I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 9,8-15

Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».

 

v L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico. Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in Abramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).

     In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo. Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf. Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato. Non farà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.

     Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.

     Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno. C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire. Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.

 

Seconda lettura: 1Pietro 3,18-22

Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.

 

v La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento. Soprattutto il brano della liturgia odierna.

     I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecuzioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si trovavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.

     Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf. Mt 26,41). Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale. È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di sopra degli stessi Principati e delle Potenze. Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.

     Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza. A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.

     I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale rifiuto furono puniti.

     Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a determinarsi. Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico. Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p. 163).

 

Vangelo: Marco 1,12-15

In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

 

Esegesi

     Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa seguito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.

     Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione. Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.

     Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento inconfondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere. A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano rispondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze. Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare. L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».

     Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente. Dall’esperienza sinaitica il «deserto» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio. Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr. Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23). Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito. Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso. È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.

     I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia. In tutti i modi segnala la durata e ricorda il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana. Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza. Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verificare la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Nm 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni impiegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).

     Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per verificare la scelta compiuta. Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentabatur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu una prova sporadica, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto. Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.

     La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono all’Avversario del bene, a Satana. Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio noto ai suoi lettori. Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio. Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo. Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova esegesi. La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene comune. Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre. Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti. Deve capirlo e soprattutto accettarlo.

     Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menziona accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli». Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr. Is 11,6-9). Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf. Gv 1,51). Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.

     Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù. Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Battista. La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro. Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono. Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza. E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio. Molti profeti l’hanno preceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio. Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).

     Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea. Un richiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni. I fatti non si potevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture. Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitrariamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).

     I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro. Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avvenuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro. Il tutto equivaleva all’instaurazione del regno di Dio. Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo. Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.

     Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, riconoscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta. La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.

     Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili. Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio. Il regno porta la denominazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.

 

Meditazione

Nelle tre letture con cui la liturgia della Parola di questa prima domenica ci introduce nel tempo quaresimale (quel tempo che un antico inno chiama tempus acceptabile, tempo favorevole che deve essere accolto come momento di grazia nel cammino di conversione di ogni credente), c’è un forte richiamo al tema della alleanza, della comunione e della fedeltà di Dio all’uomo e al mondo che ha creato. Il segno dell’arco di Dio sulle nubi ricongiunge il cielo alla terra e ristabilisce quel legame interrotto dal peccato del primo uomo, Adamo. È una alleanza tra Dio e l’uomo e «con ogni essere che vive in ogni carne» (Gen 9,15).

Lo sguardo di speranza a cui l’arco sulle nubi orienta si spinge fino ad abbracciare ogni creatura e Dio stesso fissa il suo sguardo su questo segno di comunione per fare memoria della sua fedeltà: «Io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna… e non ci saranno più le acque… per distruggere ogni carne» (9,16.15).

La memoria dell’alleanza eterna assume nella storia della salvezza il volto di Gesù, il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo; nel racconto delle tentazioni Gesù si rivela come colui che, tentato nella sua carne di uomo, si affida totalmente alla parola del Padre e vince ogni idolatria, ristabilendo quell’armonia impressa da Dio nella sua creazione. La vittoria di Cristo sul male che tenta di distruggere ogni legame tra Dio e la sua creazione è radicale: raggiunge il luogo in cui questo male dimora, strappando da esso ogni creatura. La fedeltà di Dio all’uomo è così annunciata sino agli inferi (cfr. IPt 3,19-29). È il mistero pasquale del Cristo morto e risorto che la liturgia ci fa intravedere fin dall’inizio del cammino quaresimale; ma è il mistero a cui ogni credente partecipa mediante il battesimo, diventando segno di questa alleanza nuova ed eterna in Cristo.

Tra i tre testi scritturistici proposti dalla liturgia, certamente quello che maggiormente caratterizza la prima domenica di quaresima è il racconto delle tentazioni di Gesù. In questa prospettiva, l’icona cristologica che il racconto evangelico ci tratteggia è come uno squarcio sul cammino di sequela che il discepolo di Gesù è chiamato a rinnovare nel tempo quaresimale; collocare all’inizio di questo cammino il racconto delle tentazione, diventa allora un richiamo alla essenzialità e alla verità della propria scelta. Si è posti di fronte alla serietà dell’impegno battesimale, mediante la consapevolezza di ciò che quotidianamente comporta il vivere da figli in sintonia con la volontà del Padre; si è condotti dallo Spirito nel deserto per prendere coscienza di questa presenza misteriosa che guida i nostri passi ed educa la nostra libertà nelle scelte secondo Dio (il discernimento spirituale) ; si è invitati ad accogliere con umiltà la nostra debolezza, sapendo che essa è stata accolta e trasfigurata da Cristo stesso; si è messi in guardia da ogni forma di idolatria che intacca il servizio all’unico Signore e che rende la nostra vita divisa interiormente; si è educati a camminare pazientemente verso la Pasqua, accogliendo nel volto di Cristo tentato e nel volto di Cristo trasfigurato l’unica e inaudita bellezza del Dio che si dona all’uomo per strapparlo alla morte e comunicargli la vita.

Il ciclo delle letture dell’anno B ci presenta il racconto delle tentazioni secondo la versione di Marco. Lo scontro tra Gesù e lo spirito del male, narrato da Matteo e Luca attraverso una descrizione fortemente drammatica e mediante un martellante dialogo in cui si alternano le suggestioni diaboliche e i testi della Scrittura, è raccontato da Marco in due soli versetti. L’essenzialità della narrazione, spogliata di ogni elemento descrittivo, rende ancora più brusco il passaggio dalla esperienza di pienezza del battesimo (dopo aver udito la parola del Padre, «Tu sei il Figlio mio, l’amato», Gesù viene spinto «subito» nel deserto). E, d’altra parte, nei due versetti di Marco abbiamo tutti gli elementi necessari per definire questo ‘inaudito’ episodio del cammino di Gesù: lo Spirito che «lo sospinge nel deserto»; il deserto come luogo della prova; i quaranta giorni, come tempo di prova; la tentazione e il tentatore. Satana. In più Marco aggiunge: «(Gesù) stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano» (v. 13). Possiamo dire che in questa prospettiva il racconto diventa quasi una icona in cui ogni elemento acquista una portata simbolica, sia in rapporto a Gesù, sia in rapporto al lettore. Sottolineiamo alcuni elementi.

Anzitutto la collocazione dell’esperienza delle tentazioni tra il battesimo e l’inizio del ministero pubblico di Gesù appare significativa; diventa come lo squarcio iniziale di tutta la vicenda terrena di Cristo, il suo rapporto con il Regno e la sua relazione con quell’umanità di cui ha assunto totalmente la fragilità e la povertà. E qui possiamo anche comprendere, sotto un’altra angolatura, la collocazione delle tentazione subito dopo il battesimo. Al Giordano, Gesù si mescola ai peccatori che vanno da Giovanni per farsi battezzare; è appunto la solidarietà con l’uomo peccatore che si manifesta in modo drammatico proprio nel racconto delle tentazioni. Così collocata all’inizio del vangelo, l’esperienza del deserto appare non solo come il primo atto pubblico di Gesù (quasi un solenne ‘sì’ al Padre e all’uomo) , ma come il quadro entro il quale si svolgerà tutto il suo ministero, fino alla croce. Vediamo così che lo Spirito, donato al battesimo, non separa Gesù dalla storia e dalle sue ambiguità, dalle sue contraddizioni; al contrario, colloca Gesù all’interno della storia e all’interno della lotta che in essa si svolge. E proprio qui si rivela in profondità e nella totale trasparenza dalle ambiguità che affascinano l’uomo ciò che il Padre dice in Mc 1,11: «Tu sei il Figlio mio, l’amato». Inoltre, se teniamo presente la ricca simbologia biblica degli elementi del racconto (che ci rimanda al cammino di Israele nel deserto e all’ingresso nella terra promessa), allora possiamo scorgere nella successione battesimo – tentazioni nel deserto – proclamazione del Regno, una sorta di cammino in cui Gesù ripercorre la storia di Israele: passaggio attraverso le acque del Mar Rosso, permanenza nel deserto per quarant’anni, ingresso nella Terra promessa sotto la guida di Giosuè.

Pur nella loro scarna essenzialità descrittiva, i personaggi presentati da Marco ci rivelano ciò che avviene nell’esperienza della tentazione. Gesù è delineato come l’icona dell’uomo ‘spirituale’, che sa discernere secondo lo Spirito. E questo non perché è collocato in uno spazio immateriale e estraneo alla drammatica situazione umana, quasi sottratto alla fatica di ogni scelta o esente dalla prova, ma perché ci insegna a scegliere secondo Dio, donandoci i criteri per un reale discernimento ‘spirituale’. Gesù accetta la sfida della tentazione e attraverso di essa scopre in profondità la sua identità di Figlio di Dio, quel nome udito nella teofania del battesimo. Accanto a Gesù vi è la misteriosa presenza dello Spirito. È lui a condurre (a «sospingere», ekbalein) Gesù nel cuore stesso della lotta, nella solitudine del deserto, il luogo dell’esperienza della fragilità umana; qui, e non altrove, matura il discernimento e lo Spirito sta a fianco di Gesù in questo cammino, quasi a guidarlo per mano, facendosi presente nella forza della Parola donata come arma per combattere la suggestione diabolica (aspetto presente nei racconti di Luca e Matteo). E infine, di fronte a Gesù, vi è il tentatore, che Marco chiama Satana. Esso appare come la proposta alternativa alla parola di Dio, la contro-proposta subdola, affascinante, falsa, idolatrica, che abusa della debolezza dell’uomo, lo tenta nella sua carne per raggiungere il cuore. Satana vuole distruggere il rapporto confidenziale e obbedienziale tra uomo e Dio, presentare Dio come nemico dell’uomo, geloso della libertà e delle possibilità che gli sono offerte. E più l’immagine di Dio crea paura nell’uomo, più lo minaccia diventando ingombrante e soffocante, più il tentatore è sicuro della riuscita della sua opera: separare, creare un progetto contrario a Dio, illusorio, in cui l’uomo è schiavo del proprio idolo, vittima del suo «essere come Dio» (cfr. Gen 3,5).

Da questa esperienza Gesù non fugge: accettando la nostra umanità (e la fragilità di cui la tentazione è elemento costitutivo), in essa riporta la vittoria su ogni idolatria che mira a separare l’uomo da Dio. E Marco sottolinea, quasi visivamente, il frutto di questa vittoria: è l’armonia ristabilita tra il mondo creato e il mondo sovrumano, di cui Gesù, e in esso ogni uomo, è testimone.

Veramente «il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino». A noi non resta che entrare con Gesù in questo luogo di prova per lasciarci trasformare a sua immagine; non resta che accogliere l’invito «convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15).

 

L’immagine della domenica

 
 

Correzione con amore

Il padre di Mardocheo – il futuro celebre rabbi di Lechowitz – si lamentava della pigrizia del figlio nello studio. In città giunse un santo rabbino. Il padre gli condusse Mardocheo perché lo correggesse. Il rabbino volle rimanere solo col ragazzo, lo strinse al cuore e se lo tenne a lungo affettuosamente vicino. Quando il padre ritornò, il rabbino gli disse: «Ho fatto a Mardocheo un po’ di morale; d’ora in poi la costanza non gli mancherà». Quando, ormai adulto e famoso, Mardocheo, divenuto rabbi di Lechowitz, raccontava questo episodio, diceva: «Ho imparato allora come si convertono gli uomini».

(Racconto ebraico)

 

Preghiere e racconti

Dai sassi emerge la vita, crediamo nell’amore

In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

Nel giardino di pietre che è il deserto, nuovo spettrale giardino dell’Eden, Gesù vince il vecchio, spento sguardo sulle cose (le tentazioni) e ci aiuta a seminare occhi nuovi sulla vita. Que sueno el de la vita: sobre aquel abiso petreo! Che sogno quello della vita e sopra quale abisso di pietre (Miguel de Unamuno). Il deserto e il regno, la sterilità e la fioritura, la morte e la vita: i versetti di Marco dipingono nella prima pagina del suo vangelo i paesaggi del cuore dell’uomo.

Gesù inizia dal deserto: dalla sete, dalla solitudine, dall’angoscia delle interminabili notti. Sceglie di entrare da subito nel paesaggio della nostra fatica di vivere. Ci sta quaranta giorni, un tempo lungo e simbolico. Si fa umanità lungo le piste aride delle mie faticose traversate. In questo luogo di morte Gesù gioca la partita decisiva, questione di vita o di morte. Il Messia è tentato di tradire la sua missione per l’uomo: preferire il suo successo personale alla mia guarigione.

Resiste, e in quei quaranta giorni la pietraia intorno a lui si popola. Dai sassi emerge la vita. Una fioritura di creature selvatiche, sbucate da chissà dove, e presenze lucenti di angeli a rischiarare le notti. Da quando Gesù lo ha abitato, non c’è più deserto che non sia benedetto da Dio, dove non lampeggino frammenti scintillanti di regno. Il regno di Dio è simile a un deserto che germoglia la vita, un rimettere al mondo persone disgregate e ferite. Un’energia trasformativa

risanante cova tra le pietre di ogni nostra tristezza, come una buona notizia: Dio è vicino convertitevi e credete nel Vangelo. Credete nell’amore. All’inizio di Quaresima, come ai tornanti della vita, queste parole non sono una ingiunzione, ma una promessa. Perché ciò che converte il cuore dell’uomo è sempre una promessa di più gioia, un sogno di più vita. Che Gesù racchiude dentro la primavera di una parola nuova, la parola generatrice di tutto il suo messaggio: il regno di Dio è vicino.

Il Regno di Dio è il mondo nuovo come Dio lo sogna, e si è fatto vicino da quando Dio è venuto ad abitare, con amore, il nostro deserto. Gesù non viene per denunciare, ma per annunciare, viene come il messaggero di una novità straordinariamente promettente. Il suo annuncio è un ‘sì’, e non un ‘no’: è possibile per tutti vivere meglio, vivere una vita buona bella beata come la sua.

Per raggiungerla non basta lo sforzo, devi prima conoscere la bellezza di ciò che sta succedendo, la grandezza di un dono che viene da fuori di noi. E questo dono è Dio stesso, che è vicino, che è dentro di te, mite e possente energia, dentro il mondo come seme in grembo di donna. E il suo scopo è farti diventare il meglio di ciò che puoi diventare.

(Ermes Ronchi)

 

“Convertitevi e credete nel Vangelo!”

Nel Il vangelo di questa I domenica di Quaresima è breve: quattro versetti, anche se in realtà mi concentrerò quasi esclusivamente sui primi due, avendo commentato i vv. 14-15 poche domeniche fa (III domenica del tempo Ordinario). I vv. 12-13 sono molto intensi, capaci di comunicarci l’essenziale sulle tentazioni di Gesù, anche se nel nostro immaginario è impressa, dunque da noi memorizzata, la narrazione più drammatica e più precisa dei vangeli secondo Matteo e Luca (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13).

Concentriamoci dunque sul racconto di Marco. Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano da Giovanni, il suo maestro, e nell’uscire dall’acqua ha visto i cieli aprirsi, lo Spirito di Dio scendere su di lui con la dolcezza di una colomba (cf. Mc 1,9-10) e, soprattutto, ha sentito una dichiarazione rivolta a lui solo. Dal cielo, infatti, dal luogo dimora di Dio, lo raggiunge una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho messo tutta la mia gioia” (Mc 1,11; cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). È la voce del Padre, che gli conferma il proprio amore e la sua identità di Figlio amato; è la voce che lo abilita, con la forza dello Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), alla missione pubblica tra i figli di Israele.

Ma appena questo è avvenuto, “subito” (euthýs) lo Spirito disceso su di lui lo spinge dove i cieli non sono aperti, bensì chiusi; lo spinge nel deserto, dove è presente più che mai il diavolo, Satana, il tentatore, la cui missione è dividere e separare, soprattutto da Dio. Gesù entra così in una zona d’ombra, entra nella prova, perché il deserto è terra di prova, di tentazione.

Lo era stato per Israele, “battezzato” e uscito dalle acque del mar Rosso; lo era stato per Mosè e per Elia; lo era stato per quanti erano andati nel deserto per preparare una strada al Signore (cf. Is 40,3), combattendo da “figli della luce” contro il demonio e la sua tenebra; lo era stato per Giovanni il Battista. Gesù dunque sta camminando sulle tracce lasciate dagli inviati di Dio, e in tal modo sa che deve prepararsi a quella che sarà la prova, la lotta quotidiana, fino alla morte. In quel deserto di Giuda, accanto al mar Morto, tra quelle rocce aride, Gesù “dimora quaranta giorni, continuamente tentato da Satana”.

La sua è una lotta corpo a corpo, della quale nessuno è spettatore; è una lotta interiore attraverso la quale deve imparare l’obbedienza del Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), legge con intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei – e vincere il tentatore che si oppone alla venuta del Regno nel modo in cui Dio lo vuole e che Gesù deve assumere e fare suo, fino a rivestirsene. Marco non ci dice nulla di preciso su queste tentazioni che gli altri evangelisti, in una sorta di midrash, racconteranno come lotta contro le tre libidines dell’eros, della ricchezza e del potere, insomma lotta contro una manifestazione mondana, prepotente e arrogante del Regno.

L’evangelista più antico mette invece l’accento sul fatto che Gesù è costantemente tentato, per quaranta giorni, senza mai cedere a una visione trionfalistica della venuta del Regno. Pienamente sottomesso al Padre, creatura tra le creature non umane del deserto (rocce, pietre, arbusti, rettili, volatili, bestie selvagge), Gesù è in profonda comunione con tutta la creazione. È come collocato al centro di essa, è il vero Adamo come Dio l’ha voluto, capace di vivere riconciliato e in pace con tutte le creature e con tutta la terra.

Gesù appare come l’uomo mite, armonioso, rappacificato con il cielo e la terra, così da inaugurare l’era messianica profetizzata da Isaia: “Il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme … Il leone si ciberà di paglia come il bue, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” (Is 11,6-8). Sì, è il Regno messianico promesso da Dio a tutta la terra, che certamente è veniente. Gesù lo inaugura nel deserto, per questo subito dopo può proclamare: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino”.

Ma occorre ricordare che questa “armonia” e questa “pace” sono a caro prezzo: il prezzo della kénosis, dello svuotamento e dell’abbassamento di colui che “era in condizione di Dio e svuotò se stesso (heautòn ekénosen)”, diventando uomo e spogliandosi delle sue prerogative divine, invece di tenerle gelosamente per se stesso e di considerarle un privilegio (cf. Fil 2,6-7). Proprio in questa profonda umiliazione, che è testimonianza della sua tentazione vera, reale (non un teatrino esemplare per noi!), Gesù fa pace tra cielo e terra, sicché le creature del cielo, gli angeli, nel deserto gli si accostano e lo servono. Lo riconoscono quale Dio nella carne di un uomo: Gesù da Nazaret, il figlio di Maria.

Gesù, amato in pienezza dell’amore del Padre dichiaratogli nell’ora del battesimo e accompagnato dallo Spirito santo, è ormai operante quale vincitore su Satana, sul male, sulla malattia, sulla morte. È il Messia veniente che porta la vita; basta dunque seguirlo, accogliendo il suo invito pressante che riassume in sé tutto il vangelo appena iniziato: “Convertitevi e credete nel Vangelo!”.

(Enzo Bianchi)

 

Il deserto nella città

Quando partii per il deserto avevo veramente lasciato tutto, com’è l’invito di Gesù: famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno… le mie idee che avevo su Dio e che tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.

E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in una idea e se avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui. Il mio maestro di noviziato mi continuava a dire: “Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all’Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare… contempla…”.

Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ancorato nelle mie idee.

Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare.

Mamma mia!

Lavorare nell’oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più. Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta.

Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca mi usciva solo qualche lamento.

L’unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà coi poveri, i veri poveri. Mi sentivo vicino a chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno durante l’estate.

Se per pregare era necessario un po’ di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda, ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orario. Non capivo più niente, meglio, incominciavo a capire le cose vere. Piangevo! […] E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io feci la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?

La preghiera passa nel cuore, non nella testa. […] Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.

Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa. Il dono che Dio fa di sé a chi gli offre la vita come dice il Vangelo: “Chi perde la sua vita la troverà” (Matteo 10,39).

(Carlo CARRETTO, Il deserto nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1986, 29-33).

 

Le due vite

L’ansia, lo stress, la contemplazione, l’abbondanza di pesticidi e di prodotti tossici hanno snaturato i cicli biologici della nostra vita. La ricca, supertecnologica, superlibertaria società occidentale è arrivata al capolinea. È una società fatta di esseri disperati che vagano in un deserto popolato di oggetti e hanno in mente un solo concetto: il diritto alla felicità. Dove felicità significa, soprattutto, pieno assolvimento dei desideri, dei sogni, delle istanze di quella cosa piccola e spesso confusa che si chiama ego. E questa felicità è sempre qualcosa che deve ancora venire e che verrà, sempre e comunque, da qualcosa di esterno. […] Quello che la società ha fatto dimenticare a tutti è che la ricchezza della vita umana si manifesta nelle relazioni –  e nella capacità di fare progetti, di superare ostacoli. La nostra mente, col suo vortice continuo di parole, col suo saper costruire concetti sempre più complessi, ha cancellato la verità fondante della vita, la più semplice: ogni essere umano ha bisogno di essere accolto, amato e di amare.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 14-16)

 

Quaresima!

Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno,

prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera,

tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore

e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.

Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri,

ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.

Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera

un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.

Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno,

di avvertire quella fame profonda

che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia,

da tante brame che attraversano la nostra esistenza.

Strada antica, quella della Quaresima,

sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.

Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo,

con audacia e con gioia,

perché è un percorso di liberazione,

che ci conduce a sperimentare

la forza e la bellezza della Pasqua.

 

Deserto

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di signifi­cato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitut­to un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah,  luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine di­menticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, sen­za piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabi­tato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto bibli­co non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’e­rosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piog­ge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escur­sioni termiche fra il giorno e la notte.

Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Nu­meri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’i­niziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dal­l’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cie­lo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b‑5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,8‑15). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fio­rirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1‑2). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che par­la). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e ri­ceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1‑14); è nel de­serto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19‑24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’ac­qua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel de­serto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa‑Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rin­novare l’alleanza nuziale…

Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra pro­messa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino fati­coso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come ten­tazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimane­re in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patisco­no la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo deser­tico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deu­teronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla cono­scenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11‑12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il de­serto come noviziato essenziale al suo ministero: il fac­cia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attac­cato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!

Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già espe­rienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la pau­ra che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della li­bertà. Una libertà che non è situata al termine del cam­mino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi baga­gli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fe­de: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e de­nunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deser­to per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abi­to lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.

Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il de­serto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del creden­te, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51). 

 

Soli nel deserto

      Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.  Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. Quando mia madre offre degli amaretti di Ladurée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgranocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.

      Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.

(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139)

 

Il deserto

Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine. Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui. Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani. Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chiamato e abilitato dalla grazia. Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza addossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora  oggi più che mai . Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sappiamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore. Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profonda povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.

(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp. 9-20).

 

«Fuggi, taci e prega»

Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’imperatore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio. Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato». Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».

Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».

Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto. Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.

(H.J.M. NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).

 

«Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24,12)

Cari fratelli e sorelle,

ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra conversione»,[1] che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore e con tutta la vita.

Anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (24,12).

Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi, alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo.

 

I falsi profeti

Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti?

Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e cadono preda della solitudine!

Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti! Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso! Questi truffatori, che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni… per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia: da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo. Ognuno di noi, perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene da Dio e vale veramente per il nostro bene.

 

Un cuore freddo

Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio;[2] egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di spegnersi?

Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti.[3] Tutto ciò si tramuta in violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese.

Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità: la terra è avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse; i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate; i cieli – che nel disegno di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte.

L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi sono: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario.[4]

 

Cosa fare?

Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.

Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi,[5] per cercare finalmente la consolazione in Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.

L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello: ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita! Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo l’esempio degli Apostoli e vedessimo nella possibilità di condividere con gli altri i nostri beni una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa. A questo proposito faccio mia l’esortazione di san Paolo, quando invitava i Corinti alla colletta per la comunità di Gerusalemme: «Si tratta di cosa vantaggiosa per voi» (2 Cor 8,10). Questo vale in modo speciale nella Quaresima, durante la quale molti organismi raccolgono collette a favore di Chiese e popolazioni in difficoltà. Ma come vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità, Lui che non si lascia vincere in generosità?[6]

Il digiuno, infine, toglie forza alla nostra violenza, ci disarma, e costituisce un’importante occasione di crescita. Da una parte, ci permette di sperimentare ciò che provano quanti mancano anche dello stretto necessario e conoscono i morsi quotidiani dalla fame; dall’altra, esprime la condizione del nostro spirito, affamato di bontà e assetato della vita di Dio. Il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame.

Vorrei che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa Cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!

 

Il fuoco della Pasqua

Invito soprattutto i membri della Chiesa a intraprendere con zelo il cammino della Quaresima, sorretti dall’elemosina, dal digiuno e dalla preghiera. Se a volte la carità sembra spegnersi in tanti cuori, essa non lo è nel cuore di Dio! Egli ci dona sempre nuove occasioni affinché possiamo ricominciare ad amare.

Una occasione propizia sarà anche quest’anno l’iniziativa “24 ore per il Signore”, che invita a celebrare il Sacramento della Riconciliazione in un contesto di adorazione eucaristica. Nel 2018 essa si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 marzo, ispirandosi alle parole del Salmo 130,4: «Presso di te è il perdono». In ogni diocesi, almeno una chiesa rimarrà aperta per 24 ore consecutive, offrendo la possibilità della preghiera di adorazione e della Confessione sacramentale.

Nella notte di Pasqua rivivremo il suggestivo rito dell’accensione del cero pasquale: attinta dal “fuoco nuovo”, la luce a poco a poco scaccerà il buio e rischiarerà l’assemblea liturgica. «La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito»,[7] affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la parola del Signore e nutrirci del Pane eucaristico consentirà al nostro cuore di tornare ad ardere di fede, speranza e carità.

Vi benedico di cuore e prego per voi. Non dimenticatevi di pregare per me.

Dal Vaticano, 1° novembre 2017

Solennità di Tutti i Santi

FRANCESCO

________________________

[1] Messale Romano, I Dom. di Quaresima, Orazione Colletta.

[2] «Lo ’mperador del doloroso regno / da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia» (Inferno XXXIV, 28-29).

[3] «E’ curioso, ma tante volte abbiamo paura della consolazione, di essere consolati. Anzi, ci sentiamo più sicuri nella tristezza e nella desolazione. Sapete perché? Perché nella tristezza ci sentiamo quasi protagonisti. Invece nella consolazione è lo Spirito Santo il protagonista» (Angelus, 7 dicembre 2014).

[4] Nn. 76-109.

[5] Cfr Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi, 33.

[6] Cfr Pio XII, Lett. Enc. Fidei donum, III.

[7] Messale Romano, Veglia Pasquale, Lucernario.

 

Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.

È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso!

Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.

Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.

La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita.

Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni.

Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.

E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.

Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.

Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

I QUARESIMA ANNO B 

VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Levitico 13,1-2.45-46

Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.  Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

 

v I capitoli 11-15 del libro del Levitico, di cui fa parte questo brano sono chiamati dagli esegeti «codice di purità» (in parallelismo con i capitoli 17-26, chiamati «codice di santità»). Il nome è giustificato dal fatto che, in questa sezione, vengono elencate le realtà che avvicinavano a Dio (tutte racchiuse nel nome generico di «puro») e quelle che a Dio si oppongono o da Dio allontanano (come le malattie e la morte, ma anche fenomeni come il parto o fenomeni legati al ciclo della femminilità ecc.: queste vengono racchiuse nel nome generico di «impuro»). Anche la lebbra rientra in queste realtà negative, anzi vi entra in modo esemplare perché il termine ebraico che la definisce — negàh, «colpire» — è diventato sinonimo della «piaga» per eccellenza che allontana da Dio e mediante la quale Dio punisce.

     Bisogna, tuttavia, notare che presso l’antico Israele il concetto di lebbra era molto più ampio del nostro. Infatti, ogni malattia della pelle («arrossamento, pustola, macchia bianca») — e le stesse muffe dei muri delle case — venivano considerate come lebbra. Inoltre questa malattia conduceva a una totale esclusione dalla comunità. Questo spiega il particolare modo di vestire («vesti strappate, capo scoperto, coprirsi la barba») e l’obbligo di abitare fuori dall’accampamento o dall’abitato e di segnalare la propria presenza, per evitare di contagiare gli altri (il lebbroso deve gridare: «Impuro! Impuro!»).

 

Seconda lettura:1 Corinzi  10,31-11,1

Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.  Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

 

v Il breve brano proposto contiene la conclusione della trattazione di alcuni problemi che assillavano la comunità cristiana di Corinto. Vivendo in ambiente pagano e idolatra, più in particolare i problemi riguardavano la partecipazione ai sacrifici pagani e all’eucaristia e il mangiare le carni offerte in sacrificio agli idoli (chiamate con termine greco «idolotìti» dal verbo thyo, «sacrificare»). Queste carni venivano distribuite e offerte come cibo nel banchetto che seguiva al sacrificio, ma venivano anche vendute nei mercati.

     Paolo dà questo consiglio: se il cristiano viene invitato a un banchetto e non e al corrente della provenienza delle carni che gli vengono offerte in cibo, ne può mangiare (al riguardo Paolo cita, come giustificazione il Salmo 24,1: «Del Signore è la terra e tutto ciò che contiene»). Se invece il cristiano sa che le carni provengono dai sacrifici offerti dai pagani agli idoli, se ne deve astenere. Ciò viene motivato dal fatto che si potrebbe dare occasione di scandalo a chi è ancora «debole» nella fede («Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio»).

     L’astensione dall’assumere queste carni è motivo per il cristiano di testimoniare apertamente la fede nell’unico vero Dio e di esprimere la sua opposizione al culto degli idoli, assai fiorente nella città di Corinto. Su tutto, però, deve prevalere il principio della ricerca di Dio e della sua gloria e non il proprio tornaconto: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». La vita, l’opera e il comportamento di Paolo stesso sono il modello di questa ricerca di Dio su tutto: «Così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo».

 

Vangelo: Marco 1,40-45

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.  E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».

Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte. 

 

Esegesi

     Lo sfondo del brano evangelico è quello della prima lettura, dedicata alla descrizione del significato negativo della lebbra all’interno della comunità israelitica e alle precauzioni da assumere nei suoi confronti. Ma lo sfondo è anche quello «teologico» del vangelo di Marco, nel quale i miracoli di Gesù vengono presentati con lo scopo di condurre i suoi contemporanei a riconoscere in lui il Figlio di Dio. Quanto allo sfondo biblico, è interessante notare come ancora ai tempi di Gesù fossero in vigore le norme del libro del Levitico, che per i lebbrosi contemplavano l’emarginazione, l’esclusione dalla comunità, un vestito e un comportamento particolari (vedi la prima lettura), cioè la morte civile e religiosa. Il leb-broso del vangelo infrange queste norme «andando» da Gesù, quindi rompendo l’isolamento. E Gesù stesso infrange queste norme, quando «tocca» il lebbroso. Toccare chi era colpito dalla lebbra, significava infatti essere dichiarato immondo, con conseguenze gravi per la vita religiosa.

     «Se vuoi, puoi purificarmi!»: il lebbroso ha la percezione che solo Gesù, con i poteri e l’autorità che sta dimostrando attraverso i miracoli, ha la capacità di guarirlo dalla lebbra. Nessun altro può restituirlo alla vita civile e quotidiana, perché la legge è rigorosissima. Questa percezione diventa fede quando, nel suo significato più profondo, la lebbra è vista come immagine del peccato, che emargina l’uomo da Dio e dalla comunità di fede. Solo Gesù ha la capacità di salvare. I verbi di miracolo («guarire, sanare») nei vangeli diventano perciò i verbi della fede («salvare, convertire a Dio»).

     «Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò»: con questi verbi appare in pienezza l’umanità di Gesù, che si ribella allo stato di emarginazione in cui venivano relegati i lebbrosi. È, questo, un progresso nel riconoscimento della dignità dell’uomo che versa nella malattia, un progresso che solo il vangelo può favorire e ancora oggi propone di fronte alle più svariate emarginazioni a cui viene condannato l’uomo debole, indifeso, ammalato.

     «Ammonendolo severamente»: Gesù ha la consapevolezza di aver trasgredito la legislazione del Levitico e per questo si dimostra severo con il destinatario del miracolo di guarigione. Ma ha pure la consapevolezza di aver ridato vita, gioia, felicità, comunità, casa, famiglia, affetti, a chi ingiustamente veniva emarginato. Gli esegeti — in riferimento anche a quanto è detto nel v. 14 («Guarda di non dire niente a nessuno») — vedono qui un’allusione al cosiddetto «segreto messianico». Gesù cioè non vuole essere riconosciuto Messia attraverso i gesti miracolosi che compie, ma soprattutto nell’umiliazione della croce.

     «Va’, invece, a mostrarti al sacerdote»: secondo le norme del Levitico (capitoli 13-14) erano i sacerdoti a stabilire la presenza della lebbra, a ratificare le norme da applicare nei confronti del lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione. Forse Gesù vuole anche far capire ai sacerdoti che la legislazione del Levitico ha ormai esaurito la propria funzione ed è tempo di chinarsi con più amore e compassione su chi soffre ed è emarginato.

 

Meditazione

      Il Vangelo di Marco continua ad accompagnarci di domenica in dome­nica per renderci partecipi della vita stessa di Gesù e del suo cammino per le strade del mondo. E ci mostrano il clima nuovo che nasceva al passaggio di Gesù. Era visibile una straordinaria corrente di misericor­dia che percorreva le strade di quella lontana periferia dell’Impero romano. Avvenivano cose che mai prima si erano viste. Il brano odierno si apre con una notazione asciutta e singolare per quel tempo: «Venne a Gesù un lebbroso». Era davvero strano che un lebbroso osasse avvici­narsi a qualcuno, visto che avevano l’obbligo di stare ben lontani dalla gente. Il libro del Levitico era categorico: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto, velato fino al labbro superiore, andrà gridando: Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (13,46). L’esclusione dalla convivenza con gli altri rendeva questa malat­tia ancor più terribile di quel che già appariva. I rabbini giungevano a considerare i lebbrosi come dei morti in vita, e ritenevano la loro guari­gione più improbabile della stessa risurrezione. Ecco perché appare strano che un lebbroso osi avvicinarsi a Gesù superando un’abissale distanza garantita dalla legge. Ma, da chi altro poteva andare? Tutti, protetti dalle disposizioni legali oltre che dalla paura del contagio, si tenevano ben lontani dai malati di lebbra. L’unico che non si compor­tava così era Gesù. I lebbrosi l’avevano capito e andavano da lui.

Quanti malati di «lebbra» ci sono anche oggi, vicino o lontano da noi! E non parlo tanto dei colpiti dalla lebbra vera e propria, peraltro facil­mente curabile, quanto di coloro che vedono la propria vita segnata irrimediabilmente dalla malattia senza neppure la speranza di poter sognare una vita migliore per il tempo che gli resta! E ancora oggi siamo in molti, in troppi, a fuggire da loro per paura di essere contagiati, oppu­re, come qualcuno dice, per non essere rattristati alla loro vista (e loro, che ci sono dentro, cosa dovrebbero dire?). Quei lebbrosi, contraria­mente a quel che normalmente accadeva, quando venivano a sapere che

stava per passare Gesù, superavano barriere di paura e di diffidenza e accorrevano da lui. Il giovane profeta di Nazareth creava un clima nuovo attorno a sé, una atmosfera piena di compassione e di misericordia che attraeva malati, peccatori, poveri, deboli, emarginati. Quel lebbroso, finalmente e chissà con quanta fatica, giunse accanto a Gesù e gli si gettò ai piedi. Non usò molte parole, non si mise a spiegare la sua malattia, disse semplicemente ma con fede: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Chiede di essere purificato, perché la lebbra rendeva «impuri», cioè lontani da Dio, impedendo ai lebbrosi di frequentare il tempio. Anche il contagio rendeva chi li avvicinava «impuri». Per questo la legge li obbligava a vive­re fuori dai luoghi abitati. Ma per Gesù niente è così grave e terribile da allontanare qualcuno definitivamente da Dio. Per questo egli mangia con i pubblicani e i peccatori. La richiesta del lebbroso è così più di una semplice guarigione corporale. Egli desidera essere reintegrato nella vita sociale e religiosa. L’esclusione e la disperazione di quel lebbroso si tra­sforma in fede, una fede semplice, ma vera.

Gesù «ne ebbe compassione». «Avere compassione» è un atteggia­mento che in Marco viene riferito soltanto a Gesù (cfr. 6,34; 8,2; 9,22): È, potremmo dire, la caratteristica di Gesù verso il bisogno della gente. Poi Gesù «stese la mano, lo toccò». Lo stendere la mano (meglio che «tese la mano», secondo la nuova traduzione CEI) è un’azione propria di Dio o di un suo inviato, che nel Primo Testamento interviene per liberare il suo popolo dalla schiavitù e dalla morte (cfr. Es 8,1.12; 9,22; 10,12; 15,12…). Gesù non rifugge dal contatto. Ricordiamoci che tocca­re un lebbroso significava diventare impuri, essere contaminati. Gesù non teme il contagio, anzi lo vince con la vicinanza, con il proprio rap­porto personale, andando ben oltre la mentalità che stava dietro la paura del contagio. Ed ecco la volontà di Gesù, espressa direttamente: «Lo voglio, sii purificato». Volontà che gli uomini stiano saldi nell’ami­cizia con Dio, liberati dalla malattia e dal peccato, guariti, purificati: di nuovo amici e alleati di Dio. Di fronte a Gesù niente è impuro perché egli stesso ristabilisce la comunione con la vita, con Dio. Lo aveva ben capito l’apostolo Paolo che, scrivendo ai Corinti circa la partecipazione a pasti in cui si mangiava carne sacrificata agli idoli e ben conoscendo la legge di Israele, sottolinea che niente davanti a Dio è impuro, anche se non tutto giova. Tutto ciò che è contrario a Dio, espresso nella con­cezione religiosa di allora in ciò che è impuro, viene combattuto, elimi­nato, sgomberato per lasciare spazio. Quell’uomo fu subito purificato. Ma Gesù, in modo strano, non vuole che quell’uomo divulghi il fatto. E ne vediamo subito dopo il motivo, perché in verità il lebbroso, con­travvenendo all’ordine di Gesù, diventa il primo missionario, il primo che parla del Vangelo del regno, quella parola che guarisce e salva e dà agli uomini la possibilità di tornare in alleanza con Dio. Infatti la conseguenza è che «Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti». Gesù, avvicinando e toccando quel lebbroso, si è assunto la sua impurità e finisce per vivere come lui, in luoghi deserti. Quanto è grande la compassione del Signore, che si assume il male degli uomini perché la volontà unica di Dio è il bene, la vita, e non l’esclusione!

Ma niente può fermare la volontà di salvezza di Dio. La conclusione del testo, «Venivano a lui da ogni parte», mostra che questo racconto si conclude ma non segna una fine, bensì un inizio per tutti coloro che vengono da Gesù. Ecco superata la legge, il divieto. Per lui è vietato entrare, e allora da ogni dove vengono a lui. Cosa può impedire alla forza di Dio di trasmettersi, di guarire, di salvare, di dare nuova vita agli uomini? Ora che il tramite, Gesù stesso, è così perfettamente immedesimato persino con i più disperati fra essi? Niente può fermare la forza del Vangelo del regno, che vive nella compassione di Gesù.

La scena evangelica spinge tutti noi ad incontrare e ascoltare, a toccare e sentire il grande bisogno di salvezza che hanno i milioni di «lebbrosi» che ancora oggi vivono ai margini della vita; a volte sono popoli interi a giacere in questa incredibile situazione. È scandaloso accettare di convivere con la morte, con le stragi, con la paura del contatto e del contagio con chi è malato, povero e sconfitto. La compassione di Gesù non è solo un fatto puntuale, relativo ad un caso o all’altro, magari a quello che suscita più facilmente emozioni anche perché ben propagandato. Gesù, con la sua risposta, ci mostra qual è la sua volontà sulla lebbra e sul male, qualunque esso sia: «Lo voglio, guarisci!». Sì, la volontà di Dio è chiarissima: lottare contro ogni genere di male. Siamo davvero lontani da quella convinzione piuttosto diffusa che attribuisce a Dio la decisione di distribuire il male agli uomini a secondo del loro peccato. Nulla è più estraneo dal Vangelo. Oggi, forse ancor più di ieri, abbiamo bisogno di un «uomo» che cammini in mezzo a noi come Gesù sapeva fare. Ma non è questa la vocazione stessa della Chiesa e di ogni credente anche in questo secolo così segnato dal male?

 

L’immagine della domenica

 
 

DOMANDE E RISPOSTE

“Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle. Il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.

Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.

(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Milano, Adelphi, 1999).


Preghiere e racconti

 

I dieci lebbrosi

I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole

tutti guariti, mostrandosi la pelle sana

liberati dall’immonda raganella

che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.

Uno solo si gira, inquieto di camminare

fra due ombre: una dietro di lui

come i nove compagni e l’altra

leggera, davanti a lui, già calante

come se il suo dorso restasse rischiarato

dall’oriente, lo sguardo intravisto

che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti

– la Vita che si dona, dimenticata dalla vita

che segue e ricomincia. Dov’era il miracolo

prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.

Gli altri nove sono lontano. Allora, lui decide

di risalire il fiume della strada.

(J.P. Lemaire, La rotta)

 

Dio è guarigione contro ogni nostro male

Un lebbroso. Il più malato dei malati, di malattia non soltanto fisica, un rifiuto della società: «porterà vesti strappate, velato fino al labbro superiore… è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 13,46). E Gesù invece si avvicina, si oppone alla cultura dello scarto, accoglie e tocca il lebbroso, l’ultimo della fila. Tocca l’intoccabile. Ama l’inamabile: per la legge mosaica quell’uomo era castigato da Dio per i suoi peccati, un rifiutato dal cielo. Il lebbroso non ha nome né volto, perché è ogni uomo. A nome di ciascuno geme, dalla sua bocca velata, una espressione bellissima: «Se vuoi, puoi guarirmi». Con tutta la discrezione di cui è capace dice: «Se vuoi».

E intuisco Gesù felice di questa domanda grande e sommessa, che gli stringe il cuore e lo obbliga a rivelarsi: «Se vuoi». A nome di ogni figlio della terra il lebbroso chiede: che cosa vuole veramente Dio da questa carne piagata, che se ne fa di queste lacrime? Vuole sacrifici, una pedagogia di sofferenze per provare la nostra pazienza, o vuole figli guariti? E Gesù felice di poter rivelare Dio, di poter dire una parola ultima e immensa sul cuore di Dio risponde: «Lo voglio: guarisci!». Ripetiamocelo, con emozione, con pace, con forza: eternamente Dio altro non vuole che figli guariti.

A me dice: «Lo voglio: guarisci!». A Lazzaro grida: «Lo voglio: vieni fuori!». Alla figlia di Giairo: «Talità kum. Lo voglio: alzati!». È la buona novella: un Dio che fa grazia, che risana la vita, a cui importa la mia felicità prima e più della mia fedeltà. A ogni pagina del Vangelo Gesù mostra che Dio è guarigione! Non conosco i modi e i tempi, ma so che adesso lotta con me contro ogni mio male, rinnovando goccia a goccia la vita, stella a stella la notte. Il lebbroso guarito disobbedendo a Gesù si mise a proclamare e a divulgare il fatto. Ha ricevuto e ora dona, attraverso gesti e parole e carne di primavera, la sua esperienza felice di Dio. L’immondo diviene fonte di stupore, il rifiutato è trasformato dall’accoglienza.

Ciò che è scritto qui non è una fiaba, funziona davvero, funziona così. Persone piene di Gesù oggi riescono a fare le stesse cose di Gesù. Pieni di Gesù fanno miracoli. Sono andati dai lebbrosi del nostro tempo: barboni, tossici, prostitute, li hanno toccati, un gesto di affetto, un sorriso, e molti di questi, e sono migliaia e migliaia, sono letteralmente guariti dal loro male, e sono diventati a loro volta guaritori. Prendere il vangelo sul serio ha dentro una potenza che cambia il mondo. E tutti quelli che l’hanno preso sul serio e hanno toccato i lebbrosi del loro tempo, tutti testimoniano che fare questo dona una grande felicità.

(Ermes Ronchi)

 

“Se vuoi, puoi purificarmi!”

Nel vangelo di questa domenica leggiamo un racconto che ha un inizio improvviso, senza precisazione di tempo e di luogo, un racconto che facilmente ci appare attuale, collocabile qui è ora: è l’incontro tra Gesù e un uomo affetto da lebbra. Il lebbroso era allora ed è ancora adesso un malato ripugnante, a tal punto che lo si qualificava come un uomo morto. Per un giudeo, poi, la lebbra era segno di un preciso castigo di Dio, una malattia mediante la quale erano stati colpiti per i loro peccati la sorella di Mosè, Miriam (cf. Nm 12,9-10), il servo del profeta Eliseo (cf. 2Re 5,27) e altri peccatori.

Grande è l’orrore, terribile la reazione di fronte a questa malattia che devasta fino alla putrefazione della carne il volto e il corpo dei malati. Essendo la lebbra contagiosa, esigeva che il malato fosse escluso dalla convivenza, segregato in qualche luogo deserto e riconoscibile dal grido che doveva emettere qualora vedesse qualcuno avvicinarsi a lui: “Sono impuro! Sono impuro!” (cf. Lv 13,45-46). Un lebbroso appariva dunque come una persona senza possibilità di relazione e di comunione, né con Dio né con gli uomini.

Ed ecco l’incontro tra Gesù e un lebbroso che viene a lui, gli si inginocchia davanti e lo supplica: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Di quest’uomo non sappiamo nulla, né possiamo valutare la sua vita e la sua fede. Certamente ha fiducia in Gesù, che gli pare affidabile; da Gesù è attratto come da un uomo che può fare qualcosa per lui. Con audacia, più che con fede, si avvicina dunque a quell’uomo che merita ascolto, fiducia, forse anche adesione.

E Gesù davanti a costui ha una reazione: proprio perché lo guarda e pensa a cosa significa questa malattia, proprio perché sente il fetore delle sue piaghe e vede il suo viso stravolto, il suo corpo devastato, “va in collera” (orghistheís), adirato per l’intollerabilità del male e del destino che pesa su quest’uomo. Sì, Marco ci narra un Gesù collerico, che, proprio perché è capace di passione, ha una reazione di collera; ci descrive quanto Gesù senta intollerabile una tale situazione per un uomo che è suo fratello, uomo come lui, uguale a lui nella dignità di persona umana.

Ma anche l’evangelista non sapeva che, usando alcune espressioni che testimoniano l’umanità vera e concreta di Gesù, poteva destare stupore, opposizione e giudizio su Gesù. Sempre, infatti, soprattutto tra gli uomini religiosi, ci sono anime mefitiche, talmente tese a una santità formale che si scandalizzano della passione di Gesù e della sua collera. Questi religiosi sono sempre in scena. Per loro Gesù avrebbe dovuto prima pensare a cosa prevede la Legge, poi mostrare il suo sentimento conformemente a ciò che la Legge comanda.

E invece Marco, volendo mostrare in modo chiaro e comprensibile i comportamenti di Gesù, dice ciò che per alcuni non è sopportabile: Gesù va in collera, qui come altrove (cf. Mc 3,5: di fronte ai farisei; 10,14: di fronte ai suoi discepoli). Sì, Gesù andò in collera, perché sapeva vivere il conflitto e ribellarsi contro il male, la malattia, la situazione di schiavitù e di segregazione che rendeva come morto quell’uomo. Non era cosa giusta, ed ecco allora la collera di Gesù!

Qualche scriba, però, pensò di correggere questa espressione, che in alcuni manoscritti diventò: “fu preso da compassione” (splanchnistheís; cf. Mc 6,34 e 8,2: di fronte alle folle). Così le persone a bassa frequenza di sentimenti ne sono state soddisfatte… In verità anche nell’espressione “andò in collera” c’era la passione della compassione, ma con questa correzione, che la versione italiana segue, il comportamento di Gesù appare più accettabile.

In quello scatto d’ira, Gesù prende la mano di quell’uomo, lo tocca, entrando così in relazione, anzi in comunione con lui. Mano lebbrosa nella mano di Gesù, contatto vietato dalla Torah, stretta di una carne giudicata demoniaca, e il suo gesto viene accompagnato dalla parola: “Lo voglio, sii purificato!”. “E subito” – annota Marco – “la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato”: quel lebbroso è guarito, la sua fiducia in Gesù ha ottenuto il risultato sperato, la sua preghiera di compassione è stata esaudita.

Non è più uno scomunicato, anzi è una persona che è entrata in piena comunione con Gesù, il quale ha eliminato quel male così orribile ed escludente. Questo dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano verso i malati, quando la cura diventa mano nella mano, occhio contro occhio, volto contro volto, un bacio come quello che Francesco d’Assisi seppe dare al lebbroso quale segno dell’inizio di un’altra visione e dunque di un’altra vita.

Ma dopo la guarigione ecco ancora un Gesù che non piace ai religiosi che si nutrono solo di miele. Il testo dice che Gesù, “sdegnandosi con lui, lo cacciò via subito”. Avvenuta la liberazione, Gesù non sta lì a prendere complimenti, a chiedere che si guardi e si constati la sua azione: non è infatti mai tentato dal narcisismo che attende il riconoscimento per il bene fatto e, a costo di sembrare burbero e scortese, si sdegna e scaccia quell’uomo da lui guarito, ammonendolo di non dire niente a nessuno.

Gesù non vuole essere riconosciuto per uno che fa miracoli, non vuole che lo acclamino per delle azioni prodigiose, e soprattutto vuole che il segreto riguardo alla sua identità di Messia sia svelato e proclamato quando sarà appeso alla croce. Solo allora è lecito, a chi ha capito Gesù, dire che egli era buono, che era giusto (cf. Lc 23,47), che era il Figlio di Dio (cf. Mc 15,39; Mt 27,54).

Gesù è discreto di fronte alla gente, fa silenzio e fa fare silenzio per non destare l’applauso, conosce l’arte della fuga per sottrarsi al facile consenso degli altri, ma va in collera, si sdegna visibilmente di fronte alla sofferenza, alla menzogna, al misconoscimento della verità, alla pigrizia e alla vigliaccheria delle persone.

(Enzo Bianchi)

 

La sofferenza come maestra

 Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.

Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla. 

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).

 

«Se vuoi, puoi purificarmi!»

Chi supplica la volontà, non dubita del potere.

E stendendo la mano Gesù lo toccò e disse: «Lo voglio: sii mondato». E sull’istante fu mondato dalla sua lebbra (Mt 8,3). Appena il Signore stende la mano, subito la lebbra scompare. Ma osserva anche quanto sia umile e immune da vanità la sua risposta. Il lebbroso aveva detto: «Se tu vuoi», e il Signore risponde: «Lo voglio». Il lebbroso aveva detto: «Puoi mondarmi», e il Signore replica dicendo: «Sii mondato». Non dobbiamo congiungere le due parti della risposta, come credono molti latini, che leggono: «Ti voglio mondare»; dobbiamo tenerle separate, sicché egli prima dice: «Lo voglio», e poi, dando un ordine: «Sii mondato».

E Gesù disse: «Guardati dal dirlo ad alcuno» (Mt 8,4). E, in verità, che necessità aveva il lebbroso di fare tanti discorsi sulla sua guarigione, quando il suo corpo guarito parlava per lui?

«Ma va’, mostrati ai sacerdoti e presenta l’offerta che Mosè ha prescritto, affinché serva a loro di testimonianza» (Mt 8,4). Per varie ragioni lo manda ai sacerdoti. In primo luogo, per un atto di umiltà, affinché cioè il lebbroso risanato rendesse onore ai sacerdoti: era infatti prescritto dalla legge che coloro che venivano mondati dalla lebbra presentassero un’offerta ai sacerdoti. Poi perché i sacerdoti, vedendo che il lebbroso era stato mondato, potessero credere al Salvatore, oppure si rifiutassero di farlo: se avessero creduto sarebbero stati salvi; se si fossero rifiutati di farlo, la loro colpa sarebbe stata senza attenuanti. E infine perché si rendessero conto che egli non infrangeva la legge, cosa di cui tanto spesso lo accusavano.

(SAN GIROLAMO (+ 419/420), Commento al Vangelo di Matteo I, 8,2-4, in GIROLAMO, Commento al Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova Editrice, 1969, 63-64).

 

Dalla Leggenda Maggiore

Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.

 

San Francesco, la fede e la vista dei lebbrosi

Nel “Testamento” redatto (o meglio dettato) da Francesco, si trova una frase che pare essere la chiave di comprensione della vita di questo giovane: «Quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e con essi usai misericordia»(Cf. Fonti Francescane, Padova 2004, n. 110).

«E ciò che mi sembrava amaro  continua il testo  mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo». Ciò che fece scattare la conversione di Francesco fu dunque la vista dei lebbrosi. Egli si lasciò condurre dal Signore, e ciò che prima gli appariva ripugnante gli si cambiò in dolcezza. Da questa storia emerge un’altra immagine di Dio che è un’altra immagine dell’uomo. Quando è in crisi l’immagine di Dio è in crisi l’uomo, e viceversa. Dobbiamo dunque alimentare la nostra fede sposando la causa degli ultimi, come fece otto secoli fa Francesco, e non per semplice carità cristiana e nemmeno soltanto per un senso di giustizia. La nostra unica giustizia non è altro che Cristo, che ci sprona e ci possiede. Il nostro senso di giustizia, infatti, è sempre storicamente determinato e, quando l’avessimo realizzato, ci troveremmo magari a essere oppressori degli ultimi (ieri lebbrosi soltanto, oggi lebbrosi ammalati di AIDS). La nostra immagine di giustizia è una nostra via, ma le vie della giustizia di Dio non sono le nostre vie. La nostra via, e qui è sempre Paolo a ricordarlo, è il Cristo «crocifisso per la sua debolezza» (2Cor 13,4), perciò io devo compiacermi «nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Restituire a Dio la sua santità, abolendo le immagini letterarie o scientifiche che presumono di tradurlo, non vuol dire cadere in un fideismo cieco. Chi parla di Dio con sicurezza da professore è potenzialmente un uomo iniquo. Solo se c’è adorazione, tremore, incapacità a volte di dire chi è Dio se non vedendolo nell’aspetto repellente del lebbroso, allora c’è anche rispetto per l’uomo. Francesco trovò la fede, e quindi la verità, sotto la santità e la durezza della croce, nel volto sfigurato dei malati. Ritrovare la fede, dunque, significa, sul piano storico, farsi garanti della libertà e della vita della persona; abolire tutte le barriere, tutte le discriminazioni consumate sulla stessa vita umana nello sterile e misero dibattito su ciò che è vita e ciò che vita non è; riconoscere che vita è sinonimo di giovinezza perenne dello spirito, indipendentemente dagli anni o dalla condizione fisica o sociale, respingendo le catalogazioni che rendono ancora così disumana la nostra società postmoderna.

Da persone come Paolo e Francesco inizia un discorso che va lasciato al silenzio di ognuno, ma che non può risolversi se non in un rinnovato impegno ad adoperarsi perché cambi questa società e sia non un luogo di divisioni e di conflitti, ma di unione nel Cristo, segno di unità tra tutti gli uomini. Non di competizione e conflittualità parlano Paolo e Francesco, ma di animazione cristiana interna al cammino storico fino alle prospettive che superano miti e dualismi e si identificano con l’eterna comunione con quel Dio che sarà un giorno Tutto in tutti.

(Franco CAREGLIO, San Paolo e San Francesco, giovani per i secoli, in «Paulus» (2009) 2).

 

Coraggio, fratello che soffri

Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.

Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

(Don Tonino Bello)

 

Che significato ha una malattia nel corso della vita?

Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini. Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radici, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.

Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabilmente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soccombe?

Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distruzione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.

Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può crescere anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.                                    

Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre?

(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130)

 

Insegnaci a non amare solo noi stessi

Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi,

a non amare soltanto i nostri cari,

a non amare soltanto quelli che ci amano.

Insegnaci a pensare agli altri,

ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.

Concedici la grazia di capire che in ogni istante,

mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te,

ci sono milioni di esseri umani,

che pure sono tuoi figli e nostri fratelli,

che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame,

che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.

Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo;

e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.

Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.

(Raoul Follereau)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

PROGRAMMAZIONE «IRC» Triennio 2017-2020

Le comunità educative più che «in-segnare», cioè, mettere in segni fissi quello che sanno, «si educano» (e-ducono), ossia, nascono, crescono, vivono, ricreando loro stesse i simboli della vita (e della fede). All’insegnamento corrisponde l’istruzione: decifrare, catalogare e rinnovare i segni del conosciuto. All’educazione, invece, corrisponde l’«iniziazione»: quell’avvicinarsi tremante ai simboli per scoprire le relazioni che hanno in serbo per noi. L’insegnamento porta ad imparare un linguaggio; l’educazione conduce ognuno a parlare da sé stesso.

 Il triennio 2014-2017 ci ha permesso di lavorare in tale direzione cercando di rivedere i concetti di educazione, di apprendimento e di insegnamento o istruzione. Nell’educazione non si tratta di accumulare saperi, ma di costruirli di volta in volta per affrontare le sfide e le novità della vita. Le provocazioni vengono dalla vita e le risposte vanno ricercate con un lavoro di apprendimento fatto insieme ai ragazzi e alle ragazze. In quei tre anni, concretamente, abbiamo sviluppato la tematica generale dell’«Educazione, apprendimento e insegnamento della religione» in queste prospettive specifiche:
 ¡ Analisi della situazione e prospettive educative (2014-2015). ¡ Educazione e apprendimento (2015-2016). ¡ Religione e cittadinanza (2016-2017).

  • IRC/2017-2020 — «IRC» e il «cristianesimo di domani» 
  • 2017-2018: Giovani generazioni e «ricostruzione del cristianesimo».   2018-2019: L’«IRC» nell’orizzonte culturale e teologico contemporaneo.  
  • 2019-2020: «IRC» e identità cristiana. 

 

Il nuovo triennio 2017-2020, in linea di continuità con la precedente programmazione, si colloca più esplicitamente nell’ambito della «formazione permanente» dei professori che lavorano all’interno dell’«IRC».

 

Approfondisci:

programmazione triennale formazione insegnanti di religione

 

Gioia per il mondo

“L’amore dà sempre vita”, si apre con queste parole di papa Francesco il Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente per la 40ª Giornata Nazionale per la Vita, che si celebrerà il 4 febbraio 2018.
La Giornata è incentrata sul tema “Il Vangelo della vita, gioia per il mondo” e il Messaggio dei Vescovi italiani sottolinea che “la gioia che il Vangelo della vita può testimoniare al mondo, è dono di Dio e compito affidato all’uomo”. Un dono “legato alla stessa rivelazione cristiana” e “oggetto di richiesta nella preghiera dei discepoli”.
I Vescovi richiamano l’ammonimento del Santo Padre sui “segni di una cultura chiusa all’incontro” che “gridano nella ricerca esasperata di interessi personali o di parte, nelle aggressioni contro le donne, nell’indifferenza verso i poveri e i migranti, nelle violenze contro la vita dei bambini sin dal concepimento e degli anziani segnati da un’estrema fragilità”. Il Papa ricorda che “solo una comunità dal respiro evangelico è capace di trasformare la realtà e guarire dal dramma dell’aborto e dell’eutanasia”, una comunità che “sa farsi ‘samaritana’ chinandosi sulla storia umana lacerata, ferita, scoraggiata”, una comunità che cerca il sentiero della vita.
Allora, si legge nel Messaggio “punto iniziale per testimoniare il Vangelo della vita e della gioia è vivere con cuore grato la fatica dell’esistenza umana, senza ingenuità né illusorie autoreferenzialità”.
Così, concludono i Vescovi, “la Chiesa intera e in essa le famiglie cristiane, che hanno appreso il lessico nuovo della relazione evangelica e fatto proprie le parole dell’accoglienza della vita, della gratuità e della generosità, del perdono reciproco e della misericordia, guardano alla gioia degli uomini perché il loro compito è annunciare la buona notizia, il Vangelo”.

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7

 Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».

 

v Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è destinato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).

     Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al versetto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope. Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili. Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fondamentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dall’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui. Il «vedere» di Giobbe e di Dio.

     Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente alternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio. «L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1). Il paragone della vita è il servizio militare (cf. Gb 14,14) duro, senza possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato. A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf. Gb 14,6) e lo schiavo. La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf. Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dallo schiavo (Gb 7,2). Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).

     Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti. Egli insiste sull’insonnia. La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica. Le ore della notte sembrano interminabili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo conforto. La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf. 3,6, 9,25).

     Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf. 19,20; Ab 3,16). La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo. Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio,  come il responsabile ultimo della vita. A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita umana. Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, perché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale. Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10). L’immagine del vedere è molto insistente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).

    

Seconda lettura:1 Corinzi 9,16-19.22-23

 Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!  Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.

 

v Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense materiali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa. Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire. Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

     Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi. E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce. Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf. 1Ts 2.9).

     Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predicare. Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, senza nessuna imposizione. Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno. Paolo dunque proclama di essersi messo in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto delle loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22). Il Vangelo non va predicato e basta. Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo accettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).

 

Vangelo: Marco 1,29-39

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».  E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

 

Esegesi

     La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guarigione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf. Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf. Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf. Mt 4,23).

     Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo familiare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.

     Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf. 1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.

     Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione. I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suocera, che del resto rimane nell’anonimato.

     Il verbo puresso, avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.

     Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano». In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda alla febbre di lasciarla.

     La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre. Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.

     Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».

     Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neutro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».

     «Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.

     Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due termini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».

     Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34). È ricorrente in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità. Vengono tacitati i demoni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37). Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9). Soltanto con la risurrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente. Tale teoria risale a W. Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formulata da questo autore.

     Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo. Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare. Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35). Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la preghiera di Gesù. Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21). Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12). Mentre è un’altra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf. Lc 9, 28-29). A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).                                         

     Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che seguiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio. Possiamo pensare, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’opera finora compiuta secondo il volere del Padre. Tale opera è predicare. I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf. Mc 1,15).

     Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).

     «E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf. 1,34; 7,29; 16,9). È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predicazione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno della vicinanza del regno di Dio (cf. Mt 12,28).

    

Meditazione

L’evangelista Marco apre il suo Vangelo narrando la prima giornata di Gesù a Cafarnao. È come una giornata tipo di Gesù. E ci appare subito molto diversa dalle nostre giornate, segnate spesso dalla monotonia, dalla tristezza, dalla banalità, e talora dal nonsenso. Altre volte invece è la durezza e la drammaticità della vita a prendere il sopravvento. E sen­tiamo vere anche per noi le parole scritte nel libro di Giobbe: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?» (Gb 7,1). Se poi il nostro sguardo si allarga verso coloro che sono più direttamente toccati dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla malattia e dalla guerra, il lamento di Giobbe assu­me un valore ancor più tragico: «A me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba… Ricordati che un soffio è la mia vita; il mio occhio non rivedrà più il bene» (7, 6-7). La vita degli uomini è davvero dura, ci dice questo brano della Scrittura. Lo constatiamo soprattutto di questo tempi, in cui la crisi economica colpisce tanti, soprattutto i più poveri. Ebbene, la «giornata di Cafarnao», potremmo dire, quella che oggi ci è stata annunciata dal Vangelo, entra dentro le nostre giornate per infondervi forza ed ener­gia, quasi come il lievito che messo nella pasta la fermenta tutta.

Dopo aver scacciato uno spirito impuro da un poveretto mentre si trovava nella sinagoga di Cafarnao, Gesù si reca nella casa di Simone e Andrea, dove probabilmente come altre volte cercava un po’ di tran­quillità e di pace. Ma non fa in tempo ad entrare in casa che subito gli prospettano un caso: la suocera di Simone è febbricitante. Senza frap­porre tempo Gesù si avvicina a lei e la guarisce; non dice nessuna paro­la, neppure una preghiera, la prende per mano e la fa alzare. E una narrazione semplice che contiene però tutta la forza vittoriosa di Gesù contro il male. Non è solo un caso che l’evangelista per indicare la gua­rigione della donna usi lo stesso verbo che usa per la resurrezione di Gesù (Mc 16,6). La risposta della donna — «essa li serviva» — non è un semplice gesto di grata cortesia, ma la «diaconia» (questo è il verbo usato per indicare quello che la donna si è messa a fare), ossia il servizio al Signore e ai fratelli. In questa guarigione sono in certo modo presen-ti tutte le altre, sia quelle che Gesù farà nel corso della sua vita terrena sia quelle dei discepoli di allora e di ogni tempo. Infatti, subito l’evangelista allarga la scena e passa dalla guarigione di una singola persona alle guarigioni di tanti. Non siamo più nella casa di Simone, ma alla porta della città. In un giorno Gesù è entrato in ogni luogo di vita: la sinagoga, luogo della preghiera, la casa, la porta della città, luogo dell’incontro. Il Vangelo di Gesù non ha confini. Egli va ovunque, non solo da coloro che se lo aspettano o che lo conoscono. Gesù è venuto a lottare contro il male, contro ogni tipo di male, sia fisico che mentale-psichico, con la su parola e la sua opera. Emerge già qui, nella prima pagina del Vangelo, e così deve essere nella vita della Chiesa, quella «compassione» per i deboli, per i malati, per i poveri, per le folle stanche e sfinite di cui spesso sentiremo parlare nei Vangeli delle prossime domeniche e che riassume in certo modo tutta la missione di Gesù.

Viene spontaneo pensare ai milioni di persone colpite dalla guerra, dalla fame che vagano cercando una porta a cui bussare, e constatare con indicibile tristezza che sempre più spesso il loro durissimo pellegrinaggio è stroncato dalla ferrea chiusura di tutte le porte delle case degli uomini. E come non pensare anche alle porte delle nostre chiese par-rocchiali e chiedersi: sono le loro porte come quella della casa di Cafarnao? Riescono le nostre chiese ancora a radunare davanti a sé tutta la città? e se, come più spesso accade, sono approdo di speranza per poveri e disperati sanno, quelle porte, aprirsi per consolare e guarire? come vengono trattati quei mendicanti che si fermano davanti alle porte per chiedere l’elemosina?

E c’è anche un altro interrogativo che ci riguarda personalmente: non siamo noi tutti, chi in un modo chi un altro, tutti malati? San Girolamo, commentando questo brano evangelico, non esita a dire che ciascuno di noi è malato, febbricitante: «Quando sono colto dall’ira, ho la febbre; anzi, ogni vizio è febbre». Tutti siamo malati e febbricitanti, quindi bisognosi di affollarci davanti alla porta della casa del Signore. E il Vangelo non sembra neppure chiedere una particolare chiarezza di coscienza. Tutta quella folla non sapeva bene cosa ci fosse dietro quella porta, ma certo aveva riposto solo in quel luogo la sua speranza; del resto tutte le altre porte erano rimaste chiuse. Ora in tanti speravano che di lì uscisse un aiuto, qualcuno che li sollevasse dalla condizione triste in cui versavano. L’evangelista dice che Gesù ne guarì molti. E quando tutti erano andati via, guariti e rincuorati, Gesù continuò la sua giornata. Noi ci saremmo forse ritirati stanchi ma orgogliosi e soddisfatti. Gesù uscì e si recò in un luogo appartato, per pregare. Quel momento era, in verità, il culmine e la fonte di tutte le sue giornate, di tutto ciò che faceva. Era la sua prima e fondamentale opera. E possiamo allora immaginare la preghiera notturna di Gesù dopo che, per un giorno intero, aveva toccato con mano le angosce e le speranze di tanta gente. L’intimità con il Padre non era una fuga dal mondo e dalla vita per godersi finalmente un po’ di tranquillità, che pure sarebbe stata ben meritata. Molto più verosimilmente tali incontri erano colloqui appassionati (forse anche drammatici) tra il Figlio e il Padre sulla mis­sione che aveva ricevuto, sulle condizioni del mondo, sulla salvezza di tutti coloro che Gesù aveva incontrato e su quella degli altri che avreb­be dovuto e voluto incontrare ancora. Questo può spiegare la sua rea­zione quando i discepoli, dopo averlo raggiunto, gli dicono che tutti lo cercano: «Andiamocene altrove, — risponde — nei villaggi vicini, perché io predichi anche là». Gesù non si ferma in una sola casa, in un solo gruppo, in un clan, in una sola nazione; e non esce da una sola porta. Egli vuole visitare tutte le case e tutte le città, perché ovunque c’è biso­gno del Vangelo. E vuole che i discepoli, di ieri e di oggi, non si chiu­dano in una sterile autoreferenzialità, ma sentano l’urgenza di conti­nuare a comunicare il vangelo ovunque nel mondo.

Lo capì bene Paolo: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!». La comunicazione del Vangelo è una responsabilità da sem­pre affidata ad ogni singolo credente e ad ogni singola comunità cristia­na. E forse è proprio questa responsabilità la medicina che ci fa alzare dalle febbri dell’egocentrismo e che ci permette di aiutare e guarire chiunque ha bisogno di salvezza. Una Chiesa senza missione, senza annuncio del Vangelo, è una Chiesa autoreferenziale, che parla sempre di se stessa e a se stessa, ed è destinata ad inaridirsi. Quel «guai» non è una minaccia, ma un monito sì, perché nella Bibbia il «guai» è usato per i lamenti funebri. Una comunità che non vive la passione missiona­ria, si celebra già il suo funerale. Paolo lo sapeva bene, perché aveva esperimentato su di sé la forza del vangelo del Signore morto e risorto. Per questo l’apostolo «si è fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno». Questa fu la sua vita, che per noi rimane una domanda e una sfida.

 

L’immagine della domenica

 
 

La notte

In una notte oscura,

con ansie, dal mio amor tutta infiammata,

oh, sorte fortunata!,

stando la mia casa al sonno abbandonata.

Al buio e più sicura,

per la segreta scala, travestita,

oh, sorte fortunata!,

al buio e ben celata,

stando la mia casa al sonno abbandonata.

(Giovanni delle Croce, Salita al Monte Carmelo, strofe 1-2).

 

Preghiere e racconti

 

Il nascondimento di Dio

«Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso! ” Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità. E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza».

(BENEDETTO XVI, Meditazione dopo l’atto di venerazione della Sindone, in BENEDETTO XVI  et al., Icona del Sabato Santo, 14-15).

 

Non passate oltre davanti alla sofferenza umana

«Cari giovani, che l’amore di Dio per noi aumenti la vostra gioia e vi spinga a rimanere vicini ai meno favoriti.

Voi che siete molto sensibili all’idea di condividere la vita con gli altri, non passate oltre davanti alla sofferenza umana, dove Dio vi attende affinché offriate il meglio di voi stessi: la vostra capacità di amare e di compatire. Le diverse forme di sofferenza che, lungo la Via Crucis, sono sfilate davanti ai nostri occhi sono chiamate del Signore per edificare la vita seguendo le sue orme e fare di noi i segni della sua consolazione e salvezza. «Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso». Auspico che sappiamo accogliere queste lezioni e metterle in pratica. Volgiamo lo sguardo perciò a Cristo, appeso sul ruvido legno, e chiediamogli che ci insegni questa sapienza misteriosa della croce, grazie alla quale l’uomo vive».

 (Viaggio apostolico di sua santità Benedetto XVI a Madrid (Spagna) in occasione della XXVI Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto 2011). Via crucis con i giovani nella Plaza de Cibeles – Madrid, 19 agosto 2011).

 

Dio si avvicina con amore e guarisce la vita

Marco presenta il resoconto della giornata-tipo di Gesù, una cronaca dettagliata delle sue fondamentali attività quotidiane: guarire, pregare, annunciare. Guarire. E vediamo come il suo agire prenda avvio dal dolore del mondo: tocca, parla, prende per mano, guarisce. Come il primo sguardo di Gesù si posi sempre sulla sofferenza delle persone, e non sul loro peccato. E la porta della piccola Cafarnao scoppia di folla e di dolore e poi di vitalità ritrovata.

Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, il collaudo del Regno, il laboratorio del mondo nuovo: mostra che è possibile vivere meglio, per tutti, e Gesù ne possiede la chiave. Che un altro mondo è possibile e vicino. Che il regno di Dio viene con il fiorire della vita in tutte le sue forme. La suocera di Simone era a letto con la febbre, e subito gli parlarono di lei.

È bello questo preoccuparsi degli apostoli per i problemi e le sofferenze delle persone care, e metterne a parte Gesù, come si fa con gli amici. Non solo la gratuità, quindi, ma anche tutto ciò che occupa e preoccupa il cuore dell’uomo può e deve entrare, a pieno titolo, nel dialogo con Dio nella preghiera.

Gesù ascolta e risponde: si avvicina, si accosta, va verso il dolore, non lo evita, non ha paura. E la prese per mano. Mano nella mano, come forza trasmessa a chi è stanco, come a dire “non sei più sola”, come un padre o una madre a dare fiducia al figlio bambino, come un desiderio di affetto. Chi soffre chiede questo: di non essere abbandonato da chi gli vuole bene, di non essere lasciato solo a lottare contro il male.

E la fece alzare. È il verbo della risurrezione. Gesù alza, eleva, fa sorgere la donna, la riaffida alla sua statura eretta, alla fierezza del fare, alla vita piena e al servizio: per stare bene l’uomo deve dare! Mano nella mano, uomo e Dio, l’infinito e il mio nulla, e aggrapparmi forte: per me è questa l’icona mite e possente della buona novella.

Pregare. Mentre era buio, uscì in un luogo deserto e là pregava. Gesù, pur assediato dalla gente, sa inventare spazi. Di notte! Quegli spazi segreti che danno salute all’anima, a tu per tu con Dio, a liberare le sorgenti della vita, così spesso insabbiate.

Annunciare. I discepoli infine lo rintracciano: tutti ti cercano! E lui: Andiamocene nei villaggi vicini, a predicare anche là. Gesù non cerca il bagno di folla, non si esalta per il successo di Cafarnao, non si deprime per i fallimenti che incontra. Lui avvia processi, inizia percorsi, cerca altri villaggi, altre donne da rialzare, orizzonti più larghi dove poter compiere il suo lavoro: essere nella vita datore di vita, predicare che il Regno è vicino, che «Dio è vicino, con amore, e guarisce la vita».

(Ermes Ronchi)

 

La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo

Il confronto con la malattia, con il proprio corpo malato (Giobbe) e con i corpi segnati da malattia di altri uomini e donne (Gesù): questo il tema che unifica la pagina di Giobbe e quella evangelica. E anzitutto emerge la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia.

Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici che si rivelano in realtà nemici, “medici da nulla”, ma non conforma il proprio discorso a quello teologicamente corretto dei suoi amici. Giobbe osa esprimere ciò che sente. E Dio stesso, dirà Gb 42,8, gradisce maggiormente le sue invettive che le prediche dei suoi amici. Vi è una legittimità per il malato, nella sua sofferenza, di esprimere una reazione anche di collera, anche irrazionale.

In verità, quell’urlo è la maniera con cui il malato cerca di dirsi nella malattia, cerca di esprimere ciò che sta avvenendo alla propria vita. Ed è un momento positivo e vitale in quanto è il primo passo di un possibile cammino di guarigione, o quanto meno di assunzione della malattia: il malato lotta, chiede “perché?”, inveisce, non si rassegna, non la dà vinta al male.

Questa presa di parola di fronte al male che invade il proprio corpo non va soffocata da chi sta accanto al malato con esortazioni al silenzio o a “non dire così” o a non disturbare, ma va accolta come un momento importante del faticoso processo di assunzione della crisi esistenziale introdottasi nella vita dell’uomo. Come dice ancora Giobbe: “Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente” (Gb 6,14); “per il malato c’è la pietà degli amici, anche quando Dio si mette contro di lui” (Gb 19,21).

L’incontro di Gesù con i malati, presentato nella pagina evangelica anche mediante un sommario che parla dell’attività di cura e di guarigione dei sofferenti come di un’attività consueta di Gesù (cf. Mc 1,32-34), è istruttivo per il discorso spirituale cristiano circa malattia e sofferenza. Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo.

Egli si presenta come “medico” (Mc 2,17), attualizzando in sé la potenza del Dio il cui nome è “Colui che ti guarisce” (Es 15,26). E soprattutto l’attività di cura e guarigione che Gesù compie sta all’interno della finalità prima della sua missione: “predicare il vangelo” (cf. Mc 1,38; 1,14), annunciare il Regno di Dio: le guarigioni operate da Gesù appaiono così vangelo in atti e profezia del Regno di Dio. La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo.

Gesù non si lascia travolgere dalle folle che vogliono guarigioni, ma cerca e trova spazio e tempo di solitudine e di silenzio per pregare. E sa porre un limite all’attività, sa dire dei no, non si lascia sedurre dal fatto che “tutti lo cercano”. Gesù si rifiuta di divenire un fornitore di prestazioni terapeutiche e sa anche sottrarsi alle richieste che provengono dalla gente.

I gesti che egli compie sono sacramentali, sono trasparenza dell’azione divina, nella misura in cui egli vive la sua missione non tanto cercando di soddisfare i bisogni di coloro cui è inviato, quanto nutrendo la relazione con colui che l’ha inviato. Per questo Gesù prega e rivendica il primato dell’annuncio della parola sull’operare il bene che pure è una caratteristica del suo agire (cf. At 10,38). Del resto: da dove attinge Gesù la sua forza? Da dove attinge la pazienza, la dedizione, l’abnegazione, lo spendersi? Da dove, se non dalla relazione nutrita quotidianamente con il Padre?

(Luciano Manicardi)

 

Amare le domande, vivere le risposte

Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato. A questo proposito, rileggo spesso il consiglio del poeta Rainer Maria Rilke:

“..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle. Il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora. Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.

 (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).

 

Diventare l’amato – Spezzato

La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a distanza, ignorarla, aggirarla o negarla. La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non dovrebbe esserci. È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.

Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se favorirla può sembrare a prima vista masochismo. Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore. Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “essere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa. Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).

 

Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese

Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.

Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.

La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.

“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in un’intervista telefonica. “Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.

Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.

Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.

Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura. “Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per contribuire alla società”.

Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.

La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006. Il porporato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.

“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’. Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato. “Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.

“Ora penso ‘Perché non io?’. Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.

Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.

Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.

(Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina. Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946. E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955. E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991. Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006).

 

La prospettiva della sofferenza e della morte

Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speranza di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.

Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà. È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare. Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi. Gesù è il «Dio che soffre con noi». Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologicamente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario. Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non esporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri. È per questo che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica meglio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.

L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare queste sofferenze in un mezzo di liberazione. Probabilmente conosci bene le obiezioni sollevate da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio. Come può Dio amare davvero il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inutile?

I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivide le loro sofferenze. In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà. E loro compagno nella sofferenza. Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino. Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta. È solidale con loro. Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).

 

«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano»

Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39). Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto. E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amorevolmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).

Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).

È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento. Anzi, non solo torna la salute, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata. Per dirla con linguaggio figurato, le membra che avevano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf. Rm 6,19).

(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang. Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commento al Vangelo di Marco. Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol. 1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p. 61-63).

 

Dammi coraggio

Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.

Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.

Non darmi alleati nella lotta della vita… eccetto la forza che mi proviene da te.

Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.

Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo;

ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

 

Preghiera per il servizio

Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo. Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia. Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza. Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO B

VERITATIS GAUDIUM

“Imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa in uscita”. È l’obiettivo principale della Costituzione apostolica “Veritatis gaudium” di Papa Francesco, diffusa lunedì 29 gennaio per riformare e aggiornare gli studi delle Università Cattoliche e delle Università ecclesiastiche. Il testo arriva 39 anni dopo la costituzione “Sapientia Christiana” promulgata da Giovanni Paolo II nel 1979.
La Costituzione apostolica è disponibile sul sito del Servizio nazionale per gli Studi superiori di teologia e scienze religiose.

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Deuteronomio 18,15-20

Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.  Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.  Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».

 

v Tutta la fede biblica è fondata sulla parola di Dio, feconda come la pioggia e la neve (cf. Is 55,10-11). Ed è di sempre il problema che essa sia autentica ed efficace. La prima lettura riporta il passo del Deuteronomio che fa risalire a Mosè l’origine dei profeti, gli inviati di Dio a portare la sua parola, e che ha suscitato pure l’attesa del Messia come profeta. Il discorso è in bocca a Mosè che parla a Israele, al di là del Giordano di fronte a Gerico, sul modo di comunicare con Dio.

     Nei versetti che precedono il brano liturgico (Dt 18,9-14), egli esclude perentoriamente che possa farlo l’uomo, perché i suoi mezzi sono del tutto inadeguati e falsi. Sacrifici umani, divinazione, sortilegio, magia, evocazione dei morti, spiritismo, indovini, incantatori, ecc. sono un «abominio» davanti a Dio. Solo Dio può comunicare con l’uomo in modo autentico.

     Ecco allora la promessa, che risponde alla richiesta già fatta dagli Israeliti al Sinai: dopo Mosè, Dio stesso continuerà a parlare ad Israele, mediante la figura del profeta, del quale tratteggia così le caratteristiche. Lo susciterà Lui stesso, quindi ne garantirà la vocazione e il carisma. Sarà un fratello tra fratelli e starà in mezzo a loro: sarà cioè, non uno stravagante, ma una persona normale che vive dentro alle situazioni normali, perché di esse deve capire il senso, per vivere davvero secondo Dio. Sarà suo porta-parola: «Gli porrò in bocca le mie parole…». E come tale dovrà essere ascoltato.

     Dio poi prospetta un possibile duplice falso profeta: quello che parla falsamente a nome di Dio e quello che parla in nome di falsi dei. In entrambi i casi è comminata la pena di morte, spiegabile con la rigidità dei tempi e non certo da riesumare. Testimonia comunque l’importanza data alla parola di Dio. E può far riflettere se la mentalità moderna, assai severa contro le trasgressioni di ordine economico e materiale, non sia invece troppo indifferente e permissiva di fronte agli scandali e alle corrosioni dei valori morali.

     Mosè usa sempre il singolare, un profeta, ma con significato collettivo, riferito a tutto il profetismo. Egli stesso, del resto, condivide il suo spirito profetico con i 70 Anziani (Nm 11,16-30 e Es 18,21-26) e ad essi e ai Leviti dà in consegna la Legge, da custodire, ripetere e attualizzare continuamente (Dt 10,8-9 e 31,9-13.24-27).

     Il singolare ha pure fatto attendere il Cristo, come Profeta per eccellenza, come appare da interrogativi dei Giudei (cf. Gv 1,21.25). Gesù di Nazaret lo è effettivamente. Venuto da Dio, si è fatto vero fratello tra fratelli, partecipe del nostro essere e della nostra storia: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

 

Seconda lettura:1Corinzi 7,32-35

Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!

Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.

 

v La seconda lettura riporta uno stralcio delle risposte di Paolo alle domande scritte, su matrimonio e verginità, fattegli pervenire dalla comunità di Corinto e concentrate in 1Cor 7. Un legame col tema dell’annuncio e dell’ascolto della parola di Dio c’è nelle distinzioni che l’apostolo fa tra quello che dice lui e quello che ha detto il Signore. Anche lui cerca la parola autentica o quantomeno la traduzione autentica della parola di Cristo nella vita vissuta.

     Quanto alle vergini, delle quali parla in questo brano, ha infatti premesso: «Non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7,25). Parla quindi come un convertito, ma assunto alla dignità di apostolo. E dà consigli per un comportamento lineare nel proprio stato di vita, conforme alla propria vocazione, senza preoccupazioni che dividano l’animo. Questo lo vede più facile in chi non è sposato, come la vergine, perché si preoccupa delle cose del Signore. Mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie o al marito. Proteso alla trascendenza e alle realtà ultime, per cose del mondo egli intende quelle provvisorie di questa vita che passa e per cose del Signore quelle dei valori più profondi ed eterni. Ma non è a senso unico quanto dice. Perché appena prima ha raccomandato: «Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla» (1Cor 7,27). E all’inizio ha scritto: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono da Dio» (1Cor 7,7). Importante è vivere secondo il dono ricevuto.

     Paolo dunque invita ciascuno a vedere il proprio stato di vita come una vocazione da parte del Signore, alla quale dare risposta con una vita autentica, coerente e non divisa. E ciò è possibile solo nell’ascolto consapevole, continuo e profondo della parola di Dio.      

 

Vangelo: Marco 1,21-28

In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».  La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 

Esegesi

     La liberazione di un indemoniato è il primo miracolo che Marco racconta. Con esso egli introduce la descrizione di un sabato tipico di Gesù a Cafarnao. Ma in primo piano mette il suo insegnamento, lui che poi si sofferma più sui fatti che sui discorsi. Riporta, infatti, un episodio accaduto durante la liturgia della parola, nel culto sinagogale. E sviluppa il racconto in tre momenti, che mostrano come la parola nuova di Cristo ha provocato e compiuto il miracolo.

     Dapprima (vv. 21-22), riferisce sommariamente l’insegnamento di lui nella sinagoga e lo stupore di tutti, perché lo fa «con autorità» e non come gli scribi.

     Poi racconta il miracolo (vv. 23-26), compiuto dopo uno scontro verbale con un uomo, che si è messo a gridargli contro. L’uomo è posseduto da uno «spirito immondo», detto così perché lo spinge lontano da Dio e a comportamenti indegni. Egli riconosce che Gesù, all’opposto, è «il santo di Dio», cioè tutto dedito a lui e rivestito delle sue perfezioni. Lo deve aver percepito dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti. E si è messo in agitazione perché avverte lucidamente che ciò comporta la rovina del dominio diabolico. Ma con arroganza contesta a Cristo il diritto di intromettersi, usando un plurale col quale si identifica con tutte le potenze demoniache e nel quale pare voler coinvolgere anche gli uditori, presumendoli dalla sua parte. Al demonio Gesù prima comanda di tacere e poi di uscire da quell’uomo. Ciò avviene tra convulsioni e grida ancora più forti, provocate dal potere sconvolgente della parola di Dio. Si è trattato di un esorcismo, ma si può dire che tante resistenze a Dio sono fatte di contorcimenti e strepiti di vario genere, che si placano solo a partire dal silenzio delle nostre parole e dal lasciarsi prendere dalla forza della parola di Dio.

     Infine (vv. 27-28) Marco torna sulla meraviglia generale, ancora più grande dopo il miracolo, accompagnata da timore reverenziale, di fronte alla potenza di Dio, e da interrogativi su che cosa questo significhi per tutti nella lotta contro il demonio.

     La risposta viene dalla differenza, rimarcata in tutto il racconto, fra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi. Gli scribi insegnavano, commentando i testi sacri, con tante sottigliezze, elucubrazioni, accomodamenti interessati, per i quali si appellavano alle tradizioni e ai maestri umani: un insegnamento formalistico e sterile, che può ripetersi fra i cristiani. Gesù invece insegna con autorità. Cioè, egli parla a nome proprio, con la propria autorità divina: «Ma io vi dico…». Parla con la coerenza della vita, diversamente dagli scribi e farisei, che dicono e non fanno (cf. Mt 23,2-3). E la sua parola produce quello che afferma, in particolare ha la forza di contrapporsi al demonio e di vincerlo. Perché egli va al valore originario della parola di Dio e la propone come una semente da sviluppare, non come una teoria sulla quale dissertare o come un formalismo da assumere.

 

Meditazione

Subito dopo la chiamata dei primi discepoli, Gesù manifesta che cosa significa che il regno di Dio è iniziato con la sua parola e la sua opera: insegnamento e liberazione dal male, guarigione. Va nella sinagoga di Cafarnao, cittadina importante sul lago di Galilea, stazione di frontiera del territorio di Erode Antipa, a quel tempo governatore della Galilea in nome dei Romani, sede di una guarnigione romana, città di com­mercio con una popolazione mista.

Gesù entra nel giorno di sabato nella sinagoga, nel luogo della pre­ghiera, e si mette ad insegnare, come ogni domenica continua ad inse­gnare nel luogo dove la comunità cristiana si riunisce per la Liturgia Eucaristica. Ciò si inserisce perfettamente nella struttura della preghie­ra sinagogale. Gesù doveva essere conosciuto a Cafarnao, come è cono­sciuto da noi, e con tutta probabilità il capo della sinagoga lo invitava a spiegare la Scrittura proprio per questo. Un episodio analogo avverrà nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16 ss.; Mc 6,1-6). L’insegnamento di Gesù provoca reazioni di stupore, perché sempre il Vangelo suscita stupore in chi lo ascolta con il cuore e non distrattamente. L’autorevolezza di Gesù è quella di una parola che tocca il cuore e suscita domande, non come quelle parole che talvolta si pronunciano, e che non interro­gano nessuno, perché sono o troppo teoriche o troppo banali. La sua parola suscita una reazione persino in un uomo posseduto dal male.

L’impurità di quell’uomo indica lontananza da Dio, che è il puro e il santo per eccellenza. Ma Gesù non lo disprezza, non lo allontana, come farebbe il nostro mondo davanti a gente che porta in sé i segni del male e del dolore. Non si arrabbia anche quando viene offeso da quell’uomo. Egli capisce che le sue parole violente esprimono paura, lacerazione interiore, incapacità a liberarsi da solo dallo spirito del male. Anzi Gesù coglie in esse una domanda di guarigione. «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?, grida con violenza quell’uomo, sentendosi minacciato da Gesù e dal suo insegnamento. Sì, il bene eccessivo appare una minaccia per chi è abituato al male fino ad esserne posseduto. Quanta ironia in questa pagina del Vangelo: uno spirito impuro, sentendosi minacciato, riconosce in Gesù il Santo di Dio, mentre quelli che stanno attorno a lui, convinti di conoscerlo, a contatto della sua figura santa, non sanno riconoscerlo. Così avviene spesso anche nella vita dei cristiani, che si abituano a vivere con Gesù senza però riconoscerne la forza di amore e di guarigione.

Gesù ordina allo spirito impuro di uscire da quel corpo, tutto sommato incolpevole. L’autorità di Gesù vince il male, vince la terribile frattura che sconquassa quell’uomo. Gesù lotta autorevolmente contro il male, non si lascia intimorire da esso, comanda che la vita di Dio entri nelle strutture vitali, nel corpo, nella mente, nel cuore, nelle viscere degli uomini incate­nate dal male, un male tanto forte da spaccare, lacerare l’uomo. «Taci! Esci», egli dice. Taci! — quasi che il male stesso parli attraverso l’uomo. E poi: «esci»!, quasi a dire che questo spazio non è tuo; nella vita di quest’uo­mo hai preso troppo spazio; esci e lascia il posto di Dio. La parola di Gesù vince il male, lo ridimensiona, creando spazio a Dio dentro quest’uomo dal quale è stato cacciato ciò che esclude Dio. L’uomo, immagine di Dio, non può essere abitato dal male per sempre. Il male è forte nel mondo e nella vita degli uomini, e non sempre se ne è consapevoli, perché tutti presi da se stessi, incapaci di fermarsi, di riflettere, perché il male fa paura e fa chiudere gli occhi, allontana gente interessata solo al proprio benes­sere. Esorcismo senza gesti magici, senza formule magiche, quello di Gesù. Basta la sua parola autorevole. Non che questa uscita, questo svuo­tamento sia indolore. Strazio, urla. Si ha l’impressione comunque di un taglio netto, rapido. Di un autentico strappo. La parola di Gesù, portatrice della forza del bene, vince anche il male più resistente.

«Tutti furono presi da timore» di fronte a Gesù. Una emozionata meraviglia, profonda, è il primo sentimento degli astanti, che si inter­rogano seriamente su Gesù e sul suo insegnamento. Che cosa succede qui adesso? Che cosa è questo? Una nuova dottrina? Perché questo scossone nella vita di quell’uomo… e nella nostra? Nuovo, diverso da quello degli scribi: un insegnamento autorevole e nuovo. Qual è la novità che balza evidente al primo sguardo? L’insegnamento di Gesù è subito e soprattutto lotta diretta contro lo spirito impuro, contro il male che abita negli uomini, facendola indebitamente da padrone. La parola di Gesù è allora una forza che cambia, perché entra nella vita degli uomini, anche nei peggiori, perché nessuno è così posseduto dal male da essere del tutto lontano da Dio. Anzi Gesù è venuto proprio per rendere possibile a tutti l’incontro con Dio, che è perdono e guari­gione. Per questo Gesù, subito dopo aver chiamato i discepoli, incontra i malati e tra essi per primi gli indemoniati. Il Regno di Dio comincia a realizzarsi nel fare posto a Dio nella vita degli uomini, nello scacciare il male perché il bene penetri dovunque senza resistenze.

Gesù entra nella vita degli uomini, innanzitutto nello spazio religioso per eccellenza: la sinagoga, dove si predica abitualmente la Parola di Dio. Gesù indica una nuova, entusiasmante dimensione del rapporto con Dio, che scuote gli uomini, anche quelli che pensano di conoscerlo. Egli mette in discussione radicalmente la struttura religiosa tradizionale, provocando la guarigione degli uomini dal male. E gli uomini sono scossi, si meravigliano, cosicché alcuni saltano nella fede, mentre altri si trincerano in un atteggiamento difensivo, ostile. Lo stupore è ambivalente e, solo, non basta per compiere il salto della fede. Infatti l’ostilità è la reazione evidente nell’episodio di Gesù che parla nella sinagoga di Nazaret (Mc 6,1-6). Gesù è davvero il profeta annunciato a Mosè nel libro del Deuteronomio. Proprio a lui Dio ha «messo in bocca le sue parole», perché possano liberare il mondo dal male. Il regno di Dio ha preso avvio e continua a manifestarsi ogni volta che viene comu-nicato il Vangelo di Gesù. Forse non si è sempre consapevoli della forza di bene che il Signore ha posto nelle mani dei suoi discepoli. Per questo si vive in modo rassegnato e pessimista, come se il male fosse così forte da non poter essere sconfitto. Forse, come avverte l’apostolo Paolo, siamo troppo presi dalle preoccupazioni quotidiane, che ci assillano più di prima, e non poniamo mente e cuore alla forza del Vangelo del regno. Forse dovremmo preoccuparci di più di piacere al Signore, facendoci scuotere dalla sua parola, perché essa ci converta a lui e al bene, liberando anche noi dal male che si annida nei cuori.


L’immagine della domenica

 

IL RAMO DA RIATTACCARE

 

Buddha fu un giorno minacciato di morte

da un bandito chiamato Angulimal.

«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio»,

disse Buddha.

«Taglia un ramo di quell’albero».

Con un colpo solo di spada

l’altro eseguì quanto richiesto,

poi domandò:

«E ora che cosa devo fare?».

«Rimettilo a posto»,

ordinò Buddha.

Il bandito rise.

«Sei proprio matto

se pensi che sia possibile una cosa del genere».

«Invece il matto sei tu,

che ti ritieni potente

perché sei capace di far del male e distruggere.

Quella è roba da bambini.

La vera forza sta nel creare e risanare». 

(Racconto buddista)

 

Preghiere e racconti

Dire Dio oggi

La parola ha dato la possibilità all’uomo di coltivare la propria ricchezza interiore e di condividerla con chi gli stava vicino. La parola ha permesso all’essere umano di creare un’intensità e una complessità di relazioni che è unica, almeno nel nostro mondo conosciuto. È stata proprio la parola ad averci permesso di tramandare – attraverso la scrittura – le esperienze più complesse e dunque ad averci aiutato a costruire la memoria, che è il grande patrimonio della nostra specie. Nella parola è racchiuso il mistero della relazione con Dio. C’è una voce che chiama – la Sua – e una voce – la nostra – che può scegliere se rispondere o meno. Il rapporto con Dio non è un rapporto passivo, bensì quello tra due volontà vive e autonome. […] La delusione, l’amarezza, la depressione che tante persone esprimono al giorno d’oggi nei riguardi della vita, delle aspettative tradite, sono proprio dovuto al fatto che la parola si è ritirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame profondo con la verità.

Così, dire Dio oggi vuol dire soprattutto proporre l’idea di un’esistenza come scelta tra una vita autentica – che segue le parole della Rivelazione – e una vita rappresentata – plasmata dalle contingenze del proprio tempo, tra una vita posseduta e una vita consumata.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Torino, Lindau, 2011, 148-149)

 

Quel Dio che s’immerge nelle nostre ferite

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne. Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa.

Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona. Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo «posseduto», prigioniero di uno più forte di lui.

E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che «il Vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).

Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi. A essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui.

Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il Vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro «Cristo, mia dolce rovina» (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.

(Ermes Ronchi)

 

«Che è mai questo?»

1. Gesù l’annunciatore della vicinanza regale di Dio è la vicinanza regale di Dio, è il farsi prossimo in maniera compiuta di Dio alle attese del povero mondo. Una buona notizia che domanda accoglienza riconoscente e che pone in una nuova condizione, l’ambito dell’amore di Dio. Oggi i chiamati da Gesù entrano con lui nella sinagoga di una città di nome Cafarnao. Di sabato (Mc1,21). E assieme ai presenti nella sinagoga assistono a un primo e singolare porsi in atto della regalità di Dio in Gesù.

2. Sta scritto: «Entrato nella sinagoga… insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc1,21-22). Gesù è un maestro di sapienza nella cui parola il pensiero, il sentimento e il volere di Dio si rendono presenti in maniera diretta, vera, efficace e decisiva per chi ascolta. Con autorità appunto. Egli non appartiene alle scuole della interpretazione della volontà di Dio, egli è il dirsi e il dire di Dio, e questo lo contraddistingue dagli scribi: «Avete inteso…ma io vi dico» dirà analogamente il Gesù di Matteo.

E il contenuto di tale volontà viene immediatamente raccontato dall’esorcismo che segue, l’ incontro-scontro tra Gesù e uno spirito impuro a cui è nota l’identità di Gesù: «Io so chi tu sei: il Santo di Dio!» (Mc1,24), e so perché ci sei: «Sei venuto a rovinarci» (Mc1,24). L’evangelista legge l’uomo come terreno di contesa tra uno spirito-demone detto impuro a motivo del suo appartenere alla sfera del male totalmente dedito a inserirvi l’uomo, e Gesù detto santo a motivo del suo appartenere alla sfera del bene totalmente dedito a inserirvi l’uomo.

Dio in Gesù è venuto a rovinare chi rovina l’uomo, un chi annidato nell’uomo e di lui padrone (Mc1,23). Uno spirito impuro a cui Gesù ordina: «Taci! Esci da lui! E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui» (Mc 1,25-26). All’evangelista preme sottolineare tre cose. La prima consiste in una visione disincantata dell’uomo nel senso che il suo profondo può essere abitato, qualunque siano i nomi che gli si voglia attribuire, da forze oscure che lo alienano dalla propria verità muovendolo verso sentieri di menzogna, l’odio che genera morte (Gv 8,44s).

La seconda è la proclamazione che Dio nel suo Santo, equivalente di Messia (Gv 6,69; At 3,14; 4,27.30), è più forte di ogni male, è potenza di Dio al cui «esci» segue l’»uscì». E in questo sta l ’insegnare con autorità, il proferire una parola che fa accadere quanto dice, parola che al contempo è ingiunzione di silenzio: «Taci», non è ancora giunto il tempo dei pieni svelamenti della identità di Gesù. Inoltre, detto per inciso, è bene che taccia ora e in ogni tempo una confessione di fede radicalmente sganciata dall’amore e dalla sequela.

Lo spirito impuro è dottrinalmente perfetto, inappuntabile dal punto di vista dell’ortodossia cristologica, ed è diabolicamente perfetto nel volere lucidamente stravolgerla. Infatti confessare Gesù il Santo di Dio è proclamarlo traduzione della passione d’amore di Dio per l’uomo, cosa programmaticamente detestata dal male che fa di tutto per spegnerne la presenza e il messaggio nel cuore dell’uomo felice della rovina dell’uomo.

Diabolico è il sapere ciò che è vero e il sapere di volere negarlo ad occhi aperti. In questa prospettiva la lotta tra Gesù il bene e il male è senza quartiere, e l’uomo ne è il diretto interessato. La terza cosa infine che Marco vuole sottolineare è lo stupore dei presenti nella sinagoga: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità» (Mc1,27). La novità di una parola che con autorità comanda a chi ha sempre comandato rendendo l’uomo panno sporco.

3. Questo avvenimento accadde di sabato, il giorno consacrato alla proclamazione della parola di Dio nella Legge e nei profeti, e in una sinagoga, il luogo del raduno assembleare per l’ascolto della parola di Dio; questo avvenimento accade oggi di domenica in ogni assemblea attraverso la lettura. Siamo ancora capaci di stupirci di una parola potente che ove accolta è in grado di dire «esci» al male oscuro che impedisce il dilatarsi e l’esprimersi in verità secondo le proprie potenzialità?

Siamo ancora capaci di riconoscere in Gesù il medico della nostra interiorità malata? Il sole che chiede ospitalità nella zona d’ombra di ciascuno per guarirla dagli spiriti impuri che la abitano? Il culto di sé, del denaro, del successo, del possesso incontinente di corpi e di merci, del non senso, del demoniaco e ancora di sensi di colpa che straziano legando il presente a un passato che impedisce futuri diversi.

Lista breve di un lungo elenco a cui è buona notizia un Dio che in Gesù viene a liberare il tuo cuore da ogni spirito impuro, da ogni pensiero, sentimento desiderio e volere non abitati dal sapersi e dal volersi presenza di bene per l’uomo. La qualità della cui vita dipende da chi e da che cosa lo abita.

(Giancarlo Bruni)

 

L’enigma del male

«Dobbiamo essere consapevoli», dice Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, «che siamo fragili, esposti al grande enigma del male. Non ci sono per l’uomo luoghi sicuri, “paradisi”. Coscienti del nostro limite, dobbiamo respingere ogni pretesa di onnipotenza. Non si tratta, per questa catastrofe, di incolpare Dio, ma neanche noi uomini. Con la fede, possiamo dire che Dio vuole vincere il male con noi, e l’esito finale sarà la trasfigurazione dell’universo».

(Da «Famiglia Cristiana», 2005, 3).

 

Sofferenza materia prima della redenzione

Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.

Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.

Tu dici del tuo amico:

lo porto nel mio cuore,

mi vergogno per lui del suo peccato,

la sua sofferenza mi fa male.

È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.

Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito. Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.

Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, «cancellali», le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte. Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.

(M. QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).

 

Si stupivano della sua dottrina

Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga insegnava loro, insegnava affinché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo. Egli li ammaestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi. Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti. Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico».

Guardate altrove. «Sta scritto — egli dice — nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa». Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio. Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re. Ma la legge l’ha data il Padre o il Figlio? […] Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue. Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data. Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.

Si stupivano della sua dottrina. Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti. Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi. Non parlava come un maestro, ma come il Signore: non parlava per l’autorità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità. Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti. «Io che parlavo, ecco, sono qui» [Is 52,6].

(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2)

 

Il silenzio di Dio

Il problema del male con la sua enorme portata di sofferenza prova a fondo la fiducia in Dio del credente e «…molti si arrestano perché dicono: Forse c’è qualcuno là di sopra, però se ci fosse davvero tanto male non ci sarebbe, dunque… Qui la fede entra nella sua agonia più profonda» è posta di fronte al silenzio di Dio e sembra non aver attenuanti, non aver parole che siano sufficienti, appare… «intrinsecamente insicura, non è fondata, come diceva Agostino: la mia fede non è fondata, non è un fondamento, la mia fede sta appesa alla croce. La mia fede non da alcuna sicurezza. L’esperienza del silenzio di Dio conduce sull’orlo del «forse», un «forse» che per Andrè Neher «sta all’inizio della silenziosa vertigine della libertà»».

(C.M. MARTINI, Prima sessione della Cattedra dei non credenti, 1987).

 

L’uomo vicino alla finestra

Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d’ospedale. A uno dei due uomini era permesso mettersi seduto sul letto per un’ora ogni pomeriggio per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo. Il suo letto era vicino all’unica finestra della stanza. L’altro uomo doveva restare sempre sdraiato. Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore. Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto. Ogni pomeriggio l’uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. L’uomo nell’altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno. La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell’acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo. Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c’era una bella vista della città in lontananza. Mentre l’uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l’uomo dall’altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena.

In un caldo pomeriggio l’uomo della finestra descrisse una parata che stava passando. Sebbene l’altro uomo non potesse vedere la banda, poteva sentirla. Con gli occhi della sua mente così come l’uomo dalla finestra gliela descriveva. Passarono i giorni e le settimane. Un mattino l’infermiera del turno di giorno portò loro l’acqua per il bagno e trovò il corpo senza vita dell’uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno. L’infermiera diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo. Non appena gli sembrò appropriato, l’altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. L’infermiera fu felice di fare il cambio, e dopo essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo. Lentamente, dolorosamente, l’uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto. Essa si affacciava su un muro bianco. L’uomo chiese all’infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori da quella finestra. L’infermiera rispose che l’uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. ”Forse, voleva farle coraggio.” disse.

 

Di fronte a fenomeni come la guerra in Terra Santa, il male, la sofferenza, come si può spiegare l’Amore misericordioso del Creatore?

Intervista al Padre Aurelio:

«Da sempre la sofferenza è la grande e inquietante domanda che sfida la fede in un Dio buono. È significativo che proprio nella terra del Santo, dove il Signore ha scritto la sua storia di amore e alleanza con un popolo da Lui scelto in vista della salvezza di tutti, proprio in quella terra la pace sembra non aver mai trovato casa. Dai tempi dei patriarchi, all’Esodo e all’entrata in quella terra, come in tutta la storia successiva, il popolo di Israele sembra non avere mai avuto pace.

Ben si addice il pianto e lamento di Gesù sopra Gerusalemme: “Oh, se tu, proprio tu, avessi riconosciuto almeno in questo tuo giorno le cose necessarie alla tua pace! Ma ora esse sono nascoste agli occhi tuoi” (Lc 19,42).

Dio ha fatto buone tutte le cose, come afferma il ritornello alla fine di ogni giorno della creazione: “E Dio vide ciò che aveva fatto ed era cosa buona” (cfr. Gen 1). La Parola del Signore risponde al mistero del male che lacera l’umanità, non con una teoria, ma con la sottolineatura di quella libertà che gli uomini, cedendo al tentatore, hanno indirizzato al male anziché al bene, cadendo così nella maledizione (cfr. Gen 3).

Eppure è proprio di fronte a questa estrema miseria che si rivela l’infinita misericordia di Dio. S. Paolo la riassume in una frase: “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”. Il Signore si è messo da subito alla ricerca della pecora smarrita (“Adamo, dove sei?”): con una pazienza e tenerezza immensa, parlando e intervenendo molte volte e in diversi modi, per mezzo dei suoi inviati e attraverso gli eventi della storia.

Un amore gratuito che si è rivelato in modo sommo e inimmaginabile nell’incarnazione del Figlio di Dio. Tutta la vita di Gesù, soprattutto la sua morte e risurrezione è la risposta definitiva di Dio al perché della sofferenza e del male del mondo. “Dio è amore”, ed è la lontananza da Lui che precipita l’uomo nella morte del male, dell’odio, della violenza cieca. “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!”, dirà Gesù morente sulla croce, croce che concentra tutto il male fisico, morale e spirituale che c’è nel mondo.

Lui ha voluto prendere su di sé questo male e sconfiggerlo con la Risurrezione, rivelando così che l’Amore e la Vita di Dio, sono più grandi del peccato, dell’odio, di ogni forma di male.

(Intervista fatta da Zenit al padre Aurelio Pérez, Superiore generale dei Figli dell’Amore misericordioso (FAM), 13 gennaio 2009).

 

Le preghiere della vita

Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste.

Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie.

Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.

Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito immondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.

(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Brescia, 1993).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO B

Chiesa e Università, cantieri di speranza

Aperte le iscrizioni al convegno nazionale di pastorale universitaria. Appuntamento a Roma l’8 e 9 marzo 2018

Fin dall’annuncio della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, la pastorale universitaria si è lasciata interpellare e coinvolgere nelle diverse Diocesi e sedi universitarie. Un momento importante di riflessione e di confronto è stato offerto dal convegno nazionale di pastorale universitaria dello scorso anno, dedicato in modo specifico all’accompagnamento pastorale.

In tale direzione si muove anche il prossimo Convegno nazionale di pastorale universitaria, il cui titolo prende spunto da alcune parole di papa Francesco rivolte al mondo accademico (a Bologna, il 1 ottobre 2017), in cui l’Università è definita un “cantiere di speranza”. Lo stesso vale per le comunità cristiane che operano in essa e che fanno opera di discernimento e stringono collaborazioni con tutti.

L’appuntamento è per i giorni 8-9 marzo 2018 a Roma, presso l’Hotel Midas, e vede la collaborazione del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della CEI.

L’invito è rivolto a tutti coloro che operano nella pastorale universitaria: direttori e collaboratori diocesani, cappellani universitari, collegi e residenze universitarie, associazioni, studenti e docenti.

In allegato il programma dei lavori e le note logistiche per l’iscrizione, che vanno effettuate entro il 31 gennaio 2018.

 

Chiesa e Università, cantieri di speranza

Convegno nazionale di pastorale universitaria

Aperte le iscrizioni al convegno nazionale di pastorale universitaria. Appuntamento a Roma l’8 e 9 marzo 2018. Fin dall’annuncio della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, la pastorale universitaria si è lasciata interpellare e coinvolgere nelle diverse Diocesi e sedi universitarie. Un momento importante di riflessione e di confronto è stato offerto dal convegno nazionale di pastorale universitaria dello scorso anno, dedicato in modo specifico all’accompagnamento pastorale.

In tale direzione si muove anche il prossimo Convegno nazionale di pastorale universitaria, il cui titolo prende spunto da alcune parole di papa Francesco rivolte al mondo accademico (a Bologna, il 1 ottobre 2017), in cui l’Università è definita un “cantiere di speranza”. Lo stesso vale per le comunità cristiane che operano in essa e che fanno opera di discernimento e stringono collaborazioni con tutti.

L’appuntamento è per i giorni 8-9 marzo 2018 a Roma, presso l’Hotel Midas, e vede la collaborazione del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della CEI.

L’invito è rivolto a tutti coloro che operano nella pastorale universitaria: direttori e collaboratori diocesani, cappellani universitari, collegi e residenze universitarie, associazioni, studenti e docenti.

In allegato il programma dei lavori e le note logistiche per l’iscrizione, che vanno effettuate entro il 31 gennaio 2018.

 

Ecco perché iscriversi all’ora di religione.

Avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica

Nelle prossime settimane si svolgeranno le iscrizioni on-line al primo anno dei percorsi scolastici, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado. In vista della scelta di avvalersi dell’Insegnamento della religione cattolica, alla quale saranno chiamati alunni e genitori, la Presidenza della Cei come ogni anno rivolge loro il proprio invito a scegliere l’ora di religione, “una disciplina che nel tempo si è confermata come una presenza significativa nella scuola, condivisa dalla stragrande maggioranza di famiglie e studenti”. “In questi ultimi anni – si legge nel Messaggio –  l’IRC ha continuato a rispondere in maniera adeguata e apprezzata ai grandi cambiamenti culturali e sociali che coinvolgono tutti i territori del nostro bel Paese”.

“La domanda religiosa – scrive la Presidenza – è un’insopprimibile esigenza della persona umana e l’insegnamento della religione cattolica intende aiutare a riflettere nel modo migliore su tali questioni, nel rispetto più assoluto della libertà di coscienza di ciascuno, in quanto principale valore da tutelare e promuovere per una vita aperta all’incontro con l’altro e gli altri”.

 

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Il senso della vita. Ecco perché iscriversi all’ora di religione

 

L’invito è rivolto ai genitori come agli studenti. Nel Messaggio in cui riflette sull’importanza di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica (Irc) per il prossimo anno scolastico, la presidenza della Cei sottolinea che si tratta «di un’occasione formativa importante» per arricchire il percorso di crescita e «conoscere le radici cristiane della nostra cultura e della nostra società».

Al tempo stesso i contenuti dell’ora di religione mentre accompagnano i cambiamenti culturali e sociali in atto sono in grado di rispondere efficacemente «alle domande più profonde degli alunni di ogni età, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado». E i numeri stanno lì a dimostrarlo.

Nell’anno scolastico 2016-2017 la percentuale degli studenti che si sono avvalsi dell’Irc è stata complessivamente dell’87,1% con punte del 90,7% nella scuola primaria. Il Messaggio arriva alla viglia delle iscrizioni al prossimo anno scolastico, possibili da martedì 16 gennaio all’8 febbraio.

Di seguito il testo integrale del Messaggio della Presidenza della Conferenza episcopale italiana in vista della scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2018-2019.

Cari studenti e cari genitori, nelle prossime settimane si svolgeranno le iscrizioni on-line al primo anno dei percorsi scolastici che avete scelto.
Insieme alla scelta della scuola e dell’indirizzo di studio, sarete chiamati ad effettuare anche la scelta di avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. È proprio su quest’ultima decisione che richiamiamo la vostra attenzione, perché si tratta di un’occasione formativa importante che vi viene offerta per arricchire la vostra esperienza di crescita e per conoscere le radici cristiane della nostra cultura e della nostra società.
Anche se ormai questa procedura è divenuta abituale, vogliamo invitarvi a riflettere sull’importanza della scelta di una disciplina che nel tempo si è confermata come una presenza significativa nella scuola, condivisa dalla stragrande maggioranza di famiglie e studenti.

A voi genitori desideriamo ricordare soprattutto il fatto che in questi ultimi anni l’Irc ha continuato a rispondere in maniera adeguata e apprezzata ai grandi cambiamenti culturali e sociali che coinvolgono tutti i territori del nostro bel Paese.
I contenuti di questo insegnamento, declinati da specifiche Indicazioni didattiche, appaiono adeguati a rispondere efficacemente anche oggi alle domande più profonde degli alunni di ogni età, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado. La domanda religiosa è un’insopprimibile esigenza della persona umana e l’insegnamento della religione cattolica intende aiutare a riflettere nel modo migliore su tali questioni, nel rispetto più assoluto della libertà di coscienza di ciascuno, in quanto principale valore da tutelare e promuovere per una vita aperta all’incontro con l’altro e gli altri. Anche papa Francesco nei giorni scorsi ha ricordato che «questa è la missione alla quale è orientata la famiglia: creare le condizioni favorevoli per la crescita armonica e piena dei figli, affinché possano vivere una vita buona, degna di Dio e costruttiva per il mondo» (Angelus nella Festa della Sacra Famiglia, 31 dicembre 2017).

A voi studenti desideriamo ricordare il diffuso apprezzamento che da anni accompagna la scelta di tale insegnamento. I vostri insegnanti di religione cattolica si sforzano ogni giorno per lavorare con passione e generosità nelle scuole italiane, sia statali che paritarie, sostenuti da un lato dal rigore degli studi compiuti e dall’altro dalla stima dei colleghi e delle famiglie che ad essi affidano i loro figli.
Per tutti questi motivi, desideriamo rinnovare l’invito ad avvalervi dell’insegnamento della religione cattolica, sicuri che durante queste lezioni potrete trovare docenti e compagni di classe che vi sapranno accompagnare lungo un percorso di crescita umana e culturale, decisivo e fondamentale anche per il resto della vostra vita.

La presidenza della Conferenza episcopale italiana

da “Avvenire” giovedì 11 gennaio 2018