loro quest’oggi, attraverso le nostre mani,

il loro pane quotidiano, e, con il nostro amore comprensivo,

dà pace e gioia.

Signore, fa di me un canale della tua pace

così che dove c’è odio, io possa portare amore;

che dove c’è ingiustizia io possa portare lo spirito del perdono;

che dove c’è discordia io possa portare armonia;

che dove c’è errore, io possa portare verità;

che dove c’è dubbio io possa portare fede;

che dove c’è disperazione io possa portare speranza;

che dove ci sono ombre io possa portare luce;

che dove c’è tristezza io possa portare gioia.

Signore fa che io possa piuttosto cercare

di confortare invece di essere confortato;

di capire invece di essere capito;

di amare invece di essere amato;

perché è col dimenticare se stessi che si trova;

è col perdonare che si è perdonati;

è col morire che ci si sveglia alla vita eterna. Amen.

(Preghiera dei collaboratori di Madre Teresa)

 

L’ambiente più sano

Un poeta dell’anima, il libanese Kahlil Gibran, morto a New York nel 1931, inneggia all’esigenza di accogliere gli latri così come sono con questo racconto:

“Nel parco di un manicomio incontrai un giovane con il volto pallido, trasognato, ma bello. Sedetti accanto a lui e gli chiesi: -Perché sei qui?-  Mi rivolse lo sguardo e poi rispose: ‘E’ una domanda poco opportuna, la tua; comunque ti spiegherò. Mio padre voleva fare di me una copia di se stesso e così mio zio. Mia madre vedeva in me l’immagine del suo illustre genitore. Mia sorella mi esibiva suo marito, marinaio, quale modello perfetto da imitare, mentre mio fratello riteneva che dovessi essere identico a lui, bravissimo atleta…E anche i miei insegnanti: il dottore in filosofia, il maestro di musica e colui che mi insegnava letteratura erano ben decisi nel desiderare e volere che io fossi uno specchio della loro vita…Per questo sono qui. Trovo l’ambiente più sano. Qui, almeno, posso essere me stesso…'”.

 

Accogliere l’immagine di Dio

[II Signore] dice: «Chiunque accoglierà questo fanciullo in mio nome, accoglie me. E chi accoglie me, accoglie colui che mi ha inviato» (Lc 9,48). Infatti chi accoglie l’imitatore di Cristo, accoglie Cristo, e chi accoglie l’immagine di Dio, accoglie Dio. Ma siccome noi non potevamo vedere l’immagine di Dio, l’incarnazione del Verbo ce l’ha resa presente, affinché ci fosse avvicinata la divinità che è al di sopra di noi (AMBROGIO DI MILANO, Commento al vangelo di Luca, Roma 19682, 22).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO