“L’educazione secondo Francesco”

Io amo la scuola, io l´ho amata da alunno, da studente e da insegnante. E poi da Vescovo. Papa Francesco, (10 maggio 2014)    
L´educazione secondo Francesco”.
Il pensiero pedagogico del Papa è il tema  che si è scelto  per la X giornata pedagogica della scuola cattolica con lo scopo di fare il punto sulla “pedagogia” di Papa Francesco analizzandola nel quandro dell´azione pastorale della Chiesa univerale e nel contesto della riflessione pedagogica contemporanea.

Nella terra di nessuno. Per una mistagogia con i ragazzi

PREFAZIONE

 

L’educazione rappresenta una dimensione costitutiva e permanente della missione della Chiesa, che da sempre guarda con premura alle nuove generazioni. È coscienza condivisa che questo compito vitale si svolge oggi in una situazione culturale inedita, in un clima talmente sfavorevole da indurre tempo fa il Papa Benedetto XVI a esprimersi in termini di “emergenza educativa”.

È davanti agli occhi di tutti il fatto che le già gravi difficoltà della pastorale si moltiplicano nel momento in cui si vuole interagire con le nuove generazioni; gli operatori sperimentano la frustrazione di vedere che, nonostante gli sforzi profusi, in tanti – soprattutto tra gli adolescenti e i giovani – continuano a perdere progressivamente l’interesse per le questioni e le attività ecclesiali proposte.

I non pochi interrogativi suscitati dal fenomeno costringono le comunità cristiane a mettersi in discussione: l’adolescenza e la giovinezza, infatti, rappresentando un momento d’importanza cruciale lungo l’intero arco della vita nel determinare alcuni orientamenti esistenziali di fondo, dal lato personale e sociale, e in quanto luogo in cui si manifestano più acutamente le tendenze, le potenzialità e la crisi della cultura, danno ai problemi il carattere di vere provocazioni al cambiamento per l’azione evangelizzatrice della Chiesa, in tutte le sue forme. Si sperimenta un senso di precarietà e impotenza ed è forte l’attesa di “soluzioni” efficaci in vista dell’impegno educativo.

In questa problematica delicata e complessa s’inserisce il contributo di Paolo Sartor e Salvatore Soreca, significativo perché in esso si fondono armonicamente le competenze tipiche dello studioso con le sensibilità e la concretezza che contraddistingue chi ha maturato pure l’esperienza sul campo. Ne scaturisce un quadro chiaro teoricamente e stimolante sul versante operativo, secondo l’obiettivo dichiarato: «Contribuire a costruire un adeguato sguardo pedagogico e insieme catechetico sulla mistagogia per pensare prassi che intercettino la peculiarità del periodo adolescenziale» (p. 4).

Sono diversi gli elementi che qualificano in modo originale l’agile volume. Innanzitutto, la consapevolezza negli autori di affrontare un argomento di rilevanza assoluta: la Chiesa, se vuole sopravvivere, non può fare a meno della cura delle nuove generazioni, altrimenti è destinata ineluttabilmente alla scomparsa. Com’è stato osservato da qualcuno, nella questione degli adolescenti e giovani “si gioca nulla di meno che il futuro del cristianesimo”. Nelle pagine del libro traspare la convinzione che il venir meno del ricambio generazionale nelle parrocchie non dovrebbe essere considerato un problema tra gli altri, ma “la” preoccupazione principale della pastorale.

Colpisce poi lo sguardo positivo con cui si osserva il variegato mondo adolescenziale, descritto facendo ricorso alle più recenti acquisizioni teoriche delle scienze dell’educazione. L’adolescente, prima di essere un problema, è una risorsa, è in sé un’energia, possiede una carica e un dinamismo che vanno valorizzati e sostenuti perché possano esprimersi compiutamente in modo positivo. L’adolescenza è il periodo della crisi sì, ma crisi di crescita, di sviluppo, di doverosa e laboriosa ricerca di un senso da dare alla propria esistenza. L’intervento degli educatori dovrà favorire l’organizzazione libera e responsabile di un progetto personale di vita, attraverso la proposta di una ricca gamma di esperienze, capaci di scatenare tutto il potenziale vitale dell’adolescente, di dare spazio alla sua “inquietudine creativa”.

In questo non facile compito di accompagnamento, le comunità cristiane trovano nella mistagogia uno strumento educativo privilegiato: essa si configura come una tappa ma anche come uno stile. Lo studio ha il pregio di sottrarre il termine all’aura “archeologica” che spesso lo circonda, relegandolo in un glorioso ma comunque remoto passato, e gli restituisce profondità di significato e di perenne attualità. Se non mancano i cenni storici, è soprattutto il confronto con il magistero ecclesiale recente e con il pensiero di autori contemporanei (italiani) che garantisce autorevolezza e insieme freschezza alla riflessione proposta. Gli autori sono coscienti e onesti nel riconoscere che non si possono dare risposte semplici ai problemi complessi – come fanno intuire le diverse “tensioni” cui si accenna nel secondo capitolo – che animano la tappa conclusiva del cammino di iniziazione cristiana; al lettore, quindi, sono offerte non tanto “certezze” inoppugnabili ma punti di riferimento significativi e criteri interpretativi utili a muoversi senza smarrirsi in un terreno per tanti versi ancora inesplorato.

Un problema è se i percorsi di iniziazione cristiana abbiamo il compito di semplice introduzione nelle comunità cristiane o di trasformazione delle stesse. La scelta coraggiosa degli autori propende decisamente per questo secondo obiettivo. E ne studiano le condizioni di realizzabilità

 

“NON LASCIAMOLI SOLI”

Far partire atteggiamenti nuovi, far maturare dei processi

Atti 20,7-12

7 Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane e Paolo conversava con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo, prolungò la conversazione fino a mezzanotte. 8 C’era un buon numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti; 9 un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. 10 Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: «Non vi turbate; è ancora in vita!». 11 Poi risalì, spezzò il pane e ne mangiò e dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì. 12 Intanto avevano ricondotto il ragazzo vivo, e si sentirono molto consolati.

E’ bello rileggere insieme questo brano degli Atti, sentire come esso illumini quanto abbiamo vissuto nel Convegno di giugno scorso!

L’episodio avviene a Troade, nel “primo giorno della settimana”, quando la comunità si riunisce “nella stanza al piano superiore” per “spezzare il pane” e ascoltare la Parola di Dio annunciata da Paolo. E’ una comunità degli inizi, piccola e piena di entusiasmo, capace di ascoltare la Parola per tutta la notte, finché non spunta l’alba, approfittando fino all’ultimo della presenza dell’Apostolo. Tutta la stanza è illuminata da molte lampade: è un bel simbolo della luce della Parola e della fede di tante persone che si lascia illuminare da essa. Si direbbe che questa comunità è una “vergine saggia”: ha con sé l’olio, ha la lampada accesa. E’ pronta alla partenza dell’Apostolo e a continuare senza di lui il suo cammino

Non si è accorta però di un particolare. I ritmi di questa comunità, la sua fede luminosa e adulta, non vengono retti dal giovane Eutico. Egli sta alla finestra e, mentre Paolo continua senza sosta la sua omelia, preso da profonda sonnolenza, precipita giù. E’ un’immagine vera di quello che stiamo vivendo oggi: mentre la nostra comunità cristiana, in questa ricchissima e faticosa stagione postconciliare, riscopre con gioia la centralità dell’incontro con il Risorto, dell’ascolto della Parola di Dio, la bellezza del celebrare insieme spezzando il pane eucaristico nella fede e nella carità fraterna, proprio la componente giovanile delle nostre comunità si è lentamente spostata alla finestra, sviluppando un senso di estraneità nei confronti della comunità cristiana e si è addormentata. Forse, come Paolo, abbiamo parlato troppo di cose che poco avevano a che fare con la vita del giovane Eutico, per cui non lo abbiamo aiutato a percepire che la luce era anche per lui; forse ci è mancata l’empatia e non ci siamo accorti di quello che Eutico provava, di quanto la sua giornata, magari vissuta in solitudine, fosse stata pesante e faticosa; forse non siamo stati bravi ad accorgerci che anche Eutico aveva qualcosa da dire, delle domande da fare, che lo avrebbero aiutato ad entrare nel Mistero “a modo suo”, a personalizzare l’annuncio che ascoltava (“Dio a modo mio” è il titolo di un lavoro recente sui giovani e la fede in Italia); come al solito, Dio vuole che la sua comunità si converta e questo non avviene finché non mettiamo al centro della nostra attenzione i piccoli e i poveri…

Così Eutico, tra lo sconcerto di tutti, cade giù e muore. E’ con tristezza enorme che vediamo tanti giovani delle nostre città, proprio perché nei loro percorsi di crescita ormai il vangelo è per lo più assente, appiattirsi sulla mediocrità, perdere la capacità di sognare, rinchiudersi nell’individualismo, rimanere soli e senza parole rispetto ai grandi drammi della vita. Senza il Signore la vita dell’uomo non è più la stessa: si può essere giovani ed essere “vecchi dentro”, forse persino “morti dentro”.

Per questo il gesto di Paolo è esattamente quello che noi, comunità cristiana, siamo chiamati ad attualizzare: lasciare tutte le altre occupazioni, scendere al piano terra, lì dove si trova il giovane Eutico esanime, buttarci addosso a lui per abbracciarlo e ridonargli la vita dello Spirito. Il verbo usato dagli Atti e tradotto con “si gettò su di lui” (epèpesen ) è lo stesso che Luca utilizza anche nel vangelo per dire che il Padre della parabola “si gettò al collo” (Lc 15,20) del figlio minore, per baciarlo e alitare così su di lui la sua stessa vita divina. Le viscere di misericordia del Padre, il suo utero materno, si commuovono, e così anche quelle di Paolo di fronte alla morte del giovane. La misericordia si esprime nel gesto di gettarsi addosso al corpo del ragazzo, come Elia sul figlio della vedova, per ridonare la vita, il respiro, la dignità filiale, e aiutarlo a rialzarsi in piedi. Ogni nostro sforzo per la pastorale giovanile non potrà che partire da questa imitazione dell’utero materno del Padre, da questa riscoperta della misericordia che Dio ha verso di noi e che ci chiama ad esercitare verso tutti. Anche verso i genitori il nostro obiettivo è il medesimo: aiutarli a riscoprire la loro vocazione paterna e materna, la bellezza di un amore di donazione che li rende simili a Dio, la luminosità del gesto di chi muore un po’ perché l’altro, il figlio, possa avere vita. Vogliamo aiutare i papà e le mamme a riscoprire che la fede in Gesù e la relazione con Lui sostiene e dà forma anche al proprio modo di essere genitori.

Come Paolo anche noi possiamo esclamare: “Non vi turbate: la sua anima è in lui!” (tradotto dalla traduzione CEI con : “è ancora in vita”). Si, c’è nel cuore di ognuno dei ragazzi di questa città un desiderio profondo di Dio, un’anima che esprime questo desiderio in mille maniere diverse: voglia di raccontarsi, di sperimentare, di provare “la vertigine”; bisogno profondo di stare con gli altri, di superare l’isolamento, di trovare accoglienza e punti di riferimento tra gli adulti; rifiuto dei formalismi, delle relazioni non autentiche, degli spazi rigidi e non vitali, perché si è alla ricerca di un’appartenenza, di un nuovo modo di stare al mondo, di pensarsi, di agire. Una nostalgia di Dio trapela persino in molti di coloro che dicono di non credere in nessun tipo di religione o di filosofia (quasi la metà dei nostri ragazzi): più che di un rifiuto di Dio si tratta di una presa di distanza da un certo modo di vivere la vita cristiana appreso nelle stanze del catechismo parrocchiale e che ora, a questi adolescenti, non dice più niente perché non c’entra quasi nulla con quello che vivono. (Bichi-Bignardi, Dio a modo mio, p.176). Questo ci interpella profondamente: “la sua anima è ancora in lui”. Quali varchi e quali sentieri lo Spirito Santo si sta aprendo nell’interiorità dei nostri ragazzi? Come possiamo intercettare questi varchi, questi movimenti dello Spirito, e metterli in contatto con il Vangelo di Gesù e la vita della comunità cristiana? Come lo Spirito sta preparando nel cuore dei ragazzi la fede e la Chiesa del futuro? A quali conversioni ci sta chiamando, quali esodi ci vuole far compiere il Signore, attraverso le provocazioni che i ragazzi ci fanno e che siamo chiamati ad ascoltare e a prendere seriamente in considerazione?

Si, perché c’è un rischio reale davanti a noi: che non cogliamo fino in fondo la svolta epocale che stiamo vivendo. il Signore ci sta parlando attraverso la voce di questi giovani, nostri figli: trasmettere a loro la fede richiede un ripensamento profondo non solo delle iniziative di pastorale giovanile, ma del nostro essere Chiesa. Prendiamo per slogan o frasi fatte certe espressioni del nostro Vescovo, Papa Francesco, quando parla di un “improrogabile rinnovamento ecclesiale”: “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (EG 27). Sono passati ormai tanti anni da quando il Magistero dei nostri Papi ci ha richiamati alla necessità di una riforma ecclesiale che, recependo ancora più pienamente il Concilio Vaticano II, segni un’autentica svolta missionaria “che non può lasciare le cose come stanno”(EG 25). Il vero rischio è che ad addormentarsi non sia Eutico, ma che sia tutta la comunità cristiana! Non possiamo rimanere a guardare sbigottiti Eutico che cade nel vuoto: bisogna fare come Paolo, che si precipita ad abbracciarlo e a ridare vita alla sua anima.

La Chiesa è “una madre dal cuore aperto” ( primo capitolo di EG): è discepola, figlia generata dalla Parola, e missionaria, madre che genera nuovi figli alla fede (comunità cristiana che evangelizza e si lascia evangelizzare) incarnandosi nei limiti umani e accompagnando il cammino concreto delle persone. Come in ogni sua epoca la Chiesa si rinnova grazie a due “movimenti” profondamente spirituali e tra loro connessi: se ritorna alle sorgenti della Parola e se si lascia provocare dalla carne degli uomini che è chiamata a servire. Anche perché lei stessa è impastata di quella carne e non può far finta di non esserlo! Bloccare la fecondità anche di uno solo dei due movimenti significa realizzare una riforma a metà della vita della Chiesa. Mettiamoci in ascolto della Parola, consegnata nella Scrittura e nella Tradizione ecclesiale, e ascoltiamo la voce dello Spirito che parla nel cuore degli uomini e nella storia umana, operando comunitariamente un sapiente discernimento dei segni dei tempi. E’ questo il cammino che ci aspetta, ed è un’avventura affascinante!

Con questo intervento di oggi non intendo far altro che rilanciare le parole del Papa e proporre alcune tracce per i cammini delle comunità parrocchiali e delle diverse realtà ecclesiali della diocesi di Roma. Fin dall’inizio voglio precisare che la priorità non va data alle “cose da fare”. Per far circolare operativamente nuove idee sono utili esperienze come quella dei laboratori di giugno, perché nei gruppi sono state condivise molte proposte, raccontate molte iniziative ben riuscite. Gli incontri di prefettura, le riunioni di catechisti e animatori di parrocchie diverse, sono occasioni preziose! Ciò che è più importante (e ben più difficile) è maturare atteggiamenti nuovi e far partire dei processi. E’ anche la preoccupazione del nostro Vescovo, Papa Francesco: sono le nostre malattie spirituali quelle che frenano la circolazione della vita dello Spirito, che impediscono alla comunità cristiana di incontrare in maniera feconda i giovani e le loro famiglie; le malattie ci inducono ad avere lo sguardo corto di chi non intuisce le direzioni di marcia da prendere e si appiattisce quindi sul “già fatto e quindi sicuro” quando ormai da tempo “sicuro non è”!

Vi dico allora quello che mi sembra essenziale fare, il prossimo anno pastorale: ogni comunità parrocchiale, ogni realtà ecclesiale, rifletta con franchezza su quale sia la sua malattia spirituale. In occasione di un’assemblea comunitaria, con il consiglio pastorale, con l’equipe dei catechisti, si chieda: in cosa ci siamo ammalati? Cosa frena in noi il dinamismo evangelizzatore? Cosa ci impedisce di essere una madre dal cuore aperto, capace di accogliere e di uscire? Perché i ragazzi che abbiamo accompagnato nell’iniziazione cristiana prendono le distanze dalla nostra comunità (ovviamente, per quello che dipende da noi…)? Il secondo capitolo di EG, “la crisi dell’impegno comunitario”, nella parte che riguarda “le tentazioni degli operatori pastorali” (EG 76-101) ci offrirà il materiale di base per riflettere. Gli uffici diocesani prepareranno delle schede per aiutare questa verifica comunitaria. Attenzione: non è un’operazione semplice individuare la malattia spirituale della nostra comunità! Non va fatta frettolosamente, perché richiede profonda libertà interiore e un discernimento sapiente illuminato dallo Spirito.

1)

Permettete anche a me, ora, di sottolineare tre malattie spirituali (mi ispirerò all’ultimo capitolo di EG: “evangelizzatori con Spirito”) che mi sembrano particolarmente pericolose per la nostra vita ecclesiale. Nella seconda parte di questa relazione proporrò alcune riflessioni sulla pastorale giovanile e sul dialogo e la collaborazione con i genitori, con lo scopo di avviare processi attraverso la realizzazione di alcune iniziative.

a. La comunità cristiana è essenzialmente comunità di fede, che vive della gioia dell’incontro con il Risorto (EG 264-267), che si nutre della sua Parola e dell’amicizia con Lui, che percepisce la bellezza e la responsabilità di essere il suo corpo visibile nel mondo per l’edificazione del regno. Stringiamoci a Cristo e che sia la conoscenza e la sequela di lui il cuore di ogni programma pastorale! Questo vuol dire che la comunità non si costruisce sull’efficienza della sua macchina organizzativa, non si riduce a spazio aggregativo per bambini e per anziani, soprattutto non si appiattisce su logiche mondane di vario tipo: l’autocelebrazione narcisistica, la fedeltà sterile e ideologica a riti e consuetudini, la difesa di uno spazio protetto e rassicurante, al riparo dai problemi del mondo… Questa non è senz’altro la Chiesa di Gesù il Signore! Diciamolo con il linguaggio di Papa Francesco: basta pelagianesimi! Questo significa: basta cammini comunitari nei quali pretendiamo di costruire la Chiesa da soli secondo logiche tutte umane. La Chiesa diventa una donna infeconda quando perde il suo sguardo contemplativo e smette di compiere una lettura realmente spirituale, di fede, di quello che lei vive e di quello che vivono gli uomini del suo tempo. Dobbiamo credere alla logica delle beatitudini: quanto più la comunità cristiana si fa piccola, povera, mite, quanto più si concentra sulle relazioni (una famiglia!) e non sulle strutture, tanto più diventa credibile e lascia passare la luce dello Spirito. Una comunità che non si converte continuamente al Signore rinnovando il discepolato è una comunità che non va molto lontano: alla fine i suoi membri implodono perché ognuno si attaccherà al suo ruolo o alle sue idee. Fin dall’inizio, a partire dall’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi fino ai gruppi per anziani, bisogna far sì che il Vangelo di Gesù sia il cuore di ogni cammino cristiano, con le modalità adatte a ciascuna età. Questo vale ovviamente anche per gli adolescenti e i giovani: non bisogna aspettare che abbiano un’età diversa per narrare loro la Parola di Dio, ma è necessario coniugare il Vangelo con le loro vite. Ascoltando con profondità i loro vissuti, il modo in cui si interrogano e percepiscono Dio nelle pieghe della loro esistenza, sarà più facile comprendere che il Signore sta già andando loro incontro, quali parole sta loro rivolgendo, attraverso quali esperienze li vuole aiutare a crescere… Qualcosa di simile va detto anche per i genitori dei ragazzi: al cuore di ciò che proponiamo per loro c’è l’annuncio rinnovato del Vangelo, magari sotto l’angolatura ricchissima di ciò che significa essere padri e madri nella Scrittura e nella spiritualità cristiana; sarebbe davvero riduttivo se ci si fermasse a qualche, pur utile, consiglio sulla relazione genitoriale!

b. Oltre a mettere Cristo al centro, le comunità sono invitate a riscoprire “il piacere di essere popolo” (EG 268-274). L’insistenza del Papa è qui estremamente salutare, ci fa bene, perché ci ricorda che in Cristo siamo legati gli uni agli altri e che se ci dividiamo chi ci rimette siamo tutti. Separarci dagli altri, che siano i fratelli della comunità cristiana o gli abitanti del nostro stesso quartiere, ci fa ammalare. E’ dalla contemplazione dell’incarnazione che impariamo a far nostro uno stile diverso, quello con cui Gesù si avvicinava alle persone, condividendone la vita con simpatia autentica, entrando in relazione in profondità, facendosi carico dei dolori e delle fatiche degli altri. E’ quello che il Papa chiama rivoluzione della tenerezza: un modo pienamente evangelico di vivere le relazioni. Basta quindi individualismi e affermazioni identitarie giocate “contro qualcuno”! La storia delle nostre parrocchie e delle nostre comunità ecclesiali, in questi anni, ha su questo punto luci e ombre. Quanto cammino fatto insieme, quanta ricchezza di carismi messa in circolazione, come sono state belle alcune iniziative che ci hanno unito (penso al Giubileo e alla missione cittadina, alla Veglia di Pentecoste celebrata insieme a san Pietro, e a tante altre …). Non a caso ho scelto come simbolo del mio ministero episcopale il melograno, perché rappresenta il servizio alla comunione ecclesiale: i vari acini tenuti insieme dal Signore… Dall’altra parte non sono poche le situazioni in cui si è preferito arroccarsi, difendersi; si è assolutizzata un’esperienza ecclesiale a danno delle altre, ci si è guardati con diffidenza magari per concludere che la coabitazione è impossibile. E’ significativa, ad esempio, la difficoltà a lavorare insieme in prefettura: indica non tanto incapacità organizzativa o mancanza di tempo, ma forse una diffusa malattia spirituale. Quanto al rapporto con chi vive nei nostri quartieri e con cui vorremmo condividere il Vangelo e costruire un dialogo e una collaborazione positiva, ricordiamo i primi due dei tre atteggiamenti di fondo a cui Papa Francesco ci ha richiamati nel Convegno del 2016: togliersi i sandali davanti alle vite degli altri, perché sono luoghi santi; non rinchiudersi nei ghetti delle nostre presunte perfezioni, disprezzando e condannando senza appello le persone. Sul terzo atteggiamento ritorneremo tra poco

c. Una terza considerazione che vorrei condividere con voi riguarda la malattia spirituale di quelle comunità ormai rinunciatarie rispetto al compito evangelizzatore, inteso sia come annunzio del Vangelo sia come collaborazione alla trasformazione del mondo nel regno di Dio. Quante comunità introverse, ripiegate su se stesse, che hanno dimenticato di essere lievito inserito nella storia umana e guardano le vicende del mondo dal balcone delle proprie sicurezze! Con il tempo si inaridiscono e finiscono per dire o fare le cose di sempre: un po’ di catechesi dei bambini, magari qualche pratica devozionale, ma non testimoniano più nulla agli uomini della nostra città! La malattia consiste in fondo nella mancanza di fede nella Pasqua, nel Signore Risorto che agisce anche oggi per mezzo dello Spirito nel mondo e nei cuori delle persone. Basta pessimismo sterile! Non è possibile per la comunità cristiana dimenticare la storia e gli uomini. Smettere di cercare gli uomini, di coinvolgersi nelle loro gioie e speranze, tristezze angosce è una forma di ateismo pratico. Gli uomini infatti hanno già un posto nel cuore di Dio e lì li dobbiamo cercare. Nelle trame delle loro vite entusiasmanti e dolorose, coraggiose e complicate è presente e agisce lo Spirito del Risorto. Il discepolo di Gesù che vedesse negli uomini e nel mondo solo un luogo pagano, privo della presenza di Dio, pieno di tenebre e di nemici, è un discepolo che non crede nella Pasqua che agisce nella storia.

Ci verificheremo quindi sulle malattie spirituali! Anche negli incontri di settore del clero l’argomento verrà approfondito. Ogni comunità parrocchiale, in particolare, condividerà con il proprio Vescovo ausiliare le conclusioni della propria riflessione.

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E ora vogliamo ritornare su Eutico, simbolo dei giovani della nostra città. Il prossimo Sinodo dei Vescovi, come sapete, sarà dedicato alla riflessione sulla sfida della pastorale giovanile. L’esortazione apostolica papale che seguirà ci consegnerà contributi preziosi con cui confrontarci. Ma già da adesso (come avete compreso dalla prima parte di questa relazione) vogliamo fare il passo più importante, vogliamo metterci come Chiesa diocesana in un stato di conversione per ascoltare il grido che sale dalle esistenze dei giovani (cfr lettera del Papa che accompagna il documento preparatorio al Sinodo). Ci è sembrato che fosse necessario fin dall’inizio rivolgerci a coloro che hanno la responsabilità principale della loro crescita, i genitori. Il titolo del Convegno: “Non lasciamoli soli”, suggerisce che l’atteggiamento con cui ci avviciniamo a loro sia di collaborazione e di servizio e non, certo, di critica e condanna. Propongo qui alcuni punti che riprendono il discorso del Papa e lancio delle proposte, raccolte attraverso le relazioni dei laboratori e altri contributi che mi sono arrivati nel frattempo, con l’intento, come vi dicevo, di avviare processi.

a. Osserviamo da vicino Eutico. Lo guardiamo, come ci ha detto il Papa, in romanesco e in movimento. E’ l’amore incarnato del Figlio di Dio che ci spinge a guardare non ai giovani in astratto, quello delle pur utili indagini sociologiche, ma ai loro volti concreti, ai giovani che abitano il territorio delle nostra comunità. Una pastorale giovanile in romanesco significa che siamo chiamati ad incontrarli. Non parliamo di loro, ma con loro. Allora ne riconosceremmo il volto bellissimo e fragile, spesso fragilissimo, perché deturpato in mille modi dalla solitudine, dalle dipendenze, dall’arroganza e dalla violenza di chi usa e abusa di loro. Quando stanno insieme forse ci sembrano un “branco” pericoloso e impenetrabile; ma sappiamo che è solo una facciata, la manifestazione di una debolezza profonda. Il Signore vuole che li incontriamo. Credo che questo significhi rilanciare una pastorale coraggiosa della presenza nel territorio e del dialogo. Molti di voi hanno sottolineato il contatto che si può realizzare con gli adolescenti attraverso il mondo della scuola, soprattutto attraverso gli insegnati di religione: pur nel rispetto dei differenti ruoli e approcci (l’insegnante di religione non è un catechista) è ormai evidente a tutti noi quali enormi potenzialità siano contenute nel creare un ponte tra comunità parrocchiale e istituto scolastico. Vi invito a contattare l’ufficio Scuola, don Filippo Morlacchi, perché vi racconti le tante esperienze che sono state già realizzate a Roma, con molto frutto. Sarà anche necessario potenziare un altro canale, quello della presenza negli altri luoghi di vita dei ragazzi, specie in quelli più a rischio per loro. E’ spaventosa la situazione di devianza che vivono molti adolescenti, talvolta nell’assordante silenzio degli adulti e delle istituzioni, anche le nostre. Figli allo sbando, figli di nessuno. Anche in questo settore sono state realizzate molte significative iniziative, penso a don Giovanni Carpentieri e all’equipe che collabora con lui e ad altre realtà presenti nella nostra diocesi. Si tratta quindi di far partire un processo permanente di incontro e di ascolto, e a questo siamo tutti chiamati: renderci conto di come vive Eutico, parlare con lui, farci raccontare qualcosa di ciò che pensa riguardo a sé, alla sua vita, alle sue cadute, a Dio, alla comunità cristiana da cui ha preso le distanze… Vi invito a farlo, a leggere insieme queste narrazioni magari come consiglio pastorale, a rifletterci sopra e far arrivare le vostre riflessioni al Servizio di pastorale giovanile. L’ascolto potrebbe estendersi e comprendere anche alcuni genitori, insegnanti ed educatori, operatori dell’area minori. Gli insegnanti di religione potrebbero, d’intesa con le comunità parrocchiali presenti nel territorio della scuola, provare a raccogliere in classe le riflessioni dei ragazzi e condividerle con i presbiteri e con gli animatori degli adolescenti in incontri di prefettura. Un’iniziativa del genere non va pensata come un sondaggio, non serve per elaborare dati statistici, ma serve unicamente a voi: è un modo con cui la comunità cristiana di quel territorio incontra e si mette in ascolto dei ragazzi che vi abitano e si lascia mettere in crisi e incoraggiare dalle loro attese, dalle critiche o dagli apprezzamenti, dal modo in cui percepiscono Dio e la vita cristiana. Papa Francesco ci ha poi invitato a leggere con gli “occhiali giusti” l’età dei ragazzi, come una realtà in movimento: non è una patologia da medicalizzare ma una stagione della vita preziosa per sé e per tutta la loro famiglia. E’ preziosa anche per noi, comunità cristiana: ci spinge a ringiovanirci, ad accogliere la sfida, a vivere le trasformazioni necessarie per evangelizzare la generazione che viene

b. Il soggetto che è chiamato a convertirsi ed accogliere come una madre i ragazzi e le loro famiglie è tutta la comunità cristiana. Come vorrei che fossimo pienamente convinti di questo e ne comprendessimo fino in fondo le conseguenze! Abitualmente pensiamo che l’evangelizzazione dei giovani richieda tecniche particolari di approccio, offerte formative sofisticate, educatori professionisti o “fuochi d’artificio” pastorali, senza i quali nulla sarebbe efficace: e siccome non sono alla nostra portata, ci scoraggiamo già in partenza. Chi conosce e si fa vicino agli adolescenti sa che hanno bisogno fondamentalmente di adulti di riferimento, di comunità a cui appartenere e che esprimono verso di loro una sensibilità e un’attenzione paterna e materna, senza essere paternalistica. Si trovano bene se vivono una trama di relazioni che li faccia sentire a casa; liberi, perché sono alla ricerca di una loro identità, ma a casa. Guardate come tanti ragazzi si legano ai loro nonni, da cui li separano “anni luce” a livello di mentalità ma da cui si sentono particolarmente amati e lasciati in una sorta di spazio libero (i rimproveri li fanno i genitori!). In effetti nei processi di evangelizzazione e di catechesi dobbiamo tener conto che non tutto è mediato dai contenuti dottrinali comunicati (di cui spesso i ragazzi ricordano pochissimo!) ma che esistono altri fattori educativi importanti: l’accoglienza che fa sentire in famiglia, il senso di appartenenza che può maturare nel gruppo inserito nella comunità cristiana (qui mi piace stare!), la testimonianza ecclesiale alla Parola che suscita la fede e l’identità che scaturisce da questa appartenenza e da questa testimonianza, resa con la vita oltre che con la parola umana; da qui può nascere il giovane cristiano che si impegna nella Chiesa e nel mondo. Affinché questo processo del diventare cristiano possa funzionare, è richiesta l’attenzione di tutta la comunità cristiana (la “compagnia affidabile” di cui ci parlava Papa Benedetto): perché se un ragazzo è accolto da un catechista sorridente ma subito dopo è scansato da una sagrestana “mangia-bambini”, lo sforzo rischia di essere vanificato! In realtà ho la percezione chiara che alle nostre comunità cristiane non manchi nulla per essere pronte a ripartire con una buona pastorale giovanile: devono “solo” (tra virgolette) convertirsi ad un atteggiamento di maggiore attenzione ed apertura. Anche il linguaggio adatto con i giovani non scaturisce da una riunione fatta a tavolino dagli educatori, ma da una comunità appassionata del Vangelo e dei ragazzi: questa comunità, vedrete, sa trovare le parole con cui farsi capire! Per sostenere questo processo di trasformazione della comunità cristiana, vi propongo di dedicare una domenica al mese ad una lectio divina sul tema dell’essere padri e madri nella fede, una Chiesa che genera nuovi figli attraverso la Parola: potete proporre questo itinerario biblico agli adulti della comunità parrocchiale, ai catechisti, ai genitori, alle fraternità di famiglie. Il tema del generare alla fede narrando è molto ricco nella Scrittura. Prepareremo del materiale su questa iniziativa. Il Servizio di pastorale giovanile, guidato come sapete da don Antonio Magnotta, sta puntando a sostenere gli animatori degli adolescenti offrendo loro un cammino formativo di prefettura e degli itinerari sulla riscoperta dell’identità del battezzato (quest’anno sul munus sacerdotale). La pastorale universitaria (Mons. Leuzzi) propone quest’anno un cammino di riscoperta del discepolato missionario sul Vangelo di Marco. Qui vorrei sottolineare un punto importante per il futuro della pastorale giovanile della diocesi: valorizzare la prefettura come il luogo in cui le comunità cristiane e gli educatori degli adolescenti e dei giovani pensano, progettano, verificano le loro attività, si sostengono con incontri di formazione, si raccordano con le scuole del territorio e con le altre agenzie educative, mettono in piedi equipe di operatori di strada, portano avanti la dimensione vocazionale della pastorale giovanile e altro ancora. Non penso che questo sia solo un sogno utopico, ma è un obbiettivo concreto su cui lavorare nei prossimi anni. Per ciò che riguarda l’animazione vocazionale della pastorale giovanile segnalo l’iniziativa di don Fabio Rosini detta “La strada nuova”: si tratta di incontri mensili per giovani, sul tema del discernimento sapienziale, da realizzare con l’aiuto dei rispettivi parroci, in quattro parrocchie, una per ciascuno dei punti cardinali della nostra città: san Lino, Santa Bernardette, SS. Annunziata, SS. Simone e Giuda Taddeo. Inoltre altre iniziative saranno promosse dal Centro Pastorale per la Famiglia, dal Centro Catechistico, da quello Liturgico, dalla Caritas e dal C.O.R.

c. “Solo se i nostri vecchi faranno sogni, allora i giovani avranno visioni”, ci ha detto più volte Papa Francesco citando il profeta Gioele. Solo se le comunità cristiane si risveglieranno dal loro torpore e ricominceranno a sognare, potranno essere capaci di sostenere i ragazzi ed incoraggiarli ad avere “visioni” per l’oggi, per la loro vita e per quella delle realtà in cui abitano. La voglia di essere protagonisti, di rispondere alle sfide, di provare entusiasmo e vertigini, di cui ci ha parlato il Papa, possono davvero oggi esprimersi se sono messi in contatto con una comunità che, seppure un po’ invecchiata, ha ancora voglia di sognare, perché il suo sogno è quello di Dio, una comunità che desidera ancora una volta narrare, alla generazione che viene, la grande storia dell’amore crocifisso del Signore. All’interno della trama positiva delle relazioni comunitarie da cui si sente accolto e valorizzato, il giovane Eutico, messo a contatto con il sogno di Dio sulla sua vita e quella di tutti, non si addormenterà ma sentirà il cuore battergli forte, la testa frullargli, le mani prudergli. Se parliamo a tutta la persona di Eutico, ci dice il Papa, se usiamo tutti i registri educativi (del pensare, dell’amare, del fare), il nostro giovane ritroverà l’unità della sua esistenza e inventerà un “modo suo” di credere, sperare, amare. Le visioni dei giovani infatti, spesso non coincidono con i sogni dei vecchi, non sono la stessa cosa: ma i secondi sono al servizio dei primi. I giovani credenti di oggi vivono la fede in una maniera personale, meno normativa e rigida, più autobiografica e meno istituzionale; questo non è relativismo, ma il normale processo che avviene quando la fede viva passa da una generazione all’altra. Quindi, i vecchi devono sognare e permettere ai giovani di elaborare le loro visioni. Dalla testimonianza credente di chi ha camminato con il Signore possono nascere modalità nuove di vivere la testimonianza oggi. In molti dei laboratori si è sottolineata l’importanza di iniziative intergenerazionali, non solamente tra gruppi di pari, perché possano emergere, al servizio dei ragazzi, le testimonianze di adulti significativi della comunità cristiana. E’ da apprezzare la pastorale degli adolescenti diffusa in molte parrocchie dove è presente il cammino neocatecumenale, dove una famiglia ospita a casa sua e accompagna il percorso di vita e di fede di piccoli gruppi di adolescenti. Noto anche che si diffonde sempre più anche la pratica di affidare un giovane, per il suo accompagnamento spirituale, ad un laico adulto o ad una famiglia, perché possa orientarlo nelle sue scelte fondamentali. Anche qui c’è un processo da avviare con convinzione e una pista di lavoro per i prossimi anni!

d. In ultimo uno sguardo sui genitori dei ragazzi, in realtà il tema centrale del Convegno di quest’anno. Non vogliamo lasciarli soli nel loro compito educativo. Spesso riusciamo a coinvolgere in qualche incontro in parrocchia i genitori dei bambini, ma è molto raro coinvolgere i genitori degli adolescenti. Spesso queste dipende dal fatto che hanno timore di venire criticati, ritenuti responsabili delle intemperanze e delle follie dei loro figli: dobbiamo far loro sentire, invece, tutta la nostra vicinanza, la nostra disponibilità a collaborare. I genitori apprezzano molto la comunità parrocchiale quando a riesce a coinvolgere i loro ragazzi, specie se a casa sperimentano di non essere più presi in considerazione dai loro figli. Tante iniziative indicate nei laboratori sono davvero molto belle e invito a diffonderle e farle circolare. Il Servizio di pastorale giovanile preparerà dei sussidi per l’organizzazione di incontri tra genitori e animatori degli adolescenti, tra genitori e figli. Vorrei però sottolineare due cose: saremo credibili per i genitori se ci sentiranno parlare non soltanto di ciò che vivono i loro figli, ma anche di ciò che vivono loro. Ripeto: devono poter sentire il nostro calore, la nostra empatia e attraverso di essa la tenerezza di Dio. Inoltre, è molto importante che parliamo loro della bellezza del generare e dell’essere padri e madri contenuta nella Scrittura. Lì, nella pagina biblica, c’è un tesoro che stupisce, affascina e motiva al compito educativo. Ho chiesto inoltre al Papa se vorrà regalarci, per il tempo di Avvento e di Quaresima, un sussidio che contenga poche semplici proposte per la preghiera in famiglia. Sarebbe molto bello se ci aiutassimo a recuperare questa capacità di parlare di Dio e di pregarlo in casa che avevano le famiglie fino alla precedente generazione e che si è perduta, contribuendo così alla rottura della trasmissione della fede. La piccola Chiesa domestica, che è la famiglia, riscopre così la sua dignità e la sua vocazione

La Chiesa è una famiglia: l’immagine è quella della mensa domestica, alla quale il Signore invita tutti a sedersi, una tavola dove c’è posto per tutti perché ognuno si senta a casa. Questa casa è la casa della Trinità, che è la Trinità: Dio ha preparato in se stesso un posto per ciascuno di noi (Benedetto XVI). Qui sulla terra è la Chiesa il sacramento dell’amore materno di Dio che invita tutti alla mensa del regno di Dio, al banchetto della Parola e dell’Eucarestia: peccatori, poveri, storpi e ciechi, vecchi e giovani… Gli adolescenti e le loro famiglie, di cui abbiamo parlato nel Convegno di giugno, sono già da sempre nel cuore di Dio: se è così, a noi è chiesto di metterci a servizio del Signore che li cerca, li chiama, li invita a sedersi alla mensa della Parola e dell’Eucarestia, li fa sentire a casa. Quando pensiamo ai ragazzi e le loro famiglie, dobbiamo immaginarli in questo “luogo”: nel cuore di Dio. E’ lì che li dobbiamo cercare.

Preghiera degli educatori e dei genitori per i figli

O Padre,

ci rivolgiamo a Te all’inizio di questo anno nel quale la nostra comunità desidera dedicarsi in maniera rinnovata a servizio della crescita dei ragazzi e dei giovani.

Siamo consapevoli che il futuro passerà dal modo con cui saremo riusciti a rendere sensibili, forti, libere le coscienze di coloro che oggi sono giovani.

Sappiamo che non possiamo lasciare a se stesse le nuove generazioni; né che possiamo lasciare genitori, educatori e insegnanti soli a portare la responsabilità di dare un senso e un orientamento alla loro vita.

Vogliamo tutti insieme, come comunità, assumerci il compito di dare ai ragazzi e ai giovani ragioni di vita e di speranza; vogliamo con loro credere nel futuro. Vorremmo riuscire a fare loro toccare con mano, nelle nostre esistenze, che la vita vale la pena di essere vissuta e che, alla luce del Vangelo e sulla traccia del tuo Figlio Gesù, essa acquista una vastità di orizzonti, una pienezza e un’intensità che va al di là di ogni possibile desiderio.

Siamo coscienti di aver contribuito a preparare per loro una società che ama più le cose che le persone, che esclude i deboli, che non si indigna per l’ingiustizia e non sa più piangere per il dolore dell’altro.

Tu sai, Padre, che anche gli adulti sono spesso sopraffatti dalla stanchezza, spenti dalla disillusione, e che la vita appare loro talvolta più un peso che una benedizione.

Sappiamo quante volte non abbiamo saputo orientare i desideri dei più giovani, non abbiamo saputo trovare le parole giuste per comunicare loro la bellezza della vita e della fede; quante volte non siamo riusciti a riconoscere e ad accogliere le loro spinte al bene o non abbiamo saputo rispettare e decifrare i loro silenzi.

Come discepoli del tuo Figlio, non abbiamo saputo far vedere tutta la bellezza di una vita vissuta secondo il Vangelo.

Padre,

mentre ti chiediamo di avere misericordia per le nostre povertà, invochiamo con ancora più forza il dono del tuo santo Spirito, senza il quale nulla ci è possibile.

Sostenuti da te, sentiamo di poterti presentare il nostro rinnovato impegno.

Desideriamo impegnarci in modo nuovo per l’educazione delle nuove generazioni.

– Ci impegniamo a sentire tutti i nostri ragazzi e giovani come figli nostri, e ad ascoltarli nel loro bisogno di vita, di amore, di pienezza, di gioia;

– Ci impegniamo a fare loro vedere con la nostra vita di ogni giorno quanto sia bella, buona e gioiosa un’esistenza che si svolge sotto il tuo sguardo di Padre e che attinge al Vangelo di Gesù;

– Ci impegniamo ad avere uno sguardo di predilezione per i ragazzi più fragili, quelli che sono stati troppo poco amati e che rischiano di non credere più in nulla;

– Ci impegniamo a far sì che le ragazze e le giovani siano rispettate per la loro dignità ed educate a custodire per tutti quella riserva di tenerezza di cui ha grande bisogno la società;

– Ci impegniamo a sostenere le famiglie, a diventare ogni giorno alleati dei genitori in quel compito educativo che sentiamo anche nostro;

– Ci impegniamo a non pretendere dai giovani che siano migliori di noi, ma insieme con loro vogliamo dar vita ad un mondo pienamente umano;

– Ci impegniamo a far loro posto nella nostra comunità e nella società, consapevoli che la giovinezza della Chiesa ha bisogno della loro presenza, del loro pensiero, del loro cuore, della loro novità.

Ti presentiamo Padre la nostra preghiera per l’intercessione di Maria, Madre di Gesù e Madre di ogni donna e uomo. Lei, che conosce la bellezza e la fatica di accompagnare verso la vita il giovane Gesù, sostenga il nostro cammino.

Amen

 

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Discorso Conclusioni Convegno Diocesano

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Ezechiele 18,25-28

Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore a punto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

 

Questi versetti sono presi dal capitolo più tipico di Ezechiele sulla responsabilità personale. Egli parla ai deportati a Babilonia, consapevoli dei peccati del popolo d’Israele e ormai rassegnati che i figli debbano pagare le colpe dei padri. Essi vanno ripetendo: «I padri han mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez 18,2). Ma il profeta, a nome di Dio, li contraddice: «Voi non ripeterete più questo proverbio… chi pecca morirà» (Ez 18,3-4). In questo capitolo lo fa in quattro riprese, articolate tutte allo stesso modo: un’obiezione degli israeliti, la confutazione del profeta e la sua istruzione sull’argomento. È il genere letterario del responso sacerdotale o Tôrah. Il brano liturgico presenta la risposta alla terza obiezione, molto simile alla seconda che precede (Ez 18,19) e alla quarta che segue (Ez 18,29). Applica gli insegnamenti della lunga risposta data alla prima, con i casi specifici del nonno buono, del figlio malvagio e del nipote ancora buono (Ez 18,2).

     C’è una botta e risposta iniziale (v. 25). Gli interlocutori del profeta obiettano che non è retto il comportamento del Signore, se adesso non fa più scontare ai figli le iniquità dei padri, ed egli subito ribatte con l’interrogativo se piuttosto il loro comportamento non sia retto, non approfondendo i motivi profondi del problema.

     Poi c’è la spiegazione dettagliata (vv. 26-28). Ezechiele ribadisce quanto ha già detto e ripetuto. Al di là degli aspetti legali di colpa e pena, egli fa considerare l’ordine delle cose in se stesse, nel quale c’è un rapporto stretto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Nel dire questo, allarga di molto le visuali. Alla morte dà lo stesso significato di disfacimento dell’essere umano, quale conseguenza della colpa dei progenitori (Gen 2,17), e alla vita quello della crescita piena prevista originariamente, nell’armonia con Dio (Gen 1,28). L’iniquità e la giustizia inoltre le intende in base alla Torâh, della quale appena prima ha ripetuto per tre volte una sintesi (Ez 18,5-9.10-13,15-17), sulla quale regolare la responsabilità personale, e in riferimento alla quale già il Deuteronomio proclamava: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30.15).

     Nel Pentateuco però l’orizzonte rimane terreno e certamente anche Ezechiele lo ha, guardando alla fine della deportazione, al ritorno in patria e alla ricostruzione. Ma questo non basta per le singole persone, malvagie o giuste. Per esse le insistenze del profeta pongono una promessa allo sviluppo della rivelazione sulla retribuzione ultraterrena. Solo in vista di essa, infatti, vale per tutti lo stretto rapporto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Del resto lo esige anche l’affermazione all’inizio di questo capitolo: «Tutte le vite sono mie» (Ez 18,4), fatta da colui che si è proclamato «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,15), proclamazione che comprova la risurrezione dei morti, secondo Gesù (cf. Mt 22,33).

 

Seconda lettura: Filippesi 2,1-11

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

Filippi è la prima Chiesa che Paolo ha fondato in Europa, durante il secondo viaggio missionario (ca. 50-53 d.C.), dalla quale ha accettato più volte aiuti anche materiali, con molta riconoscenza ma tenendoci anche a non lasciarsi condizionare dai doni, nel proporre gli impegni del vangelo. Lo dice con tanta intensità alla fine della lettera (Fil 4,10-21). Alla luce di quelle espressioni si capisce il triplice e appassionato «se» rivolto ai suoi  benefattori, che apre questo brano: «se c’è qualche conforto… se c’è qualche comunione di spirito… se ci sono sentimenti di amore e di compassione…». Se tutto questo c’è verso Paolo, ci sia anche fra di loro, con l’unione degli spiriti e con le prestazioni della collaborazione in tutta umiltà e non per spirito di rivalità o per vanagloria. Al riguardo ha da dire dell’altro e lo fa nel resto del capitolo. Ma prima richiama loro il modello supremo di Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù». Un richiamo sempre necessario, specialmente nel nostro tempo, nel quale si vorrebbe che Cristo avesse i nostri sentimenti…

     L’inno cristologico molto più probabilmente Paolo lo ha preso dalla liturgia delle prime comunità cristiane e lo ha inserito qui perché fondamentale per il suo messaggio. Sintetizza infatti il mistero pasquale negli aspetti del dono totale di sé, per i quali Cristo ha avuto il massimo della esaltazione. Si sviluppa in due strofe parallele e antitetiche.

     La prima strofa è discendente per una serie di gradini, segnati dalla kènosi o svuotamento e dalla obbedienza di Cristo. Dalle perfezioni della natura divina egli ha svuotato se stesso, assumendo la forma umana e la condizione di servo. Il servizio dell’obbedienza, che ha scelto, lo ha realizzato fino alla morte, cioè totalmente, e alla morte di croce, cioè nel modo più infamante del supplizio riservato agli schiavi e ai peggiori delinquenti, per raggiungere col suo esempio e la sua grazia anche le situazioni estreme.

     La seconda strofa è ascendente per un’altra serie di gradini, contrapposti ai precedenti ma frutto di essi e segnati dalla esaltazione di Cristo e dalla obbedienza di tutti gli esseri sottoposti a lui. Perché si è «svuotato» della natura divina, Dio gli ha dato un «nome», cioè una dignità e un potere, al di sopra di ogni altro nome. Perché si è fatto obbediente fino ai livelli infimi. Dio destina ogni ginocchio a piegarsi, cioè ogni essere a sottomettersi a lui, in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua o cultura, umana e angelica, a proclamarlo Signore, Kyrios, lo stesso nome dato a Dio tradotto in greco l’ebraico Adonaj. La sua gloria sarà nuova gloria per il Padre, dal quale ha avuto origine tutta la vicenda: è abbozzato qui il ritornello che scandisce l’inno trinitario all’inizio della lettera agli Efesini.

 

Vangelo: Matteo 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

 

Esegesi 

     La parabola dei due figli mandati a lavorare nella vigna è riportata dal solo Matteo, dopo che i membri del Sinedrio, sommi sacerdoti e anziani del popolo, hanno chiesto a Gesù con quale autorità compie gesti clamorosi e non autorizzati, quali l’ingresso messianico a Gerusalemme, la cacciata dei venditori dal tempio e l’insegnamento all’interno di esso. A rincararne la dose aggiunge subito quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45). In precedenza, sullo stesso argomento ha raccontato quella dei chiamati al lavoro in diverse ore del giorno (Mt 20,1-16).

     1. Il significato è chiarissimo. Il lavoro nella vigna è il paragone classico con il quale i profeti parlano dell’opera di Dio per educare il suo popolo (cf. specialmente Is 5.1-7). Sulla corrispondenza a tale opera Gesù prende posizioni molto dure, nel suo ultimo ministero a Gerusalemme. In questa parabola pone i casi di un consenso a parole e rifiuto nei fatti e di un rifiuto a parole e consenso nei fatti. Con una domanda all’inizio e una alla fine, chiede ai suoi avversari la valutazione dei due comportamenti. Essi danno quella più ovvia e, lontani dall’immaginare le intenzioni del loro interlocutore, pronunciano così la propria condanna.

     2. L‘applicazione di Gesù. Essa, è rivolta proprio a loro. Nella volontà del padre della parabola egli intende quella che Dio manifesta al suo popolo, mediante i suoi inviati. Ma non rimane sul generico. Va al caso specifico della predicazione del Battista, che ultimamente ha indicato anche ai membri del Sinedrio la «via della giustizia» cioè della corrispondenza alla effettiva volontà di Dio in questo tempo di grazia.

     Di fronte ad essa, era un no in partenza la condotta delle prostitute e dei pubblicani, ma poi hanno creduto e si sono convertiti. I pubblicani, esattori delle tasse, erano considerati pubblici peccatori perché imbroglioni e perché sacrileghi, in quanto versavano i tributi all’invasore pagano. Era invece un sì in partenza il compito dei sommi sacerdoti e degli anziani, in quanto servizio voluto da Dio per il suo popolo, ma in pratica essi non hanno avuto nemmeno un cenno di pentimento delle proprie infedeltà e non hanno creduto al Battista. La parabola è stata così in primo luogo un puntuale atto di accusa nei loro riguardi.

     Quando Matteo l’ha messa in iscritto, dopo il concilio di Gerusalemme (49 d.C.), era già applicabile all’altro contesto, preannunciato da Gesù, della defezione di tanti giudei convertiti, mentre i pagani accoglievano in massa il vangelo: «molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori» (Mt 8,11-12). E da allora rimane sempre aperto un terzo contesto: quello delle successive letture in ogni tempo e luogo. Adesso è aperto il nostro contesto da interpretare.

     In questo modo le parabole sono uno degli strumenti più forti della predicazione di Gesù. Egli non racconta storielle per bambini, ma affronta con esse i responsabili della cosa pubblica, civile e religiosa, e provoca prese di coscienza e scelte precise, alla maniera dei profeti, in particolare di Natan di fronte a David (2Sam 12). Le parabole stanno alla frontiera della evangelizzazione, usava dire il compianto monsignor Vittorio Fusco.

 

Meditazione 

Prima lettura e vangelo propongono un messaggio sul pentimento. L’uomo ingiusto può desistere dalla sua ingiustizia e agire con rettitudine (Ezechiele); il figlio che in un primo tempo si è rifiutato di andare a lavorare nella vigna del padre, dopo decide di andarvi (vangelo).

     L’unità delle due letture può anche essere espressa con le categorie della conversione e della responsabilità.

     Il pentimento è attestazione di libertà. Anche il malvagio può cambiare. Questa possibilità di conversione dice che il peccato non è una potenza metafisica che schiaccia l’uomo e che ha su di lui l’ultima parola. Nel pentimento l’uomo ritrova la retta via e «torna» a se stesso e a Dio allo stesso tempo.

     Atto di libertà, il pentimento è anche atto di liberazione. Il malvagio che cambia condotta «fa vivere se stesso» (Ez 18,27), da vita alla sua esistenza, mostrando di non essere schiavo dei precedenti comportamenti.

     Che cosa porta il malvagio a cambiare condotta? Com’è possibile evocare il pentimento, questo evento in cui è in gioco il mistero della persona e la coscienza della contraddizione fra sé e sé che conduce al dolore e alla lacerazione interiori? Ezechiele evoca il cammino interiore che conduce al pentimento con le parole: «ha visto» (Ez 18,28, letteralmente; Vulgata: considerans). Che cosa ha visto? In Ez 18,14 si parla del «vedere i peccati del padre» da parte del figlio, che pure non fa della visione dei peccati paterni un alibi per il proprio peccare, anzi, non si lascia generare al peccato dal padre peccatore. Quella visione indica allora la presa di coscienza dei propri peccati, è la dolorosa visione di sé nella non-unificazione, nella divisione profonda. Nel pentimento noi vediamo noi stessi nella contraddizione con noi stessi. E sappiamo di poterci rivolgere a Dio proprio in quella condizione di chi ha il cuore contrito.

     Nell’odierna parabola evangelica (Mt 21,28-31), il figlio che ha risposto «no» all’invito del padre e poi, «pentitosi», «avendo provato rimorso», ha fatto la volontà del padre, rivela che il credere passa a volte anche attraverso un ricredersi. L’obbedienza alla parola e alla volontà di Dio passa a volte attraverso uno smentire la propria parola e la propria volontà. La fede non ci chiede di non sbagliare e di non peccare, ma di riconoscere l’errore e di confessare il peccato.

     In quel «ricredersi» c’è il dialogo interiore, c’è la presa di coscienza della realtà, c’è l’audacia di guardare in faccia se stessi, preliminare essenziale per l’agire responsabile. Insomma, c’è l’inizio del movimento verso la responsabilità, della decisione di passare dall’irresponsabilità alla responsabilità. In questo senso, lungi dall’essere un segno di debolezza, il pentimento è segno di coraggio e di forza. Per quanto sia raro e impopolare, anche nella chiesa, il gesto di chi riconosce di aver sbagliato, di chi ammette di aver assunto posizioni che si sono rivelate poco conformi al vangelo e muta la propria posizione cercando di essere più fedele al vangelo, è segno di grandezza umana e spirituale.

     Nel cristianesimo il pentimento è la via maestra per accedere alla volontà di Dio. «Noi cristiani abbiamo il privilegio di disporre di un metodo altro, rispetto alla mondanità, per avvicinarci alla verità: il pentimento» (Christos Yannaras).

     I due figli della parabola sono entrambi in contraddizione tra il dire e il fare. Ma con una differenza essenziale. Il figlio che dice «no» si espone a un conflitto con il padre, con una persona esterna a lui, e questo lo conduce a prendere coscienza del suo conflitto interiore e a mutare opinione. Cosa che non avviene in chi risponde «sì» e che compiace l’altro, si adagia sull’altro, non si espone conflittualmente all’altro e può evitare di guardare alla tentazione della disobbedienza che abita pure in lui. Per Matteo è evidente che coloro che vivono nel «sì» sono i religiosi (sacerdoti e anziani del popolo: Mt 21,23) che possono non sentirsi bisognosi di conversione perché già «a posto», a differenza di coloro che invece vivono nel «no», pubblicani e prostitute, e che possono fare spazio all’evangelo ed entrare nel Regno.

 

Immagine della domenica

Via della Pisana (Roma) – 2016


LA RISPOSTA 

Non so chi o che cosa abbia posto la domanda.

Non so quando sia stata formulata.

Eppure a un certo punto ho risposto «sì» a Qualcuno o a qualcosa.

A partire da quel momento ho avuto la certezza

che la vita aveva un senso»

(Dag Hammarskjold)

 

Preghiere e racconti

 

L’importanza di avere un cuore unificato

Nei due figli, che dicono e subito si contraddicono, vedo rappresentato il nostro cuore diviso, le contraddizioni di cui Paolo si lamenta: non mi capisco, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7, 15.19), che Goethe riconosce: ‘ho in me, ah, due anime’.

A partire da qui, la parabola suggerisce la sua strada per la vita buona: il viaggio verso il cuore unificato. Invocato dal Salmo 86,11: Signore, tieni unito il mio cuore; indicato dalla Sapienza 1,1 come primo passo sulla via della saggezza: cercate il Signore con cuore semplice, un cuore non doppio, che non ha secondi fini. Dono da chiedere sempre: Signore, unifica il mio cuore; che io non abbia in me due cuori, in lotta tra loro, due desideri in guerra.

Se agisci così, assicura Ezechiele nella prima lettura, fai vivere te stesso, sei tu il primo che ne riceve vantaggio. Con ogni cura vigila il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita (Prov 4,23). Il primo figlio si pentì e andò a lavorare. Di che cosa si pente? Di aver detto di no al padre? Letteralmente Matteo dice: si convertì, trasformò il suo modo di vedere le cose. Vede in modo nuovo la vigna, il padre, l’obbedienza.

Non è più la vigna di suo padre, è la nostra vigna. Il padre non è più il padrone cui sottomettersi o al quale sfuggire, ma il Coltivatore che lo chiama a collaborare per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. Adesso il suo cuore è unificato: per imposizione nessuno potrà mai lavorare bene o amare bene.

Al centro, la domanda di Gesù: chi ha compiuto la volontà del padre? In che cosa consiste la sua volontà? Avere figli rispettosi e obbedienti? No, il suo sogno di padre è una casa abitata non da servi ossequienti, ma da figli liberi e adulti, alleati con lui per la maturazione del mondo, per la fecondità della terra.

La morale evangelica non è quella dell’obbedienza, ma quella della fecondità, dei frutti buoni, dei grappoli gonfi: volontà del Padre è che voi portiate molto frutto e il vostro frutto rimanga… A conclusione: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti. Dura frase, rivolta a noi, che a parole diciamo ‘sì’, che ci vantiamo credenti, ma siamo sterili di opere buone, cristiani di facciata e non di sostanza.

Ma anche consolante, perché in Dio non c’è condanna, ma la promessa di una vita buona, per gli uni e per gli altri. Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo, nelle prostitute e anche in noi, nonostante i nostri errori e ritardi nel dire sì. Dio crede in noi, sempre. Allora posso anch’io cominciare la mia conversione verso un Dio che non è dovere, ma amore e libertà. Con lui coltiveremo grappoli di miele e di sole per la vita del mondo. (Ermes Ronchi)

 

Conta ciò che noi facciamo e siamo

Il testo del vangelo odierno è molto breve: una parabola di due versetti, e altri due versetti che contengono considerazioni di Gesù sui destinatari delle sue parole. La parabola è inquadrata da due domande, quella finale (“Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”) e quella introduttiva (“Che ve ne pare?”), presente anche altrove (Mt 18,12).

Gesù intende intrigare, coinvolgere quanti lo ascoltano – in questo caso “i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo” (Mt 21,23) –, suscitando la loro risposta. Sono dunque importanti non solo le sue parole, ma anche le parole dei suoi ascoltatori, quelli di allora e quelli di adesso, noi! Cerchiamo pertanto di ascoltare, di pensare, di indagare e di rispondere in verità.

Un padre, che ha due figli, comanda al primo di andare a lavorare nella vigna. Costui reagisce male, opponendosi a lui con un atteggiamento di disobbedienza: “Non ne ho voglia”. Poi però quel comando ascoltato, custodito nel cuore, lo porta alla consapevolezza di aver mancato verso il padre, e così egli decide di andare nella vigna.

Si era opposto a parole ma poi, pentito (metameletheís, paenitentia motus), va a realizzare la volontà del padre e lavora nella vigna, come questi gli aveva chiesto. Lo stesso comando è rivolto al secondo figlio, il quale risponde subito: “Sì, signore”, ma in realtà non va nella vigna, disobbedendo nei fatti. Insomma, c’è una “volontà del padre” (tò thélema toû patrós: cf. anche Mt 7,21; 12,50) che è realizzata da chi dice “no” ed è contraddetta da chi dice “sì”.

Chi sbaglia, chi fa un errore, chi dice “no” a Dio, ha la possibilità di pentirsi, di ritornare a lui. Nessuno che abbia peccato è rinchiuso per sempre nella sua rivolta, ma ha la possibilità di riprendere una relazione, un rapporto venuto meno. Certo, uno sguardo fisso su quell’atto di disobbedienza, su quel “no”, può portarci a un giudizio negativo, di condanna, ma l’uomo va misurato nel tempo, sull’insieme del cammino compiuto, non sull’istante a volte cattivo. Dio, poi, pazienta perché vede e sente in grande, nella sua makrothýmia (cf. Mt 18,26; 2Pt 3,9), e quando ci giudicherà guarderà tutto il cammino percorso, tutta la fatica fatta, non si fermerà sulle nostre cadute…

Quanto al figlio che dice: “Sì, signore”, che appare pronto e obbediente al padre, ma poi non realizza la sua volontà, che dire di lui? Spesso noi siamo, ciascuno di noi è così! Purtroppo la nostra vita cristiana è fatta di tante confessioni di fede, di tante invocazioni: “Signore, Signore!” (Mt 7,21.22; Lc 6,46), di tante liturgie in cui ripetiamo continuamente: “Amen!”, cioè “Sì!” al Signore, e poi, abbandonata l’assemblea liturgica, nel quotidiano non facciamo ciò che Dio ci ha chiesto con la sua parola ma ciò che vogliamo noi…

Davanti a Dio conta non ciò che di noi appare agli altri, ma ciò che noi facciamo e siamo: Dio vede la nostra coerenza o la nostra ipocrisia di credenti che “dicono e non fanno” (Mt 23,3), come Gesù stesso ha ricordato; ovvero, la nostra doppiezza di persone che hanno in bocca il nome del Signore, mentre in verità il Signore determina poco o nulla del loro vivere e comportarsi. È l’atteggiamento di quei cristiani che dicono di amare Dio e si esercitano anche in “affetti spirituali” per lui, avendo sete di lui, cercandolo, dichiarando il loro ardente desiderio della sua presenza (tutte espressioni dei salmi), ma ignorando e contraddicendo la sua volontà.

No – ha detto Gesù – “non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21); “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama … Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,15.21.23), la metterà in pratica. Alla fine non contano i “sì” o i “no” dichiarati, ma la realtà del nostro vissuto!

Ed ecco allora che Gesù fa un’applicazione della parabola per i suoi uditori. Egli dice che i pubblicani, cioè i peccatori manifesti, pubblici, riconosciuti tali da tutti, e le prostitute, donne visibilmente peccatrici, precederanno nel regno di Dio tanti credenti, tanti discepoli. Per quale motivo? Perché, a causa della vergogna per il loro peccato manifesto e del giudizio di condanna che ricevono da parte di molti, sentono il bisogno di cambiare vita, di dire “sì” con la loro vita.

Al contrario, molti credenti, con i loro peccati nascosti, non visti, non giudicati, sono onorati da tutti come persone giuste e religiose; per questo non sentono il bisogno di convertirsi, ma anzi custodiscono i loro peccati, li amano e continuano a realizzarli: solo loro ne sono a conoscenza, perché dovrebbero cambiare? E così la loro vita, anche se apparentemente impeccabile, è di fatto un “no” a Dio!

Questo è successo con Giovanni il Battista – dice Gesù –, quando i peccatori pubblici hanno ascoltato la sua predicazione e gli hanno creduto; questo è successo anche con Gesù (non a caso definito dai suoi avversari “amico di pubblicani e di peccatori”: Mt 11,19; Lc 7,34) e la sua buona notizia; questo succede ancora oggi, tra di noi, nella chiesa. Sì, alla buona notizia di Gesù e del suo Vangelo rispondono più facilmente i peccatori pubblici, riconosciuti, che le persone religiose e apparentemente “giuste”, le quali non sono spinte a cambiare nulla della loro vita.

(Enzo Bianchi)

 

Un «sì» continuamente ripetuto

Questa parabola riguarda ciascuno di noi. Abbiamo detto «sì» quando abbiamo riconosciuto la legittimità della legge di Dio e promesso di sottometterci ad essa; ma il più delle volte continuiamo a vivere o riprendiamo a vivere senza preoccuparci della volontà di Dio. Crediamo di vivere nel Regno perché un tempo il nostro «sì» è stato sincero, ma ciò che vi è di più abituale in noi sfugge alla volontà di Dio che ci chiama al Regno. Spesso le nostre azioni sono in sintonia con la volontà di Dio, ma, quando ciò che vogliamo non si accorda con la sua volontà, è in genere il nostro volere ad avere la meglio; obbediamo ai nostri desideri e ai nostri capricci. Ma la vita nel Regno non consiste nell’iscrizione del nostro nome in un libro [dei battesimi o dei matrimoni]. L’ingresso nel Regno richiede una volontà viva e continua, un’accettazione costante e attuale della volontà di Dio su di noi. È un«sì» continuamente ripetuto.

(Y. de Montcheuil, Il Regno e le sue esigenze)

 

La possibilità di rispondere NO

Un amore reale secerne la possibilità di una rivolta. Può proporre solo il SI e il NO. Tutto sommato, un buon padre è colui che dà al figlio la possibilità di rispondergli NO. Certo, non è l’amore a produrre il NO (il figlio lo ha scoperto da solo), ma lo rende possibile. Si noterà questa specie di misteriosa simpatia che il Cristo sembra aver avuto nei riguardi dei ribelli. La loro condotta gli sembrava dovuta a un malinteso, un malinteso che non poteva durare e, soprattutto, che in seguito si sarebbe dimostrato benefico. Il figlio-schiavo non ha alcuna possibilità di riconoscere l’amore del Padre; il figlio ribelle, più tardi, ha la possibilità di scoprirlo.

(A. Maillot, Le parabole di Gesù oggi)

 

Il mio «sì»…

Maria, vorrei che il mio «sì» fosse semplice come il tuo,

che non avesse astuzie mentali.

Vorrei che il mio  «sì», come il tuo,

non mi mettesse al centro, ma a servizio.

Vorrei che il mio  «sì» al disegno di un altro, come il tuo,

volesse dire soffrire in silenzio.

Vorrei che il mio  «sì»,  come il tuo,

volesse dire tirarsi indietro per far posto alla vita.

Vorrei che il mio  «sì» , come il tuo,

racchiudesse una storia di salvezza.

Ma il mio peccato, il mio orgoglio, la mia autosufficienza,

dicono un  «sì» ben diverso.

Il tuo sguardo su di me, Maria,

mi aiuti ad essere semplice,

una che si dimentica,

una che vuole perdersi nella disponibilità

di chi sa di esistere da sempre

soltanto come un pensiero d’amore. Amen.

 

Non importa

L’uomo è irragionevole,

illogico, egocentrico

non importa, amalo.

Se fai bene

ti attribuiranno secondi fini egoistici,

non importa, fa il bene.

Se realizzi i tuoi obiettivi

troverai falsi amici e veri nemici,

non importa, realizzali.

Il bene che fai

verrà domani dimenticato,

non importa, fa il bene.

L’onestà e la sincerità

ti rendono vulnerabile,

non importa, sii franco e onesto.

Quello che per anni hai costruito

può essere distrutto in un attimo,

non importa, costruisci.

Se aiuti la gente

se ne risentirà,

non importa, aiutala.

Dà al mondo il meglio di te

e ti prenderanno a calci,

non importa, dà il meglio di te.

(Calcuta, scritta sul muro casa dei bambini di Madre Teresa)

 

Il Padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte

A chi si è rivolto in verità con tutto il cuore a Dio si aprono le porte e il padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte. La vera conversione consiste nel non ricadere nelle stesse colpe, ma di estirpare completamente dall’anima i peccati per i quali sei giudicato meritevole di morte. Una volta eliminati questi, Dio ritornerà ad abitare in te, perché, come dice il Signore, grande e insuperabile è la gioia e la festa nei cieli per il Padre e per gli angeli quando un solo peccatore si converte e si pente (cfr. Lc 15,10). Perciò il Signore ha proclamato: «Misericordia voglio e non sacrificio (Os 6,6; Mt 9,12; 12,7); non voglio la morte del peccatore, ma la conversione (Ez 33,11); e se i vostri peccati fossero come lana scarlatta, li farò diventare bianchi come neve, e se fossero più neri della tenebra, li laverò e li farò diventare come lana bianca» (Is 1,18). Dio solo, infatti, può perdonare i peccati e non tener conto delle cadute. Anche a noi il Signore comanda di perdonare ogni giorno i fratelli che si pentono. E se noi, che siamo cattivi, sappiamo dare cose buone (cfr. Mt 7,11), quanto più il Padre delle misericordie, il Padre buono, «di ogni consolazione» (2Cor 1,3), pieno di tenerezza e di compassione sa pazientare. Egli aspetta quelli che si sono convertiti. Ora, la vera conversione è smettere di peccare e non guardarsi più indietro. Dio accorda il perdono dei peccati passati, mentre per ciò che riguarda il futuro ciascuno è responsabile di se stesso. Anche questo è pentirsi, riconoscere gli errori passati e chiedere al Padre di non ricordarli più. Lui solo può rendere non compiuti i peccati compiuti, cancellando con la misericordia che viene da lui e con la rugiada dello Spirito i peccati commessi in passato.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Quale ricco si salva? 39,2-40,1, GCS 3,185-186)

 

Sì, ma…

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo, continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione. Giorno e notte spero soltanto una cosa: che tu mi mostri la tua misericordia e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore. Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento, a una preghiera sincera e umile e a una generosità libera e spontanea. Vedo così chiaramente la strada da seguire! Comprendo così bene che mi è necessario venire a te. Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te; ma il mio cuore esita, il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro, vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…». O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami, che tu mi aspetti a braccia aperte? Come un padre con le lacrime agli occhi, tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai dato. Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a te. Solo quando verrò liberamente a te, quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli affanni e confesserò liberamente le mie vie sbagliate e chiederò liberamente misericordia, solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.

Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa, ascolta il mio desiderio di ritornare a te. Non lasciarmi solo nella mia lotta. Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto. Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

 

Aiutami a dire “sì”.

Ho paura a di “sì”, Signore.

Dove mi porterai?

Ho paura del “sì” che comporta altri “sì”.

Ho paura a mettere la mia mano nella tua;

perché tu possa stringerla […]

O, Signore, ho paura delle tue richieste,

ma chi può opporti resistenza?

Che venga il tuo regno, non il mio,

che sia fatta la tua volontà e non la mia,

Aiutami a dire “sì”».

(Michel QUOIST)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 55,6-9 

Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri. 

 

Siamo nell’ultimo capitolo del secondo Isaia (40-55), un profeta anonimo del tempo dell’esilio babilonese (VI sec. a. C.) i cui oracoli di consolazione sono stati aggiunti al libro di Isaia (VIII sec. a.C.). Il cap. 55 si conclude con una esortazione a cercare e invocare il Signore, la rinnovata promessa dell’alleanza e l’efficacia della parola di Dio.

     Nei versetti precedenti il nostro brano il profeta annuncia la nuova alleanza e la realizzazione delle promesse fatte a Davide, in un orizzonte universalistico che coinvolge i popoli e le nazioni: anche chi non conosce Israele accorrerà a rendergli onore a causa del Signore.

     L’oracolo si apre con il v. 6 che esorta gli esiliati a cercare il Signore, mentre è vicino e si fa trovare.

     È un tema caratteristico della profezia esilica quello della vicinanza del Signore, proprio in terra straniera, dove gli esuli temevano di averlo perduto. Gli ebrei avevano legato infatti la presenza del Signore al possesso della Terra, alla città santa e al Tempio: con la distruzione di quest’ultimo e la deportazione tutto sembrava compromesso, l’alleanza infranta e la salvezza irraggiungibile. Invece, proprio la condizione di smarrimento dell’esilio, assimilata dai profeti al deserto, è una condizione favorevole alla conversione e al ravvedimento.

     Il v. 7 invita ad abbandonare le vie e i pensieri iniqui e a ritornare al Signore: il verbo shûv indica la conversione, la metanoia. Il Signore avrà misericordia: la radice rhm indica le viscere materne del Signore che prova compassione per il popolo, senza che esso lo abbia in alcun modo meritato.

     Le «vie» e i «pensieri» ritornano al v. 8 per riaffermare con maggior forza la necessità della conversione: le vie e i pensieri degli uomini infatti (l’iniquo e l’empio del v. 7, ma anche tutto il popolo che si illude di essere nel giusto) non corrispondono alle vie e ai pensieri di Dio.

     La differenza sostanziale e la superiorità assoluta del progetto di Dio rispetto ai progetti umani sono pari alla distanza infinita tra terra e cielo (v. 9): non è semplicemente l’idea filosofica della trascendenza di Dio, ma la grandezza e la profondità del suo amore, della sua misericordia e del suo perdono, che l’uomo non riesce nemmeno a immaginare.

     L’efficacia della parola del Signore, che porta a compimento ciò che promette, viene riaffermata nei versetti seguenti.

 

Seconda lettura: Filippesi 1,20-24.27 

 Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.  Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.  Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

 

La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

     Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo (cf. l,14ss.).

     Paolo sviluppa in questi versetti un’audace e paradossale contabilità della sua missione apostolica.

     I vv. 20c-22 pongono il problema.

     La «partita doppia» tra sofferenze e pericoli della persecuzione e glorificazione di Cristo si chiude in pari, anzi in attivo: Cristo sarà glorificato, sia che l’apostolo venga liberato e viva, sia che subisca la condanna e muoia.

     La morte, infatti, rappresenta per Paolo un guadagno perché significa essere ricongiunti a Cristo, che è la vita vera. Il discorso sembrerebbe qui chiuso con l’aspirazione al martirio: ma Paolo vi oppone un argomento altruistico. Per sé, egli sceglierebbe il martirio; ma la vita al servizio dei fratelli e del vangelo può dare frutti alla Chiesa, allora ecco che la scelta si fa più difficile.

     I vv. 23-24, centrali nella pericope, propongono con chiarezza l’alternativa: morire in Cristo (espresso con il verbo analysai, come una liberazione) sarebbe il meglio, ed è il desiderio di Paolo; ma vivere è più necessario per i fratelli.

     Gli ultimi tre versetti (25-27) risolvono la questione indicando la scelta di Paolo: «continuerò a rimanere in mezzo a voi». Ne segue, logica conseguenza, l’esortazione ai Filippesi perché si rendano degni del vangelo di Cristo: questo è il solo «vanto» (kauchema) riconosciuto valido dall’apostolo.

     L’opposizione vita/morte si compone in Cristo, che sarà comunque glorificato dall’apostolo, sia con una morte testimoniale sia con una vita dedicata alla predicazione.

 

Vangelo: Matteo 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzo giorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Esegesi 

     Siamo nella sezione del vangelo di Matteo dedicata al cammino verso la Passione (capp. 16-20).

     La sezione si apre con la confessione di fede di Pietro — tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente (16,15) — e prosegue con i tre annunci della Passione (16,21; 16,22-23; 20,18-19). Poco prima dell’ultimo annuncio l’evangelista inserisce la parabola degli operai dell’ultima ora, incorniciata da due detti quasi identici sugli ultimi che saranno primi e i primi che saranno ultimi (19,30; 20,16). Il tutto è a sua volta incastonato fra due brani che riguardano il discepolato e pongono il problema della ricompensa (cf. il salario della parabola) e della gerarchia (cf. l’ordine di priorità fra gli operai della prima e dell’ultima ora). Il brano che precede è la domanda di Pietro sulla ricompensa che spetta a chi ha «lasciato tutto» per seguire Gesù, e la risposta di Gesù (19,27-29); segue immediatamente il terzo annuncio della Passione, e la richiesta della madre dei figli di Zebedeo sui posti da assegnare nel regno.

     Nella parabola si possono distinguere tre parti.

1) la prima (vv. 1-7) racconta ciò che succede durante il giorno. Si tratta della giornata lavorativa tipica nella società agricola palestinese del tempo, che durava «dai primi raggi del sole fino al sorgere delle stesse» (cf. Sl 103/104,22-23). La suddivisione in 12 ore quindi, nella stagione estiva, comporta una durata dell’ora lavorativa ben superiore ai 60 minuti. Si susseguono quattro brani sul padrone di casa che esce cinque volte a cercare operai per la sua vigna. Nei primi tre abbiamo una contrattazione in cui si pattuisce un salario («Si accordò con loro per un denaro», la paga giornaliera normale, cf. Tob 5,15; «quello che è giusto ve lo darò»; «fece altrettanto»). Nell’ultimo brano si riferisce nei particolari il dialogo, ma non si parla di salario.        

     Si crea così una sospensione e un’attesa: anche il lettore si aspetta che gli altri ricevano di meno. Ciò anche perché rimane inespresso il motivo per cui a sera sono ancora disoccupati: non c’era lavoro a sufficienza o erano pigri? dov’erano, quando il padrone era uscito all’alba, alla terza, alla sesta e alla nona ora?

2) Al centro, il v. 8 crea il collegamento tra la parabola e ciò che precede e che segue: abbiamo il rovesciamento tra gli ultimi e i primi (che anticipa la risposta ai figli di Zebedeo), l’ordine inverso nella paga (la ricompensa rivendicata da Pietro). Il tutto a opera del «Signore della vigna» (il «padrone di casa» dei vv. 1 e 11), chiara metafora del regno dei cieli.

     La tensione, già creata con il v. 7, viene qui accentuata. È insolito, anche se non impossibile, che si assumano operai al termine della giornata; ancor più insolito che si inizi da costoro il pagamento, costringendo chi ha faticato fin dall’alba ad attendere e rinviare così il momento del riposo. Tanto più che la Legge prescriveva di pagare senza indugio i lavoratori a giornata, che non avevano altro mezzo per provvedere al cibo per sé e per la famiglia: «gli darai il salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole» (Deut 24,15).

     A questo punto ci aspettiamo che possa seguire qualcosa di ancora più strano. Era necessario del resto quest’ordine inverso, perché così i primi assistono al pagamento degli ultimi e possono attendersi di ricevere di più (v. 10).

3) Nell’ultima parte vengono messi in parallelo gli ultimi e i primi (vv. 9-10): «e venuti quelli dell’undicesima ora…», «e venuti i primi…». In seguito si riferisce il dialogo: la domanda dei primi operai (vv. 11-12) e la risposta del padrone (vv. 13-15).

     Il padrone rivendica a sé la sovrana libertà di disporre del proprio come vuole. Un denaro non era solo la paga consueta, era anche il necessario per vivere: ebbene, la volontà del padrone della vigna è che ciascuno abbia il necessario per vivere (il pane quotidiano), indipendentemente dai propri meriti. Il problema nasce quando si fanno dei confronti, e ci si erge a giudici pretendendo che la giustizia del Signore segua i nostri criteri.

     Alcuni elementi colpiscono particolarmente, e portano a comprendere che non di equità sociale o di diritti sindacali vuol parlare l’evangelista.

     Il padrone della vigna sottolinea l’opposizione giusto/ingiusto: «quello che è giusto ve lo darò» (v. 4); «non sono ingiusto con te» (v. 13). Si tratta evidentemente di una strana giustizia: «la si perde se l’uomo la reclama per sé con leggerezza, come un suo diritto ovvio, confrontando il proprio curriculum con quello degli altri e non concentra così lo sguardo sulla bontà del Signore davanti alla quale tutto quello che egli ha fatto e meritato svanisce. Così proprio l’incomprensibile bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non vuole liberarsi dei suoi concetti umani di merito e giustizia» – (EDUARD SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 367).

     Il padrone, che nella prima parte della parabola appare tanto premuroso e generoso da uscire ben cinque volte alla ricerca di disoccupati cui offrire lavoro, si rivela subito dopo, se non ingiusto (è pur vero che rispetta i patti), quanto meno capriccioso e brusco («prendi il tuo e vattene», v. 14a). Il contrasto viene sciolto dall’ultima domanda che il padrone rivolge non a tutti gli operai, ma a uno, chiamandolo «amico»: rivolta perciò al lettore del vangelo, a ciascuno di noi personalmente, suona alla lettera: «o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». La cattiveria sta nell’occhio dei primi, come Caino verso Abele, i fratelli verso Giuseppe: «Gli operai della prima ora non vogliono riconoscere che è stato un dono essere stati assunti: certo, hanno lavorato dodici ore, ma solo grazie all’invito del padrone di casa. Come la vita è un dono, regalata dal Padre, senza alcun merito da parte di chi la riceve» (ROLAND MEYNET, Una nuova introduzione ai vangeli sinottici, EDB, 2001, p. 249).

 

Meditazione 

     La dichiarazione divina trasmessa dal profeta «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8) trova una esposizione narrativa nella parabola evangelica secondo la quale gli operai che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del padrone ricevono una paga identica a quella di coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Nello scandalo patito dagli operai della prima ora vi è tutta la distanza tra il pensare e l’agire di Dio e il pensare e l’agire degli uomini.

     Questa distanza non dice il capriccio di Dio o il suo arbitrio, ma la sua misericordia. Ciò che gli operai della prima ora contestano al padrone è infatti di aver dato la stessa ricompensa agli ultimi arrivati come a loro che avevano patito il peso dell’intero giorno di lavoro. Letteralmente essi dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12). Il fare agli ultimi come ai primi abbatte le discriminazioni e i privilegi. Il Dio biblico, infatti, è il Dio della grazia. Esprime bene questo primato della misericordia e della grazia sulle logiche giuridiche un brano della Catechesi sulla santa Pasqua dello Pseudo-Giovanni Crisostomo: «Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato fin dalla prima».

     Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è «giogo soave e leggero» e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione.

     La distanza tra pensieri di Dio e pensieri umani è importante da salvaguardare perché impedisce l’operazione perversa di identificare i propri pensieri umani con quelli di Dio. Questa affermazione contesta la presunzione religiosa che proietta in Dio le proprie azioni e i propri pensieri e identifica le proprie parole su Dio con Dio e la propria volontà con quella di Dio. L’istanza espressa dal profeta è un invito all’umiltà del pensiero, in particolare del pensiero teologico, del pensiero che osa «pensare Dio».

     Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi. E l’invidia è definita come avere «l’occhio cattivo» (Mt 20,15). L’etimologia è illuminante: invidere, significa «non vedere», «vedere contro», ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: «perché lui sì e io no?»; «perché a lui come a me che meritavo di più?». L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile.

     Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli: si entra in un rapporto giuridico padrone-servi, e si esce dalla solidarietà con gli altri operai, gli altri uomini.

     Male della vita comunitaria ed ecclesiale è la mormorazione (Mt 20,11). Mormorando, gli operai della prima ora affermano che il padrone non aveva il diritto di comportarsi come si è comportato. La mormorazione non è una parola personale chiara che esprime un dissenso leale, ma movimento sotterraneo che aggrega diverse persone che si fanno forza vicendevolmente con il loro malumore per poi esprimersi in accuse e lamentele. La sua logica è la complicità, non la responsabilità

 

Immagine della domenica


LA BIBLIOTECA DI DIO

Credo che in qualche punto dell’universo

 debba esserci un archivio

in cui sono conservate tutte le sofferenze

e gli atti di sacrificio dell’uomo.

Non esisterebbe giustizia divina

se la storia di un misero

 non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.

(Isaac Bashevis Singer)

 

Preghiere e racconti

 

Rattristati dalla felicità degli altri

È indiscutibile: noi siamo spesso rattristati dalla felicità degli altri. È uno degli aspetti del mistero del peccato, della ferita presente in ciascuno di noi, Vi sono persone che si rattristano quando vedono che gli altri si amano. Vi sono degli sventurati che non perdonano agli altri la loro giovinezza, la loro bellezza, la loro intelligenza. Vi sono nella Chiesa dei cristiani imbronciati e laboriosi che non perdonano a certi convertiti di essere stati soggiogati dalla grazia di Dio, apparentemente senza alcun sforzo e merito da parte loro… L’inizio della santità sarebbe riconoscere che, nonostante la disuguaglianza delle nostre vite, non ci manca nulla se Dio è con noi; e allora potremmo gioire della bontà di Dio che sembra amare maggiormente i nuovi arrivati nel suo amore.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio)

 

Lavorare nella vigna del Signore

Nella liturgia di oggi inizia la lettura della Lettera di San Paolo ai Filippesi, cioè ai membri della comunità che l’Apostolo stesso fondò nella città di Filippi, importante colonia romana in Macedonia, oggi Grecia settentrionale. Paolo giunse a Filippi durante il suo secondo viaggio missionario, provenendo dalla costa dell’Anatolia e attraversando il Mare Egeo. Fu quella la prima volta in cui il Vangelo giunse in Europa. Siamo intorno all’anno 50, dunque circa vent’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Eppure, nella Lettera ai Filippesi, è contenuto un inno a Cristo che già presenta una sintesi completa del suo mistero: incarnazione, kenosi, cioè umiliazione fino alla morte di croce, e glorificazione. Questo stesso mistero è diventato un tutt’uno con la vita dell’apostolo Paolo, che scrive questa lettera mentre si trova in prigione, in attesa di una sentenza di vita o di morte. Egli afferma: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). E’ un nuovo senso della vita, dell’esistenza umana, che consiste nella comunione con Gesù Cristo vivente; non solo con un personaggio storico, un maestro di saggezza, un leader religioso, ma con un uomo in cui abita personalmente Dio. La sua morte e risurrezione è la Buona Notizia che, partendo da Gerusalemme, è destinata a raggiungere tutti gli uomini e i popoli, e a trasformare dall’interno tutte le culture, aprendole alla verità fondamentale: Dio è amore, si è fatto uomo in Gesù e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del male donandole una speranza affidabile. San Paolo era un uomo che riassumeva in sé tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Non a caso Dio affidò a lui la missione di portare il Vangelo dall’Asia Minore alla Grecia e poi a Roma, gettando un ponte che avrebbe proiettato il Cristianesimo fino agli estremi confini della terra.

Oggi viviamo in un’epoca di nuova evangelizzazione. Vasti orizzonti si aprono all’annuncio del Vangelo, mentre regioni di antica tradizione cristiana sono chiamate a riscoprire la bellezza della fede. Protagonisti di questa missione sono uomini e donne che, come san Paolo, possono dire: “Per me vivere è Cristo”. Persone, famiglie, comunità che accettano di lavorare nella vigna del Signore, secondo l’immagine del Vangelo di questa domenica (cfr Mt 20,1-16). Operai umili e generosi, che non chiedono altra ricompensa se non quella di partecipare alla missione di Gesù e della Chiesa. “Se il vivere nel corpo – scrive ancora san Paolo – significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22): se l’unione piena con Cristo al di là della morte, o il servizio al suo corpo mistico in questa terra.

Cari amici, il Vangelo ha trasformato il mondo, e ancora lo sta trasformando, come un fiume che irriga un immenso campo.

(Benedetto XVI, Angelus, 18-09-2011).

 

Il tuo occhio è malvagio, perché io sono buono?

      La vigna sono i precetti e i comandi di Dio, il tempo della fatica, la vita presente; gli operai quelli che in modo diverso sono chiamati a compiere i precetti; quelli venuti al mattino, all’ora terza, alla sesta, alla nona e all’undicesima ora sono quelli che sono giunti [alla fede] in età diverse e si sono fatti onore. Ma ciò che è da indagare è se i primi, che si sono splendidamente distinti e sono stati graditi a Dio e che per tutto il giorno hanno brillato per le loro fatiche, si lasciano dominare da quel male estremo della malvagità che è dato dall’invidia e dalla gelosia.

Vedendo infatti che quelli avevano usufruito della stessa ricompensa, dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo» (Mt 20,12). E sebbene non ricevessero alcun danno e il loro compenso non fosse diminuito, si dispiacevano e si irritavano per i beni altrui, cosa che è propria dell’invidia e della gelosia. E il fatto più importante è che il padrone, che aveva preso le difese di quelli e si era giustificato dinanzi a chi aveva parlato in questi termini, lo condanna per la sua malvagità e la sua estrema invidia, dicendo: «Non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene! Io voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Forse il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?» (Mt 20,13-15). Che cosa si ricava da queste parole? Quella stessa cosa che possiamo vedere anche in altre parabole. Infatti il figlio stimato per la sua buona condotta viene presentato con gli stessi sentimenti quando vede che il fratello dissoluto riceve molti più onori di lui (cfr. Lc 15,28). Come quelli godettero di un bene maggiore ricevendo la ricompensa per primi, così anche quello veniva onorato di più per l’abbondanza dei doni e lo testimonia il figlio dalla buona condotta.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 64,3, PG 58,612-613).

 

Il ricco e il povero

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero. Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni. Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.” “Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto. “verso Oriente” rispose la donna, e scomparve.

Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità. E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé. “Mia cara, – disse il povero  sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me”.  La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.

Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.

Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato. “Non riceverai del denaro, – gli disse  ma tutto ciò che trovi scavando è tuo”.

Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro. Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza. Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce: “Mio signore, aprimi! Aprimi!”. Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse: “Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia”. Dopo di che scomparve. Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza  con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno. Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari. L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora. L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.

Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro. Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria. Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò. L’aperse subito. La Miseria  saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia.  “Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte”.

Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna. I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione. Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.

(da: Fiabe di Praga magica,  Arcana ed., 1993).

 

Quando sei chiamato, va’

Tu, quando sei chiamato, va’.

Sei chiamato a mezzogiorno? Va’ a quell’ora.

È vero che il padrone ti ha promesso un denaro anche se vai nella vigna all’ultima ora, ma nessuno ti ha promesso se vivrai fino alla prima ora del pomeriggio. Non dico fino all’ultima ora del giorno, ma fino alla prima ora dopo mezzogiorno.

Perché dunque ritardi a seguire chi ti chiama? Sei sicuro del compenso, è vero, ma non sai come andrà la giornata.

Vedi di non perdere, a causa del tuo differire, ciò che egli ti darà in base alla sua promessa.

(Agostino D’Ippona, Discorso 87, 6.8).

 

Non desiderare le cose altrui

“Se stai cercando di darti delle arie con chi sta in alto, scordatelo. Ti guarderanno dall’alto in basso comunque. E se stai cercando di darti delle arie con la gente che sta in basso, scordatelo lo stesso. Ti invidieranno e basta. Gli status-symbol non ti porteranno da nessuna parte. Solo un cuore sincero ti permetterà di stare alla pari con tutti.” […] “Fa’ il genere di cose che ti vengono dal cuore. Quando le farai, non ne resterai insoddisfatto, non sarai invidioso; non desidererai le cose altrui. Al contrario, sarai sommerso da quel che ti verrà in cambio.”

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 132-133).

 

Non andare via, Signore

Quando trovi chiusa la porta del mio cuore,

abbattila ed entra: non andare via, Signore.

Quando le corde della mia chitarra dimenticano il tuo nome,

ti prego, aspetta: non andare via, Signore.

Quando il tuo richiamo non rompe il mio torpore,

folgorami con il tuo dolore: non andare via, Signore.

Quando faccio sedere altri sul tuo trono,

o re della mia vita: non andare via, Signore.

(Rabindranath Tagore)

 

Il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Siracide 27,30-28,7

 Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati? Ricordati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.

 

  • È un brano di un sapiente che vuole trasmettere il suo ideale tradizionale di vita religiosa ad una comunità ebraica, che, sempre più affascinata dalla cultura greca, incominciava a secolarizzarsi.

Qui il sapiente insegna una legge fondamentale perché la famiglia e la comunità continui a rimanere in piedi: il perdono: «Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?» (v. 4). E tutto il testo è un alternarsi di presentazione del rancore e della vendetta, del perdono e della misericordia. Sono disapprovati il rancore e la vendetta, e lodati il perdono e la misericordia.

Il Signore tiene sempre presenti i peccati di colui che si vendica. Il motivo finale per aprirsi al perdono e alla misericordia è un evento divino: la sua alleanza. Il perdono gratuito ricevuto porta ad osservare i precetti del Signore, in particolare quello della riconciliazione con il fratello (vv. 8-9).

 

Seconda lettura: Romani 14,7-9

Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

 

  • Nella comunità dei credenti sono presenti due categorie di persone: i deboli e i forti. I deboli sono quelli rimasti attaccati alle antiche osservanze e tradizioni religiose giudaiche nelle quali erano stati educati, i forti invece sono coloro che giudicano male costoro, basandosi sulla libertà data dal vangelo. Ora Paolo dà le ragioni per cui egli — paladino della libertà evangelica — non vuole che questa diventi fonte di superiorità sugli altri. La ragione profonda dell’esistenza non si trova nell’uomo, ma nel Signore Gesù Cristo, per il quale viviamo, moriamo e agiamo.

Tutto deve quindi essere orientato verso Dio. La nostra vita e la nostra morte non hanno valore in sé, ma in quanto indirizzate a un fine più alto. Soprattutto dopo la morte e risurrezione di Cristo. Il cristiano appartiene a lui, non solo perché è stato in lui creato, ma anche perché è stato da lui conquistato e riscattato mediante la croce.

Perciò colui che vive non dovrà più vivere per se stesso, ma per colui che è morto e risorto per lui (cf. 2Cor 5.14-15).

 

Vangelo:Matteo 18,21-35 

 In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

Esegesi

La lettura parla del perdono reciproco, come elemento necessario per appartenere al regno di Dio. Innanzitutto vi troviamo l’interrogazione di Pietro: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (v. 21). Gesù aveva parlato poco prima di riguadagnare il fratello (v. 15). Questo avviene non solo quando la comunità offesa perdona al fratello, ma anche quando colui che è stato personalmente offeso perdona.

Pietro aveva capito che la volontà di Dio e quella di Gesù è un messaggio di perdono. Ma quali sono i limiti? I maestri del tempo giungevano fino a tre volte. Gesù è più misericordioso, e giunge a «settanta volte sette». Questo è contrario al tipico desiderio di vendetta di cui l’antico Lamech fu protagonista: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte». La misericordia di Dio supera infinitamente ogni desiderio di vendetta.

Per imprimere nel cuore degli ascoltatori questa volontà di perdono Gesù racconta una parabola in tre atti. Il primo atto vede un ministro, che ha un debito sproporzionato con il suo padrone o re: un talento valeva 35 chili d’oro, e il servitore ne doveva diecimila al suo padrone! Questi, però, gli perdona tutto, mosso da compassione. Dio infatti è «ricco di grazia e di misericordia… lento all’ira e grande nel perdono». Dio perdona sempre.

Il secondo atto mostra invece che il perdonato non sa perdonare un piccolo debito e non s’accorge nemmeno di essere stato supplicato con gli stessi suoi gesti. Il terzo atto: di fronte al cuore indurito, il re (Dio) si accende d’ira e fa giustizia. Si noti che non è il nostro perdonare che ci merita il perdono, ma la misericordia ricevuta ci apre il cuore a donare il perdono.

    

Meditazione

La richiesta di perdono a Dio è credibile se accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno: questa l’unità tra prima lettura e vangelo. Unità che possiamo ribadire con le parole del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello” (Mishnà, Yomà 8,9).

Pietro interroga Gesù sulla misura del perdono nei confronti dell’offesa personale (“se mio fratello pecca contro di me”: Mt 78,27), un’offesa a cui non segue il pentimento né la richiesta di perdono da parte dell’offensore. Nel testo parallelo di Luca si dice invece: “Se tuo fratello peccherà sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: “Mi pento”, tu gli perdonerai” (Lc17,4). In Matteo il perdono è incondizionato, non preparato da alcuna dichiarazione di pentimento. Questo perdono è possibile quando chi è chiamato a perdonare si ricorda del perdono immenso, incommensurabile che ha già ricevuto lui stesso in Cristo. In altre parole: ciascun cristiano si trova, nei confronti del proprio fratello, nella stessa situazione del servo a cui è stato condonato il debito inestinguibile.

Che venga condonato il debito immenso (cfr. Mt 18,27) significa che il perdono non può limitarsi a perdonare ciò che è scusabile, “i peccati veniali”, ma che esso è tale quando perdona ciò che potrebbe sembrare imperdonabile. Perdonare l’imperdonabile: anche questo sta all’interno della misura del perdono cristiano.

Nella parabola evangelica (cfr. Mt 18,23-35) il servo spietato unisce nel suo comportamento cattiveria e stupidità. Che forse è la trascrizione in termini quotidiani della distinzione teologica tra peccati deliberati e peccati per ignoranza. Non è forse anche stupido il servo che, dopo essersi visto condonare un debito immenso, si mostra senza pietà nei confronti dell’uomo che gli doveva una cifra infinitamente inferiore? Spesso il peccato è il frutto della congiunzione di cattiveria e stupidità, di malvagità e ignoranza. O anche: spesso il peccatore, tanto è pericoloso, tanto è ridicolo.

La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nell’unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con l’offensore con un atto di totale gratuità e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdano nel Cristo crocifisso: “Il Giusto, del quale a Pasqua si celebra la resurrezione, è colui che, asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a chi non lo domanda” (Francis Jacques).

Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi misconosce il perdono. È vittoria del bene sul male, è perdono del rifiuto del perdono, è evento pasquale.

Un aspetto non secondario della parabola matteana è la tristezza, il dolore dei compagni di servitù di fronte all’agire malvagio del servo che non ha pietà di colui che gli deve cento denari (v. 31). Lì non c’è spazio per il linguaggio del perdono, ma solo per lo sdegno e l’indignazione, per la ribellione di fronte all’ingiustizia che diviene coraggio della denuncia.

Vi è una giustizia del perdono che interviene quando il rapporto da bilaterale si apre a un terzo, come nel caso della parabola. Che il perdonato non perdoni a sua volta è un’ingiustizia che suscita la collera (v. 34), non la misericordia (v. 27). Se posso perdonare infinite volte il peccato contro di me, non ho l’autorità di perdonare il male che un altro fa a un terzo.

 

Immagine della domenica   


 

 

AMORE

Non temete il peccato degli uomini;

amate l’uomo anche nel suo peccato,

perché un tale amore

si avvicina all’amore di Dio.

(Fëdor Dostoevskij)

 

Preghiere e racconti

Come farsi perdonare?

Voi direte: E l’offesa, l’offesa che richiede il perdono? Certo esiste, ma il perdono è una cosa troppo grande per tirarlo indebitamente in ballo nel caso di tensioni legittime e tutto sommato benefiche.

Esiste quando appare quella realtà spaventosa e molto diffusa che è l’intolleranza, la quale genera la collera, il rancore e, anzitutto, il disprezzo degli altri. Esiste quando, invece di procedere insieme verso la verità delle nostre relazioni umane, anche a costo di rivedere continuamente le nostre idee, approfittando avidamente della luce proposta da altri, noi pretendiamo – a volte contro l’evidenza – di avere sempre ragione… Come perdonare allora? O come farsi perdonare? La risposta non è sempre facile, Ma una cosa è certa: che si offenda o si sia offesi, bisogna porsi, anzitutto, davanti a Dio. Che abbiamo fatto realmente del male a un’altra persona o che sia essa ad averci fatto del male…, spinti da quest’amore che ci libera dal male, sapremo preparare almeno le parole e i gesti che riconciliano.

(A.M. Carré, Per amore del tuo amore, Dio e gli altri)

 

La legge delle Settanta volte

Quando la Roccia (Pietro) Ti ha chiesto

quante volte doveva perdonare al suo fratello,

Tu non hai detto: “Sette volte”,

ma “quattrocentonovanta volte”!

In questo numero sono contenuti gli anni della nostra vita terrena,

dei sette periodi della nostra vita effimera:

per tutto il tempo che siamo in questo corpo

bisogna perdonare a chi si pente.

E, pur essendo stato l’ultimo

a non perdonare al debitore,

a causa della natura inferma della mia anima,

e ad essere imperfetto nel bene,

si realizzi in me, grazie a Te,

la parola del tuo comandamento, che mi è stato imposto;

voglia Tu perdonare le mie colpe, debiti verso di Te,

che sono più numerose della sabbia del mare.

La legge delle Settanta volte,

non sia solo a mia misura, a misura di me povero,

ma ancor più si rafforzi la tua legge,

secondo la tua misericordia che non si conta.

(Narsete Shnorhali, Gesù, Figlio unigenito del Padre)

 

Dimenticare è perdonare

Abele e Caino si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero il fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra, e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più. Stiamo qui insieme come prima». «Ora so che mi hai perdonato davvero, disse Caino, perché dimenticare è perdonare». Abele disse lentamente: «È così, finché dura il rimorso dura la colpa».

(Jorge L. Borges)

 

«Ritieni quello un santo e chiedigli di pregare per te»

A volte si giunge a dei testi come il seguente tratto dalla Catechesi 18 di Simeone il Nuovo Teologo:

«Se vivi in comunità in mezzo ai fratelli, non opporti mai al padre che ti ha dato la tonsura, anche se lo vedi abbandonarsi alla lussuria o all’ubriachezza e se ti sembra che sovrintenda malamente al monastero, se sei percosso o disprezzato da lui e sei sottoposto a molte afflizioni. Non unirti a coloro che lo insultano, non andare con quelli che tramano contro di lui.

Sopportalo fino alla fine, senza impicciarti nelle sue malefatte. Conserva nel tuo cuore tutto il bene che gli vedi fare e sforzati di ricordare solo questo; tutte le cose sconvenienti e cattive che gli vedi fare e dire, imputale a te stesso, considerale come tuoi peccati e pentiti fra le lacrime; ritieni quello un santo e chiedigli di pregare per te».

 (SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi 18, 132-145, in SYMÉON LE NOUVEAU THÉOLOGIEN, Catéchèses II, intr. e testo critico a cura di Basil Krivochéine, trad. it. di Joseph Paramelle, SC 104, Editions du Cerf, Paris 1964, p. 277).

 

Lo scorpione

Un monaco si era seduto a meditare sulla riva di un ruscello. Quando aprì gli occhi, vide uno scorpione che era caduto nell’acqua e lottava disperatamente per stare a galla e sopravvivere. Pieno di compassione, il monaco immerse la mano nell’acqua, afferrò lo scorpione e lo posò in salvo sulla riva. L’insetto per ricompensa si rivoltò di scatto e lo punse provocandogli un forte dolore. Il monaco tornò a meditare, ma quando riaprì gli occhi, vide che lo scorpione era di nuovo caduto in acqua e si dibatteva con tutte le sue forze. Per la seconda volta lo salvò e anche questa volta lo scorpione punse il suo salvatore fino a farlo urlare per il dolore. La stessa cosa accadde una terza volta. E il monaco aveva le lacrime agli occhi per il tormento provocato dalle crudeli punture alla mano. Un contadino che aveva assistito alla scena esclamò: «Perché ti ostini ad aiutare quella miserabile creatura che invece di ringraziarti ti fa solo male?». «Perché seguiamo entrambi la nostra natura» rispose il monaco. «Lo scorpione è fatto per pungere e io sono fatto per essere misericordioso».

 

Racconti

Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.

Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare. Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.

 

Il perdono di Dio e il perdono dell’uomo

Raccontando le tre parabole della misericordia, Gesù intende mostrare che la sua accoglienza dei peccatori non è soltanto conforme alla volontà di Dio, ma è la rivelazione del volto di Dio. Il comportamento di Gesù è rivelazione, non solo obbedienza. Con la sua accoglienza Gesù rivela chi è Dio: ama i peccatori, li attende, li cerca e gioisce del loro ritorno. Di più. L’accoglienza dei peccatori da parte di Gesù non soltanto è la trasparenza del perdono di Dio, ma è la trasparenza della gioia del perdono di Dio. Dio gioisce nel perdono. Il tratto sottolineato in tutte e tre le parabole è proprio la gioia di Dio.

E vero che si parla anche di conversione del peccatore, ma l’attenzione si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore. Nulla o quasi sulle azioni del peccatore che si converte. Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare. La conversione del peccatore è vista dalla parte di Dio. Si racconta ciò che Dio fa (cerca e gioisce), non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo. La domanda teologica (come si comporta Dio?) viene prima della domanda morale (che cosa deve fare l’uomo per ritornare a Dio?). La gratuità del perdono non poteva essere illustrata meglio. La simpatia di Dio e il suo amore per il peccatore, precedono la conversione del peccatore. Dio ama il peccatore già prima, non solo dopo che si è convertito. E proprio questo amore previo, del tutto gratuito, che tocca il cuore del peccatore e lo converte. Ci si converte perché amati. Ci si converte perché perdonati.

Il pastore va in cerca della pecore smarrita – l’iniziativa della ricerca è soltanto sua – perché questa pecora continua ad essere preziosa ai suoi occhi. E il padre non cessa di amare il figlio che si è allontanato e continua ad attenderlo. Quando lo vede da lontano, gli corre incontro e lo abbraccia. Il figlio non ha ancora detto le parole che ha pensato da dire al padre, che immagina irato. E anche quando il figlio dice le parole che chiedono perdono, è come se al padre queste parole non importassero. La sua fretta è di accogliere, gioire, far festa. Le parole del figlio sembrano completamente sullo sfondo, quasi inutili.

E questo il vero volto di Dio, il volto di un padre e basta, che Gesù ha inteso rivelare con la sua incondizionata accoglienza dei peccatori.

Ma non possiamo fermarci qui. Lo stesso vangelo ci dice che il perdono ricevuto da Dio deve diventare un perdono che si prolunga ai fratelli: un perdono gratuito come quello di Dio, gioioso come quello di Dio. Il come è importante e difatti nella gioia di perdonare i fratelli l’uomo sperimenta la gioia del perdono ricevuto da Dio.

Certamente il perdono ai fratelli non è la ragione, la condizione e la misura del perdono di Dio. Tuttavia il legame è stretto e decisivo: il perdono ai fratelli è infatti il segno che si è davvero capito il perdono di Dio e lo si è veramente accolto.

Nella parabola di Matteo 18,21-35 questo è affermato con chiarezza. Il servo, così generosamente perdonato dal suo padrone, incontra un collega che gli deve pochi denari. Questi lo supplica, gli chiede un rinvio, ma il servo prima perdonato non vuole sentire ragioni, non si muove a compassione, esige il pagamento subito fino all’ultimo. Come è possibile, dopo aver ricevuto un tale condono, non essere capaci, a propria volta, di un piccolo condono? È inconcepibile! Evidentemente il servo perdonato non ha compreso la fortuna che gli è capitata. Il perdono ricevuto non lo ha rigenerato, ne l’incontro con la gratuità di Dio gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere perdonati significa entrare in un modo nuovo di rapportarsi, nel quale i criteri dello stretto dovuto non sono più sufficienti.

Ma anche qui c’è una novità da non perdere: persino il perdono di Dio – e in generale il suo giudizio – è anche nelle nostre mani. Dio prende molto sul serio la nostra libertà. La gratuità del suo amore non è mai – ne potrebbe essere – senza la risposta della nostra libertà. La sorprendente novità evangelica è che la risposta al perdono di Dio sia il nostro perdono ai fratelli, non anzitutto qualcosa per Lui!

Ci si permetta di insistere. Matteo (5,44) e Luca (6,27-35) collocano l’imperativo del perdono ai nemici in un discorso in cui intendono sottolineare la differenza (la vera differenza) fra il cristiano e il mondo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a rinchiudere anche il «più lontano»: chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore.

Siamo convinti di dire cose sorprendentemente paradossali. Ma si tratta del Vangelo. E poi, se si guardano le cose più attentamente, si può anche intuire che il perdono è paradossale, ma anche necessario per la convivenza, a ogni livello: nelle relazioni familiari, nelle relazioni amicali, nella società. Addirittura nelle relazioni fra i popoli.

Senza un minimo di riconciliazione il mondo non sta in piedi. Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi.

Editoriale, in «Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 2, 83-85.  

 

«Abbi sempre misericordia di tali fratelli»

San Francesco d’Assisi, in una commovente lettera ad un ministro/ superiore, dava le seguenti istruzioni circa eventuali debolezze personali dei suoi frati: «E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli»

(Francesco d’Assisi, Lettera a un Ministro, 7-10).

 

Preghiera 

Perdonami, Signore Gesù: ancora oggi ho avuto paura del rifiuto e dello scherno. Non

ce l’ho fatta a seguirti nella tua strada e sono sceso a patti con i criteri che, in questo mondo, fanno stare dalla parte dei vincenti.

Tu hai scelto l’amore e sei stato deriso, non creduto, infine ucciso. Mai hai smesso di amare e di dimostrare amore: quello che dicevi, lo mettevi in pratica. Sei stato uno sconfitto per le cronache mandane; ma nel silenzio di un’aurora di primavera, sei risorto da morte. L’amore, ci hai detto, è l’unica salvezza, e credere in te sconfigge ogni sopruso, ogni tirannico egoismo.

Perdonami, Signore Gesù, quando solo a parole dico la mia fede, quando mi rifugio nel nascondiglio del ‘così fan tutti’ invece di gustare gli spazi aperti delle tue vie, lungo le quali si sperimenta la gioia di dare la vita per i fratelli.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A) 

CURRICOLO di EDUCAZIONE e RELIGIONE

Importante riconoscimento da parte della CEI per il curricolo di EDUCAZIONE e RELIGIONE

lo scorso 8 giugno Sua Eminenza il Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 4.2.3 dell’Intesa del 28 giugno 2012 (D.P.R. 175/2012), ha comunicato alla Senatrice Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, l’elenco delle Discipline ecclesiastiche e l’elenco delle Facoltà e degli Istituti abilitati a rilasciare i titoli di studio che costituiscono qualificazione professionale per l’insegnamento della religione cattolica in tutte le  scuole pubbliche italiane. 

 
ELENCO DELLE FACOLTÀ E DEGLI ISTITUTI  ABILITATI A RILASCIARE TITOLI DI STUDIO
 
che, ai sensi dell’Intesa del 28.06.2012 (art. 4.2.3) tra il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e la Conferenza Episcopale Italiana,  costituiscono qualificazione professionale
 
PER L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA  NELLE SCUOLE PUBBLICHE

 
 Si allega il documento ufficiale e il depliant

DEPLIANT EDUCAZIONE E RELIGIONE

Lettera-di-presentazione-degli-Elenchi

 

(+39) 06.87290202 / o6.87290651

 

Il Nuovo Curricolo prevede tre cicli:

¡ Baccalaureato in Scienze dell’Educazione, con indirizzo in «Educazione Religiosa»:

Ciclo universitario di tre anni, caratterizzato da 180 Ects, al termine del quale viene conseguito il primo titolo accademico o Baccalaureato.

¡ Licenza in Scienze dell’Educazione, con specializzazione in «Educazione e Religione»:

Ciclo universitario di due anni comprendente 120 Ects, al termine del quale viene conseguito il secondo titolo accademico o Licenza.

¡ Dottorato in Scienze dell’Educazione, con specializzazione in «Educazione e Religione»:

Ciclo universitario al termine del quale viene conseguito il terzo titolo accademico  o Dottorato.

 

L’Università Pontificia Salesiana – attraverso la Facoltà di Scienze dell’Educazione e, in particolare, dell’Istituto di Catechetica – cerca di essere attenta a cogliere le novità e le tendenze della domanda religiosa e a tradurla in itinerari e prospettive formative.

Nel contesto attuale è opportuno proporre un curricolo formativo orientato prioritariamente alla preparazione di professori per l’insegnamento della religione cattolica, secondo l’intesa firmata il 28 giugno tra il «MIUR» e la «CEI».

 

Primo Ciclo

Baccalaureato in Scienze dell’Educazione, indirizzo «Educazione Religiosa»

Profilo

Intende preparare persone che maturano una competenza professionale nell’ambito della scuola e della comunità cristiana, competenti cioè per operare in ambito pedagogico, catechetico e pastorale, sia gestendo direttamente momenti di formazione, sia preparando e organizzando tali momenti.

In particolare, il curricolo si articola in percorsi per la preparazione di «Operatori nell’ambito della scuola e della pastorale scolastica» ed «Educatori e Animatori nelle comunità cristiane e negli organismi ecclesiali».

Ammissione e competenze

Il Baccalaureato in Scienze dell’Educazione con indirizzo in «Educazione religiosa» ha la durata di sei semestri; per l’iscrizione si richiede il «Diploma di maturità»; si conclude con l’esame di Baccalaureato o Laurea e possono essere riconosciuti corsi fino a 4 semestri con accreditamenti opportunamente valutati.

Il corso fornisce competenze didattiche adeguate, fondate sulla conoscenza delle discipline biblico-teologiche, filosofiche e storico-giuridiche, di indirizzo didattico e pastorale; una adeguata padronanza dei metodi che riguardano l’educazione religiosa e, al contempo, le competenze comunicative richieste per l’interazione educativa, sia a livello individuale che istituzionale, e per applicare correttamente i criteri con cui riflettere criticamente sulle credenze, sui valori, sulle tradizioni religiose e culturali  proprie e altrui, così come la capacità di realizzare interventi educativi in stile cooperativo e dialogico nell’ambito della scuola e della comunità..

Articolazione del curricolo (180 Ects)

Attività di base (30 ECTS)

Filosofia dell’Educazione

Storia dell’educazione e della pedagogia

Pedagogia generale

Psicologia dello sviluppo

Pedagogia interculturale

Teologia dell’Evangelizzazione

 

Attività caratterizzanti (38 ECTS)

Antropologia e comunicazione (oppure Introduzione alle scienze della comunicazione)

Ermeneutica dell’esperienza religiosa

Filosofia del linguaggio

Didattica generale

Pedagogia della Scuola

Storia delle religioni

Educazione e Scienze della religione

Scuola cattolica

 

Attività integrative (87 ECTS)

Psicologia generale

Metodologia del lavoro scientifico

Sociologia generale (oppure Sociologia dell’educazione)

Filosofia

Introduzione alla filosofia

Filosofia teoretica

Filosofia morale

Antropologia filosofica

Storia della filosofia moderna

Storia della filosofia contemporanea

Scrittura

Introduzione alla Sacra Scrittura (oppure Educazione e fonti bibliche)

Pentateuco e Libri storici

AT – Libri profetici

AT – Libri sapienziali e Salmi

NT – Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli

NT – Vangelo di Giovanni e Lettere giovannee

NT – Lettere apostoliche

Teologia

Introduzione alla Teologia

Patristica

Teologia fondamentale

Mistero di Dio

Cristologia

Ecclesiologia ed Ecumenismo (oppure Ecclesiologia)

Mariologia

Sacramenti in genere, Battesimo, Confermazione

Sacramenti: Eucaristia, Ordine e Ministeri (oppure Nozioni fondamentali di Liturgia, Anno Liturgico, Liturgia delle Ore)

Teologia morale fondamentale

Diritto Canonico

Introduzione alla Teologia spirituale

Altre attività

Lavoratori e attività a scelta dello studente (10 ECTS)

Lingua straniera (5 ECTS)

Prova finale (10 ECTS)

 

Secondo Ciclo

Licenza  in Scienze dell’Educazione, specializzazione in «Educazione e Religione»

Profilo

Intende preparare persone competenti, capaci di operare nell’ambito dell’insegnamento della religione cattolica, abilitate a organizzare, gestire e promuovere le attività che riguardano la religione nella scuola e nella comunità.

In particolare, questo curricolo si articola in percorsi per la preparazione di quadri dirigenti ed esperti per settori specifici dell’attività ecclesiale, al servizio della scuola e della comunità cristiana:

Docenti di Insegnamento della Religione cattolica; Educatori nelle comunità cristiane e negli organismi ecclesiali; Dirigenti e Coordinatori a livello ecclesiale presso Uffici Scuola e Servizio dell’Insegnamento della Religione cattolica; Formatori di insegnanti di religione, di cultura religiosa; Esperti di pastorale scolastica; Ricercatori e consulenti a livello superiore, di scienze religiose e di cultura religiosa (centri di studio, attività editoriale e multimediale).

Ammissione e competenze

La Licenza in Scienze dell’Educazione, con specializzazione in «Educazione e Religione» ha la durata di quattro semestri e presuppone l’acquisizione del Baccalaureato in Scienze del­l’Educazione con indirizzo in «Educazione Religiosa» (o di altro titolo riconosciuto equivalente, con accreditamenti opportunamente valutati). Si conclude con l’esame di Licenza.

Il fornisce le conoscenze e le competenze necessarie per l’elaborazione di progetti e itinerari formativi di cultura religioso-cristiana in dialogo con la realtà multiculturale e multireligiosa: capacità di utilizzare le conoscenze nell’ambito dell’insegnamento religioso nella Chiesa con le loro fasi, i dinamismi, i contenuti, le metodologie che gli sono propri; capacità di analizzare, interpretare e orientare i processi dell’insegnamento religioso nell’ambito della scuola; capacità di applicare correttamente i criteri, di utilizzare le metodologie appropriate, di progettare e coordinare iniziative di pastorale scolastica. 

Articolazione del curricolo (120 Ects) 

Attività di base (36 ECTS)

Evangelizzazione e contesti culturali

Catechetica fondamentale

Teologia pratica generale

Teologia dell’educazione

Psicologia ed educazione religiosa (oppure Psicologia della religione)

Sociologia della religione

Educazione e pluralismo religioso-culturale

Attività caratterizzanti (40 ECTS)

Didattica dell’insegnamento della religione cattolica

Pastorale scolastica e universitaria

Formazione degli insegnanti di Religione

Legislazione e organizzazione scolastica ecclesiale (oppure Legislazione e organizzazione scolastica)

Deontologia professionale nelle istituzioni scolastiche

Dialogo interculturale e interreligioso

Laboratori e seminari

Due a scelta tra quelli indicati nella programmazione didattica

L/S di Pastorale scolastica

Seminario sulla dimensione religiosa nell’educazione

Seminario di Pedagogia religiosa

L/S di progettazione educativa

Attività integrative e a libera scelta (14 ECTS)

Metodologia della ricerca pedagogica

Filosofia della religione

Teologia della religione

CM sulla scuola cattolica

Metodi di insegnamento

Storia della Scuola

Sistema preventivo (oppure Pedagogia salesiana)

Pedagogia religiosa dei portatori di handicap

Sociologia della gioventù

Valutazione dell’insegnamento nella scuola

Tecnologie educative

CM di pastorale e catechesi biblica

Pedagogia familiare (oppure Psicologia della Famiglia)

Pastorale e catechesi familiare

Internet, insegnamento e apprendimento

Teorie e tecniche della dinamica di gruppo

Fede e cultura

Relazione tra fede e ragione

Bioetica

Ecologia

Altre attività

Tirocinio di metodologia nell’insegnamento della religione (10 ECTS)

Tesi (20 ECTS)

Curricolo strutturato in base all’intesa «MIUR–CEI» per i Docenti di Religione Cattolica 


 

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Ezechiele 33,1.7-9 

 Mi fu rivolta questa parola del Signore: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.  Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.  Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu sarai salvato».

 

  • Se il Vangelo c’invita a essere custodi gli uni degli altri, a sua volta il testo del profeta Ezechiele indica nell’immagine della sentinella la caratterizzazione del proprio ruolo. Tale immagine, naturale in un contesto militare e in cui la guerra ha un posto importante nella vita quotidiana, come in una civiltà nella quale le mura della città erano appunto custodite da sentinelle, era immediatamente percepibile: la sentinella ha il compito di avvertire il popolo appena avvista il pericolo. Il profeta, da parte sua, non avvista i pur notevoli pericoli di eserciti nemici, bensì quelli ancora più insidiosi dell’allontanamento da Dio, dalla sua legge.

         Ciò che, però, il profeta Ezechiele afferma si rivela sorprendente perché egli non sarà sentinella nel senso che, avendo visto l’empio agire male, lo riprende di sua iniziativa. Al contrario, dovrà seguire un criterio ben preciso e determinato: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (33,7). Dunque, è Dio stesso che si preoccuperà di dare l’«allarme» alla sentinella-profeta! Dio, cioè, si renderà garante dell’oggettività del richiamo, che ha il solo scopo di conseguire la salvezza dell’empio, la cui vita, davanti agli occhi di Dio, non ha meno valore di quella del giusto, essendo Egli il creatore dell’una come dell’altra: «Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (33,8).

         Il profeta risulta perciò responsabile in caso di omissione del compito che Dio gli ha affidato: anche la vita dell’empio appartiene al Signore ed Egli non vuole certo sciuparla, perderla. Tuttavia, l’empio, da parte sua, conserva la responsabilità sulla propria vita e sul suo esito, qualora si ostini a non convertirsi: «Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (33,9). Si tratta del famoso principio della responsabilità personale, secondo il quale le colpe personali ricadono soltanto su chi le ha commesse. Di questo l’empio dev’essere altamente consapevole, sapendo comprendere e scorgere nel richiamo del profeta-sentinella l’occasione per approfittare dell’offerta di misericordia da parte di Dio.

 

Seconda lettura: Romani 13,8-10

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».  La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.

 

  • Fungere da sentinella, avvertendo con saggezza unita a fermezza circa i pericoli di determinati comportamenti, non è un compito tra i più gratificanti nell’ambito di una comunità, grande o piccola che sia. Bene lo sapevano i profeti dell’antichità come pure i profeti di oggi. Non si può negare, però, che anche questo rappresenti un vero servizio d’amore a vantaggio di un’umanità spesso disorientata. Ed è proprio sull’amore che l’apostolo Paolo invita a riflettere, insistendo su un particolare di non poco conto: l’osservanza della legge. Infatti, contrariamente a chi lo dipinge come abrogatore della legge, Paolo intende incoraggiare i cristiani di Roma a realizzare il fine proprio della legge, ossia l’amore.

         Esaminando i tre versetti del brano, iniziamo dalla prima affermazione, la cui formulazione può sembrare un po’ strana: «non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (13,8). Paolo ritiene che, se dev’esserci una qualche obbligazione tra fratelli di una comunità, questa non può che essere l’agape, l’amore, di cui ha già parlato abbondantemente in 12,9-21, esortando a essere sinceri nella carità e a non rendere a nessuno male per male, bensì a vincere il male con il bene.

         Nel versetto 9, poi, citando esplicitamente alcuni dei precetti mosaici e richiamando allusivamente gli altri, tira una conclusione che ben conosciamo, essendo tipica anche di altri passi del Nuovo Testamento, in particolare del Vangelo (Mc 12,28-31; Mt 22,34-40; Lc 10,25-28; Gv 13,34-35): «Infatti: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai”, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”». I tanti precetti della legge, cioè, in chi è giunto alla maturità della fede e dell’amore verso Dio, si rivelano riassumibili nel precetto dell’amore per il prossimo, il quale non ha bisogno di vietare, ma al contrario di spingere a fare di più per i fratelli. D’altronde, l’amore rende il cristiano più capace di vedere i bisogni di chi è il suo prossimo, non raramente anche di prevenirli.

         Infine, con il v. 10 si chiude la breve riflessione, ribadendo il rapporto tra amore e compimento della legge: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità». È utile sottolineare che quanto dice Paolo non costituisce una semplice parenesi, quasi un appello ai buoni sentimenti, ma un ritrovare nel nucleo stesso della rivelazione (la legge) le motivazioni profonde che insegnano l’agire di Dio agli uomini.

         La legge, quindi, secondo l’insegnamento paolino (cf. Romani e Galati), rimane efficace e necessario pedagogo che conduce a Cristo, giacché, in ultima analisi, colui che compie la legge si mette sulla medesima scia segnata dal Figlio di Dio, che ha interpretato la sua morte in croce come compimento della legge nell’amore. Una scia che porta alla croce, in quanto l’amore significa comunque rinunciare a se stessi per far posto a Dio e imitare la vita del Figlio.

 

Vangelo: Matteo 18,15-20

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

 

Esegesi 

     Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, rispondendo alla domanda riguardo ai fondamenti della vita di una comunità, ne presenta due di non trascurabile valore: la correzione fraterna e la preghiera in comune.

     Iniziamo dalla correzione fraterna, che viene esposta dall’evangelista in maniera abbastanza giuridica, come si deduce dal tipo di ragionamento seguito: a) v. 15, ossia la correzione in privato: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»; b) v. 16, la correzione in presenza di testimoni «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»; c) v. 17, correzione davanti all’assemblea come extrema ratio, prima dell’espulsione: «Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

     In realtà, tra i vari riferimenti del Nuovo Testamento alla correzione (Mt 7,4; Lc 6,41-42; Gal 6,1; 2Ts 3,15; 1Tm 5,l; 2Tm 2,25; Tt 3.10; Gc 5,19-20), questo di Matteo è il più preciso, ma è anche quello che si rivela subito, allo stato dei fatti, il più irrealizzabile, se non nel contesto limitato di comunità come Qumran (presso la quale esisteva una disciplina precisa in proposito) e, successivamente, quelle monastiche (si pensi al capitolo delle colpe). Può darsi che nella comunità dell’evangelista, di carattere giudeocristiano, si agisse in questo modo, poiché tale prassi risente della tradizione biblica. Infatti, 18,16 cita esplicitamente Dt 19,15, mentre il concetto generale della correzione fraterna si trova in Lv 19,17: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui».

     Pur coscienti della problematicità storica di tale prassi nelle comunità antiche, non si può negare un dato: ogni membro della comunità si sente un po’ responsabile di chi gli sta a fianco, il che vuol dire che, per la salvezza del fratello e il buon nome della comunità stessa, egli ritiene proprio dovere intervenire nella correzione. Questa, poi, può addirittura giungere all’estremo dell’espulsione nei casi di perdurante ostinazione da parte di chi è stato corretto. Per confermare questo tipo di «potere» da parte della comunità. Gesù dice: «In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (18,18). Anche Dio accetta la decisione che la comunità, dopo aver attentamente ponderato ed esplorato ogni possibile strada di correzione, consideri non più discepolo l’ostinato e lo affidi alla misericordia divina affinché lo faccia ritornare sui propri passi.

     L’altro fondamento, quello della preghiera in comune, è strettamente legato a quanto abbiamo detto finora: soltanto una comunità che sa riunirsi nella concordia della preghiera e della professione di fede in Gesù Cristo può intercedere per coloro che hanno voltato le spalle al vero pastore dell’umanità. Anzi, ancora più radicalmente, il Vangelo afferma che basta essere in due, che, in accordo, possono chiedere qualsiasi cosa al Padre, perché egli la conceda. E quale cosa migliore si può chiedere al Padre se non che nessuno si perda di quelli che Egli ha chiamato?

Quando tutte le altre metodologie falliscono, non rimane che implorare dal Padre il suo onnipotente intervento per raddrizzare ciò che ha preso una cattiva piega.

    

Meditazione 

     La fede in Dio diviene responsabilità verso il fratello e questa si declina come ammonizione e correzione del fratello: questo il messaggio che unisce prima lettura e vangelo. La correzione fraterna richiede un profondo senso di fede. Questo emerge dalle parole di Gesù secondo le quali essa deve esercitarsi nei confronti di chi «ha peccato», commettendo una colpa pubblica, non diretta in modo particolare contro l’altro. Il testo non dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te». In quel caso, rivelerà Gesù, vi è il perdono senza misura (Mt 18,21-22).

La maturità di fede consiste nel sentirsi feriti dal peccato in quanto tale, non soltanto dall’offesa personale.

La correzione fraterna si oppone al silenzio complice, alla pigrizia di chi non vuole inimicarsi l’altro, ai meccanismi di autogiustificazione sempre pronti a trovare buoni motivi per non intervenire e non denunciare il male là dove è commesso. A livello ecclesiale la correzione corrisponde a una parola audace e profetica pronunciata a qualunque prezzo, perché di mezzo c’è il vangelo. Uno dei più frequenti peccati di omissione è il sottrarsi alla denuncia del male e del peccato, è il sottrarsi alla correzione fraterna.

     La capacità di correzione dice la libertà del credente. E anche la sua obbedienza radicale al vangelo e la sua appartenenza al Signore. L’autenticità dell’amore sgorgato dal vangelo si manifesta nella capacità di correggere colui che si ama. L’amore «spirituale», non psichico, vince la tentazione di tacere il peccato commesso dall’amico per timore di perderne l’amicizia. La correzione fraterna dice che l’amore cristiano deve essere vissuto all’interno della responsabilità per gli altri e per il mondo.

     La correzione fraterna va colta anche dal punto di vista di chi la riceve, che è sempre un fratello, un membro della comunità cristiana. Occorre molta umiltà e disponibilità a ricredersi e a ricominciare. L’autentica correzione fraterna non è un giudizio, e ancor meno una condanna, ma un evento sacramentale che fa regnare Cristo come terzo tra chi la esercita e chi la riceve. Essa richiede il coraggio della parola: coraggio che può nascere solo radicando la propria parola nella parola evangelica.

     I tre «gradi» del processo disciplinare nei confronti di chi ha peccato nella chiesa (Mt 18,15-17) indicano quantomeno imprudenza e la gradualità in cui si svolge il tentativo di accordare l’istanza evangelica con il rispetto del fratello peccatore al fine di recuperarlo. L’orizzonte della correzione è infatti quello espresso dal profeta Ezechiele, secondo cui Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11).

     La scomunica (Mt 18,17) appare come extrema ratio. E certamente la prassi storica delle comunità potrà e dovrà creare e inventare forme di intervento che cerchino in ogni modo di evitare l’allontanamento di un fratello. Impressiona, nella Regola di san Benedetto, la procedura prevista nei confronti di un fratello peccatore: «L’abate si comporti come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e, da ultimo, il cauterio dell’esclusione o delle battiture della verga, se vede che tutto il suo darsi da fare non serve a nulla, allora ricorra a ciò che è ancor più efficace: la preghiera sua e di tutti i fratelli per lui, affinché il Signore, che tutto può, operi la guarigione del fratello malato» (28,2-5).

     L’estensione ai membri della comunità, o almeno ai suoi responsabili, del potere di «sciogliere e legare», riservato al solo Pietro in Mt 16,19, dice l’importanza della corresponsabilità nell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. E ribadisce un principio importante della prassi sinodale: «Ciò che nel corpo ecclesiale concerne tutti, deve essere discusso e approvato da tutti».

     Se nella Chiesa vi è divisione e peccato, essa però trova la sua unità nel Nome del Signore: lì, fosse ben tra due o tre credenti, perché mai nel Nuovo Testamento la Chiesa dipende dal numero, si può creare la sinfonia (vb. symphonéo: v. 19) gradita al Signore e da lui ascoltata.

 

Immagine della domenica


CORREZIONE CON AMORE

«Rabbi Aronne arrivò un giorno nella città in cui cresceva il piccolo Mardocheo, il futuro Rabbi di Lechowitz. Il padre di questi gli condusse il ragazzo e si lamentò che non avesse costanza nello studio. “Lasciatemelo qui un poco”, disse Rabbi Aronne. Quando fu solo con il piccolo Mardocheo, strinse il bambino al suo cuore e in silenzio ve lo tenne vicino fino a che il padre tornò. “Gli ho fatto un discorsino” disse quindi Rabbi Aronne. “D’ora in poi la costanza non gli mancherà”. Quando il Rabbi di Lechowitz raccontava questa vicenda aggiungeva: “Ho imparato allora come si convertono gli uomini”».

(MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti,1985, 245)

 

Preghiere e racconti

 

Le sentenze dei padri del deserto

Per molti anni due uomini erano vissuti insieme senza mai litigare. Un giorno, uno disse: “E se litigassimo almeno una volta come fanno tutti?”. L’altro rispose: “Io non so come si fa a litigare… Il primo disse: “Ecco: io colloco un mattone fra noi due e io dico che è mio e tu dici che è tuo. È così che comincia un litigio. Collocarono quindi il mattone fra di loro. Uno disse: “È mio”. L’altro disse: “No, è mio”. Riprese il primo: “Sì  è tuo; prendilo e vattene. E si separarono senza riuscire a litigare.

(L. Regnault, Le sentenze dei padri del deserto)

 

Correzione con amore

«Rabbi Aronne arrivò un giorno nella città in cui cresceva il piccolo Mardocheo, il futuro Rabbi di Lechowitz. Il padre di questi gli condusse il ragazzo e si lamentò che non avesse costanza nello studio. “Lasciatemelo qui un poco”, disse Rabbi Aronne. Quando fu solo con il piccolo Mardocheo, strinse il bambino al suo cuore e in silenzio ve lo tenne vicino fino a che il padre tornò. “Gli ho fatto un discorsino” disse quindi Rabbi Aronne. “D’ora in poi la costanza non gli mancherà”. Quando il Rabbi di Lechowitz raccontava questa vicenda aggiungeva: “Ho imparato allora come si convertono gli uomini”».

(MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti,1985, 245).

 

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe un volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite ; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa . – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. E’ questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

 

L’amicizia e la correzione fraterna in S. Giovanni Crisostomo

«Più di noi stessi, se lo volete, voi potete beneficarvi a vicenda: passate più tempo insieme, conoscete meglio di noi le vostre relazioni reciproche, non vi sono nascoste le vostre mancanze vicendevoli, avete più franchezza, più amore, più consuetudine reciproca: questi non sono piccoli vantaggi per ammaestrare, anzi ne offrono una possibilità grande e opportuna; e più di noi potete rimproverare ed esortare. E non solo questo, ma io sono solo, e voi molti; e tutti potete, quanti siete, essere maestri. Perciò vi scongiuro: non trascurate questa grazia! Ciascuno ha una moglie, ha un amico, ha un servo, ha un vicino: questi ammonisca, quelli esorti. Non è un assurdo? Per il cibo si fanno banchetti e simposi, vi sono giorni stabiliti per riunirsi e quello in cui uno manca personalmente, viene compiuto dalla società, come ad esempio se si debba partecipare a un funerale, o a un banchetto, o si debba aiutare in qualcosa un prossimo. E, invece, per ammaestrare alla virtù non si fa nulla di ciò! Sì, vi scongiuro! Nessuno lo trascuri! Riceverà da Dio una grande ricompensa!

[…] «Ma non so parlare» si dice. Non c’è bisogno di saper parlare né d’eloquenza. Se vedi un tuo amico che si abbandona all’impudicizia, digli: «Ciò che fai è un’azione cattiva; non ti vergogni? Non arrossisci? È male!». Ma lui non sa che è male? si obietta. Certo, lo sa, ma la passione lo trascina. Anche gli ammalati sanno che una bevanda fredda fa loro male, e tuttavia c’è bisogno di chi glielo impedisca. Chi soffre, non sa facilmente dominarsi, se è ammalato. C’è bisogno di te, che sei sano, per curarlo; e se non riesci a persuaderlo a parole, osserva dove va e impedisciglielo, forse se ne vergognerà. «Ma che giova se agisce così per me, se solo per me se ne trattiene?». Non sottilizzare troppo: intanto distoglilo in qualsiasi modo dall’azione cattiva; si abitui a non precipitarsi in quel baratro sia per te, sia per qualsiasi altro impedimento: è già un guadagno. E quando si sarà abituato a non recarsi più là, allora, dopo che si sarà un po’ riavuto, potrai riavvicinarlo e insegnargli che bisogna evitare ciò per Dio e non per gli uomini. Non pretendere di correggerlo tutto in una volta, perché non ci riuscirai; bensì piano piano, un po’ alla volta.

E se lo vedi andare a bere, se lo vedi recarsi a banchetti dove ci si ubriaca, comportati nello stesso modo. Anzi, supplicalo di aiutarti a correggerti se vede che tu hai qualche difetto. In tal modo rivolgerà in sé il rimprovero, vedendo che anche tu hai bisogno di ammonizione, e che lo aiuti non perché sei il correttore di tutti, o il maestro, ma sei un amico e un fratello. Digli: Ho giovato a te ricordandoti qualcosa di utile; anche tu, se vedi in me qualche difetto, prendimi per i capelli e raddrizzami: se mi vedi irascibile, o avaro, frenami e legami con le tue ammonizioni. Questa è l’amicizia, così il fratello viene aiutato dal fratello e diventa una città fortificata (cf. Pr 18,19). Non è il mangiare o il bere insieme che crea l’amicizia: così l’hanno anche i ladri e gli assassini; ma se siamo amici, se veramente ci diamo pensiero l’uno dell’altro, ci dobbiamo anche accordare. E questo ci porta a un’amicizia utile e ci impedisce di precipitare nella geenna.

D’altra parte chi viene rimproverato non si turbi, siamo uomini e abbiamo difetti; e chi rimprovera non lo faccia pubblicamente, insultando e facendo mostra di sé, ma a quattr’occhi e con dolcezza; ha bisogno di tanta dolcezza colui che ammonisce, se vuole che sia ben accolto il suo discorso tagliente. Non vedete i medici, quando bruciano o quando tagliano, con quanta dolcezza applicano la loro terapia? E molto più lo deve fare chi ammonisce, perché il rimprovero è più violento del ferro e del fuoco, e fa sobbalzare. Per questo motivo anche i medici si esercitano molto per riuscire a incidere con calma, e lo fanno con dolcezza, in quanto è possibile, e incidono un poco e poi permettono di riprendere il fiato. Così si devono fare anche i rimproveri, perché chi viene ammonito non se ne sottragga. E se fosse necessario venire insultati e anche schiaffeggiati, non ricusiamolo; anche quelli infatti che subiscono un intervento urlano mille cose contro coloro che li operano, però essi non guardano a nulla di ciò, ma solamente alla salute dei pazienti. Così, anche nel nostro caso, si deve fare di tutto perché il rimprovero risulti utile, e si deve sopportare tutto guardando il premio che c’è preparato. È detto: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge del Cristo (Gal 6,2). Così, ammonendoci e sopportandoci a vicenda, potremo completare l’edificazione del Cristo».

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

 

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole . Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269). 

 

Correzione fraterna: la correzione evangelica                   

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

 

Con grande misericordia e discrezione

      Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

 

Preghiera

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: 1 Re 3,5.7-12

n quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».  Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».  Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».

 

 

  • Nella scena rievocata in questo brano (1 Re 3,3-15) ci troviamo agli inizi del regno di Salomone, quando ancora non si ha nessun indizio della perversione che secondo il racconto biblico successivo caratterizzerà il resto della sua vita (1 Re 11). Qui il giovane re ci viene presentato come un modello di uomo saggio, che chiede come supremo dono da Dio il giusto discernimento per poter governare bene il suo popolo. La saggezza di Salomone, caratterizzata altrove anche per una vasta conoscenza di carattere enciclopedico (cf 1 Re 5,9-14), viene qui qualificata come capacità di comprendere i propri limiti, e nello stesso tempo di sentire la necessità dell’aiuto del Signore per «distinguere il bene dal male» (v. 9).

         Ciò è possibile col dono del «cuore docile» (lett. in ebraico «cuore che ascolta»), definito poi come «un cuore saggio e intelligente» (v. 12). Così, non si tratta tanto di una saggezza quantitativa, ma qualitativa. È interessante notare come la sapienza preferita in questa preghiera da Salomone sia contrapposta agli altri beni di carattere più mondano che pure sono considerati importanti nell’Antico Testamento: vita lunga, ricchezza e, specialmente per un re, morte dei nemici.

         Proprio diverse, rispetto a questo ultimo punto, erano state le raccomandazioni di Davide al figlio prima della morte (1 Re 2,5-9). Inoltre, Salomone ha riconosciuto prima la fedeltà del Signore alla promessa fatta a Davide, per cui ringrazia il suo Dio per aver ereditato il trono di suo padre (v. 6).

 

Seconda lettura: Romani 8,28-30

   

       Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.

     

 

  • In questi tre brevi versetti anche Paolo ci offre un suo abbozzo del tema del regno di Dio, più caratteristico dei vangeli sinottici. Egli ci vede coinvolti in esso, in quanto corrisponde al «disegno» di Dio per noi. Giunto alla conclusione della sua esposizione della storia della salvezza che costituisce l’argomento della Lettera ai Romani, Paolo contempla in anticipo il suo compimento nella glorificazione finale insieme a Cristo, dopo che si sono percorse le tappe intermedie della elezione, della chiamata e della giustificazione. Tenendo presente tutto questo, egli può dire prima che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il suo disegno».

         Nel v. 28 abbiamo in Paolo uno dei pochi casi in cui il verbo amare ha Dio come oggetto e l’uomo come soggetto (gli altri casi si hanno in 1 Cor 2,9; 8,3; Ef 6,24). Ma anche in questo caso non si deve dimenticare che ci troviamo inseriti in un processo nel quale l’iniziativa è esclusivamente di Dio che chiama. Del resto prima Paolo ha parlato chiaramente dell’amore con cui Dio ci ha preceduto facendoci dono del suo Spirito: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). Questo concetto è ancora ribadito in 1 Giov 4,10: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati».

 

Vangelo: Matteo 13,44-52

 In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi  averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci.

  Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 

 

Esegesi 

     Possiamo distinguere in questo brano evangelico tre brevi sezioni:

     1) Il tesoro nascosto e la perla preziosa (vv. 44-46)

     La forza evocatrice di queste due brevi parabole balza immediatamente agli occhi attraverso le due qualifiche abbastanza simili che le riassumono emblematicamente: tesoro, (perle) preziose. Queste due condizioni mettono in moto l’interesse di chi è capace di apprezzarle. Ma il contesto umano presupposto alle due immagini è diverso. Il tesoro na-scosto è scoperto per caso da chi lavora un campo non proprio per conto di estranei, mentre le perle preziose riguardano un mercante che lavora professionalmente per cercarle. Nell’un caso come nell’altro, ciò che conta è il capire che si è di fronte ad un’occasione da non perdere.

     Le due parabole, nella loro brevità, sono formulate in una maniera parallela, giacché in entrambi i casi si ripetono i quattro verbi fondamentali: trova/trovata, va, vende tutti i suoi averi, compra. Solo nel primo caso, trattandosi di una scoperta non prevista, si accentua il senso della sorpresa aggiungendo «pieno di gioia». In realtà, le situazioni evocate dalle due parabole sono un po’ diverse e servono bene a sottolineare due atteggiamenti spirituali differenti nei confronti del regno di Dio. Nel caso del contadino che lavora come salariato, c’è la sorpresa per una scoperta non prevista, ma ciò nonostante egli sa essere abbastanza tempestivo nel prendere le decisioni giuste per non perdere l’occasione di un insperato vantaggio. Nel mercante di perle preziose questa disposizione è più esplicita e in qualche modo più scontata.

     Anche di fronte al regno di Dio il nostro segreto desiderio di scoprirlo può presentare prima dell’incontro diversi gradi di consapevolezza, i quali conducono comunque ad un certo punto al passo decisivo dell’impegno personale e di una svolta di vita.

     2) La rete gettata nel mare (vv. 47-50)

     A proposito di questa parabola si deve ripetere quanto abbiamo osservato per quella che parlava del grano e della zizzania. Anche qui si parla di un elemento negativo, i pesci cattivi o scadenti da gettare via, i quali però non costituiscono l’oggetto principale di tutta l’operazione, ma solo una condizione necessaria per la realizzazione della finalità specifica della pesca, la raccolta dei pesci buoni. Usando lo stesso simbolo, suggerito allora dal suo mestiere. Gesù aveva detto a Pietro: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).

     La conclusione della parabola (vv. 49-50) è simile a quella precedente relativa alla spiegazione aggiunta alla parabola del grano e della zizzania (vv. 41-42): angeli, fornace ardente, pianto e stridore di denti.

     3) Il vero scriba (vv. 51-52)

     Gli scribi, esperti della Scrittura ebraica e della tradizione, rappresentano in Matteo una categoria di persone che, accanto ai sommi sacerdoti e ai farisei, sono menzionati molte volte in modo negativo e polemico, in quanto sono incapaci di comprendere la novità del messaggio di Gesù. Solo qui e in Mt 23,34 («Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città») sembra che vengano visti in senso positivo. Ma nel nostro passo si dice chiaramente che si tratta di uno scriba convertito, che è divenuto «discepolo del regno dei cieli». Così il riscatto della sua figura avviene attraverso il suo superamento, per ribadire che il vero scriba è ormai quello che si fa discepolo, in analogia con quanto si è detto in Mt 11,11 : «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è il più grande di lui». Ma nello stesso tempo si sottolinea un elemento di continuità tra l’antica e la nuova economia in armonia con quanto è stato detto ancor prima: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per compimento» (Mt 5,17).

     Se lo scriba offre qui un modello positivo che si può adattare al discepolo, è in forza di una qualità che gli era riconosciuta come caratteristica: la riflessione sui sacri testi della tradizione che può essere integrata con le osservazioni tratte dalla vita di ogni giorno; di tale atteggiamento si ha un esempio molto significativo proprio nelle parabole.

     In realtà, questo detto sullo scriba-discepolo suggella per Mt tutto il suo capitolo delle parabole, quasi a voler suggerire l’analogia che c’è tra il procedimento del discorso parabolico e l’attività esegetica dello scriba, che diventa feconda quando non si cristallizza sulle conoscenze del passato, ma si sa aprire agli orizzonti dischiusi dalla nuova rivelazione di Dio anche attraverso gli eventi della vita quotidiana.

 

Meditazione 

     La sapienza fa l’unità tra prima lettura e vangelo. Sapienza di Salomone che si esprime nel suo pregare, nel suo chiedere a Dio un cuore capace di ascolto, ovvero il discernimento per giudicare e governare, sapienza di Gesù che si esprime nel suo parlare in parabole ma anche sapienza dei protagonisti delle parabole del tesoro e della perla (Mt 13,44-45) che emerge nel loro discernimento e nella loro pronta decisione, e infine sapienza dello scriba divenuto discepolo del Regno che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). La sapienza non è manichea, non elimina l’antico a esclusivo favore del nuovo e non resta ostinatamente attaccata all’antico per timore del nuovo, ma fa del nuovo la reinterpretazione dell’antico e dell’antico il fondamento del nuovo.

     La sapienza è l’arte di orientarsi nella vita, l’arte di governare il timone della nave: «l’uomo sapiente terrà saldamente il timone» (Pr 1,5 LXX). È l’arte del traghettatore, di chi governa, di chi istruisce. Ma è anzitutto l’arte di chi governa se stesso. Arte che si ottiene mediante la faticosa conoscenza di sé: «Il vero inizio per crescere in virtù è conoscere se stesso. Colui che si conosce è il solo padrone di sé e, senza avere un regno, è veramente un re» (Ronsard). È l’arte di cui oggi, nello smarrimento e nel disorientamento in cui viviamo, abbiamo grande bisogno. «Tu il tesoro, Tu la perla preziosa; o Signore, Tu hai incontrato me, non io ho trovato Te; Tu hai conquistato e afferrato me, non io ho acquistato Te; o mio Tu, io sono tuo». Questa antica invocazione suggerisce che il vero soggetto delle parabole di Mt 13,44-46 non è il mercante che ha acquistato la perla e nemmeno il bracciante che ha acquistato il campo che prima ha lavorato, ma proprio il tesoro, la perla preziosa: essi sono la luce che da nuovo senso e orientamento alla vita e in nome e in vista di cui si può vendere tutto, abbandonare tutto.

     E si può lasciare tutto nella gioia. La radicalità cristiana è autentica se sigillata dalla gioia. Anzi, la gioia è costitutiva di tale radicalità, perché questa va vissuta come grazia e nel rinnovarsi di una quotidiana gratitudine. Noi siamo grati di essere nella gioia.

     L’esperienza di chi trova il tesoro e vende tutto per esso è in realtà l’esperienza di chi sente la parola di Dio che gli dice: «Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo; io do uomini e popolazioni in cambio di te» (Is 43,4). È questo amore il segreto della gioia della radicalità di una vita cristiana, è questo amore il bene prezioso da custodire e salvaguardare, è questo amore del Signore e per il Signore che può rinnovare vite tentate da vecchiezza, stanchezza, insensibilità, cinismo, indifferenza. A noi che nella preghiera diciamo al Signore: «Sei tu il mio Signore, nessun bene per me al di fuori di te» e «Sei tu il mio unico bene» (Sal 16,2) e ancora «In te, o Dio, gioisce il mio cuore, esulta il mio intimo» (Sal 16,9), è chiesto di metterci alla prova se Cristo abita in noi (cfr. 2Cor 13,5). E questo perché noi abitiamo là dov’è il nostro tesoro: è il tesoro che ci colloca, che ci situa. Se Cristo abita in noi, noi dimoriamo in Cristo e allora possiamo gioire di gioia indicibile nel cammino verso il Regno. C’è solo da riscoprire ogni giorno la preziosità del dono ricevuto combattendo la tentazione del banale, dello scontato, del «tutto è dovuto».

     Sia l’uomo che ha trovato la perla nel campo sia il mercante che ha trovato la perla di gran valore sono accomunati, nel loro agire coraggioso, forse anche folle e poco prudente («vendere tutto per acquistare una sola cosa»), dell’osare la propria gioia. La preziosità di una cosa e di una persona è relativa alla gioia che suscita in noi. La scelta dei due protagonisti delle parabole, così assimilabile alla radicalità cristiana (cfr. Mt 19,21: «Vendi i tuoi beni e dalli ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi»), avviene nella gioia procurata dalla scoperta, prosegue nella gioia di procurarsi il bene prezioso, e custodisce nella gioia anche il momento della vendita di tutto, della privazione di ciò che si possedeva. Ma soprattutto, è promessa di gioia anche per il futuro. A differenza di ciò che avviene al giovane ricco che resta nella tristezza (Mt 19,22).

 

Immagine della domenica


 

“Togli ad un viaggiatore

la speranza di arrivare

e gli avrai tolto anche

la forza di camminare”

(Guglielmo di S. Thierry).

 

Preghiere e racconti

 

La perla

La perla di gran prezzo

giace nascosta giù nel profondo.

Come un pescatore di perle,

anima mia, tuffati,

tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo e cerca!

Può darsi che non trovi nulla

la prima volta,

Come un pescatore di perle, anima mia,

senza stancarti, persisti e persisti ancora,

tuffati profondo, sempre più profondo,

e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

si prenderanno gioco di te

e tu ne sarai rattristata.

Ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di gran prezzo

è proprio nascosta là

nascosta proprio in fondo.

E’ la tua fede

che ti aiuterà a trovare il tesoro,

è essa che permetterà

che ciò che era nascosto

sia finalmente rivelato.

Tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.

(Swami Parmánanda).

 

Trovare-andare-vendere-comprare

«Un uomo» e «un mercante» nei loro confronti compiono le stesse azioni: trovare-andare-vendere-comprare. Diverse invece  sono le strade attraverso le quali incontrare il tesoro, raggiungendo la propria piena autorealizzazione: per il primo si tratta di «fortunata scoperta», per il secondo di un faticoso cammino di ricerca. A tutti e due viene comunque chiesto totalità e radicalità. Non basta aver trovato, occorre andare-vendere-comprare. E questo è quanto si chiede a tutti. Ciò che si deve vendere è tutto quello che si possiede, poco o molto che sia. Il Vangelo richiede un distacco totale, non per spirito di sacrificio, ma per la preziosità del bene trovato. E si vende tutto senza rimpianti. In fondo, essere santi è un vero affare perché si trova la piena realizzazione di sé… in modo inaspettato o a lungo cercato. In ogni caso, si tratta di una occasione unica. È folle allora non chi va-vende-compra ma esattamente chi agisce in modo diverso. La realizzazione di sé, quale pienezza di vita, è frutto dell’aver trovato, dell’esperienza di un incontro che allarga il cuore. Per questo il vero cristiano non dice: «Ho lasciato», ma: «Ho trovato». Non dice: «Ho venduto il campo», ma: «Ho trovato un tesoro». L’uomo che si autorealizza nel fascino della santità parla molto non di ciò che ha lasciato, ma di ciò che ha trovato. Dinanzi al tesoro o alla perla preziosa tutto il resto perde valore: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,8).

(CISM, Protesi verso il futuro…per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003).

 

Dal perdere al trovare

Il discepolo è provocato ad assumere un duplice atteggiamento: da una parte, svincolarsi pian piano da tutto ciò che lo tiene legato e gli impedisce di seguire in piena libertà il Signore e, dall’altra, sperimentare che, tutto ciò che deve abbandonare, è pur sempre poca cosa nei confronti di ciò che gli viene donato.

«In certi momenti il Vangelo è duro, impopolare, perché duri sono i cuori degli uomini – i nostri, a volte, più di quelli degli altri -, bisognosi di essere ricondotti sulla via della vita per aprirsi al dono di una vita nuova e più piena umanità».

(CEI, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, 35).

 

Per ora, nascondi il tuo tesoro         

Hai trovato un tesoro: il tesoro dell’amore di Dio. Sai ora dov’è, ma non sei ancora pronto a  possederlo pienamente. Tanti affetti continuano ad agitarti. Per possedere pienamente il tuo tesoro, dovresti nasconderlo nel campo dove l’hai trovato, andare lietamente a vendere ogni cosa  che possiedi e poi tornare a comprare il campo.         Puoi essere davvero felice di aver trovato il tesoro: ma non devi essere così ingenuo da pensare di possederlo già. Soltanto quando avrai rinunciato a ogni altra cosa, il tesoro potrà essere completamente tuo. Aver trovato il tesoro ti pone in una nuova ricerca del tesoro stesso. La vita spirituale è una ricerca lunga e spesso ardua di quello che hai già trovato. Puoi cercare Dio soltanto quando lo hai già trovato. Il desiderio dell’illimitato amore di Dio è il frutto dell’essere stati toccati da quell’amore. Dato che trovare il tesoro è soltanto l’inizio della ricerca, devi stare attento. Se esponi il tesoro ad altri senza possederlo pienamente, potrai far del male a te stesso e persino perdere il tesoro. Un amore appena trovato ha bisogno di essere nutrito in uno spazio tranquillo e intimo. La sovraesposizione lo uccide. Per questo devi nascondere il tesoro e spendere le tue forze nel vendere la tua proprietà, affinché  tu possa comprare il campo dove lo hai nascosto.

Questa è spesso un’impresa dolorosa, perché il senso di chi sei è così intimamente legato a tutte le cose che possiedi: successo, amici, prestigio, denaro, titoli, e così via. Ma tu sai che nulla se non il tesoro stesso può veramente soddisfarti. Trovare il tesoro senza essere ancora pronto a possederlo pienamente ti renderà inquieto. È l’inquietudine della ricerca di Dio. È la via verso la santità. È la strada per il regno. È il cammino verso il luogo in cui potrai riposare.

(H. J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 148-149).

 

I frutti nuovi insieme agli antichi

II tesoro «nel quale si trovano nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3) è la Parola di Dio che sembra nascosta nella carne di Cristo, oppure le sante Scritture nelle quali riposa la conoscenza del Salvatore […]. Le belle perle sono la Legge e i Profeti e la conoscenza dell’Antico Testamento, ma esiste una perla unica, la più preziosa, la conoscenza del Salvatore, il mistero della sua passione, il segreto della sua risurrezione. E quando il mercante l’ha scoperta come l’apostolo Paolo disprezza come immondizia e spazzatura tutti i misteri della Legge e dei Profeti e tutte le antiche osservanze, nelle quali era vissuto in maniera irreprensibile, per guadagnare Cristo.

Non che la scoperta della nuova perla sia la condanna di quelle antiche, ma perché, paragonata a questa, ogni altra gemma ha minor valore […]. «Avete capito tutte queste cose?. Gli risposero: Sì?». Questo discorso si indirizza specialmente agli apostoli ed è a loro che viene detto: «Avete capito tutte queste cose?» (Mt 13,51). Vuole che non si accontentino di ascoltare come il popolo, ma che capiscano perché saranno loro i maestri. «Per questo ogni scriba ammaestrato in ciò che riguarda il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Gli apostoli, gli scribi e i segretari del Salvatore, che scrivevano sulle tavole dei loro cuori di carne le sue parole e i suoi precetti, conoscevano i misteri del regno dei cieli. Le ricchezze del padrone di casa li rendevano potenti, perché attingevano nel tesoro della loro conoscenza cose nuove e cose antiche. E così tutto quello che predicavano nel vangelo, lo confermavano con la testimonianza della Legge e dei Profeti. Da qui le parole della sposa nel Cantico dei cantici: «Mio amato, ho custodito i frutti nuovi insieme agli antichi» (Ct 7,13 Vg).

(GIROLAMO, Commento a Matteo 2,13,44-46.51-52, SC 242, pp. 288-292).

 

Le prove di Dio nella nostra vita

Ho spesso pensato che la causa più comune del tumulto intimo negli esseri umani sia il conflitto di desideri, in quanto le nostre aspettative più alte e i nostri desideri più profondi sono sempre in lotta con la realtà. Il fatto è che concepiamo i nostri desideri, facciamo i nostri progetti, e poi speriamo che ci sia una bella strada spianata che conduce dritti alla realizzazione; purtroppo, però, spesso questo successo non rientra nel copione. Incespichiamo e non riusciamo nell’intento, perdiamo la lotta che con tutte le nostre forze desideriamo vincere, e dobbiamo rinunciare alle cose che vorremmo così tanto tenere. Davanti a tale considerazione, mi sono chiesto di frequente come sarebbe se io desiderassi solo la volontà di Dio, se prendessi Gesù sul serio, se avessi realmente la benedizione di essere povero di spirito, se le mie mani fossero aperte e protese in segno di disponibilità all’abbandono, se … “è davvero meglio la Perla di Grande Valore oppure darla via?”.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 97-98)

 

Racconto

«Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese. Il monaco gliela diede immediatamente. Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.

Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore. Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”»

(Anthony de Mello)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIMENTO:

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)