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VI DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura:Atti 10,25-27.34-35.44-48

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!». Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.

Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

 

 

v Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap. 10 degli Atti. Consigliamo di rileggere tutto il cap. 10 nella sua interezza. Siamo ad un momento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Cornelio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.

— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v. 25). Di fronte ai prodigi e ad un essere superiore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione. Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).

— «Alzati…» (v. 26). La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri. Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v. 27).

— «Dio non fa preferenze di persone» (vv. 34-35). È l’inizio del discorso di Pietro: non è soltanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,7; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che trova riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico. È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.

— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v. 35). Allargata a tutti i popoli, la misericordia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e rispetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.

— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv. 44-48). Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani». Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v. 47). Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v. 47). L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo estatico (v. 46). In entrambi gli aspetti è da vedere l’unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.

 

Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

 

 

v In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressoché parallelo a quello della II Lett. di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la

probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva. Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa. Il brano di oggi si colloca esattamente all’inizio di tale sviluppo.

     Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura:

     — Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv. 7-8). Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore. Ne derivano due conseguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v. 7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio. Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comunione con Dio (v. 8). Per S. Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non avviene se non attraverso un movimento di amore.

     — Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della venuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v. 9). «Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, diletto, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandandolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).

     — Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, (v. 10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato. Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.

 

Vangelo: Giovanni 15,9-17

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

 

Esegesi 

     Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv. 1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici. Il brano è costituito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».

     Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»:

     — amore (in gr. agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si applica a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura). La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v. 9), comunicandosi agli uomini nel tempo. Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzialmente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro. La comparazione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf. v. 10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione. Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario. Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è però più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli. Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v. 13);

     — amicizia, amico (in gr. philos). Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due persone che sono sullo stesso piano. Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici. La differenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v. 15). Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v. 15).

     Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere. Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziativa gratuita e sovrana (v. 16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missione (portare frutto) stabile e duratura (v. 16).

 

Meditazione

«Amiamoci gli uni gli altri». È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un’esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l’ampiezza che giungeva sino all’amore per i nemici, anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natu­ra e indicarne la fonte: «Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv 4,7). L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il ter­mine greco «eros». L’apostolo usa, invece, la parola «agape» per con­notare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.

Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò par­tire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri senti­menti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infat­ti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgia­mo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant’Agostino applicava all’uomo: «Inquietum est cor nostrum…». Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del «cuore inquieto di Dio»: Egli è venuto sulla terra per cercare e salvare ciò che era per­duto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. È un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l’amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l’amato.

Sì, Dio è inquieto finché non trova l’uomo. E lo è a tal punto «da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). L’amore di Dio, potremmo dire, «è in discesa», si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, «sino a dare la vita per i propri amici, come Gesù stesso dice. Si legge ancora nella prima lettera di Giovanni: «In questo sta l’amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10). È Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. È, in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (1Cor 1, 28). Questo è il Dio dei Vangeli: un Dio che è mosso da un amore che non si fa indietro neppure davanti alla mancanza di vita, alla negazione dell’amore. Dio si fa piccolo pur di raggiungere il più disgraziato degli uomini e arricchirlo della sua amicizia. La storia stessa di Gesù è racchiusa in tale amore. Dio, infatti, non è l’Essere in sé, alla maniera del pensiero aristotelico, ma è l’Essere per noi, è apertura infinita, è amore appassionato per noi.

Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù. L’amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere per amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. Infatti «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito… Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori… Per questo per la Bibbia e per Gesù l’amore, l’agape, non è un sentimento in balia delle circostanze o dei sentimenti, ma un «comandamento», qualcosa a cui rispondere e che si deve costruire: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi». Forse è proprio quel «come» la novità dell’amore cristiano. Siamo chiamati ad amare nella stessa misura di Gesù.

Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomi­ni basati sull’attrazione «naturale» sono labili, basta poco per rovesciar­li e distruggerli. È diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire i rapporti definitivi e fedeli. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9).

Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore; possiamo però riceverlo da Dio; se accolto, ha una forza dirom­pente: fa crollare i muri, cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: «Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!». Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera dì razza, di cultura, di nazio­ne, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11). 

  

L’immagine della domenica

  

 

«Il nostro vero problema

è che siamo immersi

in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto»

                                             (G. Vannucci)

 


Preghiere e racconti

 

     Abitare nella casa dell’amore

 

Questa è una singolare metafora dell’amore. L’amore non è soltanto un sentimento passeggero. È uno spazio in cui si può rimanere. Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio. Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri. Altrimenti ristagna. E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.

L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà. È puro dono. A un amore del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.

Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore. Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo. Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più. E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso. Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile. Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.

(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).

 

La differenza cristiana: amarsi come ama il Signore

 

 Una poesia dolcissima e profonda, ritmata sul lessico degli amanti: amare, amore, gioia, pienezza, frutti… È il canto della nostra fede. Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Di amore parliamo come di un nostro compito. Ma noi non possiamo far sgorgare amore se non ci viene donato. Siamo letti di fiume che Dio trasforma in sorgenti.

Rimanete nel mio amore. Nell’amore si entra e si dimora. Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. Spesso all’amore resistiamo, ci difendiamo. Abbiamo il ricordo di tante ferite e delusioni, ci aspettiamo tradimenti. Ma Gesù ti dice: “arrenditi all’amore”. Se non lo fai, vivrai sempre affamato. Gesù: il guaritore del tuo disamore. Il mondo sembra spesso la casa dell’odio, eppure l’amore c’è, reale come un luogo. È la casa in cui già siamo, come un bimbo nel grembo della madre: non la può vedere, ma ha mille segni della sua presenza: «Il nostro vero problema è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). L’amore è, esiste, circola, ed è cosa da Dio: amore unilaterale, a prescindere, asimmetrico, incondizionato. Questo vi ho detto perché la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, il Vangelo è da ascoltare con attenzione, ne va della nostra felicità, che sta in cima ai pensieri di Dio. Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. Non semplicemente: amate. Ma fatelo in un rapporto di comunione, un faccia a faccia, una reciprocità. E aggiunge la parola che fa la differenza cristiana: amatevi come io vi ho amato. Amare come Cristo, che lava i piedi ai suoi; che non giudica nessuno; che mentre lo ferisci, ti guarda e ti ama; in cerca degli ultimi. Chiunque ami così, qualsiasi sia il suo credo, è entrato nel flusso dell’amore di Cristo, dimora in lui che si è fatto canale dell’amore del Padre. Come lui ognuno può farsi vena non ostruita, canale non intasato, perché l’amore scenda e circoli nel corpo del mondo. Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, come quando si chiude una vena nel corpo.

Voi siete miei amici. Non più servi. Amico: parola dolce, musica per il cuore dell’uomo. Un Dio che da signore e re si fa amico, e teneramente appoggia la sua guancia a quella dell’amato. Nell’amicizia non c’è un superiore e un inferiore, ma l’incontro di due libertà che si liberano a vicenda. Perché portiate frutto e il vostro frutto rimanga. Quali frutti dà un tralcio innestato su una pianta d’amore? Pace, guarigione, un fervore di vita, liberazione, tenerezza, giustizia: questi nostri frutti continueranno a germogliare sulla terra anche quando noi l’avremo lasciata

(Ermes Ronchi)

 

La gioia degli amati che amano.

 

 1. Il contesto del brano evangelico è il «libro degli addii» (Gv13-17), a tavola Gesù rivela se stesso e le cose che gli stanno a cuore ai «suoi», un vero lascito testamentario non solo ai presenti a quella cena ma agli amici di ogni luogo e di ogni tempo resi contemporanei al suo racconto tramite la «lectio», la lettura-ascolto. Contemporanei a un Tu che ci svela al contempo il suo nome e il suo compito, il nostro nome e il nostro compito e il nome di chi è all’origine del tutto.

2. La narrazione inizia con un Gesù che si presenta in questi termini: io mi chiamo «amato dal Padre» (Gv 15,9), il quale a sua volta si chiama amore: «Dio è amore» (1Gv 4,18). Gesù comunica ciò che sa, introduce i suoi a segreti uditi dal Padre stesso (Gv 15,15), il segreto dell’ «incipit»: in principio vi è un Tu che ama, un Amante dal cui grembo è stato generato l’Amato, nome proprio di Gesù, inviato ad amare come amato, compito proprio di Gesù (Gv 15,9). Vi è dunque l’Amore all’origine di Gesù e alla intelligenza di sé come amato, un Amore a lui imperativo categorico: la fedeltà alla propria verità di amato inviato a travasare l’amore che lo ha generato, il solo in grado di generare figli e non schiavi, amici e non nemici. Gesù, a questa consapevolezza di sé di essere il sacramento storico, visibile e tangibile, di Dio amante dell’uomo, è «Si»: «Rimango nel suo amore» e il suo comando rimane in me (Gv 15,10). La mente è aperta a conoscenze inedite precluse all’indagine razionale e al calcolo scientifico, un sapere frutto di discorsi a tavola di un certo Gesù: in principio vi è un Amante, detto Padre, che in forza dell’Amore, detto Spirito, genera l’Amato, detto Figlio, l’inviato a inondare di amore sia il mondo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16), che i suoi non a caso definiti discepoli amati: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi» (Gv 15,9). Come? Con un amore elettivo: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16); oblativo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13); esigente: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,13),: «Questo vi comando: che riamiate gli uni gli altri» (Gv 15,17). Un amore infine amico: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), e «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» Gv15,14).

3. Chi è il discepolo? Un incontrato e un invitato a tavola da un amico di nome Gesù che ha deciso di raccontargli «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35). Dio è amore e fonte sorgiva di ogni amore, Gesù è l’amato inviato a raccontare in parole e gesti l’amore di Dio per ogni creatura, il discepolo è l’amato da Dio in Gesù mandato ad amare come amato da Dio in Gesù. Ove al «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9) si risponde si lì è dato al discepolo, e in lui a ogni uomo, di conoscere finalmente il proprio ineffabile nome, il proprio ineffabile compito e il proprio ineffabile approdo: amati per amare per sempre facendo dell’amore il perno da cui tutto muove e a cui tutto rimanda. Visione urgente a livello personale, comunitario, ecclesiale e sociale nella lucida consapevolezza che «al di fuori dell’amore non c’è salvezza». E non c’è gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La gioia degli amati che amano.

(Giancarlo Bruni)

 

Rimanete nel mio amore

 

      «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10). In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (ibi). È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i comandamenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti. Dicendo: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova. Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete. Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore». Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi. E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p. 1248).

 

Credo

 

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

 

Da’ gratuitamente

 

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

 

L’amore

 

Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi. Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione. Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell’amore un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sembra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce. Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione. Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita. Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa. I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli. Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci. E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare.

(Madeleine Delbrêl).

 

Parlami d’Amore

 

Amore supera l’amore, mio caro. L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito. Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali innamorate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce. L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo. Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abito da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde. L’amore è luce, per le strade umane. Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pennelli d seta che colorano i volti. L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare. Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti. L’amore è veliero che sulle acque fende le onde. Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina. …l’Amore supera l’amore. L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove. L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui. L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, perché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso… l’altro, e perché infine ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dall’uno sgorghi una nuova vita. 

(Michel Quoist).

 

La mia vocazione

 

Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.

( Santa Teresa di Gesù Bambino).

 

Una luce splende alla mia anima

 

Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.

Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.

Ma che cosa amo amandoti?

Non una bellezza corporea né una grazia transitoria;

non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi;

non dolci melodie di svariate cantilene;

non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi;

non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.

Amando il mio Dio, non amo queste cose.

E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce,

una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso

che sono la luce, la voce, il profumo,

l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce

che nessun fluire di secoli può portar via,

dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere,

dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire,

dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.

Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.

(S. Agostino) 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– H.J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA DI PASQUA

IRC, nuove generazioni e ricostruzione del cristianesimo

L’«Istituto di catechetica» (ICA) della Facoltà di Scienze dell’Educazione (Università Pontificia Salesiana) sviluppa attualmente una programmazione triennale attorno all’IRC (2017-2020) all’interno della quale si situa il «corso estivo» sull’«IRC, nuove generazioni e ricostruzione del cristianesimo». Nella prima tappa di questa programmazione – incentrata sulla «Conoscenza-comprensione delle giovani generazioni» (in sintonia anche con i lavori del prossimo «Sinodo») – l’ICA ha portato finora avanti un «seminario de studio» all’interno del proprio Istituto (12 dicembre 2017) e un «corso di aggiornamento» (10-11 marzo 2018) su I giovani, la fede e la religione, al quale hanno partecipato una cinquantina di insegnanti di religione di tutta l’Italia. Il corso estivo (1-7 luglio 2018), quindi, è la terza e ultima iniziativa di questa prima parte della suddetta programmazione. 
 
 OBIETTIVO

 Il corso estivo (IRC, nuove generazioni e «ricostruzione del cristianesimo) persegue l’obiettivo, da un lato, di fare il punto sull’attuale identità degli adolescenti e dei giovani d’oggi; dall’altro, di determinare alcune delle sfide educative fondamentali – legate alla loro «identità-situazione» – per l’IRC e per gli IDR.
 Il Corso intende qualificare competenze educativo-didattiche degli Insegnanti di Religione in conformità con quanto indicato dall’Intesa (nn. 4.1. e 4.7.) e dai nuovi profili propri dell’IRC (DPR 11.02.2010; CM 70/03.08.2012; Nota MIUR 31.10. 2012), in vista di un attento servizio dell’IRC all’evoluzione della scuola italiana e della pedagogia religiosa. Si tratta quindi di identificare alcune sfide educative (delle giovani generazioni nei riguardi della religione e fede cattolica) per la scuola, per gli IDR e per l’IRC e a questo scopo saranno orientate le lezioni frontali, le esercitazioni e, in genere, il lavoro on-line. Si tratta, quindi, di comprendere l’identità e situazione delle giovani generazioni per ripensare e ricostruire con loro la fede e la religione, in questo caso concreto, per ripensare l’IRC a partire dalle sfide educative contenute nel nuovo modo di essere e di vivere delle ragazze e dei ragazzi di oggi. Insieme alle lezioni frontali, per raggiungere questo duplice obiettivo saranno fondamentali le esercitazioni in modalità blended (tesa a valorizzare nel progetto didattico sia i punti di forza della formazione lungo le giornate del corso che la formazione a distanza – blended learning, asincrona, quale modalità di erogazione didattica –) attraverso la piattaforma «GECO» dell’Università Pontificia Salesiana. 

 

ISCRIZIONI E INFORMAZIONI

Segreteria «Istituto di Catechetica»
 „ Tel. 06 87290651  Fax 06 87290.354   E-mail: catechetica@unisal.it „

ORARIO DI UFFICIO: Martedì e Giovedì, dalle 9 alle 12.30. „

Le iscrizioni al Corso Estivo devono pervenire via Mail o Fax entro il 20 giugno 2018.

 

SCARICA:

CEstivoIRC.2018.Programma

Scheda Iscrizione Luglio 1-7 luglio 2018

Lettera di Invito Corso Estivo 2018

Orario

IRC, nuove generazioni e ricostruzione del cristianesimo

L’«Istituto di catechetica» (ICA) della Facoltà di Scienze dell’Educazione (Università Pontificia Salesiana) sviluppa attualmente una programmazione triennale (2017-2020) attorno all’ Insegnamento della Religione cattolica (Irc) all’interno della quale si situa il prossimo «corso estivo» sull’«Irc, nuove generazioni e ricostruzione del cristianesimo», che si terrà al «Hotel Santa Chiara» di Chianciano Terme (SI) dal 1° al 7 luglio.

I destinatari del corso estivo sono gli Insegnanti di Religione Cattolica (IdR) di ogni ordine e grado ed è in fase di studio da parte della corrispondente Commissione Ministeriale del MIUR. Sono stati chiesti concretamente 50 posti, quindi il finanziamento andrà alle prime 50 persone che si scrivano; giunti a quel numero si elaborerà una lista di attesa.

Il corso estivo (Irc, nuove generazioni e «ricostruzione del cristianesimo») persegue l’obiettivo, da un lato, di fare il punto sull’attuale identità degli adolescenti e dei giovani d’oggi; dall’altro, di determinare alcune delle sfide educative fondamentali – legate alla loro «identità-situazione» – per l’Irc e per gli IdR. Infine, il Corso si sviluppa in sette giorni residenziali di lavoro che poi si prolungano nel lavoro on-line in modalità blended. Dunque, il Corso prevede delle aree tematiche e contenuti della formazione, offerti nelle lezioni frontali, approfonditi e sperimentati poi nei laboratori, realizzati in modalità blended (blended learning – asincrona – quale modalità di erogazione didattica).

 

Più informazione nei file allegati:

Lettera di invito al corso

Scheda di iscrizione

Programma del corso estivoProgrammazione triennale «Irc 2017-2010

 Orario

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura:Atti 9,26-31

In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

 

 

v Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv. 1-19), l’inizio della sua predicazione (vv. 20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv. 32-43; e. 10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane. La nostra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.

     Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.

— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v. 28: «andava e veniva in Gerusalemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf. il greco: parrēsia = zòmenos, v. 28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.

— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v. 29). È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.

— «La Chiesa era dunque in pace» (v. 31). Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pace interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo). La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24

Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

 

 

v Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chiese dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche). La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).

     Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».

     a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v. 18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a parole) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso. «Siamo dalla verità» (v. 19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.

     b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo. Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv. 20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza. Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»). Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.

     c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Gesù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati. Qui il «comandamento» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore generico o sentimentale. Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente. Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamento di Gesù.

 

Vangelo: Giovanni 15,1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

 

 

Esegesi

     Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35). In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, insistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.

     Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio. Esso va collocato nell’insieme del cap. 15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv. 1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la testimonianza del Paraclito (vv. 18 ss.).

— «Io sono la vite vera» (vv. 1.5). Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivelazione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14). In riferimento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera». Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.

— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv. 1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rapporto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.

— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre:

a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — come dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v. 2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita;

b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppongono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v. 2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v. 6). Dietro queste immagini si intravede la cura estrema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.

Rimanete in me come io in voi (v. 4). Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano. In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).

— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v. 5). La salvezza non dipende soltanto dalla libera adesione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di portare frutti.

 

Meditazione

 

È la quinta domenica «di» Pasqua; ossia la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno di Pasqua. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, quasi segno della fedeltà di Dio; tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti; tornano perché possiamo resta­re nel giorno di Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano convinti questa affermazione: «non possiamo vivere senza la domenica», ossia «non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto». Potremmo, allora, applicare anche alla domenica e ai giorni della settimana la parabola odierna della vite e i tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni. Quest’ultimi restano senza frutto se non sono vivificati dallo Spirito che riceviamo nella santa litur­gia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni della settimana.

La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di «rimanere» in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio e Dio in lui». E nella parabola della vite e i tralci il termine «rimanere» ne è il cuore. Il verbo viene ripetuto ben sette volte nel nostro testo, e nei versetti seguenti altre due volte. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte!» invoca il salmista (80,15-16). E Isaia, nel mirabile «canto della vigna», descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’Israele: «Io ti avevo piantata come vite pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (2,21).

Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: «Io sono la vera vite». Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testa­mento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: «Io sono il buon pastore». Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agri­coltore». Gesù si identifica con la vite, specificando che è la «vera» vite; ovviamente per distinguersi dalla «falsa».

Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: «io sono la vite e voi i tral­ci». I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essen­ziale e forte. È un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologi­ci, le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirom­pente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto». Sono belle le paro­le di commento di Papia, uno dei Padri Apostolici, a questa pagina evangelica: «Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avrà diecimila tralci ed ogni tralcio avrà diecimila pampini e ogni pampino diecimila grappoli. Ogni grappolo avrà diecimila acini, ed ogni acino spremuto darà una misura abbondante di vino».

Il Vangelo prosegue: «Ogni tralcio che porta frutto, lo porta perché porti più frutto». Sì, proprio quelli che «portano frutto», conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere «senza macchia» (Ef 5,27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo senso che va intesa la potatura; il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i suoi figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scon­tata né naturale, e non è un progresso univoco. Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a senti­menti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È, qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.

Questi tagli, talora anche molto dolorosi, purificano la nostra vita e fanno scorrere con maggior freschezza la linfa dell’amore del Signore. Per sei volte, in otto righe, Gesù ripete: «rimanete in me», «rimanete nella vite». È la condizione per portare frutto, per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono; magari, si saranno chiesti: «ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?». In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le «sue parole rimangono in noi». È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale «conservava nel suo cuore tutte queste cose». È la via che scelse Maria, la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù e ascoltava la sua parola. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesù è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di «non amare a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità».

 

L’immagine della domenica  


LA GIOIA DI VOLARE 

Chi lega a sé una gioia

distrugge la vita che vola;

ma chi bacia la gioia che vola

vive nell’alba dell’Eternità.

(William Blake)

 

Preghiere e racconti

Naturale e artificiale

La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.

Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.

Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.

Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.

Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.

Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.

Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113)

 

Io sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti. Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».

   E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

 

Curare la vigna è come curare la vita

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

 

Noi tralci, Lui la vite: siamo della stessa pianta di Cristo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio: io e lui la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Lui in me e io in lui, come figlio nella madre. E il mio padre è il vignaiolo: Dio raccontato con le parole semplici della vita e del lavoro. Un Dio che mi lavora, si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma le cesoie, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. Per farmi portare sempre più frutto.

E poi una novità assoluta: mentre nei profeti e nei salmi del Primo Testamento, Dio era descritto come il padrone della vigna, contadino operoso, vendemmiatore attento, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io sono la vite, voi siete i tralci. Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come una goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria. Con l’Incarnazione di Gesù, Dio che si innesta nell’umanità e in me, è accaduta una cosa straordinaria: il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio si è fatto argilla, il Creatore creatura. La vite-Gesù spinge la linfa in tutti i miei tralci e fa circolare forza divina per ogni mia fibra. Succhio da lui vita dolcissima e forte. Dio che mi sei intimo, che mi scorri dentro, tu mi vuoi sempre più vivo e più fecondo di gesti d’amore… Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte? Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, inviare mali o sofferenze, bensì dare forza, qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Questo vuole per me il Dio vignaiolo: «Portare frutto è simbolo del possedere la vita divina» (Brown).

Dio opera per l’incremento, per l’intensificazione di tutto ciò che di più bello e promettente abita in noi. Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima gemma. Noi portiamo un tesoro nei nostri vasi d’argilla, un tesoro divino: c’è un amore che sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tutte le esistenze, un amore che sale in me e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Se noi sapessimo quale energia c’è nella creatura umana! Abbiamo dentro una vita che viene da prima di noi e va oltre noi. Viene da Dio, radice del vivere, che ripete a ogni piccolo tralcio: Ho bisogno di te per grappoli profumati e dolci; di te per una vendemmia di sole e di miele.

(Ermes Ronchi)

 

La potatura

Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero…

I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore! La pagina odierna è tratta dai “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole – lo ripeto – del Risorto. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15). Proprio la vite era diventata l’immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4).

Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato come vite vera (alethiné)” (Ger 2,21) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare tutto il suo popolo. Egli è la vite vera e Dio, chiamato con audacia “Padre”, è il vignaiolo, colui che la coltiva. I profeti nella loro predicazione si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi peccati e le sue sofferenze. Gesù però è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta.

Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa aumentare la linfa e così produrre non fogliame, non tralci vuoti, ma grappoli grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati nel fuoco… Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vita che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite. È la parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)?

Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro. Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita.

Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante! Ma in questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite potare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona.

(Enzo Bianchi)

 

Senza di me non potete far nulla

     Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). […] Chi si illude di poter portare frutto da se stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano. Ecco in quale profondo abisso siete precipitati. Ma considerate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla». Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. […] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp. 1240-1244).

 

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

 

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

 

Preghiera

O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.

Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.

Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

    

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI PASQUA (B)

“sui passi di paolo”

L’ Istituto di Catechetica e l’Istituto di Teologia Pastorale dell’UPS organizzano

   IL 29º viaggio di studio: la chiesa delle origini      

      dal 28 Agosto al 10 settembre 2018

 

 

Obiettivi del viaggio:

Mediante il contatto diretto con i principali luoghi visitati e un’accurata riflessione si mira a procurare ai partecipanti:

  • un aggiornamento biblico-patristico (storico, esegetico, archeologico);
  •  un approfondimento e un’ulteriore qualificazione della propria formazione teologico-pastorale-catechetica a contatto con la Chiesa delle origini e i luoghi dove è passato S. Paolo;
  • un arricchimento della propria vita personale di fede.

Luoghi visitati:

In Turchia: Antiochia di Siria, Tarso, Cappadocia (le valli di Göreme), Iconio, Pamukkale, Efeso, Pergamo, Troia, Istanbul.

In Grecia:  Kavàla, Filippi, Salonicco, Veria, Verghina, Kalambaka (meteore), Corinto, Atene.

Durata del viaggio: quattordici giorni (28 agosto – 10 settembre).

  • Si soggiornerà in alberghi. In genere si alloggerà in camere doppie (qualche eccezionale camera singola, se c’è, dovrà venire ulteriormente pagata).
  • Informazioni più dettagliate verranno date agli iscritti successivamente.
  • Spesa globale: per il biglietto aereo di andata e ritorno, assicurazione, per il soggiorno di quattordici giorni in Turchia e Grecia (camera doppia, vitto, non incluse le bevande), per i viaggi al loro interno, per le conferenze e l’ingresso ai numerosi luoghi da visitare, le tasse di frontiera, le mance da dare, ecc.: € 1.950.00 (soggetto alle variazioni dell’€). La camera singola costa € 400 in più.

Informazioni e iscrizioni: Corrado Pastore e-mail: pastore@unisal.it

 

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TS 2018 Turchia e Grecia Programma

TS 2018 Turchia e Grecia Scheda di Iscrizione

Festival Biblico 2018

Il tema del Festival Biblico 2018, FUTURO, ci connette al mistero del tempo che da sempre inquieta gli uomini e muove emozioni profonde che nutrono società, scienze, filosofie, religioni e arti. Il Festival vuole offrire la possibilità di scoprire cosa la Bibbia ha da dire sul futuro – inteso principalmente nel suo rapporto costitutivo con le nostre esistenze umane – e quali orizzonti dischiuda in proposito.

Il futuro è uno sguardo lungo su ciò che ci viene incontro, che ci aspetta e che aspettiamo e sul cambiamento che questo porta con sé e in noi. Spesso oggi il futuro viene confuso con il nuovo, ma il nuovo è solo uno spostamento, una differenza rispetto al prima, il rifiuto di un presente che non vogliamo più. Il futuro, invece, è apertura disponibile, attesa, immaginazione, cammino, anche lotta. Per avere il nuovo serve solo una critica del passato. Per avere futuro occorre una visione sul domani, un obiettivo, una speranza, un’apertura.

Il senso del «futuro» ha a che fare anche con le forme del tempo. Società agrarie, legate ai cicli del tempo atmosferico, si sono pensate in un tempo dalla forma circolare in una sostanziale ripetizione dell’uguale. Nel mondo ebraico e cristiano il tempo è sperimentato a due velocità, quella del costante ripetersi dell’errare umano e quella dell’irruzione del kairòs, del tempo ricco, del tempo di Dio che agisce nella storia e salva. La forma che ne deriva è una spirale che si apre, dove le cose ritornano, ma a un livello diverso, con consapevolezze più ampie e mature. C’è poi la forma moderna del tempo, una linea di ininterrotto progresso che va dal passato al futuro. E’ il tempo della produzione industriale, dell’ottimismo storico, in cui il fine dell’uomo è nelle sue mani, nel suo futuro. E’ un tempo preciso, razionale e uniforme, ma soprattutto umano, possesso dell’uomo anziché di Dio. Oggi, la forma dominante sembra il tempo dei media. Tutto è riproducibile, revocabile, disponibile, perché descritto e riprodotto dal sistema della documentazione, della manipolazione, della fiction. Dopo il cerchio, la spirale, la semiretta, ecco apparire quello che possiamo chiamare il “tempo a cono”: un fascio di luce che illumina un oggetto e poi si sposta su qualcos’altro. Non si percepisce passato, non si percepisce futuro. Viviamo nella flessibile e virtuale dilatazione del presente.

Ma in un discorso intorno al «futuro» occorre considerare un altro fondamentale aspetto: la correlazione costitutiva tra tempo, futuro e coscienza umana. Capire il tempo e il futuro implica e significa riflettere su noi stessi, questo perché il futuro non si presenta mai in modo determinato o alla maniera di una semplice-presenza, ma è sempre costituito da una molteplicità di possibilità indeterminate. Mentre emerge la potenza della decisionalità umana, ne emergono, quindi, anche i limiti, ovvero la finitezza: il futuro, il presente e il passato possibili ed effettivi non provengono solo dalla libertà e dalle decisioni dell’esistenza umana, ma anche da «altri» e da possibilità «date» che costituiscono la condizione e il condizionamento della sua esistenza. Il futuro, in questo senso, è un intrecciarsi delle mie attive possibilità e di quelle che mi sono offerte/imposte da altri (l’altra persona, la moltitudine, la natura, la cultura, Dio) e la libertà umana non è solo questione di fare spontaneamente ma anche di lasciar essere.

Come costruire allora il futuro che non c’è, in un tempo a geometria variabile, in una scena mondiale irretita dall’insicurezza e dilaniata dai conflitti, in una psicosi collettiva dominata dalla paura più che dalla speranza? Coltivando la pazienza e la cura, coltivando la fede nella promessa del Dio affidabile. Chi crede così nel futuro si prende liberamente cura del presente, cioè degli uomini e delle donne che trova lungo la strada, della Terra che ha avuto in eredità, dei sogni che meritano di essere ancora sognati. In questo senso il futuro è tempo per l’accoglienza dell’altro e in questo, per il credente, si manifesta il kairòs che diviene criterio orientante per le sue scelte e il suo stile di vita. Ma il futuro non va solo coltivato, va immaginato, sperato e agito, colto nei segni che lascia in anticipo di sé, visto laddove si nasconde e portato alla luce, come una candela sopra il moggio. Chi crede nel futuro lo fa perché per la promessa del Dio affidabile crede che nessun tempo è segnato dal male senza speranza.

 

PER SAPERNE DI PIU’

http://www.festivalbiblico.it/festival/

 

IV DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura:Atti 4,8-12

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.  Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

 

 

  • Il testo è il terzo discorso cristologico «di» Pietro negli Atti (cf. 2,14-36; 3,12-26). Egli sta parlando proprio negli atri del Tempio (portico di Salomone) dopo aver ridato, «nel nome di Gesù il Nazareno» la salute a uno storpio. Nonostante la sua fine ignominiosa sulla croce, Gesù è risuscitato dai morti.

         Pietro e Giovanni si arrogavano un diritto, quello di parlare dentro il recinto sacro, che non avevano, facendo pure affermazioni false, almeno dubbie, sulla risurrezione di un condannato a morte. Per questo le autorità intervengono: «i sacerdoti, il capitano del tempio, i sadducei» (4,1). Questi ultimi fanno parte del partito dominante, ma intervengono soprattutto perché offesi nelle loro convinzioni dottrinali. Essi non ammettevano la risurrezione dei morti (cf. At 23,8; Mt 22,23). I due apostoli sono messi in prigione e il processo è rimandato al giorno dopo, debbono rispondere del loro potere taumaturgico. In genere i prodigi si operavano in nome di Dio, ma ci si poteva avvalere anche di forze avverse a lui. Gesù era stato accusato di compiere i miracoli in virtù di Beelzebub; potevano essere impostori anche i suoi discepoli.

         La risposta di Pietro, forse meglio la prima apologetica cristiana, è apodittica; il loro potere viene da Gesù. Il «nome» è un ebraismo che sta per la persona. «Quell’uomo» (2,22) pertanto che essi avevano crocifisso è in grado di operare ancora; vuol dire che è tuttora vivo; è uscito dal regno dei morti; è passato nel mondo della vita, ossia di Dio. È infatti alla «sua destra» ed è «stato costituito Signore e Cristo», aveva affermato poco prima davanti al popolo (2,24,33,36).

         Pietro e Giovanni sono, a detta delle stesse autorità, dei semplici «illetterati», non possono conoscere segrete arti magiche, perciò la guarigione del paralitico non può non essere attribuita che a una potenza superiore che parte sempre da Dio. Questa era quindi una riprova delle rivendicazioni di Gesù. La sua sconfitta era stata solo apparente. Egli opera ancora nella storia anche se solo tramite i suoi discepoli.

         Il coraggio dei due illetterati che polemizzano con le stesse autorità giudaiche è al di sopra di ogni supposizione. Occorre che gli interlocutori cambino il loro giudizio su Gesù di Nazaret: invece che un malfattore debbono considerarlo il loro salvatore. Egli solo è la pietra angolare su cui grava la nuova comunità dei credenti. Se non si accetta questo rife-rimento e questa subordinazione non si arriva a Dio.

     

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-2

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.  Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

 

 

  • L’autore della I lettera di Giovanni richiama un aspetto essenziale dell’identità cristiana, la filiazione da Dio. Egli non è un teologo e ancor meno un filosofo bensì una guida spirituale che deduce la «filiazione divina» del cristiano dalla comunione di vita e dall’identità di comportamento che riesce ad avere con il Signore.

         La «conoscenza» di Dio, è detto al cap. 2,1, quindi il rapporto intimo con lui (senso biblico di conoscere), non dipende dalla comprensione della sua realtà ultima, ma dall’adeguazione dei propri comportamenti con i suoi. È l’agire come Dio agisce — cioè con quella stessa rettitudine, santità, perfezione — che rivela la somiglianza, la «connaturalità» con lui. «Da questo sappiamo di conoscerlo (di amarlo), se osserviamo i suoi comandamenti» (2,3). E aggiunge: «Da ciò conosciamo di essere in lui» (2,5). Concludendo ribadisce: «Chi dice di dimorare in lui (in Dio) deve comportarsi come lui (Gesù Cristo) si è comportato» (2,5-6).

         In fondo vivere cristianamente è ripercorrere fino alla perfezione il cammino di Gesù il quale in tutto ha cercato di attuare il volere del Padre. Ma il cristiano deve rimanere in comunione con Dio e in unione con Cristo non solo intenzionalmente ma realmente, facendo propria la testimonianza di Cristo che è l’esplicitazione ultima della volontà di Dio. «Se voi conoscete che egli è giusto anche chi opera la giustizia è da lui (Dio) generato» (2,29).

         È l’agire che rivela l’intima natura dell’uomo, in questo caso del cristiano. Se ci si comporta come Dio che sa compiere solo il bene a tutti anche a quelli che non lo meritano, si da non solo a vedere ma realmente si dimostra che si hanno i suoi stessi sentimenti, la sua stessa bontà e santità. «Figlio di Dio» è un appellativo onorifico ma anche oneroso, poiché comporta una scelta operativa che deve mantenersi sulla stessa linea di quella di Dio. La filiazione è un dono di Dio ma è anche risposta dell’uomo che ha saputo accogliere le mozioni dello Spirito e si è lasciato guidare da esse nella sua vita.

         Il cristiano che sa fare il bene a chi ne ha bisogno, sino ad amare pure chi lo odia, è vero figlio di Dio perché compie ciò che Dio stesso realizza nel corso del tempo e della storia.

 

Vangelo: Giovanni 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

 

Esegesi

   La pericope (Gv 10,11-18) illustra il comportamento di Gesù verso gli uomini. Esso si contrappone a quello delle guide giudaiche, ma l’evangelista pensa anche a quelle di certe comunità cristiane. Il confronto che compare altre volte nel libro (cf. 2,13ss; 8,31 ss) inizia al termine del capitolo IX.

     Gesù sta parlando con un gruppo di farisei definiti ciechi non per nascita, ma volontari, perché, pur vedendo le opere che il Cristo compie, rifiutano di comprenderne la portata, come dimostra la reazione davanti al miracolo dell’uomo a cui è stata ridonata la vista (9,14). Non solo non vogliono vedere ma pretendono di imporre come verità la loro menzogna. Ritorna il detto: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (3,19).

     I dirigenti d’Israele sono guide cieche, ma più ancora sono «briganti e ladri» (10,1). Essi si sono introdotti nell’«atrio», (aulè), il recinto sacro, il tempio, non attraverso la porta, legittimamente quindi, ma fraudolentemente, peggio,  rubando e uccidendo le persone giuste e innocenti che vi si frapponevano. I ladri sono chiamati tali perché saltano i muri; il vero pastore passa attraverso la porta: è noto al portiere e alle pecore, può chiamarle e condurle al pascolo.

     Affinché  non ci siano equivoci, l’evangelista scopre l’identità del pastore: «Io sono», proclama solennemente Gesù; ma non uno qualunque, bensì «il pastore per eccellenza» (ho kalòs). L’espressione dice di più di «buon pastore». Egli solo realizza l’oracolo di Ez 34,23 («Susciterò per loro un pastore che li pascerà, David mio servo; egli li condurrà al pascolo; sarà il loro pastore»). Il re-pastore che Israele attende è, nonostante le apparenze e la sua provenienza da un oscuro villaggio della Galilea (Gv 1,42), Gesù il nazareno.

     Nella storia d’Israele si sono susseguiti molti pastori, forse anche buoni, ma nessuno merita tale appellativo quanto Gesù, perché nessuno ha svolto compiti pari ai suoi e soprattutto con la dedizione eguale alla sua. La specificità del vero pastore è vivere e operare per il bene del gregge, non per la propria esaltazione o per interesse. In realtà il vero pastore è a servizio delle pecore e non permette che queste siano a servizio della sua persona (cf. Ez 34,10). Il suo contrario è il mandriano che lavora per la mercede, senza affezione e nemmeno tanta attenzione alla sicurezza delle pecore, che pure ha in custodia.

     Quelli che prima erano «guide cieche», «briganti e ladri», sono ora designati come «mercenari». Essi che uccidevano e distruggevano ora lasciano sbranare le pecore dai «lupi» che sono in fondo i loro alleati poiché compiono le loro stesse operazioni, disperdere le pecore invece che proteggerle.

     Il ragionamento giovanneo avanza, com’è risaputo, per «circoli concentrici». L’evangelista ha detto il suo pensiero fin dall’inizio del capitolo, ne ha enunciato il tema al v. 11 ; ma vi torna sopra ripetutamente aggiungendovi ulteriori precisazioni. Gesù è il pastore vero, ideale, perché assolve il suo mandato non tanto per dovere, quanto con dedizione e amore. Egli infatti ama le pecore che gli sono state affidate. Il verbo «conoscere» nel linguaggio biblico non è semplice percezione mentale, ma relazione affettiva e fattiva. È sinonimo di volontà di bene; è amare. «Nessuno conosce il padre se non il figlio», afferma Gesù nel comma giovanneo di Mt 11,27; nessuno cioè lo ama quanto lui ed è da lui riamato. Allo stesso modo Gesù dedica le sue energie, e alla fine la sua stessa vita, per le persone alle quali è stato inviato. Il rapporto che lo lega a Dio è lo stesso che lo porta agli uomini, per questo si tratta di un riferimento autentico, sincero, vero. «Quel giorno conoscerete, cioè sperimenterete, che io sono nel padre mio; voi in me ed io in voi», affermerà più avanti egli stesso (Gv 14,20). Con Dio non si può fingere quindi non ci può essere inganno nell’amore di Gesù per l’uomo. Esso è senza limiti, senza restrizioni, totale, poiché non si arresta neanche davanti al pericolo della vita. Gesù infatti ha sostenuto la causa dei suoi «fratelli» (cf. Gv 20,17) contro il potere delle guide cieche, affrontando ladri e banditi con il rischio di rimanere vittima delle loro aggressioni.

     Non solo. Il pericolo né l’ha fatto recedere dai suoi compiti, né ha ristretto l’ambito delle sue operazioni. Egli più che fermarsi alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6), rivolge i suoi messaggi e le sue attenzioni a tutti coloro che incontra nel suo cammino, dentro e fuori i confini della Palestina. La sua luce si irradia su «ogni uomo» (Gv 1,6), non solo sugli israeliti. La comunità cristiana è senza frontiere, universale. I privilegi d’Israele sono caduti una volta per sempre. Il velo del tempio, direbbe Matteo, è stato strappato da capo a fondo e non può essere più ricucito (27,51).

     I seguaci di Gesù, i nuovi credenti, provengono dalle fila del giudaismo, dall’interno del recinto sacro (atrio), ma anche dalle nazioni, poiché pure ad esse appartiene la salvezza. L’unità di tutti i credenti non sarà più fondata sulla dipendenza a istituti o istituzioni sacre, ma dalla comunione che gli uomini avranno tra di loro e con Cristo. La «voce» di Gesù

che tutti egualmente ascolteranno si identifica innanzitutto con le sue proposte, ma anche con il calore con cui le comunica, l’amore con cui le accompagna. Coloro che l’ascoltano ne rimarranno per questo conquistati e coinvolti, diventando suoi discepoli.           

     L’ultima ripresa del discorso, il «circolo» conclusivo, allarga ancora una volta il tema iniziale. Gesù è stato investito dallo Spirito di Dio per una missione tra gli uomini (Gv 1,32), in concreto ha avvertito in sé i riflessi che l’amore di Dio ha per le sue creature predilette e gli ha dato piena accoglienza, non tanto per la sua realizzazione o glorificazione, quanto per il loro bene. Il dare se stesso è perdere la propria vita, ma non è perdersi, poiché la vita data per amore diventa un guadagno (cf. Fil 1,21; 3,7), un ricupero centuplicato di quanto si è dato (Mt 19,29).

     L’amore è libera donazione. Per questo ciò che Gesù ha compiuto è frutto di una sua personale decisione; nessuno l’ha obbligato, tanto meno costretto; ha fatto solo quello che lo Spirito gli ha suggerito e quello che lui ha «liberamente» voluto. L’amore di Dio è stato liberamente accolto e liberamente sono state accettate le sue richieste. Per questo l’opera di

Gesù è stata una risposta di amore.

 

L’immagine della domenica 

 

IL PASTORE BUONO

«Anche se vado per una valle oscura,

non temo alcun male,

perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza» 

(Salmo 23, 4).

 

Meditazione

La comunità ecclesiale dedica questa quarta domenica di Pasqua, chiamata del Buon Pastore, alla preghiera e alla riflessione per le vocazioni sacerdotali e religiose. Al centro della liturgia della Parola c’è l’appassionato, discorso ove Gesù, in piena polemica con la classe dirigente d’Israele, si presenta come il «buon pastore», ossia come colui che raccoglie e guida le pecore sino ad offrire la sua stessa vita. E aggiunge: «chi non offre la vita per le pecore non è pastore bensì mercenario». In effetti, l’opposizione tra il pastore e il mercenario nasce proprio da questa motivazione: il pastore svolge la sua opera per amore, rinunciando al proprio interesse anche a costo della vita, mentre il mercenario lo fa per interesse personale e per denaro, ed è quindi logico che nel momento del pericolo abban-doni le pecore al loro destino. L’evangelista indica il pericolo con l’immagine del lupo che «rapisce e disperde» le pecore. È una sferzata durissima ai farisei, accusati di «pascere se stessi… e non il gregge» (Ez 34,2), mentre egli è venuto per «raccogliere in unità i figli dispersi» (Gv 11,52).

A guardare bene, l’opera del lupo è congeniale all’atteggiamento del mercenario. Ad ambedue, infatti, interessa solo il proprio tornaconto, la propria soddisfazione, il proprio guadagno e non quello delle pecore; si realizza così una alleanza di fatto tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Ne viene fuori una sorta di diabolica congiura degli indifferenti e degli egoisti contro i più deboli e gli indifesi. Se pensiamo all’enorme numero di persone che hanno smarrito il senso della vita e vagano senza meta alcuna, se guardiamo i milioni di profughi che abbandonano le loro terre e i loro affetti in cerca di una vita migliore senza che nessuno se ne preoccupi, se osserviamo lo sbandamento dei giovani in cerca della felicità senza che ci sia chi gliela indichi, dobbiamo purtroppo constatare la triste e crudele alleanza tra i lupi e i mercenari, tra gli indifferenti e coloro che cercano solo di trar-re vantaggi personali da tali sbandamenti. Scrive il profeta Ezechiele: «le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura» (Ez 34,6).

Viene il Signore Gesù e con autorità grande afferma: «Io sono il buon pastore, o dò la vita per le mie pecore». Non solo lo ha detto. Lo ha anche mostrato con i fatti, particolarmente nei giorni della Settimana Santa, quando ha amato i suoi fino alla fine, fino all’effusio­ne del sangue. Finalmente è arrivato in mezzo agli uomini chi spezza la triste e amara alleanza tra il lupo e il mercenario, tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri, e finalmente chi ha bisogno di conforto e di aiuto sa dove rivolgersi, sa dove bussare, sa dove muovere i suoi occhi e il suo cuore. Gesù stesso lo disse: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). Tutto il Vangelo, in fondo, non parla d’altro che di questo legame tra folle disperate, abbandonate, sfinite, senza pastore e Gesù che si commuove per loro. «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (Lc 15,4), dice il Signore. Si attribuisce a San Carlo Borromeo la frase: «per salvare un’anima, anche una sola, andrei sino all’inferno». Questo è l’animo del pastore: andare sino all’inferno, sino al punto più profondo, sino al limite più basso, per salvare una persona. Si può comprendere anche in questa prospettiva la «discesa agli inferi» di Gesù nel Sabato Santo. Neppure da morto, potremmo dire, Gesù si è fermato a pensare a se stesso; ma come buon pastore è andato a cercare chi era perduto, chi era ed è dimenticato, chi era ed è negli inferni di questo mondo che il male e gli uomini hanno creato.

Il Vangelo sembra dire che o si è pastori in questo modo o altri­menti non si può che essere mercenari. È vero, solo Gesù è «buon pastore»: o si somiglia a lui o si tradisce la sua stessa missione. Sappiamo bene di essere inadeguati, ed è il suo Spirito effuso nei nostri cuori che ci trasforma perché «abbiamo in noi gli stessi senti­menti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5). L’odierna pagina evange­lica — come questa domenica suggerisce — si applica anzitutto a coloro che hanno responsabilità «pastorali» nella Chiesa, in particolare ai vescovi e ai sacerdoti. Ed è sommamente opportuno; è anzi doveroso pregare, e non solo oggi, perché i «pastori» somiglino sempre più a Gesù, vero ed unico «buon pastore». Ed è anche urgente intensificare la nostra preghiera perché il Signore doni alla sua Chiesa giovani che ascoltino l’invito ad essere «pastori» secondo il suo cuore, secondo la sua stessa passione d’amore.

Ogni comunità cristiana è chiamata a guardare l’abbondanza della «messe» e la scarsità degli «operai». Fa parte della sua preoccupazione più intensa. C’è tuttavia una responsabilità «pastorale» che appartiene a tutti i credenti. Ogni discepolo, infatti, è nello stesso tempo membro del gregge del Signore ma, a suo modo, anche «pastore», ossia respon­sabile dei fratelli, delle sorelle e del prossimo. In tante altre pagine della Scrittura emerge questa responsabilità «pastorale» di ogni creden­te. Alle origini dell’umanità Dio chiese conto a Caino di suo fratello, e non fu certo esemplare la risposta: «Son forse io custode di mio fratel­lo?». Sì, Caino era il custode (in questo senso si può dire che era il «pastore») di Abele. Così ogni credente deve esserlo per il suo prossi­mo. Salga a Dio la preghiera perché nella comunità cristiana ci sia chi ascolti la chiamata del Signore a servire la Chiesa nel ministero ordina­to. È da questo terreno pieno di «pastoralità» che possono nascere «pastori» per l’oggi. Una comunità appassionata genera pastori. Il buon pastore, infatti, non è un eroe; è uno che ama; e l’amore porta là dove neppure sogneremmo di arrivare.

L’amore sostiene il «buon pastore» e lo sottrae dalla logica del mer­cato e dalle trame fredde dell’interesse individuale. Questo amore ci fa uscire dalle nostre chiusure, dalle nostre abitudini pigre, dai nostri recinti, e ci inserisce nelle preoccupazioni stesse del Signore: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». L’amore di Dio intenerisce il cuore: ci fa commuovere su coloro che vagano nella nostra città in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ove trovare conforto, sui milioni e milioni di disperati che coprono la faccia della terra, su quell’uomo o quella donna vicina o lontana che aspetta consolazione e non la trova. Scrive Matteo: «Gesù vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore che non hanno pastore». E aggiunge subito l’evangelista: «Allora disse ai suoi discepoli: pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,36-37). Tutta la comunità cristiana è unita al Signore Gesù che si commuove ancora sulle folle di questo mondo. E con lui prega perché non manchino gli operai per la vigna del Signore. Ma nello stesso tempo, ogni credente, davanti a Dio e davanti «ai campi che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4,35) deve dire con il profeta: «Ecco, Signore, manda me!» (Is 6,8).

 

Preghiere e racconti

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.

L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

 

Gesù, il buon pastore

Chi è Gesù? Gesù è il buon pastore. Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina. E noi possiamo attribuire soltanto al Signore l’esprimersi con bontà infinita. Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio. Conosce le sue pecorelle, e le chiama per nome. Poiché noi siamo del suo gregge, è agevole la possibilità di corrispondenza che antecede il nostro stesso ricorso a lui.

Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui. La bontà del Signore si palesa qui in maniera sublime, ineffabile […].

Il Cristo che portiamo all’umanità è il «Figlio dell’uomo», come lui stesso si è chiamato. È il primogenito, il prototipo della nuova umanità, è il Fratello, il Compagno, l’Amico per eccellenza. Solo di lui si può dire con piena verità che «conosceva tutto quanto c’è nell’uomo» (Gv 2,25). È l’inviato da Dio, non per condannare il mondo, ma per salvarlo. È il buon pastore dell’umanità. Non c’è valore umano che non abbia rispettato, innalzato e riscattato. Non c’è sofferenza umana che non abbia compresa, condivisa e valorizzata. Non c’è bisogno umano – fatta eccezione delle imperfezioni umane – che non abbia assunto e provato lui stesso e proposto alla inventiva e alla generosità degli altri uomini come oggetto della loro sollecitudine e del loro amore, per così dire come condizione della loro salvezza.

(PAOLO VI, Discorso del 28 aprile 1968).

 

Il Pastore ucciso come pecora

Volgiamo gli occhi al nostro pastore, il Cristo. Vediamo il suo amore che con la sua mitezza vince l’indolenza delle pecore. Gioisce delle pecore che lo circondano, cerca quelle che si smarriscono. Non rifiuta di percorrere monti e foreste, attraversa precipizi, è accanto a quella che vagabonda e se la trova affaticata, non la odia a motivo del suo comportamento, ma è mosso a compassione dal suo patire e, presala sulle spalle, cura la fatica della pecora con la propria fatica. E gioisce della propria fatica, perché ha trovato le pecore e guarisce le loro fatiche. «Chi se ha cento pecore e ne ha perduta una, non lascia le novantanove nel deserto e non va a cercare la perduta finché la trova?» (Lc 15,4). La perdita di una sola pecora turba la gioia di quelle al sicuro, e la tristezza di una sola minaccia la gioia di tutte. […] Ma se il pastore «la trova, la prende sulle sue spalle con gioia» (Gv 10,11) «ed, entrato nella casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,6)». […]

    «Io sono il buon pastore. Il buon pastore depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Pilato ha visto questo pastore, gli ebrei lo hanno visto, condotto alla croce per il suo gregge, come annunciava il coro dei profeti: «Come un agnello è condotto al macello, come pecora muta davanti ai tosatori, non ha aperto la sua bocca» (Is 53,7). Il Pastore è ucciso come pecora per le pecore, non oppone resistenza al patire, non fugge il giudizio, non respinge quelli che lo mettono in croce. Non ha subito la passione, ma volontariamente ha accolto la morte per le pecore. «Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Distrugge la passione con la sua passione, la morte con la sua morte; con la sua tomba apre le tombe, smuove i chiavistelli degli inferi. La morte ha potere fino a quando Cristo ha accolto la morte; fino ad allora i sepolcri sono chiusi pesantemente e la prigionia non ha soluzione, fino a quando il Pastore scende e annuncia alle pecore in potere della morte la liberazione. Appare agli inferi e dà l’ordine di uscire. Appare e rinnova l’appello alla vita. «Il buon pastore dà la vita per le pecore»; così cerca di essere amato dalle pecore. Ama Cristo chi ascolta attentamente la sua voce.

(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia 26, PG 85,304A-308A).

 

Il prete piccolo e grande

Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come di ceppo contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino,

teso verso l’alto,

i piedi sulla terra,

fatto per la gioia,

esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace,

un nemico dell’inerzia,

fedele per sempre…

Così differente da me!

(Anonimo).

 

Salmo 23

O Dio,

che hai regalato al mondo e alle chiese tanti buoni pastori, tante donne e tanti uomini che vivono la loro funzione come servizio di amore, noi Ti ringraziamo per la testimonianza che ci hai dato mediante Gesù, il buon pastore.

Ma, soprattutto, noi ci rivolgiamo a Te sapendo che le Scritture fanno di Te non solo il pastore buono ed amorevole, ma l’unico pastore a cui possiamo affidare le nostre esistenze. Così ti preghiamo:

Il Signore è il mio pastore:

non manco di nulla;

su pascoli erbosi mi fa riposare

ad acque tranquille mi conduce.

Mi rinfranca,

mi guida per il giusto cammino,

per amore del suo nome.

Se dovessi camminare in una valle oscura,

non temerei alcun male,

perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici;

cospargi di olio il mio capo.

Il mio calice trabocca.

Felicità e grazia mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

e abiterò nella casa del Signore

per lunghissimi anni.

 

Gesù il pastore buono che dà la vita, che contagia d’amore

Pastore buono: è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha in sé nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che si frappone fra ciò che dà la vita e ciò che procura morte al suo gregge.

Il pastore buono che nella visione del profeta «porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Isaia 40,11), evoca anche una dimensione tenera e materna che, unita alla fortezza, compone quella che papa Francesco chiama con un magnifico ossimoro, una «combattiva tenerezza» (Evangelii gaudium 88).

Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi siamo chiamati a diventare il racconto della tenerezza di Dio. Della sua combattiva tenerezza.

Qual è il comportamento, il gesto che caratterizza questo pastore secondo il cuore di Dio? Il Vangelo di oggi lo sottolinea per cinque volte, racchiudendolo in queste parole: il pastore dà la vita. Qui affiora il filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera ininterrotta di Dio nei confronti di ogni creatura: il suo lavoro è da sempre e per sempre trasmettere vita, «far vivere e santificare l’universo» (Prece eucaristica III).

Dare la vita non è, innanzitutto o solamente, morire sulla croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita è l’opera generativa di Dio, un Dio inteso al modo delle madri, uno che nel suo intimo non è autoreferenzialità, ma generazione. Un Dio compreso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del seno di donna che offre vita al piccolo; dell’acqua che dà vita alla steppa arida.

Io offro la mia vita significa: vi offro una energia di nascita dall’alto; offro germi di divinità, per farvi simili a me (noi saremo simili a lui, 1 Gv 3,2 nella II Lettura). Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i tanti lupi di oggi.

Perché anche noi, discepoli che vogliono, come lui, sperare ed edificare, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, quanti contano su di noi e di noi si fidano.

“Dare vita” significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.

Ermes Ronchi

 

Il «Buon Pastore»

La quarta domenica di Pasqua, domenica del buon Pastore, ha il suo centro nella pagina evangelica che, con l’immagine di Gesù pastore, presenta una visione sintetica dell’evento pasquale, culmine della storia di salvezza. Nel suo ministero Gesù è stato pastore del “piccolo gregge” (Lc 12,32) esponendo la sua vita fino a donarla per amore dei suoi (cf. Gv 10,11-15: riferimento alla morte di Cristo); la sua morte poi sfocia nella resurrezione che prolunga ed estende il suo ministero di pastore a livello universale che crea comunione e unità (Gv 10,16-18: riferimento alla resurrezione).

E in forza dell’evento pasquale egli è il “pastore buono”, cioè il pastore che dà salvezza, l’unico a cui spetti questo titolo che nel Primo Testamento designa Dio nel rapporto con il popolo d’Israele nel suo insieme (Sal 80: “Tu, pastore d’Israele”) e con ciascun figlio d’Israele singolarmente (Sal 23: “Il Signore è il mio pastore”).

La prima lettura, tratta come sempre nel tempo pasquale (secondo un’antica tradizione liturgica) dagli Atti degli apostoli, presenta l’annuncio della resurrezione di Cristo nel discorso di Pietro al sinedrio: le energie della resurrezione agiscono nella chiesa e, grazie alla fede, il nome del Signore opera guarigioni di malati. La seconda lettura presenta il cristiano quale rigenerato a figlio di Dio dal dono di amore del Padre.

Il paradosso cristiano emerge dalla rivelazione di Gesù quale “buon pastore”, cioè quale autentico e unico pastore: egli “offre (lett. “depone”) la vita per le pecore”, cioè rischia la vita, la espone ai pericoli dei briganti e degli animali feroci, pur di salvare le sue pecore. E arriva anche a dare la vita, a morire per i suoi. Egli non è un mercenario, un salariato, ma il pastore unito alle pecore da un legame personale e di amore.

Niente di funzionale nella qualità di pastore che Cristo vive: egli è in legame di obbedienza e di amore con il Padre (“il Padre conosce me e io conosco il Padre”) e vive un legame di conoscenza, amore e appartenenza con le pecore: “Conosco le mie (pecore) e le mie (pecore) conoscono me”. Tutto si gioca sul piano della relazione, non del ruolo, né della funzione, sul piano dell’amore, non del dovere: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

La rivelazione del pastore diviene anche rivelazione della qualità della pecora, ovvero, fuor di metafora, del credente che segue il pastore Gesù Cristo. Il credente è colui che conosce il Signore e ne ascolta la voce (vv. 14.16). Ascolto e conoscenza del Signore sono azioni anzitutto personali che introducono nella vita spirituale e conducono verso l’unità interiore. Ma sono anche azioni ecclesiali che consentono al Signore di governare la sua comunità e di condurla verso l’unità: “Diventeranno un solo gregge e un solo pastore”.

Il testo intravede il formarsi di un popolo composto da persone provenienti non solo da Israele, ma anche dalle genti (“ho altre pecore che non sono di questo ovile”), evento che sarà frutto della Pasqua (“quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”: Gv 12,32) e si compirà nell’eschaton (“l’Agnello sarà il loro pastore”: Ap 7,17). Giovanni presenta Gesù come pastore universale: a lui solo spetta questo titolo.

È Gesù Cristo il “Pastore della chiesa universale sparsa su tutta la terra”, come recita il Martirio di Policarpo (XIX,2). Giovanni inoltre parla dell’unicità del pastore, che è Cristo, non dell’ovile, come intese erroneamente la traduzione latina di Gerolamo (et fiet unum ovile) suscitando interpretazioni che vi vedevano un riferimento alla sede petrina: “Giovanni non avrebbe mai detto che Pietro era l’unico pastore!” (Ignace de la Potterie).

Il legame tra Cristo “buon pastore” e la resurrezione emerge anche dall’arte funeraria cristiana antica che rappresenta Cristo con una pecora sulle spalle già nelle antiche catacombe e nelle zone cimiteriali: egli è il pastore che conduce l’uomo attraverso la morte alla vita eterna in Dio.

(Luciano Manicardi)

 

Commento al Salmo 23

Rivolgersi al Signore nella preghiera implica un radicale atto di fiducia, nella consapevolezza di affidarsi a Dio che è buono, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6-7; Sal 86,15; cfr Gl 2,13; Gn 4,2; Sal 103,8; 145,8; Ne 9,17). Per questo oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo tutto pervaso di fiducia, in cui il Salmista esprime la sua serena certezza di essere guidato e protetto, messo al sicuro da ogni pericolo, perché il Signore è il suo pastore. Si tratta del Salmo 23 – secondo la datazione greco latina 22 – un testo familiare a tutti e amato da tutti.

«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla»: così inizia questa bella preghiera, evocando l’ambiente nomade della pastorizia e l’esperienza di conoscenza reciproca che si stabilisce tra il pastore e le pecore che compongono il suo piccolo gregge. L’immagine richiama un’atmosfera di confidenza, intimità, tenerezza: il pastore conosce le sue pecorelle una per una, le chiama per nome ed esse lo seguono perché lo riconoscono e si fidano di lui (cfr Gv 10,2-4). Egli si prende cura di loro, le custodisce come beni preziosi, pronto a difenderle, a garantirne il benessere, a farle vivere in tranquillità. Nulla può mancare se il pastore è con loro. A questa esperienza fa riferimento il Salmista, chiamando Dio suo pastore, e lasciandosi guidare da Lui verso pascoli sicuri:

«Su pascoli erbosi mi fa riposare,

ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,

mi guida per il giusto cammino

a motivo del suo nome» (vv. 2-3).

 

La visione che si apre ai nostri occhi è quella di prati verdi e fonti di acqua limpida, oasi di pace verso cui il pastore accompagna il gregge, simboli dei luoghi di vita verso cui il Signore conduce il Salmista, il quale si sente come le pecore sdraiate sull’erba accanto ad una sorgente, in situazione di riposo, non in tensione o in stato di allarme, ma fiduciose e tranquille, perché il posto è sicuro, l’acqua è fresca, e il pastore veglia su di loro. E non dimentichiamo qui che la scena evocata dal Salmo è ambientata in una terra in larga parte desertica, battuta dal sole cocente, dove il pastore seminomade mediorientale vive con il suo gregge nelle steppe riarse che si estendono intorno ai villaggi. Ma il pastore sa dove trovare erba e acqua fresca, essenziali per la vita, sa portare all’oasi in cui l’anima “si rinfranca” ed è possibile riprendere le forze e nuove energie per rimettersi in cammino.

Come dice il Salmista, Dio lo guida verso «pascoli erbosi» e «acque tranquille», dove tutto è sovrabbondante, tutto è donato copiosamente. Se il Signore è il pastore, anche nel deserto, luogo di assenza e di morte, non viene meno la certezza di una radicale presenza di vita, tanto da poter dire: «non manco di nulla». Il pastore, infatti, ha a cuore il bene del suo gregge, adegua i propri ritmi e le proprie esigenze a quelli delle sue pecore, cammina e vive con loro, guidandole per sentieri “giusti”, cioè adatti a loro, con attenzione alle loro necessità e non alle proprie. La sicurezza del suo gregge è la sua priorità e a questa obbedisce nel guidarlo.

Cari fratelli e sorelle, anche noi, come il Salmista, se camminiamo dietro al “Pastore buono”, per quanto difficili, tortuosi o lunghi possano apparire i percorsi della nostra vita, spesso anche in zone desertiche spiritualmente, senza acqua e con un sole di razionalismo cocente, sotto la guida del pastore buono, Cristo, siamo certi di andare sulle strade “giuste” e che il Signore ci guida e ci è sempre vicino e non ci mancherà nulla.

Per questo il Salmista può dichiarare una tranquillità e una sicurezza senza incertezze né timori:

«Anche se vado per una valle oscura,

non temo alcun male, perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza» (v. 4).

 

Chi va col Signore anche nelle vali oscure della sofferenza, dell’incertezza e di tutti i problemi umani, si sente sicuro. Tu sei con me: questa è la nostra certezza, quella che ci sostiene. Il buio della notte fa paura, con le sue ombre mutevoli, la difficoltà a distinguere i pericoli, il suo silenzio riempito di rumori indecifrabili. Se il gregge si muove dopo il calar del sole, quando la visibilità si fa incerta, è normale che le pecore siano inquiete, c’è il rischio di inciampare oppure di allontanarsi e di perdersi, e c’è ancora il timore di possibili aggressori che si nascondano nell’oscurità. Per parlare della valle “oscura”, il Salmista usa un’espressione ebraica che evoca le tenebre della morte, per cui la valle da attraversare è un luogo di angoscia, di minacce terribili, di pericolo di morte. Eppure, l’orante procede sicuro, senza paura, perché sa che il Signore è con lui. Quel «tu sei con me» è una proclamazione di fiducia incrollabile, e sintetizza l’esperienza di fede radicale; la vicinanza di Dio trasforma la realtà, la valle oscura perde ogni pericolosità, si svuota di ogni minaccia. Il gregge ora può camminare tranquillo, accompagnato dal rumore familiare del bastone che batte sul terreno e segnala la presenza rassicurante del pastore.

Questa immagine confortante chiude la prima parte del Salmo, e lascia il posto ad una scena diversa. Siamo ancora nel deserto, dove il pastore vive con il suo gregge, ma adesso siamo trasportati sotto la sua tenda, che si apre per dare ospitalità:

 

«Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici.

Ungi di olio il mio capo;

il mio calice trabocca» (v. 5).

Ora il Signore è presentato come Colui che accoglie l’orante, con i segni di una ospitalità generosa e piena di attenzioni. L’ospite divino prepara il cibo sulla “mensa”, un termine che in ebraico indica, nel suo senso primitivo, la pelle di animale che veniva stesa per terra e su cui si mettevano le vivande per il pasto in comune. È un gesto di condivisione non solo del cibo, ma anche della vita, in un’offerta di comunione e di amicizia che crea legami ed esprime solidarietà. E poi c’è il dono munifico dell’olio profumato sul capo, che dà sollievo dall’arsura del sole del deserto, rinfresca e lenisce la pelle e allieta lo spirito con la sua fragranza. Infine, il calice ricolmo aggiunge una nota di festa, con il suo vino squisito, condiviso con generosità sovrabbondante. Cibo, olio, vino: sono i doni che fanno vivere e danno gioia perché vanno al di là di ciò che è strettamente necessario ed esprimono la gratuità e l’abbondanza dell’amore. Proclama il Salmo 104, celebrando la bontà provvidente del Signore: «Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore» (vv. 14-15). Il Salmista è fatto oggetto di tante attenzioni, per cui si vede come un viandante che trova riparo in una tenda ospitale, mentre i suoi nemici devono fermarsi a guardare, senza poter intervenire, perché colui che consideravano loro preda è stato messo al sicuro, è diventato ospite sacro, intoccabile. E il Salmista siamo noi se siamo realmente credenti in comunione con Cristo. Quando Dio apre la sua tenda per accoglierci, nulla può farci del male.

Quando poi il viandante riparte, la protezione divina si prolunga e lo accompagna nel suo viaggio

«Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

abiterò ancora nella casa del Signore

per lunghi giorni» (v. 6).

La bontà e la fedeltà di Dio sono la scorta che accompagna il Salmista che esce dalla tenda e si rimette in cammino. Ma è un cammino che acquista un nuovo senso, e diventa pellegrinaggio verso il Tempio del Signore, il luogo santo in cui l’orante vuole “abitare” per sempre e a cui anche vuole “ritornare”. Il verbo ebraico qui utilizzato ha il senso di “tornare”, ma, con una piccola modifica vocalica, può essere inteso come “abitare”, e così è reso dalle antiche versioni e dalla maggior parte delle traduzioni moderne. Ambedue i sensi possono essere mantenuti: tornare al Tempio e abitarvi è il desiderio di ogni Israelita, e abitare vicino a Dio nella sua vicinanza e bontà è l’anelito e la nostalgia di ogni credente: poter abitare realmente dove è Dio, vicino a Dio. La sequela del Pastore porta alla sua casa, è quella la meta di ogni cammino, oasi desiderata nel deserto, tenda di rifugio nella fuga dai nemici, luogo di pace dove sperimentare la bontà e l’amore fedele di Dio, giorno dopo giorno, nella gioia serena di un tempo senza fine.

Le immagini di questo Salmo, con la loro ricchezza e profondità, hanno accompagnato tutta la storia e l’esperienza religiosa del popolo di Israele e accompagnano i cristiani. La figura del pastore, in particolare, evoca il tempo originario dell’Esodo, il lungo cammino nel deserto, come un gregge sotto la guida del Pastore divino (cfr Is 63,11-14; Sal 77,20-21; 78,52-54). E nella Terra Promessa era il re ad avere il compito di pascere il gregge del Signore, come Davide, pastore scelto da Dio e figura del Messia (cfr 2Sam 5,1-2; 7,8; Sal 78,70-72). Poi, dopo l’esilio di Babilonia, quasi in un nuovo Esodo (cfr Is 40,3-5.9-11; 43,16-21), Israele è riportato in patria come pecora dispersa e ritrovata, ricondotta da Dio a rigogliosi pascoli e luoghi di riposo (cfr Ez 34,11-16.23-31). Ma è nel Signore Gesù che tutta la forza evocativa del nostro Salmo giunge a completezza, trova la sua pienezza di significato: Gesù è il “Buon Pastore” che va in cerca della pecora smarrita, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (cfr Mt 18,12-14; Lc 15,4-7; Gv 10,2-4.11-18), Egli è la via, il giusto cammino che ci porta alla vita (cfr Gv 14,6), la luce che illumina la valle oscura e vince ogni nostra paura (cfr Gv 1,9; 8,12; 9,5; 12,46). È Lui l’ospite generoso che ci accoglie e ci mette in salvo dai nemici preparandoci la mensa del suo corpo e del suo sangue (cfr Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e quella definitiva del banchetto messianico nel Cielo (cfr Lc 14,15ss; Ap 3,20; 19,9). È Lui il Pastore regale, re nella mitezza e nel perdono, intronizzato sul legno glorioso della croce (cfr Gv 3,13-15; 12,32; 17,4-5).

Cari fratelli e sorelle, il Salmo 23 ci invita a rinnovare la nostra fiducia in Dio, abbandonandoci totalmente nelle sue mani. Chiediamo dunque con fede che il Signore ci conceda, anche nelle strade difficili del nostro tempo, di camminare sempre sui suoi sentieri come gregge docile e obbediente, ci accolga nella sua casa, alla sua mensa, e ci conduca ad «acque tranquille», perché, nell’accoglienza del dono del suo Spirito, possiamo abbeverarci alle sue sorgenti, fonti di quell’acqua viva «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14; cfr 7,37-39).

(BENEDETTO XVI, UDIENZA GENERALE, Piazza San Pietro Mercoledì, 5 ottobre 2011)

 

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI PASQUA (B)

I ragazzi selvaggi e il tramonto dell’educazione

Siamo arrivati alla società dei «diseredati»: giovani a cui non è stato trasmesso nulla di ciò che è davvero fondante, senza radici e senza capacità di immaginare e di costruire il futuro. Dopo l’ennesima spedizione punitiva di genitori contro un insegnante reo di fare soltanto il proprio lavoro, dopo i tristi casi di cronaca di professori sbeffeggiati, derisi e postati su Facebook, dopo l’inarrestabile escalation di bullismo presente ormai ad ogni livello nella vita scolastica e, soprattutto, dopo una lunga ed estenuante campagna elettorale, in cui nessuno dei contendenti ha messo non dico al primo ma neppure agli ultimi posti la catastrofe educativa, occorre forse fermarsi e cercare di stabilire un punto fermo.

 

Che cos’è l’educazione?

Che cos’è l’educazione? E qual è la relazione tra l’educazione e il nostro essere pienamente umani? Le grandi scimmie antropomorfe, etologicamente i nostri parenti più stretti, permettono ai loro «adolescenti» di compiere atti che a un adulto non verrebbero mai concessi. Ma entro certi limiti. Non appena la soglia viene superata, l’adulto più alto in grado prende le misure necessarie per interrompere un comportamento destinato a diventare nocivo per la comunità stessa. Uno scimpanzé, un gorilla, un bonobo, per quanto complessi essi siano, hanno una caratteristica che li accomuna alle altre specie animali: vivono nell’immediatezza delle situazioni e la loro esistenza si svolge quietamente lungo i binari della genetica, dell’ambiente e dell’evoluzione. Seguendo la legge della sua specie, un piccolo scimpanzé diventerà sempre un grande scimpanzé ma un bambino lasciato a se stesso, senza alcun accompagnamento, senza sostegno, senza limiti né contrasti, che cosa mai potrà diventare? Quello che ormai troppo spesso abbiamo sotto i nostri occhi: un adolescente infelice, rabbioso, totalmente privo di empatia, succube dei sempre più folli capricci del suo ego.

 
 
La tesi di Rousseau

D’altronde, come stupirsi? Quando io studiavo alle magistrali nei primi anni Settanta, il caposaldo della nostra formazione era l’Émile di J.J. Rousseau. Nella visione del filosofo svizzero, infatti, il bambino, per poter sviluppare al massimo le sue potenzialità, doveva essere lasciato il più possibile allo stato di natura, rinunciando ad ogni autorità educativa. «Non comandategli mai nulla, per nessuna ragione al mondo: assolutamente nulla» scrive nel suo romanzo pedagogico del 1762. «Non lasciategli neppure immaginare che pretendete di avere su di lui qualche autorità». Inoltre, per proteggerlo dall’influsso nefasto della società — indi della civiltà e dalla nebulosità della cultura — Rousseau consiglia di ridurre quanto più possibile anche il suo vocabolario. «È un inconveniente gravissimo che abbia più parole che idee, che sappia dire più cose di quante sappia pensarne».

 

Il libro di Bellamy

Queste memorie scolastiche mi sono tornate in mente leggendo lo splendido libro del filosofo François-Xavier Bellamy, I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere (Itaca, 2016), uno dei saggi più lucidamente appassionati sulla crisi educativa degli ultimi anni. Proprio nel libro di Bellamy si ricorda una vicenda accaduta una ventina d’anni dopo la morte di Rousseau, quando nel Sud della Francia venne trovato in una zona impervia un ragazzo selvaggio. Stando alle teorie rousseauiane, questo bambino avrebbe dovuto essere il non plus ultra della saggezza e dell’equilibrio. Invece, secondo la testimonianze del medico che lo seguì nei primi tempi «si agitava continuamente senza scopo, mordendo e graffiando tutti quelli che lo contrariavano, non manifestando alcuna specie di gratitudine per coloro che lo accudivano, indifferente a tutto e a nulla prestando attenzione». Questo ritrovamento scosse temporaneamente le salde certezze dei seguaci di Rousseau, ma il turbamento fu presto accantonato sostenendo che il ragazzo era stato abbandonato proprio in quanto indomabile.

 

Infanzia in totale solitudine

Chi ha visto il bel film di Truffaut, Il ragazzo selvaggio, ispirato proprio a Victor, si ricorderà degli sforzi che uno studente di medicina, Jean Itard — convinto dell’ipotesi contraria, cioè che il ragazzo fosse così proprio in quanto abbandonato —, fece per restituirgli la sua umanità e per non farlo rinchiudere in manicomio, come avrebbero voluto i rousseauiani. Per cinque anni Itard si dedicò a Victor con immensa pazienza e, pur non riuscendo a rimediare ai gravi danni psicologici causati da un’infanzia vissuta in totale solitudine, riuscì comunque a placarlo, a fargli esprimere le proprie sensazioni ed emozioni per comunicarle agli altri. Diversamente dallo scimpanzé, l’uomo che cresce allo stato brado, senza alcun condizionamento né guida, è destinato a diventare un essere infelice, rabbioso e selvatico, perché la misteriosa complessità dell’essere umano si sviluppa soltanto attraverso la relazione e la trasmissione del sapere. Sapere che non è condizionamento, ma via prioritaria per la libertà e la stabilità della persona.

 

Società di «diseredati»

Abolito il ruolo educativo della scuola — ridotta nel migliore dei casi a luogo dove si apprendono tecniche — cancellata la stabilità e l’autorevolezza del nucleo familiare, scomparsi storicamente i partiti, eclissata la chiesa, quali realtà educative permangono nella collettività? Soltanto il narcisismo anarchico della Rete che esalta sopra ogni cosa la felicità individuale, creando una monocultura della mente e una totale anestesia del cuore. Di questo passo, siamo arrivati così alla società dei «diseredati», appunto: giovani generazioni a cui non è stato trasmesso nulla di ciò che è davvero fondante, giovani senza radici e senza alcuna capacità — e possibilità — di immaginare e di costruire il futuro. Che cittadini saranno i nuovi ragazzi selvaggi? Non si può poi negare che quarant’anni di questa pedagogia così affabilmente democratica abbiano creato una società sempre più drammaticamente classista. Mai come ora, infatti la forbice tra i ragazzi privilegiati, su cui la famiglia ha potuto e ha voluto investire, e i novelli Victor, figli di famiglie disgregate, assenti o prive di risorse, è stata così ampia.

 

Senza autorevolezza

Pensando all’apatia educativa contemporanea, mi è tornato in mente un episodio raccontatomi qualche anno fa da una giornalista tedesca. Nata alla fine degli anni Quaranta, la sua infanzia era stata segnata dalla drammatica divisione del suo Paese. Un giorno, quando era ancora alle elementari, aveva raccontato a tavola che tutta la sua classe era stata invitata alla festa di compleanno di una loro compagna fuggita dall’Est ma che nessuno di loro sarebbe andato perché la bambina era povera e puzzava. La nonna, a quel punto, le aveva dato un sonoro schiaffo, il primo e l’ultimo della sua vita. «Tu invece ci vai!» le aveva intimato. «E ci vai con il miglior vestito, portandole anche un bellissimo regalo». E così era accaduto. Era stata l’unica della classe ad andarci. «Senza quello schiaffo la mia vita sarebbe stata completamente diversa», mi confidò. «Mi ha fatto aprire gli occhi e da allora non mi sono mai più lasciata tentare dalla crudele banalità della maggioranza».

 

Il kyôsaku

Lungi da me l’idea di inneggiare alla violenza fisica, ma non è proprio colpendo con un bastone, il kyôsaku, che i maestri zen risvegliano la coscienza degli allievi assopiti o distratti durante il tempo della meditazione? Non è forse di un bastone di questo tipo che anche la nostra società avrebbe bisogno per svegliarsi dal torpore, aprire finalmente gli occhi e chiamare le cose con il loro nome? Senza ritorno dell’autorevolezza, senza un generoso e appassionato ripristino della cultura – come realizzazione più profonda dell’umano e della sua trasmissione, che è fatta di imprescindibili priorità – il nostro mondo sarà sempre più popolato da infelicissimi e ingestibili Victor. E non è necessario avere grandi doti divinatorie per immaginare che sarà un mondo purtroppo drammaticamente diverso dall’aulico Eden di cui avrebbe voluto essere artefice l’Émile immaginato da J.J. Rousseau.

di Susanna Tamaro

11 aprile 2018 (modifica il 11 aprile 2018 | 21:46)

«Siate santi, perché io sono santo»

la nuova esortazione apostolica “Gaudete ed exsultate”

Nell’Esortazione apostolica «Gaudete et Exsultate» il Papa indica nelle Beatitudini la carta d’identità del cristiano. I santi non sono supereroi. È l’urgenza di una risalita all’essenzialità. A ciò che conta per vivere pienamente da uomini e da veri cristiani nel contesto storico attuale. L’esortazione Gaudete et exultate sulla «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» non è perciò riservata a pochi ma è una via per tutti. Non un trattato sulla santità, ma una sua descrizione, così come l’aveva profilata il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium.

Nei cinque capitoli del documento Papa Francesco sgombera così il campo dalle false immagini che si possono avere della santità, da ciò che è nocivo e ideologico e «da tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale», e, spiegando che la santità è frutto della grazia di Dio, indica le caratteristiche che ne costituiscono un modello a partire dal Vangelo. Illumina così la vita nell’amore non separabile per Dio e per il prossimo, che è il comandamento centrale della carità e il cuore del Vangelo dalle parole stesse di Gesù: «Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano» «Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita».

È il capitolo centrale dell’esortazione. Il canovaccio di riferimento di uno stile di vita. E si comprende da qui la forza e l’utilità di questo documento che mette insieme in modo organico ciò su cui Papa Francesco insiste da cinque anni, andando controcorrente rispetto a quanto abitualmente si fa nella società.

«La forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale – scrive – Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato».

La santità della porta accanto

«Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità… Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» scrive Francesco e nel primo capitolo ricordando che i santi non sono solo quelli già beatificati o canonizzati. «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere… Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (7).


Francesco non si ferma pertanto a spiegare i mezzi di santificazione o le varie forme di devozione invita subito a non scoraggiarsi di fronte a «modelli di santità che appaiono irraggiungibili», perché dobbiamo seguire la «via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi». (11). E spiega e ripete che per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno». (14)


Ribadisce quindi che l’obiettivo di questa esortazione «è soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata personale che rivolge anche a te: «Siate santi, perché io sono santo» (Lv 11,44; 1 Pt 1,16). Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza», «ognuno per la sua via, dice il Concilio». «Lascia dunque che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità» (15).

E ripete l’invito a non avere paura a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo: «Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita. Lasciati trasformare, lasciati rinnovare dallo Spirito, affinché ciò sia possibile, e così la tua preziosa missione non andrà perduta». «La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia. In fondo, come diceva León Bloy, nella vita «non c’è che una tristezza… quella di non essere santi» (34).

I due nemici della santità e il cuore della Legge

Nel secondo capitolo si sofferma su quelle che definisce «due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo». Ancora una volta, quindi, il Papa fa riferimento a queste due eresie «sorte nei primi secoli cristiani», e che a suo giudizio «continuano ad avere un’allarmante attualità» dentro la Chiesa (35). Si tratta di «due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare» (35). Se infatti la santità è un dono della grazia nella vita della Chiesa, queste due sottili forme di eresia ne sono un ostacolo proprio perché rimuovono la necessità della grazia di Cristo, oppure svuotano la dinamica reale e gratuita del suo agire. Per questo complicano e fermano la Chiesa nel suo cammino verso la santità.    I «nuovi pelagiani» ad esempio «per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali – spiega il Papa – complicano il Vangelo e diventando «schiavi di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia agisca»( 59). Questi s’impegnano nel seguire un’altra strada che è «quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore». E si manifesta in molti atteggiamenti: «L’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense moltitudini assetate di Cristo» (57).


Il Papa ha quindi ricordato che siamo chiamati a curare attentamente la carità che è il centro delle virtù e della Legge. Cristo ci ha consegnato «due volti, quello del Padre e quello del fratello», «o meglio uno solo, quello di Dio che si riflette in molti, perché in ogni fratello è presente l’immagine stessa di Dio» (61). L’amore per Dio e per il prossimo non possono perciò essere separati: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» perché pienezza della Legge infatti è la carità». Perché «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (60).

Le Beatitudini: ritratto di Gesù e stile di vita controcorrente

Nel terzo capitolo, Francesco srotola una per una le beatitudini evangeliche contenute nel capitolo 5 del Vangelo di Matteo e le rilegge attualizzandole. «Vivere le Beatitudini – spiega – diventa difficile e può essere addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata». Ma queste sono «la carta d’identità del cristiano».

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli»
«Le ricchezze non ti assicurano nulla – ricorda il Papa – Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli» (68).
«Essere poveri nel cuore, questo è santità».

«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra».
«È un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini» (71). Osserva Francesco: «Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino. È meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero, vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio» (74). La mitezza è propria di Cristo: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Il Papa pertanto ricorda che «anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo con mitezza, e persino gli avversari devono essere trattati con mitezza. Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello» (73).  «Reagire con mitezza, questo è santità».

«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati»
«La persona che vede le cose come sono realmente – scrive – si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice» (76). «Saper piangere con gli altri, questo è santità».

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati»
«La giustizia che propone Gesù – spiega – non è come quella che cerca il mondo, molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è commercio» e si resta «ad osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta della vita» (78). «Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità».

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia».
«“Tutto quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loroˮ. Il Catechismo ci ricorda che questa legge si deve applicare “in ogni casoˮ,» (80). Gesù, ricorda il Papa, «non dice “Beati quelli che programmano vendetta”, ma chiama beati coloro che perdonano e lo fanno “settanta volte setteˮ». «Guardare e agire e agire con misericordia, questo è santità»

«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio»
«Quando il cuore ama Dio e il prossimo, quando questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e può vedere Dio» (86). «Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità».

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».
«Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace», scrive Francesco (87). Mentre i pacifici «costruiscono pace e amicizia sociale» (88). Anche se «non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate… quelli che sono diversi» (89).
«Seminare pace intorno a noi, questo è santità».

«Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».
«Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità – avverte il Papa – non pretendiamo una vita comoda» (90). «Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole» (91). Ma Francesco spiega anche che «un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti». Non erano così gli apostoli che «godevano della simpatia “di tutto il popoloˮ» (93). Quanto alle persecuzioni, esse «non sono una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e falsità» (94).
«Accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità».

Il protocollo su cui saremo giudicati

Francesco rievoca le parole di Gesù nel Vangelo di Matteo (25,31-46) sul dar da mangiare agli affamati e accogliere gli stranieri e ricorda che queste sono la «regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati». «Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso… un problema che devono risolvere i politici… Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità… un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani!» (98). «In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi – afferma Francesco – pertanto sottolinea con decisione «davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze» (97).

La nocività delle ideologie

Purtroppo, scrive Francesco, a volte «le ideologie ci portano a due errori nocivi». Da una parte, quello di trasformare «il cristianesimo in una sorta di ONG», privandolo della sua «luminosa spiritualità» (100). Dall’altra parte c’è l’errore di quanti «vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista». O lo relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono. «La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto. Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo (101). «Spesso si sente dire – riprende il Papa – che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli. Possiamo riconoscere che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che accogliamo Lui stesso in ogni forestiero (cfr Mt 25,35)?» (102).
«Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia» (107).

Il santo e la violenza verbale dei media

All’interno del grande quadro della santità proposte dalle Beatitudini e Matteo 25,31-46, nel quarto capitolo Francesco presenta alcune caratteristiche che, a suo giudizio, sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui Cristo ci chiama nel contesto attuale e che hanno particolare importanza a motivo di alcuni rischi e limiti della cultura di oggi, «dove si manifestano – afferma – l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale».

Le prime sono: la sopportazione, la pazienza e la mitezza. Virtù necessarie. «Anche i cristiani – scrive poi il Papa – possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet… Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui». «È significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: “Non dire falsa testimonianzaˮ, e si distrugga l’immagine altrui senza pietà» (115). Lì si manifesta senza alcun controllo che la lingua è «il mondo del male» e «incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna (Gc 3,6)». Il santo, ricorda Francesco, «evita la violenza verbale» (116). «La fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale – scrive il Papa – perché la grazia smorza la vanità e rende possibile la mitezza del cuore» (117).

L’umiltà e le umiliazioni

L’umiltà – spiega – può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità» (118). Non si riferisce solo alle situazioni violente di martirio, «ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore» (119). «Non dico – afferma – che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui. Questo non è comprensibile sul piano naturale e il mondo ridicolizza una simile proposta» (120). È un atteggiamento che presuppone un cuore pacificato da Cristo, «libero da quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande. La stessa pacificazione, operata dalla grazia – dice papa Bergoglio – ci permette di mantenere una sicurezza interiore e resistere, perseverare nel bene anche “se contro di me si accampa un esercito” (Sal 27,3)» (121).

Senso dell’humor e fervore

Il Papa sottolinea che quanto detto finora «non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (122).
Bisogna superare la tentazione di «fuggire in un luogo sicuro che può avere molti nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme» (134).
«Dio è sempre novità – scrive Francesco – che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere… là lo troveremo: Lui sarà già lì» (135). Ci mette in moto, ricorda il Papa, l’esempio di tanti preti, religiose e laici «che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita… La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante» (138). E Francesco ricorda anche come importante «la vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa», che «è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani» (143): anche Gesù «invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari». «Infine, malgrado sembri ovvio – precisa Francesco – ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione» che non è è evasione dal mondo intorno a noi.

In lotta contro il demonio

Il quinto capitolo avverte che il cammino per la santità è anche «una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male» (159). Il «male» citato nel Padre Nostro è «il Maligno» e «indica un essere personale che ci tormenta» (160). «Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi» (161). E può portare alla «corruzione spirituale», che «è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce (2 Cor 11,14)» (165).

«Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo – ricorda Francesco – è il discernimento», che «è anche un dono che bisogna chiedere» (166). «Senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento» (167). Pertanto il Papa chiede «a tutti i cristiani di non tralasciare di fare ogni giorno… un sincero esame di coscienza» (169).

Un esistenza disponibile per Dio e per i fratelli

«San Paolo invitava i cristiani di Roma a non rendere «a nessuno male per male» (Rm 12,17), a non voler farsi giustizia da sé stessi (cfr v. 19) e a non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene (cfr v. 21). Questo atteggiamento non è segno di debolezza ma della vera forza». Solo «chi è disposto ad ascoltare – conclude Francesco – è realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma che porta a una vita migliore» (172). Questo atteggiamento «implica, naturalmente, obbedienza al Vangelo come ultimo criterio, ma anche al Magistero che lo custodisce, cercando di trovare nel tesoro della Chiesa ciò che può essere più fecondo per l’oggi della salvezza» (173). «Chiediamo – conclude papa Francesco – che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito» (177).

 

Scarica l’esortazione apostolica “Gaudete ed exsultate”:

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20180319_gaudete-et-exsultate.html

 

Beatitudini come via. Oggi esce la nuova esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” 

Stefania Falasca lunedì 9 aprile 2018
 

«Il piano di Dio va sempre controcorrente: leggete le Beatitudini». Non c’è stata forse esortazione più ricorrente di questa fin dall’inizio del pontificato. Più volte l’ha ripetuta così Francesco da quell’udienza del 6 agosto 2014: «Prendete il Vangelo, il Vangelo di Matteo, capitolo quinto, all’inizio ci sono queste Beatitudini; capitolo 25, ci sono le altre. E vi farà bene leggerlo una volta, due volte, tre volte. Ma leggere questo, che è il programma di santità. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio». E controcorrente adesso l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, che lunedì ci viene consegnata, viene certo al punto, sempre da quelle parole di Cristo che non solo le ha proclamate ma vissute.

Gandhi diceva che queste delle Beatitudini sono «le parole più alte del pensiero umano». Disarmano. Ma soprattutto disegnano un’altro modo di essere, di vivere da uomini. Prima ancora di chiedersi che cosa ci rende cristiani bisogna infatti chiedersi che cosa ci rende veramente uomini. La risposta è una sola: la santità, cioè realizzare gli insegnamenti delle Beatitudini. Nella prospettiva cristiana, questo non è possibile senza la grazia di Dio. Essa non annulla la natura umana, ma la perfeziona, come dice Tommaso d’Aquino; diventare santo significa così avvicinarsi sempre più alla perfezione per la quale la natura umana è fatta.

Se non siamo santi, non siamo pienamente uomini né pienamente cristiani, perché i santi non sono solo quelli canonizzati né supereroi o figure da immaginetta fuori dalle faccende ordinarie. San Paolo chiamava i cristiani delle diverse comunità “santi”, santi sono cioè tutti i battezzati, coloro che hanno ricevuto e accolto lo spirito di Dio e che si sentono perciò attratti verso il bene al servizio degli uomini. Si trova qui il fondamento di questa chiamata universale alla santità che il Concilio Vaticano II ha con forza riproposto nel capitolo 5 della costituzione dogmatica Lumen gentium. Un appello che resta il più necessario e il più urgente adempimento del Concilio, perché senza di esso tutti gli altri adempimenti sono impossibili o inutili.

Papa Francesco lo ha fatto proprio. «Un grande dono del Concilio Vaticano II è stato quello di aver recuperato una visione di Chiesa fondata sulla comunione, e di aver ricompreso anche il principio dell’autorità e della gerarchia in tale prospettiva – ha ricordato nell’udienza del 20 novembre del 2014 –. Questo ci ha aiutato a capire meglio che tutti i cristiani, in quanto battezzati, hanno uguale dignità davanti al Signore e sono accomunati dalla stessa vocazione, che è quella alla santità». Questa «non è perciò una prerogativa soltanto di alcuni: è un dono che viene offerto a tutti.

Ora ci domandiamo: in che cosa consiste questa vocazione universale a essere santi? E come possiamo realizzarla?». In quell’udienza aveva spiegato innanzitutto che «la santità non è qualcosa che ci procuriamo noi, che otteniamo noi con le nostre qualità e le nostre capacità. La santità è un dono, è il dono che ci fa il Signore Gesù, quando ci prende con sé e ci riveste di sé stesso, ci rende come Lui». E se la santità è la stoffa della vita cristiana le Beatitudini ne «sono la carta d’identità» aveva detto a Malmö in Svezia il 2 novembre 2016 declinandole ai tempi attuali e indicando nuove situazioni per viverle. «In queste parole c’è tutta la novità portata da Cristo, e tutta la novità di Cristo è in queste parole. In effetti, le Beatitudini sono il ritratto di Gesù, la sua forma di vita; e sono la via della vera felicità, che anche noi possiamo percorrere con la grazia che Gesù ci dona».

Questo delle Beatitudini, aveva detto ancora papa Bergoglio, «è il programma di vita che ci propone Gesù… ci dà anche altre indicazioni, un protocollo sul quale noi saremo giudicati: ‘Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi’». Così «si può vivere la vita cristiana a livello di santità. Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla». Se si accolgono le Beatitudini, la loro logica cambia il cuore, lo guariscono perché sia possibile così prendersi cura del prossimo e del mondo, risucchiato dalla melma dell’individualismo e della barbarie.

La storia, la storia di ognuno si gioca su questa disponibilità all’apertura verso Dio e i fratelli. Affondare qui le radici è il colpo d’ala, il punto più alto e cruciale, il succo della storia anche di un pontificato non misurato secondo categorie ideologiche e mondane, che ha illuminato come l’amore di Dio e l’amore del prossimo non possono andare separati. «Nella storia della Chiesa, i veri rinnovatori – aveva osservato il Papa – sono i santi. Sono loro i veri riformatori, quelli che cambiano, quelli che trasformano, che sviluppano e risuscitano il cammino». La santità è perciò una necessità primaria, è necessaria come l’aria, il respiro. Da chiedere per noi stessi oggi. È questa la riforma, la vera rivoluzione.

Chiesa e scuola, sognate in grande

Da lunedì 16 a mercoledì 18 aprile 2018 si rinnova l’appuntamento con il Convegno nazionale dei Direttori degli uffici diocesani e regionali di Pastorale della Scuola e per l’IRC, occasione di riflessione e di confronto per qualificare il comune servizio alle comunità cristiane e scolastiche. Sullo sfondo, il prossimo Sinodo dei Vescovi sui giovani.

 
 
 
 
 
L’incontro si terrà a Roma, presso l’Hotel Midas, sul tema: “Non abbiate paura di sognare cose grandi. La Chiesa per la scuola, guardando al Sinodo 2018”, e sarà aperto da una relazione del Card. Gualtiero Bassetti, presidente della CEI. Nel corso delle giornate interverranno numerosi relatori, tra cui la dirigente scolastica e scrittrice Mariapia Veladiano, il pedagogista Domenico Simeone e don Rossano Sala, segretario speciale del Sinodo dei Vescovi del prossimo ottobre.

Lo spunto che guiderà i lavori viene ancora una volta da papa Francesco, che ha spesso invitato i ragazzi e i giovani, e i loro educatori, a “sognare insieme”, coltivando il gusto dell’incontro e di uno sguardo aperto, capace di riconoscere il bene e di farlo crescere. È anche la prospettiva attorno alla quale si muove la preparazione della prossima Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.

Al convegno sono invitati anche gli assistenti diocesani delle Associazioni professionali che operano nel mondo della scuola. L’intento è quello di rafforzare la sinergia tra le diverse realtà della pastorale scolastica e dell’insegnamento della Religione Cattolica, ai vari livelli.

In allegato la bozza di programma dei lavori, le note tecniche e le modalità di iscrizione, la cui scadenza è fissata per il 28 febbraio 2018.