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Sinodo. I giovani e l’impegno nel mondo: ecco il testo finale del Sinodo

Un documento ampio, ricco e articolato, che affronta ogni aspetto della condizione giovanile. Che, soprattutto, ricorda e testimonia come i ragazzi di oggi, pur tra mille difficoltà, non siano soli ma abbiano in Gesù un maestro e un compagno di viaggio con cui condividere le loro inquietudini. E nella Chiesa una madre affettuosa che ogni volta aspetta il loro ritorno a casa.
Una casa dove vige la regola dell’ascolto. Se c’è infatti un verbo che più di ogni altro è risuonato nell’aula sinodale sin dal primo giorno di lavoro, è stato “ascoltare”. Che significa avvicinare l’altro, provare a capirlo, non lasciarlo mai solo. Aiutarlo a trovare la strada per diventare protagonista. E il testo finale ne è la plastica documentazione, perché ciascuno dei suoi 167 paragrafi è sempre orientato, per meglio dire “sta” dalla parte dei ragazzi. Un documento ampio, si diceva, che comprende un’introduzione, un proemio, tre parti e una conclusione, che indica ai giovani, a ciascuno di loro, la meta della santità. Vocazione di ogni uomo e di ogni donna. Tutti i punti sono stati approvati con la maggioranza qualificata dei 2/3 compresi i temi relativi alla sessualità e alla presenza delle donne nella Chiesa, quelli con il maggior numero di “non placet”.

Uno dei paragrafi più controversi del documento finale del Sinodo è il numero 39, le «domande dei giovani»: ha avuto 195 placet e 43 non placet dei padri sinodali. «Frequentemente – si legge – la morale sessuale è causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna. Di fronte ai cambiamenti sociali e dei modi di vivere l’affettività e la molteplicità delle prospettive etiche, i giovani si mostrano sensibili al valore dell’autenticità e della dedizione, ma sono spesso disorientati. Essi esprimono più particolarmente un esplicito desiderio di confronto sulle questioni relative alla differenza tra identità maschile e femminile, alla reciprocità tra uomini e donne, all’omosessualità».

«Riconoscere e reagire a tutti i tipi di abuso» è il titolo della sezione che raccoglie i paragrafi 29-31, sul tema degli abusi nella Chiesa. In essa si legge che «il Sinodo esprime gratitudine verso coloro che hanno il coraggio di denunciare il male subìto: aiutano la Chiesa a prendere coscienza di quanto avvenuto e della necessità di reagire con decisione». Tra i motivi che tengono oggi tanti giovani distanti dalla Chiesa, il paragrafo 53 ricorda «gli scandali sessuali ed economici; l’impreparazione dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani; la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio; il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità cristiana; la fatica della Chiesa di rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea».

La seconda parte è incentrata sul «mistero della vocazione» e «l’arte di discernere», la terza affronta in particolare la vita dei giovani nelle parrocchie. Forte è l’invito a «vivere in comunione con loro, crescendo insieme nella comprensione del Vangelo e nella ricerca delle forme autentiche per viverlo». Inevitabile la richiesta che le parrocchie sappiano accogliere meglio i giovani, perché «i giovani ci chiedono di camminare insieme». Dunque «porsi in ascolto» che è qualcosa di «più che sentire» la loro voce. «Potremmo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone» (paragrafo 123), quindi anche dei giovani, cominciando dalla fase della preparazione ai Sacramenti dell’iniziazione cristiana.
L’invito è a «non vivere la fede come un insieme di nozioni e regole che appartengono a un ambito separato dalla loro esistenza» esorta il documento al punto 128. Occorre dunque «un ripensamento pastorale della parrocchia in una logica di corresponsabilità ecclesiale e di slancio missionario». Ecco perché gli «itinerari catechistici devono dimostrare l’intima connessione della fede con l’esperienza concreta di ogni giorno» (numero 133), con una catechesi che si rinnovi nei linguaggi e nelle metodologie. La stessa pastorale giovanile è chiamata a essere «in chiave vocazionale», superando «una certa frammentazione attualmente esistente al suo interno».

Cercando di affrontare anche alcuni ambiti concreti, ecco l’attenzione all’ambiente digitale che «rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli»: esserci sì, ma con discernimento. Sul tema dei migranti vengono ribaditi i quattro verbi indicati dal Papa: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. E mentre si chiede una maggior presenza e ruolo della donne nella Chiesa, si chiede anche di trovare «modalità più adeguate» per «cammini formativi rinnovati sulla visione cristiana della corporeità e della sessualità». «Dio ama ogni persona e così fa la Chiesa rinnovando il suo impegno contro ogni discriminazione e violenza su base sessuale, pur riaffermando la determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità tra l’uomo e la donna.

AVVENIRE Redazione Catholica sabato 27 ottobre 2018

Sinodo Giovani: ecco cosa dice il Documento Finale

Tre parti, 12 capitoli, 167 paragrafi, 60 pagine: così si presenta il Documento finale della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Il testo è stato approvato nel pomeriggio del 27 ottobre nell’Aula del Sinodo. Il Documento è stato consegnato nelle mani del Papa che ne ha, poi, autorizzato la pubblicazione
 
È l’episodio dei discepoli di Emmaus, narrato dall’evangelista Luca, il filo conduttore del Documento finale del Sinodo dei giovani. Letto in Aula a voci alterne dal Relatore generale, Card. Sérgio da Rocha, dai Segretari speciali, padre Giacomo Costa e don Rossano Sala, insieme a Mons. Bruno Forte, membro della Commissione per la Redazione del testo, il Documento è complementare all’Instrumentum laboris del Sinodo, del quale riprende la suddivisione in tre parti. Accolto da un applauso, il testo – ha detto il Card. da Rocha – è “il risultato di un vero e proprio lavoro di squadra” dei Padri Sinodali, insieme agli altri partecipanti al Sinodo e “in modo particolare ai giovani”. Il Documento raccoglie, quindi, i 364 modi, ovvero emendamenti, presentati. “La maggior parte di essi – ha aggiunto il Relatore generale – sono stati precisi e costruttivi”.

“Camminava con loro”

In primo luogo, dunque, il Documento finale del Sinodo guarda al contesto in cui vivono i giovani, evidenziandone punti di forza e sfide. Tutto parte da un ascolto empatico che, con umiltà, pazienza e disponibilità, permetta di dialogare veramente con la gioventù, evitando “risposte preconfezionate e ricette pronte”. I giovani, intatti, vogliono essere “ascoltati, riconosciuti, accompagnati” e desiderano che la loro voce sia “ritenuta interessane e utile in campo sociale ed ecclesiale”. Non sempre la Chiesa ha avuto questo atteggiamento, riconosce il Sinodo: spesso sacerdoti e vescovi, oberati da molti impegni, faticano a trovare tempo per il servizio dell’ascolto. Di qui, la necessità di preparare adeguatamente anche laici, uomini e donne, che siano in grado di accompagnare le giovani generazioni. Di fronte a fenomeni come la globalizzazione e la secolarizzazione, inoltre, i ragazzi si muovono verso una riscoperta di Dio e della spiritualità e ciò deve essere uno stimolo, per la Chiesa, a recuperare l’importanza del dinamismo della fede.

La scuola e la parrocchia

Un’altra risposta della Chiesa alle domande dei giovani arriva dal settore educativo: le scuole, le università, i collegi, gli oratori permettono una formazione integrale dei ragazzi, offrendo al contempo una testimonianza evangelica di promozione umana. In un mondo in cui tutto è connesso- famiglia, lavoro, tecnologia, difesa dell’embrione e del migrante- i vescovi definiscono insostituibile il ruolo svolto da scuole ed università dove i giovani trascorrono molto tempo. Le istituzioni educative cattoliche in particolare sono chiamate ad affrontare il rapporto tra la fede e le domande del mondo contemporaneo, le diverse prospettive antropologiche, le sfide scientifico-tecniche, i cambiamenti del costume sociale e l’impegno per la giustizia. Anche la parrocchia ha il suo ruolo: “Chiesa nel territorio”, essa necessita di un ripensamento nella sua vocazione missionaria, poiché spesso risulta poco significativa e poco dinamica, soprattutto nell’ambito della catechesi.

I migranti, paradigma del nostro tempo

Il Documento sinodale si sofferma, poi, sul tema dei migranti, “paradigma del nostro tempo” in quanto fenomeno strutturale, e non emergenza transitoria. Molti migranti sono giovani o minori non accompagnati, in fuga da guerre, violenze, persecuzioni politiche o religiose, disastri naturali, povertà, e finiscono per diventare vittime di tratta, droga, abusi psicologici e fisici. La preoccupazione della Chiesa è soprattutto per loro – dice il Sinodo – nell’ottica di un’autentica promozione umana che passi attraverso l’accoglienza di rifugiati e profughi, e sia punto di riferimento per i tanti giovani separati dalle loro famiglie d’origine. Ma non solo: i migranti – ricorda il Documento – sono anche un’opportunità di arricchimento per le comunità e le società in cui arrivano e che possono essere rivitalizzate da essi. Risuonano, quindi, i verbi sinodali “accogliere, proteggere, promuovere, integrare” indicate da Papa Francesco per una cultura che superi diffidenze e paure. I vescovi chiedono anche più impegno nel garantire a chi non vorrebbe migrare il diritto effettivo di rimanere nel proprio Paese. L’attenzione del Sinodo va inoltre a quelle Chiese che sono minacciate, nello loro esistenza, dalle emigrazioni forzate e dalle persecuzioni subite dai fedeli.

Fermo impegno contro tutti i tipi di abuso. Fare verità e chiedere perdono

Ampia, poi, la riflessione sui “diversi tipi di abuso” (di potere, economici, di coscienza, sessuali) compiuti da alcuni vescovi, sacerdoti, religiosi e laici: nelle vittime – si legge nel testo – essi provocano sofferenze che “possono durare tutta la vita e a cui nessun pentimento può porre rimedio”. Di qui, il richiamo del Sinodo al “fermo impegno per l’adozione di rigorose misure di prevenzione che ne impediscano il ripetersi, a partire dalla selezione e dalla formazione di coloro a cui saranno affidati compiti di responsabilità ed educativi”. Bisognerà, dunque, sradicare quelle forme – come la corruzione o il clericalismo – su cui tali tipi di abusi si innestano, contrastando anche la mancanza di responsabilità e trasparenza con cui molti casi sono stati gestiti. Al contempo, il Sinodo si dice grato a tutti coloro che “hanno il coraggio di denunciare il male subito”, perché aiutano la Chiesa a “prendere coscienza di quanto avvenuto e della necessità di reagire con decisione”. “La misericordia, infatti, esige la giustizia”. Non vanno però dimenticati i tanti laici, sacerdoti, consacrati e vescovi che ogni giorno si dedicano, con onestà, al servizio dei giovani, i quali possono davvero offrire “un prezioso aiuto” per una “riforma di portata epocale” in questo ambito.

La famiglia “Chiesa domestica”

Ulteriori temi presenti nel Documenti riguardano la famiglia, principale punto di riferimento per i giovani, prima comunità di fede, “Chiesa domestica”: il Sinodo richiama, in particolare, il ruolo dei nonni nell’educazione religiosa e nella trasmissione della fede, e mette in guardia dall’indebolimento della figura paterna e da quegli adulti che assumono stili di vita “giovanilistici”. Oltre alla famiglia, per i giovani conta molto l’amicizia con i loro coetanei, perché permette la condivisione della fede e l’aiuto reciproco nella testimonianza.

Promozione della giustizia contro la “cultura dello scarto”

Il Sinodo si sofferma, poi, su alcune forme di vulnerabilità vissute dai giovani in diversi settori: nel lavoro, dove la disoccupazione rende povere le giovani generazioni, minandone la capacità di sognare; le persecuzioni fino alla morte; l’esclusione sociale per ragioni religiose, etniche o economiche; la disabilità. Di fronte a questa “cultura dello scarto”, la Chiesa deve lanciare un appello alla conversione ed alla solidarietà, divenendo un’alternativa concreta alle situazioni di disagio. Sul fronte opposto, non mancano invece i settori in cui l’impegno dei giovani riesce ad esprimersi con originalità e specificità: ad esempio, il volontariato, l’attenzione ai temi ecologici, l’impegno in politica per la costruzione del bene comune, la promozione della giustizia, per la quale i ragazzi chiedono alla Chiesa “un impegno deciso e coerente”.

Arte, musica e sport, “risorse pastorali”

Anche il mondo dello sport e della musica offre ai giovani la possibilità di esprimersi al meglio: nel primo caso, la Chiesa invita a non sottovalutare le potenzialità educative, formative ed inclusive, dell’attività sportiva; nel caso della musica, invece, il Sinodo punta sul suo essere “risorsa pastorale” che interpella anche ad un rinnovamento liturgico, perché i giovani hanno il desiderio di una “liturgia viva”, autentica e gioiosa, momento di incontro con Dio e con la comunità. I giovani apprezzano celebrazioni autentiche in cui la bellezza dei segni, la cura della predicazione e il coinvolgimento comunitario parlano realmente di Dio”: vanno aiutati quindi a scoprire il valore dell’adorazione eucaristica e a comprendere che “la liturgia non è puramente espressione di sé, ma azione di Cristo e della Chiesa”. Le giovani generazioni, inoltre, vogliono essere protagoniste della vita ecclesiale, mettendo frutto i propri talenti, assumendosi responsabilità. Soggetti attivi dell’azione pastorale, essi sono il presente della Chiesa, vanno incoraggiati a partecipare alla vita ecclesiale, e non ostacolati con autoritarismo. In una Chiesa capace di dialogare in modo meno paternalistico e più schietto, infatti, i ragazzi sanno essere molto attivi nell’evangelizzazione dei loro coetanei, esercitando un vero apostolato che va sostenuto e integrato nella vita delle comunità.

“Si aprirono i loro occhi”

Dio parla alla Chiesa e al mondo attraverso i giovani, che sono uno dei “luoghi teologici” in cui il Signore si fa presente. Portatrice di una sana inquietudine che la rende dinamica – si legge nella seconda parte del Documento – la gioventù può essere “più avanti dei pastori” e per questo va accolta, rispettata, accompagnata. Grazie ad essa, infatti, la Chiesa può rinnovarsi, scrollandosi di dosso “pesantezze e lentezze”. Di qui, il richiamo del Sinodo al modello di “Gesù giovane tra i giovani” e alla testimonianza dei santi, tra i quali si annoverano tanti ragazzi, profeti di cambiamento.

Missione e vocazione

Un’altra “bussola sicura” per la gioventù è la missione, dono di sé che porta ad una felicità autentica e duratura: Gesù, infatti, non toglie la libertà, ma la libera, perché la vera libertà è possibile solo in relazione alla verità e alla carità. Strettamente legato al concetto di missione, c’è quello di vocazione: ogni vita è vocazione in rapporto a Dio, non è frutto del caso o un bene privato da gestire in proprio – afferma il Sinodo – ed ogni vocazione battesimale è una chiamata per tutti alla santità.  Per questo, ciascuno deve vivere la propria vocazione specifica in ogni ambito: la professione, la famiglia, la vita consacrata, il ministero ordinato e il diaconato permanente, che rappresenta “una risorsa” da sviluppare ancora pienamente.

L’accompagnamento 

Accompagnare è una missione per la Chiesa da svolgere a livello personale e di gruppo: in un mondo “caratterizzato da un pluralismo sempre più evidente e da una disponibilità di opzioni sempre più ampia”, ricercare insieme ai giovani un percorso mirato a compiere scelte definitive è un servizio necessario. Destinatari sono tutti i giovani: seminaristi, sacerdoti o religiosi in formazione, fidanzati e giovani sposi. La comunità ecclesiale è luogo di relazioni e ambito in cui nella celebrazione eucaristica si viene toccati, istruiti e guariti da Gesù stesso. Il Documento Finale evidenza l’importanza del sacramento della Riconciliazione nella vita di fede e sprona genitori, insegnanti, animatori, sacerdoti ed educatori ad aiutare i giovani, attraverso la Dottrina sociale della Chiesa, ad assumersi responsabilità in ambito professionale e sociopolitico. La sfida in società sempre più interculturali e multireligiose, è indicare nel rapporto con la diversità un’occasione di arricchimento reciproco e comunione fraterna.

No a moralismi e false indulgenze, sì a correzione fraterna

Il Sinodo quindi promuove un accompagnamento integrale centrato su preghiera e lavoro interiore che valorizzi anche l’apporto della psicologia e della psicoterapia, quando aperte alla trascendenza. “Il celibato per il Regno” – si raccomanda – dovrebbe essere inteso come “dono da riconoscere e verificare nella libertà, gioia, gratuità e umiltà”, prima della scelta definitiva. Si punti ad accompagnatori di qualità: persone equilibrate, di ascolto, fede, preghiera, che si siano misurate con le proprie debolezze e fragilità e siano per questo accoglienti “senza moralismi e false indulgenze”, sapendo correggere fraternamente, lontani da atteggiamenti possessivi e manipolatori. “Questo profondo rispetto – si legge nel testo – sarà la migliore garanzia contro i rischi di plagio e abusi di ogni genere”.

L’arte di discernere

“La Chiesa è l’ambiente per discernere e la coscienza – scrivono i Padri Sinodali –  è il luogo nel quale si coglie il frutto dell’incontro e della comunione con Cristo”: il discernimento, attraverso “un regolare confronto con una guida spirituale”, si presenta quindi come il sincero lavoro della coscienza”, “può essere compreso solo come autentica forma di preghiera” e “richiede il coraggio di impegnarsi nella lotta spirituale”. Banco di prova delle decisioni assunte sono la vita fraterna e il servizio ai poveri. I giovani sono, infatti, sensibili alla dimensione della diakonia.

“Partirono senza indugio”

Maria Maddalena, prima discepola missionaria, guarita dalle ferite, testimone della Resurrezione è l’icona di una Chiesa giovane. Fatiche e fragilità dei giovani “ci aiutano ad essere migliori, le loro domande – si legge – ci sfidano, le critiche ci sono necessarie perché non di rado attraverso di esse la voce del Signore ci chiede conversione e rinnovamento”. Tutti i giovani, anche quelli con diverse visioni di vita, nessuno escluso, sono nel cuore di Dio. I Padri mettono in luce il dinamismo costitutivo della sinodalità, ovvero il camminare insieme: il termine dell’Assemblea e il documento finale sono solo una tappa perché le condizioni concrete e le necessità urgenti sono diverse tra Paesi e continenti. Di qui l’invito alle Conferenze Episcopali e alle Chiese particolari a proseguire il processo di discernimento con lo scopo di elaborare soluzioni pastorali specifiche.

Sinodalità, stile missionario

“Sinodalità” è uno stile per la missione che sprona a passare dall’io al noi e a considerare la molteplicità di volti, sensibilità, provenienze e culture diverse. In questo orizzonte vanno valorizzati i carismi che lo Spirito dona a tutti evitando il clericalismo che esclude molti dai processi decisionali e la clericalizzazione dei laici che frena lo slancio missionario. L’autorità – è l’auspicio – sia vissuta in un’ottica di servizio. Sinodali siano anche l’approccio al dialogo interreligioso ed ecumenico mirato alla conoscenza reciproca e all’abbattimento di pregiudizi e stereotipi, e il rinnovamento della vita comunitaria e parrocchiale perché accorci le distanze giovani-Chiesa e mostri l’intima connessione tra fede ed esperienza concreta di vita. Formalizzata la richiesta più volte avanzata in Aula di istituire, a livello di Conferenze Episcopali, un “Direttorio di pastorale giovanile in chiave vocazionale” che possa aiutare i responsabili diocesani e gli operatori locali a qualificare la loro formazione ed azione con e per i giovani”, contribuendo a superare una certa frammentazione della pastorale della Chiesa. Ribadita l’importanza delle Gmg così come quella di centri giovanili ed oratori che però necessitano di essere ripensati.

La sfida digitale

Ci sono alcune sfide urgenti che la Chiesa è chiamata a cogliere. Il Documento Finale del Sinodo affronta la missione nell’ambiente digitale: parte integrante della realtà quotidiana dei giovani, “piazza” in cui essi trascorrono molto tempo e si incontrano facilmente, luogo irrinunciabile per raggiungere e coinvolgere i ragazzi anche nelle attività pastorali, il web presenta luci ed ombre. Se da una parte, infatti, permette l’accesso all’informazione, attiva la partecipazione sociopolitica e la cittadinanza attiva, dall’altra presenta un lato oscuro – il così detto dark web – in cui si riscontrano solitudine, manipolazione, sfruttamento, violenze, cyberbullismo, pornografia. Di qui, l’invito del Sinodo ad abitare il mondo digitale, promuovendone le potenzialità comunicative in vista dell’annuncio cristiano, e ad “impregnare” di Vangelo le sue culture e dinamiche. Si auspica la creazione di Uffici e organismi per la cultura e l’evangelizzazione digitale che, oltre a “favorire lo scambio e la diffusione di buone pratiche, possano gestire sistemi di certificazione dei siti cattolici, per contrastare la diffusione di fake news riguardanti la Chiesa”, emblema di una cultura che “ha smarrito il senso della verità”, incoraggiando la promozione di “politiche e strumenti per la protezione dei minori sul web”.

Riconoscere e valorizzare donne nella società e nella Chiesa

Il Documento evidenzia anche la necessità di un maggiore riconoscimento e valorizzazione delle donne nella società e nella Chiesa, perché la loro assenza impoverisce il dibattito ed il cammino ecclesiale: urge un cambiamento da parte di tutti – si legge – anche a partire da una riflessione sulla reciprocità tra i sessi. Si auspicano “una presenza femminile negli organi ecclesiali a tutti i livelli, anche in funzioni di responsabilità” ed una “partecipazione femminile ai processi decisionali ecclesiali nel rispetto del ruolo del ministero ordinato”. “Si tratta di un dovere di giustizia” – afferma il documento – che trova ispirazione in Gesù e nella Bibbia. 

Corpo, sessualità e affettività

Quindi, il Documento si sofferma sul tema del corpo, dell’affettività, della sessualità: di fronte a sviluppi scientifici che sollevano interrogativi etici, a fenomeni come la pornografica digitale, il turismo sessuale, la promiscuità, l’esibizionismo on line, il Sinodo ricorda alle famiglie e alle comunità cristiane l’importanza di far scoprire ai giovani che la sessualità è un dono. Spesso la morale sessuale della Chiesa è percepita come “uno spazio di giudizio e di condanna”, mentre i ragazzi cercano “una parola chiara, umana ed empatica” ed “esprimono un esplicito desiderio di confronto sulle questioni relative alla differenza tra identità maschile e femminile, alla reciprocità tra uomini e donne, all’omosessualità”. I vescovi riconoscono la fatica della Chiesa nel trasmettere nell’attuale contesto culturale “la bellezza della visione cristiana della corporeità e della sessualità”: è urgente ricercare “modalità più adeguate, che si traducano concretamente nell’elaborazione di cammini formativi rinnovati”. “Occorre proporre ai giovani un’antropologia dell’affettività e della sessualità capace di dare il giusto valore alla castità” per la crescita della persona, “in tutti gli stati di vita”. In tal senso si chiede di prestare attenzione alla formazione di operatori pastorali che risultino credibili e maturi da un punto di vista affettivo-sessuale. Il Sinodo constata inoltre l’esistenza di “questioni relative al corpo, all’affettività e alla sessualità che hanno bisogno di una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale, da realizzare nelle modalità e ai livelli più convenienti, da quelli locali a quello universale. Tra queste emergono quelle relative alla differenza e armonia tra identità maschile e femminile e alle inclinazioni sessuali”. “Dio ama ogni persona e così fa la Chiesa rinnovando il suo impegno contro ogni discriminazione e violenza su base sessuale”. Ugualmente – prosegue il documento – il Sinodo “riafferma la determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità uomo-donna e ritiene riduttivo definire l’identità delle persone a partire unicamente dal loro orientamento sessuale”. Allo stesso tempo si raccomanda di “favorire” i “percorsi di accompagnamento nella fede, già esistenti in molte comunità cristiane”, di “persone omosessuali”. In questi cammini le persone sono aiutate a leggere la propria storia; ad aderire con libertà e responsabilità alla propria chiamata battesimale; a riconoscere il desiderio di appartenere e contribuire alla vita della comunità; a discernere le migliori forme per realizzarlo. In questo modo si aiuta ogni giovane, nessuno escluso, a integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé”.

Accompagnamento vocazionale

Tra le altre sfide segnalate dal Sinodo c’è anche quella economica: l’invito dei Padri è ad investire tempo e risorse sui giovani con la proposta di offrire loro un periodo destinato alla maturazione della vita cristiana adulta che “dovrebbe prevedere un distacco prolungato dagli ambienti e delle relazioni abituali”. Inoltre, mentre si auspica un accompagnamento prima e dopo il matrimonio, si incoraggia la costituzione di equipe educative, che includano figure femminili e coppie cristiane, per la formazione di seminaristi e consacrati anche al fine di superare tendenze al clericalismo. Speciale attenzione viene chiesta nell’accoglienza dei candidati al sacerdozio che a volte avviene “senza una conoscenza adeguata e rilettura approfondita della loro storia”: “l’instabilità relazionale e affettiva, e la mancanza di radicamento ecclesiali sono segnali pericolosi. Trascurare la normativa ecclesiale a questo riguardo – scrivono i Padri Sinodali – costituisce un comportamento irresponsabile, che può avere conseguenze molto gravi per la comunità cristiana”.

Chiamati alla santità            
“Le diversità vocazionali – conclude il Documento Finale del Sinodo sui giovani – si raccolgono nell’unica e universale chiamata alla santità. Purtroppo il mondo è indignato dagli abusi di alcune persone della Chiesa piuttosto che ravvivato dalla santità dei suoi membri”, per questo la Chiesa è chiamata ad “un cambio di prospettiva”: attraverso la santità di tanti giovani disposti a rinunciare alla vita in mezzo alle persecuzioni pur di mantenersi fedeli al Vangelo, può rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico.

Il dono del Papa ai partecipanti al Sinodo

Infine, come ricordo del Sinodo dei Giovani, il Santo Padre ha fatto dono a tutti i partecipanti di una formella in bronzo in bassorilievo, raffigurante Gesù e il giovane discepolo amato. Si tratta di un’opera dell’artista italiano Gino Giannetti, coniata dalla Zecca dello Stato della Città del Vaticano, emessa in soli 460 esemplari.

Paolo Ondarza e Isabella Piro – Città del Vaticano

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Geremia 31,7-9

Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».      

 

 

v Il piccolo brano di questa lettura è inserito nella raccolta degli oracoli di restaurazione composti in varie epoche dal profeta Geremia (30,2s), profeta di «distruzione», ma anche di «edificazione» (1,10). Dopo aver annunziato in generale l’estrema rovina del suo popolo e il cambiamento di sorte del «resto» di Giacobbe (30,1-22), in 31,1-6 viene espressa la somma gioia del Padre d’Israele e del suo portavoce nel contemplare il viaggio del ritorno in patria degli Israeliti: è l’aver trovato grazia agli occhi del Signore, aver esperimentato l’immensa pietà («amore eterno… e compassione», 31,3) del Dio dei padri. Segue la descrizione festosa del rientro in Palestina sulle labbra dello stesso Signore:

     v. 7: dice il Signore: «innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate». È un invito a tutta l’assemblea dei credenti a godere per le meraviglie operate dall’Altissimo (Sal 96.97), e precisamente per la salvezza del «resto» d’Israele, il prediletto tra i popoli («la prima delle nazioni»): l’intera ricostituzione di quella stirpe, a cui è stata fatta una promessa eterna; di questa Dio si è ricordato nel tempo della loro sventura, quando erano ormai ridotti a un piccolo numero (Is 41,13-20).

     v. 8: «Ecco, li riconduco… dalle estremità della terra». L’onnipotenza divina non conosce limiti di spazio, né difficoltà di itinerari: li raggiungerà dovunque si trovino e guiderà verso il loro paese, compresi zoppi e infermi, esattamente come ha già fatto con i loro antenati attraverso il deserto del Sinai (Is 40,10), «portando gli agnellini sul petto e conducendo pian piano le pecore madri» (Is 40,11).

     v. 9: «li riporterò tra le consolazioni… io sono un padre per Israele». Dopo il pianto, li attende ora una grande consolazione, dopo l’oppressione della schiavitù, l’abbondanza dei beni nella loro terra preparata da secoli da JHWH, «scorrente latte e miele (Es 3,8) e fiumi d’acqua». La motivazione: Dio è un vero Padre, pieno di tenerezza, che non potrà mai dimenticare il suo primogenito: «ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (31,3; Os 11,8).

     Viene così esaltata sia l’assoluta potenza del Dio d’Israele dinanzi a cui non c’è alcuna barriera, sia la sua fedeltà ai disegni d’amore manifestati ai patriarchi del popolo eletto. È un sovrano pietoso di cui tutte le creature si possono fidare, sempre pronto a intervenire a favore di chi riconosce la sua infinita benevolenza paterna. Lo confermerà splendidamente il Maestro divino Gesù (Mt 6,25-34).

 

Seconda lettura: Ebrei 5,1-6

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek». 

      

 

v L’autore della lettera sta presentando Gesù nella sua missione di Salvatore dell’umanità, in quanto si è fatto partecipe e solidale della nostra natura (2,14-17). Da qui la designazione di nostro mediatore di pace, espiatore di tutte le nostre colpe e nostro sommo Sacerdote presso il trono dell’Altissimo (2,14-17). Si continua poi a elencare le sue prerogative di fedeltà, di misericordia, di efficacia (fino a tutto il c. 10).

     In 5,1-10 abbiamo la precisa definizione del sacerdozio di Cristo.

     v. 1: «Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini». Anzitutto una definizione basilare, applicabile a ogni tipo di mediatore sacro fra gli uomini e la Divinità: essere presi dal gruppo dei propri simili e designati nell’ambito delle realtà religiose, col compito di offrire doni graditi al Signore supremo e sacrifici di animali in riparazione delle offese fatte alla maestà divina. Proprio ciò che si era realizzato nell’ordinamento levitico del popolo ebreo: consacrazione dei figli di Levi al servizio del culto e per la presentazione delle offerte sull’altare di JHWH (Es 28.29; Lv 2.4).

     v. 2: «Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli…». In secondo luogo saranno dotati di compassione, cioè di comprensione e misericordia verso la debolezza dei propri fratelli, in quanto anch’essi partecipi dei loro limiti e delle loro manchevolezze, sia pure per mancanza di piena cognizione del male compiuto («ignoranza») e per cui saranno tenuti a offrire espiazione anche per se stessi (Lv 9,7).

     v. 4: «Nessuno attribuisce a se stesso questo onore». In terzo luogo occorre che la designazione a quell’ufficio provenga dall’alto. Nessuno può presumere di avere il singolare compito di accostarsi al trono del Dio tre volte santo per attirare sugli altri le divine compiacenze. Solo Lui può conferire questo onore a chi vuole: così è stato per Aronne (Es 28,1), così sarà per i primi rappresentanti di Cristo (Gv 3,27:15,16); chi se ne è arrogato il diritto è stato radiato dal suo cospetto (Nm 16;1 Re 13,1-5).

     v. 5: «Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote». Cristo è sommo sacerdote perché così l’ha solennemente dichiarato JHWH, conferendogli la sua somma compiacenza: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2,7), «in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Nato da donna (Gal 4,4) e insieme consostanziale al Padre, partecipe della natura umana e della divina, è già costituito supremo mediatore fra l’umanità e la Divinità per la sua perfetta solidarietà con l’uomo e la sua unione ipostatica col Verbo. Così è stato confermato con un altro oracolo divino: «tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek» (Sal 110,4). Al cap. 7 della nostra Lettera verrà spiegata la superiorità nel tempo e nel valore del sacerdozio di Melchisedek (che si presenta nella Genesi senza genealogia e ereditarietà umana) nei confronti del sacerdozio levitico (iniziato nel tempo e ereditario), e di conseguenza viene esaltata la sublimità e perennità del Sacerdozio di Cristo, evidentemente designato dall’Altissimo, indefettibile e efficacissimo.

     In conclusione in Cristo Gesù abbiamo un Mediatore sommo e universale: santissimo, che non ha avuto bisogno di offrire espiazione per sé, dotato di immensa pietà e solidarietà per i suoi fratelli, che ha lavato i peccati di tutti col suo sangue divino, che penetra i cieli fino al trono dell’Eterno e può ottenerci ogni benedizione e salvarci da ogni male.

 

Vangelo: Marco 10,46-52

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. 

 

 

Esegesi

L’episodio della guarigione del cieco di Gerico, nel II Vangelo, fa da cerniera tra la sezione dell’ultimo tratto di viaggio di Gesù verso Gerusalemme (10,34-45), e la sezione dell’ingresso trionfale del re davidico nella città santa. La prima si chiude con l’incomprensione dei discepoli dopo l’annunzio della passione; e la seconda inizia con l’aperta acclamazione messianica del figlio di David (11,1-11.27-33). Il racconto sembra orientato verso la piena adesione al Salvatore divino nella sua più alta manifestazione.

      v. 46: «mentre Gesù partiva da Gèrico». Gesù scendendo dalla Transgiordania è di passaggio a Gerico, diretto verso Gerusalemme (a circa 30 Km), per celebrarvi la sua ultima Pasqua e il suo supremo sacrificio. Con lui ci sono i suoi discepoli e una folla di persone, probabilmente suoi seguaci e pellegrini. All’uscita della città, sul ciglio della strada si trova un cieco mendicante. Parte del suo mantello pare gli stia disteso accanto per ricevervi le elemosine dei pii giudei, più abbondanti in quei giorni sacri; tale posizione del mendicante, ci sembra, risulti dalla duplice «lezione» del v. 50: apobalòn «gettando» (il mantello) e epibalòn «rimettendolo» (sulle spalle). Il nome di Bartimeo viene riportato in questo racconto solo da Mc (cf. Lc 18,35; Mt 20,30): quando si scriveva il II Vangelo, l’uomo doveva essere ben noto nella primitiva comunità di Gerusalemme.

 v. 47: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare». Dal brusio di tanta gente avrà percepito che lì in mezzo c’era proprio il famoso Gesù di Nazaret, di cui certamente aveva sentito meraviglie. Gli si desta una grande speranza, e con tutta la forza della sua voce comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Il titolo rivolto al Rabbì di Galilea, quanto al Vangelo di Mc, lo si trova soltanto qui: evocava le attese nazionalistico-messianiche del popolo ebreo; in Mc 12,35 viene riportato come affermazione degli scribi. Ma Bartimeo l’avrà inteso in un senso più ampio, come di colui che aveva grandi poteri e portava ogni liberazione e guarigione.

      v. 48: «Molti lo rimproveravano perché tacesse». La folla cerca di zittire l’importuno, come i discepoli avrebbero voluto fare con la donna cananea (Mt 15,23) e per i bambini che andavano incontro a Gesù (Mc 10,13). Quell’uomo però non desiste: ha nel cuore una ferma fiducia nella bontà del mite Rabbì nazareno e grida più forte che può… È l’insistenza nel pregare, che tanto raccomandava il Maestro divino (Lc 11,5-9; 18,1-8). Lui infatti, mentre in simili circostanze ha cercato di imporre il silenzio alle acclamazioni degli astanti (Mc 7,36), adesso interviene per dare ascolto a quella accorata implorazione.

      v. 49: «Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Vi ha incontrato qualcosa di speciale. La stessa folla cambia atteggiamento: tutti presentono che si è dinanzi a qualcosa di nuovo, se lui si è fermato per parlare al mendicante: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».

      v. 50: «gettato via il suo mantello, balzò in piedi». L’ha compreso anche lui e si alza, abbandonando mantello e eventuali offerte dei pellegrini, per correre ormai verso la sua salvezza: la sente già nell’intimo del suo cuore! Non ha bisogno di altro.

      v. 51: «Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Ai piedi del Maestro, non grida più. Lui gli da l’opportunità di esprimere chiaramente l’oggetto della sua richiesta. Non si tratta di ottenere un aiuto qualsiasi, ma di raggiungere quel che da nessun essere puramente umano era possibile avere: la luce dei suoi occhi spenti. «Rabbunì, che io veda di nuovo!» Rabbunì («mio buon Signore») ha qualcosa di più affettuoso e vivo del semplice Rabbì, come quello pronunziato dalla Maddalena, quando riconobbe all’improvviso il suo amato Maestro (Gv 20,16): un riferimento all’insondabile pietà del Figlio di David!

      v. 52: «Va’, la tua fede ti ha salvato… e lo seguiva lungo la strada». La fede di quel povero cieco ha raggiunto il più alto grado, richiesto e sollecitato spesso dal divin Maestro: un abbandono sincero nella trascendente bontà e potenza dell’Unto di JHWH. Il quale, commosso come in casi analoghi, semplicemente risponde con una sola parola: «la tua fede ti ha salvato», conferendogli il dono più grande, che egli stesso desiderava elargire a tutti (Lc 19,9s; Gv 3,17): non la semplice guarigione di un organo corporale, ma la completa restaurazione della persona: «venite a me, e io vi ristorerò» (Mt 11,28); un nuovo rapporto di shalom, pace e armonia, con Dio e con tutto ciò che ci circonda (Mc 5,34; Lc 7,50; 17,19). «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (v. 52b). Così Bartimeo non rimase più a Gerico, la lussuosa città degli Erodiadi, ad attendere l’elemosina, ma da quel giorno si mise a seguire la comunità del Maestro divino, conquistato dal suo immenso amore, verso Gerusalemme, la città della sua morte redentrice e della sua gloriosa risurrezione.

      Il cammino del cieco di Gerico verso la vera luce si presenta come un esemplare itinerario per chi dalla tristezza di un’esistenza opaca e senza avvenire vuole pervenire al traguardo della vera vita. Saper percepire la salutare presenza di chi ci passa accanto, il calore del Sole divino che ci illumina; lasciare salire verso di Lui l’anelito della propria anima, implorare incessantemente finché ci avvenga di essere toccati dall’esperienza viva del suo splendore e della sua infinita benevolenza.

 

 Meditazione

 

Marco, che ci ha accompagnato nelle domeniche di questo anno, ci fa incontrare oggi il Signore nella sua ultima tappa prima di entrare in Gerusalemme. Abbiamo visto lungo il cammino il clima nuovo, quasi di festa, che Gesù creava tra la gente delle città e dei villaggi ove pas­sava. In tanti accorrevano a lui, soprattutto i deboli, i poveri, i lebbro­si, i malati. Tutti desideravano avvicinarlo, toccarlo, parlargli; volevano da lui pace e felicità per la loro vita. E Gesù li accoglieva tutti. Ad un mondo fatto di adulti che amano nascondere la propria debolezza a se stessi e agli altri, Gesù insegna il contrario. Per gli uomini è norma­le giudicare, pretendere, rivendicare piuttosto che chiedere e doman­dare aiuto; come pure è molto più normale condannare piuttosto che perdonare. Il Signore instaura un altro clima tra gli uomini, un clima di fiducia; anche i più lontani e i più disprezzati possono avvicinarsi a lui e invocare guarigione e salvezza. Anzi, con il suo comportamento di fatto li esortava a rivolgersi a lui con fede. La richiesta fatta con fede era l’unica cosa che pretendeva. E il motivo era profondo: la preghie­ra fatta con fede apre sempre il cuore ad un modo diverso di vivere. La si apprende però solo quando si è poveri o ci si accorge di essere tali. Lo aveva capito Bartimeo che mendicava alla porta di Gerico. Come tutti i ciechi, anche lui è rivestito di debolezza. Ai ciechi non restava altro che mendicare, aggiungendo così alla cecità la dipenden­za totale dagli altri. Nei Vangeli sono come l’immagine della povertà e della debolezza.

Bartimeo, come Lazzaro, come tanti altri vicini e lontani da noi, giacciono alle porte della vita in attesa di qualche conforto. Eppure Bartimeo è esempio per ognuno di noi, esempio del credente che chie­de e che prega. Attorno a lui tutto è buio; non vede chi passa, non riconosce chi gli sta vicino, non distingue né i volti né gli atteggiamen­ti. Ma quel giorno fu diverso. Sentì il rumore della folla che si avvicina­va. E nel buio della sua vita e delle sue percezioni, intuì una presenza: ha «sentito che era Gesù Nazareno…», nota l’evangelista. Ebbe la sensazione che quel giovane profeta non era come tanti altri che gli erano passati vicino sino a quel momento. E quanti ne aveva sentiti passare in anni e anni di mendicità! A quanti aveva teso la mano, a quanti aveva chiesto aiuto, quanti aveva sentito passare vicini e poi progressivamen­te allontanarsi! E l’esperienza del non vedere, ma è anche l’esperienza dell’elemosina, dell’incontro di un attimo e poi di tutta la distanza che viene posta tra chi è ricco e chi mendica, tra chi vede e chi è cieco. Bartimeo è un uomo costretto a chiedere per l’assenza di ogni altra risorsa. È un mendicante; e non può fare altro che chiedere. Alla noti­zia di quel passaggio comincia a gridare: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È una invocazione molto povera. Non è un parlare abile, come ad esempio fece l’uomo ricco che osservava i comandamenti sin dalla giovinezza e che si rivolse a Gesù chiamandolo «buono». Qui l’invocazione è semplice e assieme drammatica. Quel cieco non ha null’altro che il grido; è l’unico modo per superare il buio e le distan­ze che non riusciva a misurare. Nel Primo Testamento il grido è quello del povero che si rivolge a Dio per ottenere giustizia e salvezza, come Israele in Egitto (cfr. Es 2,23). Quel grido però non piaceva alla folla, tanto che tutti, «lo rimproveravano», sottolinea l’evangelista, cercando di farlo tacere. Era un urlo sconveniente, un grido scomposto e comunque esagerato, come spesso accade ai poveri; rischiava inoltre di disturbare anche quel felice incontro tra Gesù e la folla della città. In tutta la sua presunta ragionevolezza era una logica spietata; non solo lo sgridavano; volevano farlo tacere. Quel cieco non aveva nulla a che fare con la vita di quella città. Gli era permesso mendicare, ma senza scon­volgere i ritmi ordinari e abituali della città. E per quella folla compo­sta di uomini che si credevano sani e di non dover nulla a nessuno era facile incutere timore e terrore a un povero mendicante che dipende­va in tutto da loro. Ma la presenza di Gesù fece superare ogni timore. Bartimeo sentì che la sua vita poteva cambiare totalmente da quell’in­contro. E con voce ancora più forte gridò ancora: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È la preghiera dei piccoli, dei poveri che giorno e notte, senza sosta, perché continuo è il loro bisogno, si rivolgono al Signore; è l’invocazione dei deboli che hanno ricevuto la notizia del suo passaggio e ripongono in lui la loro speranza. Gesù non è sordo al grido dei deboli. Gesù, udito quell’urlo di aiuto, si fermò. È come il buon samaritano che non passa oltre, come fecero il sacerdote e il levita, e come la folla vorrebbe che Gesù facesse. Al contrario, Gesù si fermò e rispose al grido di Bartimeo.

La risposta inizia con una chiamata: «Gesù si fermò e disse: chiama­telo! Chiamarono il cieco dicendogli: coraggio! Alzati, ti chiama!». È sempre il Signore che chiama, ma si serve di altri uomini, della loro parola. Essi si avvicinano a noi e ci incoraggiano ad incontrare Gesù, anzi ci portano a lui. Ma poi l’incontro con il Signore è sempre perso­nale, richiede un colloquio diretto, familiare, come quello di un figlio che si rivolge fiducioso al padre. Bartimeo appena sentì che Gesù vole­va vederlo, gettò via il mantello e corse verso di lui. Gettò via quel mantello che da anni lo copriva, era forse l’unico riparo contro il freddo agghiacciante degli inverni e soprattutto dei cuori induriti della folla. Non serviva più coprire la sua povertà, non aveva più biso­gno di quel riparo, perché aveva sentito che il Signore lo chiamava. Balzò in piedi e andò di corsa da Gesù. Correva anche se non vedeva; in verità «vedeva» molto più profondamente di tutta quella folla. Sentì la voce di Gesù e andò verso quella voce. Era solo una voce, ma era l’unica che finalmente lo chiamava per accoglierlo. Era diversa dal mormorio e dalle parole grosse della folla che voleva farlo tacere. Quella voce, quella parola, era per lui un nuovo punto di riferimento, a tal punto saldo, da permettergli di correre, mentre era ancora cieco, senza alcun sostegno. Bartimeo seguì quella voce e incontrò il Signore. Così accade per chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. L’ascolto della Parola di Dio non conduce verso il vuoto, non porta verso un immaginario psicologico; l’ascolto conduce all’incontro per­sonale con il Signore. Così è avvenuto per Bartimeo. È Gesù che inizia a parlare, quasi a prolungare la chiamata che gli aveva fatto. È davvero diverso da tutti coloro che sino ad allora aveva incontrato. Gesù non getta nelle sue mani qualche spicciolo, pur necessario, per poi andare via. No, si ferma, gli parla, mostra interesse per lui e la sua condizione e gli chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Bartimeo, senza frapporre tempo e parole inutili, così come prima aveva pregato con semplicità, gli dice: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». Sa che è il momento dell’incontro, il momento del passaggio, quello che può trasformare radicalmente tutta la sua vita. Non divaga e tanto meno mente; gli chiede la cosa che più conta per lui, la vista. Potrebbe sem­brare una richiesta non nobile. Ma ciò che conta per il Signore è che il cieco si rivolga a lui con fede. Bartimeo ha riconosciuto la luce pur senza vederla. Per questo ha riavuto subito la vista. «Va’, la tua fede ti ha salvato!», gli dice Gesù. Da quel momento Bartimeo non mendica più lungo la via di Gerico, ma prende a seguire Gesù lungo le vie del mondo. Era diventato discepolo, subito, senza indugio, perché aveva cominciato a vedere.

Si conclude così il capitolo 10, questa sezione iniziata con la molti­plicazione dei pani al capitolo 6, in cui Gesù aveva rimproverato i disce­poli incapaci di riconoscerlo come il pane di vita: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? (8,18). Ci vollero due ciechi (8,22-26 e Bartimeo) e un sordomuto (7,31-37) perché i discepoli potessero almeno cominciare a porsi la domanda sull’ascoltare e sul vedere, per capire. Si dovrà forse ricostituire quel popolo, di cui fanno parte «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente», che il profeta Geremia ha annunciato, per poter anche noi vedere e riconoscere la salvezza che viene dal Signore. Lui, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, è venuto a salvarci perché tutti siamo mendicanti del suo amore, come Bartimeo.

 

L’immagine della domenica

 


O boschi e fitte selve,

piantati dalla mano dell’Amato!

O prato verdeggiante,

di bei fiori smaltato,

ditemi se qui egli è passato! 

(Giovanni della Croce, CB, st. 4)


Preghiere e racconti

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

 Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

 Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

 Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

 

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grath, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

 

Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore

«Il comandamento del Signore è limpido, da luce agli occhi» (Sal 18 [19] ,9). Accogli Cristo, accogli la facoltà di vedere, accogli la tua luce perché tu conosca bene Dio e l’uomo. Il Verbo che ci ha illuminati è «più prezioso dell’oro e delle pietre preziose; desiderabile più del miele e del favo» (Sal 18 [19],11). Come può, infatti, non essere desiderabile colui che ha dato luce alla mente ottenebrata e ha aperto gli occhi dell’anima portatori di luce? […] Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore. Questo è ciò che egli ha promesso al Padre: «Racconterò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (Sal 21 [22] ,23). Loda e proclama tuo padre, Dio; le tue parole mi salveranno, il tuo canto mi istruirà. Fino a ora ho errato nella speranza di trovare Dio, ma poiché tu mi illumini, Signore, trovo Dio per mezzo di te, e ricevo il Padre da te, divengo tuo coerede, poiché non ti sei vergognato di avermi come fratello (cfr. Eb 2,11). Cancelliamo, dunque, cancelliamo l’oblio della verità, l’ignoranza e, rimuovendo le tenebre che ci impediscono la vista come nebbia per gli occhi, contempliamo il vero Dio, acclamandolo innanzitutto con queste parole: «Rallegrati, luce»; poiché una luce dal cielo brillò su di noi sepolti nelle tenebre e prigionieri nell’ombra di morte (cfr. Is 9,1; Mt 4,16; Lc 1,79), più pura del sole, più dolce della vita terrena. Questa luce è la vita eterna e tutto quanto partecipa di essa vive, ma la notte teme la luce e, nascondendosi per la paura, lascia il posto al giorno del Signore; l’universo è diventato luce insonne e l’occidente si è trasformato in oriente. Ecco che cosa significa la nuova creazione (cfr. Gal 6,15). Poiché il sole di giustizia (cfr. Ml 3,20), che cavalca l’universo, percorre tutto il genere umano imitando il Padre che fa sorgere il suo sole su tutti gli uomini (cfr. Mt 5,45) e su di essi sparge la rugiada della verità. Egli ha trasformato l’oriente in occidente crocifiggendo la morte e trasformandola in vita. Ha strappato l’uomo dalla rovina e l’ha stabilito nel cielo, tramutando la corruzione in incorruttibilità e trasformando la terra in cielo.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Esortazione ai greci 11,114-115, in Id., Protreptico ai greci, Torino 1940, pp. 231.233.235).

 

La fede ha un senso?

Spesso nella quotidianità sperimentiamo di non poter fare affidamento sugli altri. Uno ci ha giurato eterna fiducia, e tuttavia ci lascia. Un altro sembra essere solido e avere una posizione certa, ma poi si lascia coinvolgere in scandali. I politici si orientano secondo il vento che tira. Proprio in questa situazione è importante non reagire in modo cinico, ironico o addirittura con rassegnazione. Continuano a esserci persone sulle quali si può fare davvero affidamento, che non promettono troppo, che sono sincere e contem­poraneamente fedeli. E c’è un fondamento ultimo della mia vita, sul quale posso fare affidamento: persino quando ab­bandono me stesso, perché non riesco più a sopportarmi, Dio non mi abbandona.

Per i bambini è particolarmente importante l’affidabili­tà. Per loro è importante potersi fidare e credere che il loro angelo non li abbandona, anche se i genitori li abbandona­no; che il loro angelo è con loro e li sostiene, anche là dove non riescono più a farlo loro stessi. Una fiducia così pro­fonda fa in modo che loro tengano fede a se stessi e che possano sviluppare la propria personalità. Solo una fiducia del genere dà loro solidità in mezzo a un mondo insicuro.

[…] L’esperienza mostra che nessuno può vivere senza fiducia. Persino chi è stato continuamente deluso dagli altri, desidera intensamente avere persone di cui ci si può fidare. Ha dentro di sé la sensazione di aver bisogno di questa fiducia per avere un punto fermo in questo mondo. E se gli altri lo deludono continuamente, allora cerca un altro soste­gno. Anche la fiducia in Dio normalmente ha bisogno del­l’esperienza della fiducia umana. Ma si fa anche esperien­za che la mancanza di fiducia umana ci porta a porre la nostra fiducia in Dio. Ciascuno ha in sé il desiderio inten­so di potersi fidare. E nel desiderio intenso di fiducia si pre­senta già l’inizio della fiducia in noi.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 80-81).

 

Quale sicurezza offre la fede?

Un aspetto ulteriore della fede non punta al sapere e all’interpretazione, ma all’atteggiamento. Credo a qualcuno. Fede è fiducia in una persona. Anche se questa fiducia, in ultima analisi, ritiene che Dio sia il sostegno vero e proprio della nostra vita, per molti non è possibile confidare in Dio, che appare così lontano. E tuttavia, si sentono in qualche modo sostenuti. Dietrich Bonhoeffer, nella famosa poesia composta prima di venire ucciso in campo di concentramento, ha parlato delle forze amiche che ci sostengono: “Da forze amiche meravigliosamente avvolti, attendiamo consolati quello che verrà. Dio è con noi di sera e di mattina, sarà con noi in ogni nuovo giorno”. A queste parole possono ricorrere anche coloro che hanno difficoltà a riconoscere Dio come il fondamento della loro fiducia.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 84).

 

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce.

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole).

 

Preghiera

 Io sono venuto

in questo mondo

perché coloro

che non vedono

vedano e quelli

che vedono

diventino ciechi.

 Apri i miei occhi, Signore,

alle meraviglie del tuo amore.

Io sono cieco sulla strada.

Guariscimi: voglio vederti.

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti

Cari giovani, insieme a voi desidero riflettere sulla missione che Gesù ci ha affidato. Rivolgendomi a voi intendo includere tutti i cristiani, che vivono nella Chiesa l’avventura della loro esistenza come figli di Dio. Ciò che mi spinge a parlare a tutti, dialogando con voi, è la certezza che la fede cristiana resta sempre giovane quando si apre alla missione che Cristo ci consegna. «La missione rinvigorisce la fede» (Lett. enc. Redemptoris missio, 2), scriveva san Giovanni Paolo II, un Papa che tanto amava i giovani e a loro si è molto dedicato.

L’occasione del Sinodo che celebreremo a Roma nel prossimo mese di ottobre, mese missionario, ci offre l’opportunità di comprendere meglio, alla luce della fede, ciò che il Signore Gesù vuole dire a voi giovani e, attraverso di voi, alle comunità cristiane.

La vita è una missione

Ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra. Essere attratti ed essere inviati sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza. Nessuno come i giovani sente quanto la vita irrompa e attragga. Vivere con gioia la propria responsabilità per il mondo è una grande sfida. Conosco bene le luci e le ombre dell’essere giovani, e se penso alla mia giovinezza e alla mia famiglia, ricordo l’intensità della speranza per un futuro migliore. Il fatto di trovarci in questo mondo non per nostra decisione, ci fa intuire che c’è un’iniziativa che ci precede e ci fa esistere. Ognuno di noi è chiamato a riflettere su questa realtà: «Io sono una missione in questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 273).

Vi annunciamo Gesù Cristo

La Chiesa, annunciando ciò che ha gratuitamente ricevuto (cfr Mt 10,8; At 3,6), può condividere con voi giovani la via e la verità che conducono al senso del vivere su questa terra. Gesù Cristo, morto e risorto per noi, si offre alla nostra libertà e la provoca a cercare, scoprire e annunciare questo senso vero e pieno. Cari giovani, non abbiate paura di Cristo e della sua Chiesa! In essi si trova il tesoro che riempie di gioia la vita. Ve lo dico per esperienza: grazie alla fede ho trovato il fondamento dei miei sogni e la forza di realizzarli. Ho visto molte sofferenze, molte povertà sfigurare i volti di tanti fratelli e sorelle. Eppure, per chi sta con Gesù, il male è provocazione ad amare sempre di più. Molti uomini e donne, molti giovani hanno generosamente donato sé stessi, a volte fino al martirio, per amore del Vangelo a servizio dei fratelli. Dalla croce di Gesù impariamo la logica divina dell’offerta di noi stessi (cfr 1 Cor 1,17-25) come annuncio del Vangelo per la vita del mondo (cfr Gv 3,16). Essere infiammati dall’amore di Cristo consuma chi arde e fa crescere, illumina e riscalda chi si ama (cfr 2 Cor 5,14). Alla scuola dei santi, che ci aprono agli orizzonti vasti di Dio, vi invito a domandarvi in ogni circostanza: «Che cosa farebbe Cristo al mio posto?».

Trasmettere la fede fino agli estremi confini della terra

Anche voi, giovani, per il Battesimo siete membra vive della Chiesa, e insieme abbiamo la missione di portare il Vangelo a tutti. Voi state sbocciando alla vita. Crescere nella grazia della fede a noi trasmessa dai Sacramenti della Chiesa ci coinvolge in un flusso di generazioni di testimoni, dove la saggezza di chi ha esperienza diventa testimonianza e incoraggiamento per chi si apre al futuro. E la novità dei giovani diventa, a sua volta, sostegno e speranza per chi è vicino alla meta del suo cammino. Nella convivenza delle diverse età della vita, la missione della Chiesa costruisce ponti inter-generazionali, nei quali la fede in Dio e l’amore per il prossimo costituiscono fattori di unione profonda.

Questa trasmissione della fede, cuore della missione della Chiesa, avviene dunque per il “contagio” dell’amore, dove la gioia e l’entusiasmo esprimono il ritrovato senso e la pienezza della vita. La propagazione della fede per attrazione esige cuori aperti, dilatati dall’amore. All’amore non è possibile porre limiti: forte come la morte è l’amore (cfr Ct 8,6). E tale espansione genera l’incontro, la testimonianza, l’annuncio; genera la condivisione nella carità con tutti coloro che, lontani dalla fede, si dimostrano ad essa indifferenti, a volte avversi e contrari. Ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù e alla presenza sacramentale della Chiesa rappresentano le estreme periferie, gli “estremi confini della terra”, verso cui, fin dalla Pasqua di Gesù, i suoi discepoli missionari sono inviati, nella certezza di avere il loro Signore sempre con sé (cfr Mt 28,20; At 1,8). In questo consiste ciò che chiamiamo missio ad gentes. La periferia più desolata dell’umanità bisognosa di Cristo è l’indifferenza verso la fede o addirittura l’odio contro la pienezza divina della vita. Ogni povertà materiale e spirituale, ogni discriminazione di fratelli e sorelle è sempre conseguenza del rifiuto di Dio e del suo amore.

Gli estremi confini della terra, cari giovani, sono per voi oggi molto relativi e sempre facilmente “navigabili”. Il mondo digitale, le reti sociali che ci pervadono e attraversano, stemperano confini, cancellano margini e distanze, riducono le differenze. Sembra tutto a portata di mano, tutto così vicino ed immediato. Eppure senza il dono coinvolgente delle nostre vite, potremo avere miriadi di contatti ma non saremo mai immersi in una vera comunione di vita. La missione fino agli estremi confini della terra esige il dono di sé stessi nella vocazione donataci da Colui che ci ha posti su questa terra (cfr Lc 9,23-25). Oserei dire che, per un giovane che vuole seguire Cristo, l’essenziale è la ricerca e l’adesione alla propria vocazione.

Testimoniare l’amore

Ringrazio tutte le realtà ecclesiali che vi permettono di incontrare personalmente Cristo vivo nella sua Chiesa: le parrocchie, le associazioni, i movimenti, le comunità religiose, le svariate espressioni di servizio missionario. Tanti giovani trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli” (cfr Mt 25,40), promuovendo la dignità umana e testimoniando la gioia di amare e di essere cristiani. Queste esperienze ecclesiali fanno sì che la formazione di ognuno non sia soltanto preparazione per il proprio successo professionale, ma sviluppi e curi un dono del Signore per meglio servire gli altri. Queste forme lodevoli di servizio missionario temporaneo sono un inizio fecondo e, nel discernimento vocazionale, possono aiutarvi a decidere per il dono totale di voi stessi come missionari.

Da cuori giovani sono nate le Pontificie Opere Missionarie, per sostenere l’annuncio del Vangelo a tutte le genti, contribuendo alla crescita umana e culturale di tante popolazioni assetate di Verità. Le preghiere e gli aiuti materiali, che generosamente sono donati e distribuiti attraverso le POM, aiutano la Santa Sede a far sì che quanti ricevono per il proprio bisogno possano, a loro volta, essere capaci di dare testimonianza nel proprio ambiente. Nessuno è così povero da non poter dare ciò che ha, ma prima ancora ciò che è. Mi piace ripetere l’esortazione che ho rivolto ai giovani cileni: «Non pensare mai che non hai niente da dare o che non hai bisogno di nessuno. Molta gente ha bisogno di te, pensaci. Ognuno di voi pensi nel suo cuore: molta gente ha bisogno di me» (Incontro con i giovani, Santuario di Maipu, 17 gennaio 2018).

Cari giovani, il prossimo Ottobre missionario, in cui si svolgerà il Sinodo a voi dedicato, sarà un’ulteriore occasione per renderci discepoli missionari sempre più appassionati per Gesù e la sua missione, fino agli estremi confini della terra. A Maria Regina degli Apostoli, ai santi Francesco Saverio e Teresa di Gesù Bambino, al beato Paolo Manna, chiedo di intercedere per tutti noi e di accompagnarci sempre.

Dal Vaticano, 20 maggio 2018, Solennità di Pentecoste

FRANCESCO

Studiare catechetica oggi.

La proposta dell’Università Pontificia Salesiana

Don Bosco ebbe l’intuizione e la realizzò nella pratica: la catechesi doveva svilupparsi sempre all’interno di processi educativi attraverso i quali tutelare la maturazione umana e cristiana delle persone. I Salesiani han cercato sempre di essere fedeli a tale visione, organizzando senza sosta una riflessione critica in grado di sostenerla e strutturarla scientificamente. La prospettiva è stata assunta anche dall’Università Pontificia Salesiana che sempre ha vincolato strettamente la «catechesi-catechetica» con l’«educazione-pedagogia», arrivando a stabilire una collocazione singolare degli studi di Catechetica all’interno della Facoltà di Scienze dell’Educazione, un assetto che ancor oggi costituisce una proposta unica e originale, sostenuta e portata avanti dal protagonista per eccellenza di questa storia, cioè, l’Istituto di Catechetica (ICa). Il progetto iniziale (1940) è stato sottoposto a parecchi mutamenti direttamente legati ai cambiamenti culturali e religiosi susseguitisi in questi anni. Due di questi movimenti, risultano particolarmente rilevanti per il nostro libro: 1/ La creazione, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, di una «struttura dipartimentale» tra le facoltà di Teologia (FT) e di Scienze dell’Educazione (FSE) per promuovere l’unità formativa degli studenti di Pastorale giovanile e di Catechetica; dopo un sessennio di laboriosa sperimentazione, nel 1987, la struttura si trasformò nel «Dipartimento di Pastorale giovanile e Catechetica»; 2/ Il ripensamento di tale struttura accademica che portò, nel 2016, alla dismissione del medesimo per tornare alla configurazione di due curricoli differenti, quello di Catechetica nella FSE e quello di Pastorale giovanile nella FT.

L’anno accademico 2018-2019, terzo dell’attuale struttura del curricolo di Catechetica, apre la strada delle verifiche: in questo momento cruciale, l’ICa sente l’obbligo di «dare ragione» delle proprie impostazioni scientifiche e, allo stesso tempo, considera questa circostanza come un momento propizio per immaginare un futuro carico di progetti inediti. Ecco spiegata la finalità del libro che è diviso in tre parti: Attualità, Futuro e Storia. La sequenza, dunque, privilegia la presentazione accurata del curricolo attuale e nel contempo le sue prospettive di futuro, senza però dimenticare l’evoluzione storica alla base di ogni scelta e situazione concreta.

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Isaia 53,10-11

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.

      

 

v Il presente brano dell’A.T. è stato scelto come prima lettura in considerazione del Vangelo di oggi, nel quale i figli di Zebedeo vogliono mettersi al di sopra degli altri, a differenza del Figlio dell’uomo che si abbassa volontariamente. Is 53 costituisce il quarto carme del Servo sofferente di JHWH, e fa parte della seconda parte del Libro di Isaia (il cosiddetto Deuteroisaia, capitoli 40-55, databili attorno agli anni 550-530 a.C.). Dal carme sono stati scelti quei versi che esprimono la libera e volontaria umiliazione del Servo di JHWH.

     Il v. 2, letto per intero, contiene questa parte, omessa nel brano liturgico: «Non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto». In linea con questa descrizione, il Servo del Signore è paragonato ad una pianta che a motivo dell’aridità del suolo presenta l’aspetto non bello di un arbusto spuntato in mezzo al deserto.

     —Ecco perché è «reietto», tenuto lontano e in poco conto da parte degli uomini (v. 3), e lui stesso è «uomo dei dolori», soffrendo in mezzo al disprezzo, all’aridità, alla solitudine.

     — I vv. 10-11 formano una strofa del carme, nella quale vengono evidenziate due dimensioni: da una parte l’espiazione, nel senso che il Servo soffre per gli altri, per i loro peccati (v. 110); dall’altra l’esaltazione, nel senso che Dio gli darà gloria perché ha preso su di sé tale sofferenza per gli altri. I due versi costituiscono un prezioso commento o spiegazione della parola sul riscatto pagato dal Figlio dell’uomo, alla fine del Vangelo di oggi (Mc 10,15).

  

Seconda lettura: Ebrei 4,14-16

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

 

 

v In questo brano la Lettera agli Ebrei introduce il paragone di Gesù col sommo sacerdote dell’Antica Alleanza. Paragone molto importante per i destinatari e lettori della lettera, perché a quell’epoca c’era ancora il tempio, nel quale il sommo sacerdote celebrava i riti. Del resto il sommo sacerdote era chiamato anche «Christos», unto (Lev 1,3). Sua funzione liturgica è principalmente quella del perdono dei peccati di Israele nel giorno dell’espiazione (yom hakippourim). La Lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra Cristo ed il sommo sacerdote alla luce del giorno di espiazione e del perdono dei peccati, che in esso veniva accordato a tutto il popolo.

     Gesù, attraverso la risurrezione e la glorificazione «è passato attraverso i cieli» (v. 14), vale a dire è entrato nel tempio celeste, come il sommo sacerdote entra in quello terreno nel giorno dell’espiazione. Questa è la nostra confessione (homologia), corrisponde cioè alla sostanza di quello che decidiamo di credere.

     — «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze...» (v. 15). A questo punto la Lett. agli Ebrei tocca il mysterium compassionis: l’incarnazione è, fondamentalmente, la com-passione, il soffrire di Dio con noi. Il nostro sommo sacerdote ha voluto soffrire con noi ed essere messo alla prova insieme a noi.

     — «Accostiamoci…al trono della grazia» (v. 16). Il Santo dei santi nasconde il «trono della grazia», chiamato in ebraico kapporet (cf. Rm 3,25: «hylasterion», propiziatorio), vale a dire il coperchio di oro che si trova sull’arca dell’Alleanza con i Cherubini, sui quali Dio è presente come re assiso sul trono. La presenza di Dio è soprattutto presenza di grazia. Per questo noi possiamo avvicinarci a tale trono pieni di gioia.

 

Vangelo: Marco 10,35-45

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».]

 

 

Esegesi

     Gesù ha annunziato per la terza volta la sua passione e morte ai Dodici in disparte (Mc 10,32-34), usando toni molto duri e realistici: lo condanneranno a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo uccideranno. Nel vangelo odierno, ad immediato seguito di quelle dichiarazioni, i due figli di Zebedeo avanzano a Gesù un’ambiziosa domanda (vv. 35 ss): questa gli dà l’occasione di approfondire ed esplicitare il tema della passione, associando ad essa la sorte dei suoi discepoli.

     «Nella tua gloria» (v. 37). Giacomo e Giovanni, che furono tra i primi ad accettare la chiamata del Maestro, sono persuasi di avere un titolo in più per occupare i primi posti in quel regno messianico glorioso che, secondo la comune convinzione dei discepoli, Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme. Nonostante i ripetuti annunci di Gesù, coltivano ancora questa aspettativa terrena di gloria e vogliono accaparrarsene i posti di onore (a destra e a sinistra del re). Non è da escludere che nell’atteggiamento dei figli di Zebedeo si riflettano anche tensioni della chiesa nascente.

     — Il calice, il battesimo (v. 38). In molti testi dell’Antico Testamento e del giudaismo il «calice» era metafora delle «vertigini» e sofferenze che Dio faceva provare ai peccatori (cf. Ger 25,15; Sal 11,6: 65,9 ecc.): Nella sua preghiera al Getsemani Gesù userà la medesima immagine (14,36). Lo stesso senso evoca la parola «battesimo», ossia immersione nelle onde della sofferenza (cf. Lc 12,50). Gesù coinvolge i discepoli nella sua missione di sofferenza.

     — «Per coloro per i quali è stato preparato» (v. 40). Alla risposta affermativa dei due discepoli (dovuta sempre alla loro intenzione di partecipare alla gloria, anche se attraverso le prove), il Maestro replica che essi sono sì chiamati a partecipare alla sua intronizzazione messianica, ma non in base a diritti di umana precedenza, bensì per libera e gratuita iniziativa del Padre: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla sovrana volontà di Dio.

     — «Dare la propria vita in riscatto per molti» (v. 45). Gesù prende spunto dalla «indignazione» umana degli altri discepoli (v. 41), per dichiarare lo statuto fondamentale che deve regolare i rapporti della comunità ecclesiale. Egli contesta radicalmente il modello di autorità dispotico che vige tra le genti, nel mondo pagano; e propone paradossalmente come modello di autorità due figure che sono agli antipodi: il servitore e lo schiavo. Queste due immagini, però, non sono generiche. Rappresentano concretamente la scelta di Gesù: per lui «servire» vuol dire essere fino in fondo obbediente e fedele alla volontà del Padre, sulla stessa linea del «servo del Signore» di Isaia (vedi I Lett.), che si fa solidale col peccato degli uomini. Dicendo che è venuto «per dare la sua vita in riscatto» per molti, il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte: la parola «riscatto» (in greco lytron, «mezzo per sciogliere») indicava, tra le altre realtà, il prezzo pagato per liberare uno schiavo. Accettando la sua morte come atto di amore e liberazione degli uomini dalla schiavitù del peccato, Gesù consegna alla comunità dei discepoli un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella vita.

 

Meditazione 

La tentazione del potere. Così potremmo riassumere il tema del brano evangelico di questa ventinovesima domenica. Marco riferisce un dialo­go tra Gesù e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Siamo anco­ra sulla strada verso Gerusalemme e, per la terza volta, Gesù confida ai discepoli il destino di morte che lo aspetta al termine del cammino. I due discepoli, per nulla toccati dalle tragiche parole del maestro, e con una notevole durezza di cuore di fronte a Gesù si fanno avanti per chie­dergli i primi posti accanto a lui quando instaurerà il regno. Dopo la confessione di Pietro a Cesarea e la discussione su chi tra loro fosse il primo, probabilmente è cresciuto un clima di rivalità tra i discepoli; e questo forse spiega l’ambizione dei due fratelli nel rivendicare i primi posti. Quanto è difficile per Gesù toccare i cuori di quei dodici che pure si era scelti e curati! I discepoli sono esperti nel sottrarsi alle esi­genze dell’amore. E con un tratto di astuzia, che conosciamo bene anche noi quando si tratta di prendersi cura dei nostri affari, i due chiedono a Gesù: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». La verità è che sono davvero distanti dal pensiero e dalle preoccupazioni di Gesù, e non riescono a sintonizzarsi con lui. Non basta, infatti, stargli fisicamente vicino per comprenderlo (potrem­mo tradurre: non è sufficiente semplicemente frequentare la chiesa per comprendere Gesù e il suo Vangelo). È necessario ascoltarlo e obbedi­re giorno dopo giorno alla sua parola; e quindi seguirlo in un vero e proprio itinerario di crescita interiore. Quante volte, invece, dobbiamo constatare la nostra povertà spirituale, la nostra scarsa sapienza evange­lica! E di fronte a tante nostre pretese, anche noi potremmo sentirci dire da Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete». Spesso la distanza da Gesù non ci fa comprendere le profondità del mistero del Signore e neppure le esigenze del suo amore.

Gesù, rivolto ai due, chiede: «Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». E cerca di spiegarglielo usando due simboli, il calice e il battesimo, ben noti a chi come loro frequentavano le Sante Scritture. Ambedue i simboli sono interpretati da Gesù in rapporto alla sua morte. Il calice è il segno dell’ira di Dio, come scrive Isaia: «Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira» (Is 51,17); e Geremia dice: «Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni alle quali ti invio» (Ger 25,15). Per Gesù è una metafora con la quale indica che egli prende su di sé il giudizio di Dio per il male compiuto nel mondo, anche a costo della morte. La stessa cosa vale per il simbolo del battesimo: «Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati» (Sl 42,8). Le due immagini mostrano che il cammino di Gesù non è una folgorante e oleata carriera verso il potere. Semmai è il cammino dell’assunzione su di sé del male degli uomini, come disse il Battista: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). I due discepoli probabilmente neppure ascoltano le parole del maestro e tanto meno ne comprendono il senso. Del resto la Parola evangelica, per essere ascoltata e compresa, richiede un atteggiamento di ascolto e di preghiera. Ai due apostoli, come spesso anche a noi, non importa comprendere la Parola evangelica; quel che interessa è l’assicurazione del posto. E con sciocca semplificazione, i due rispondono: «Lo possiamo!». È la stessa superficiale faciloneria con cui risponderanno a Gesù al termine dell’ultima cena, mentre si avviano con lui verso l’orto degli Ulivi (Mt 26,35). Basta solo qualche ora, ed eccoli, assieme agli altri, abbandonare di corsa il Maestro per paura e lasciarlo nelle mani dei servi dei sommi sacerdoti.

La richiesta dei due figli di Zebedeo era ovvio che scatenasse l’invidia e la gelosia degli altri discepoli («cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni», nota l’evangelista). Gesù allora li chiamò ancora una volta tutti attorno a sé per una nuova lezione evangelica. Ogni volta che i discepoli non ascoltano le parole di Gesù e si lasciano guidare dai loro ragionamenti, si discostano dalla via evangelica e provocano liti e dissidi al loro stesso interno. È istintiva nei discepoli, come del resto in ogni persona, la tendenza a fare da maestri a se stessi, a divenire «adulti», ossia indipendenti e autosufficienti, sino al punto da fare a meno di tutti, persino di Gesù. È lo stile di questo mondo, che tutti conosciamo molto bene poiché lo pratichiamo con frequenza. Per il Vangelo è vero l’esatto contrario: il discepolo resta sempre alla scuola del maestro, rimane sempre uno che ascolta le parole evangeliche. Il discepolo di Gesù, anche se dovesse occupare posti di responsabilità, sia nella Chiesa che nella vita civile, resta sempre figlio del Signore, ossia discepolo che sta ai piedi di Gesù. Ecco perché Gesù raduna nuovamente i Dodici attorno a sé e li ammaestra: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così». L’istinto del potere — sembra dire Gesù — è ben radicato nel cuore degli uomini, anche in quello di chi spergiura di non esserne sfiorato. Nessuno, neppure all’interno della comunità cristiana, è immune da tale tentazione (si potrebbe dire che lo stesso Gesù subì la tentazione del potere, quando fu condotto dallo Spirito nel deserto). Non importa che si tratti del «grande» o del «piccolo» potere; tutti ne subiamo il fascino. È normale fare considera­zioni severe su coloro che hanno il potere politico, economico, cultu­rale; e talora è anche necessario farlo. Forse però è più facile fare l’esa­me di coscienza agli altri che a se stessi, in genere uomini e donne dal «piccolo potere». Non dovremmo tutti chiederci quanto spesso usiamo in modo egoistico e arrogante quella piccola fetta di potere che ci siamo ritagliati in famiglia, o a scuola, o in ufficio, o dietro uno sportel­lo, o per la strada, o nelle istituzioni ecclesiali, o comunque altrove? La scarsa riflessione in questo campo è spesso fonte di amarezze, di lotte, di invidie, di opposizioni, di crudeltà. Ai suoi discepoli Gesù continua a dire: «Tra voi però non è così» (forse sarebbe più corretto dire: «Non sia così»). Non si tratta di una crociata contro il potere, per favorire un facile umilismo che può anche essere solo indifferenza. Gesù ha avuto potere («insegnava come uno che ha autorità», scrive Matteo 7,29), e lo ha concesso anche ai discepoli («Diede loro potere sugli spiriti impu­ri», si legge in Marco 6,7). Il problema è di quale potere si parla, e comunque di come lo si esercita. È il potere dell’amore. Gesù lo spiega non solo con le parole quando afferma: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore», ma con la sua stessa vita. Dice di se stesso che «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Così deve essere per ogni suo discepolo.

Sia la prima che la seconda lettura ci spiegano come il potere di Gesù sia quello di un uomo che ha preso «parte alle nostre debolezze», lui che «è stato prostrato con dolori» e ci ha salvato con il dono della sua vita. È lui il Sommo Sacerdote, che ci permette di entrare in comu­nione con Dio e di imparare da lui la via del servizio: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericor­dia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno».

 

L’immagine della domenica

 

 

Spirito Santo,

aiutami a rendere

l’ambiente del servizio

più umano e cristiano

perché aiuti tutti a ritrovarci fratelli.

(Card. Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).

 

Preghiere e racconti

 

Comunità alternativa

«La Chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli e relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa. Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementante dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco».

(Card. C.M. Martini)

 

Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date

Ti offro, Signore, il mio servizio

lo affronto serenamente con il Tuo aiuto,

per la Tua gloria, come collaborazione

all’opera creatrice del Padre

per il benessere di tutti.

Cristo, insegnami a pensare al mio servizio,

non soltanto come una fatica,

ma come occasione

per servire amando il mio prossimo

e così incontrare Te,

che mi hai redento e vegli su di me.

Spirito Santo,

aiutami a rendere l’ambiente del servizio

più umano e cristiano perché aiuti

tutti a ritrovarci fratelli.

(Card. Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).

 

Preghiera per il servizio

Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli

che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.

Affidali a noi oggi;

dà loro il pane quotidiano

insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.

Signore, fa di me uno strumento della tua pace,

affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio,

lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia,

l’armonia dove c’è la discordia,

la verità dove c’è l’errore,

la fede dove c’è il dubbio,

la speranza dove c’è la disperazione,

la luce dove ci sono ombre,

e la gioia dove c’è la tristezza.

Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata,

di capire, e non di essere capita,

e di amare e non di essere amata,

perché dimenticando se stessi ci si ritrova,

perdonando si viene perdonati

e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

 

Non sapevano che cosa chiedevano

Marco afferma che soltanto Giacomo e Giovanni si avvicinarono al Signore e lo pregarono, perché vede che erano soprattutto loro che volevano porre quella domanda al Signore e sa che essi avevano spinto la madre a chiedere. Bisogna credere che l’affetto femminile della madre e l’animo ancora carnale dei discepoli siano stati spinti a domandare, soprattutto perché essi ricordavano le parole del Signore: «Quando il Figlio dell’uomo sederà nel luogo della sua maestà, anche voi sederete sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28) e sapevano di essere amati in modo speciale dal Signore a confronto con gli altri discepoli, e più volte, insieme con Pietro, erano stati fatti partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti, come ricorda il vangelo. Per questo, infatti, anche a loro, come a Pietro, era stato imposto un nome nuovo; come Pietro, che prima si chiamava Simone, per la fortezza e la stabilità della fede inespugnabile meritò il nome di Pietro, così essi furono chiamati Boanerghés, cioè figli del tuono (cfr. Mc 3,16-17), perché avevano  udito insieme con Pietro la voce gloriosa del Padre che scendeva sul  Signore (cfr. Mt 17,5), conoscevano i segreti dei misteri più che gli  altri discepoli e, cosa più essenziale, sentivano di aderire con cuore integro al Signore e di amarlo col più grande affetto. Perciò credevano che sarebbe stato possibile per loro sedergli più da vicino nel Regno, soprattutto perché vedevano che Giovanni per la singolare purezza di cuore e di corpo era tanto amato da lui da posare il capo sul suo petto durante la cena (cfr. Gv 13,23).

[…] Non sapevano che cosa chiedevano perché pensavano che ciascuno potesse scegliere a proprio arbitrio quale posto e quale ricompensa avrebbe ottenuto in dono nella vita futura e non pregavano invece il Signore di condurre a buon fine, ben meritandolo, la fiducia e la speranza che avevano, consapevoli che qualsiasi cosa di buono avessero fatto, egli li avrebbe ricompensati in misura infinitamente più grande. Certo è lodevole la loro semplicità, per cui con devota fiducia chiedevano di sedere nel Regno vicino al Signore, ma molto sarà lodata la sapiente umiltà di chi, consapevole della propria fragilità, diceva: «Ho scelto di essere disprezzato nella casa di Dio piuttosto che abitare sotto le tende dei peccatori» (Sal 83 [84],11). Non sapevano quel che chiedevano essi che domandavano al Signore i pre-mi sublimi piuttosto che la perfezione delle opere. Ma il maestro celeste, indicando che cosa anzitutto dovevano chiedere, li richiama alla via della fatica con la quale avrebbero conseguito il premio della ricompensa. Dice: «Potete voi bere il calice che io sto per bere?» (Mc 10,38). […] Che tutti i fedeli debbano seguire quest’ordine nella vita lo insegna l’Apostolo quando dice: «Se siamo diventati come una medesima pianta con lui in conformità alla sua morte, così lo saremo anche per conformità alla sua resurrezione» (Rm 6,5).

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sui vangeli 2,21, CCL 122, pp. 336-338). 

 

Come Gesù chi vuol essere grande sia servitore

 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo (…). «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete (…). Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti (…)».

Giovanni, non un apostolo qualunque ma il preferito, il più vicino, il più intuitivo, chiede per sé e per suo fratello i primi posti. E l’intero gruppo dei dieci immediatamente si ribella, unanime nella gelosia. È come se finora Gesù avesse parlato a vuoto: «Non sapete quello che chiedete!». Non sapete quali argini abbattete con questa fame di primeggiare, non capite la forza oscura che nasce da queste ubriacature di potere, che povero cuore ne esce. Ed ecco le parole con cui Gesù spalanca la differenza cristiana: «tra voi non sia così». I grandi della terra dominano sugli altri… Tra voi non è così! Credono di governare con la forza… non così tra voi! Chi vuole diventare grande tra voi. Una volontà di grandezza è innata nell’uomo: il non accontentarsi, il “morso del più”, il cuore inquieto.

Gesù non condanna tutto questo, non vuole nel suo regno uomini e donne incompiuti e sbiaditi, ma pienamente fioriti, regali, nobili, fieri, liberi. La santità non è una passione spenta, ma una passione convertita: chi vuole essere grande sia servitore. Si converta da “primo” a “servo”. Cosa per niente facile, perché temiamo che il servizio sia nemico della felicità, che esiga un capitale di coraggio di cui siamo privi, che sia il nome difficile, troppo difficile, dell’amore. Eppure il termine servo è la più sorprendente di tutte le autodefinizioni di Gesù: «Non sono venuto per farmi servire, ma per essere servo». Parole che ci consegnano una vertigine: servo allora è un nome di Dio; Dio è mio servitore! Vanno a pezzi le vecchie idee su Dio e sull’uomo: Dio non è il Padrone dell’universo, il Signore dei signori, il Re dei re: è il Servo di tutti! Non tiene il mondo ai suoi piedi, è inginocchiato lui ai piedi delle sue creature; non ha troni, ma cinge un asciugamano.

Come sarebbe l’umanità se ognuno avesse verso l’altro la premura umile e fattiva di Dio? Se ognuno si inchinasse non davanti al potente ma all’ultimo? Noi non abbiamo ancora pensato abbastanza a cosa significhi avere un Dio nostro servitore. Il padrone fa paura, il servo no. Cristo ci libera dalla paura delle paure: quella di Dio. Il padrone giudica e punisce, il servo non lo farà mai; non spezza la canna incrinata ma la fascia come fosse un cuore ferito. Non finisce di spegnere lo stoppino dalla fiamma smorta, ma lo lavora finché ne sgorghi di nuovo il fuoco.

Dio non pretende che siamo già luminosi, opera in noi e con noi perché lo diventiamo. Se Dio è nostro servitore, chi sarà nostro padrone? Il cristiano non ha nessun padrone, eppure è il servitore di ogni frammento di vita. E questo non come riserva di viltà, ma come prodigio di coraggio, quello di Dio in noi, di Dio tutto in tutti.

(Ermes Ronchi)

 

Il Servo del Signore

L’accostamento del testo di Isaia a quello di Marco ha come esito la rivelazione che Gesù è il Servo del Signore. Ovvero, l’obbediente alla volontà del Signore che ha donato se stesso per gli uomini vivendo la sua esistenza facendosi loro servo. La domanda di Giacomo e Giovanni (“Noi vogliamo che tu ci faccia ciò che ti chiederemo”) esprime la distorsione più frequente della preghiera cristiana: se la preghiera, come appare dal Padre nostro, porta il discepolo a fare la volontà del Signore (“sia fatta la tua volontà”: Mt 6,10), la domanda dei due discepoli va nel senso contrario. Si chiede che Dio faccia ciò che noi vogliamo. La preghiera allora non è più dialogo tra due libertà, ma imposizione umana a un Dio che non è più il Signore, ma un idolo.

Occorre che il cristiano impari a domandare, perché la domanda esaudita è quella che chiede “nel nome del Signore”: “Tutto ciò che dobbiamo chiedere a Dio e dobbiamo attendere da lui si trova in Gesù Cristo. Occorre cercare di introdurci nella vita, nelle parole, negli atti, nelle sofferenze, nella morte di Gesù, per riconoscere ciò che Dio ha promesso e realizza sempre per noi. Dio infatti non realizza tutti i nostri desideri, ma realizza le sue promesse” (Dietrich Bonhoeffer).

Con la loro incosciente richiesta, i due figli di Zebedeo dimostrano, da un lato, la loro incomprensione delle parole che Gesù ha appena pronunciato sul suo futuro di sofferenza e morte (cf. Mc 10,32-34) e, dall’altro, rivelano di vivere la comunità come finalizzata alla loro personale riuscita: essi devono ancora operare il passaggio da “la comunità per me” (“per noi”: Mc 10,35) a “io per la comunità”, e devono ancora imparare che non la comunità in quanto tale può essere il fine cui tendono, ma il Regno che va oltre la comunità stessa. La scorretta o parziale comprensione di Cristo diviene distorsione ecclesiologica. Il richiamo di Gesù alla coppa da bere e all’immersione da ricevere, cioè alla morte cruenta che lo attende, corregge la comprensione che essi hanno di lui, ma ricorda anche che la chiesa vive del suo innesto nella morte vivificante di Cristo grazie al battesimo e all’eucaristia. Innesto che le conferisce una forma altra rispetto alle istituzioni mondane: non il potere, ma il servizio è la sua logica interna.

Da Gesù Servo nasce una chiesa serva. L’iniziativa dei due fratelli suscita un conflitto all’interno della comunità: “gli altri dieci si sdegnarono con loro” (Mc 10,41). Concorrenzialità e clericalismo ante litteram sono già presenti nel gruppo dei Dodici, tanto che Gesù li convoca e li istruisce sulla logica che deve abitare le comunità cristiane, opposta a quella che vige nei poteri di questo mondo.

“Tra voi non è così”: questa parola di Gesù pone un criterio discriminante tra chiesa e non-chiesa. La prima testimonianza politica della chiesa consiste nella sua strutturazione interna, nell’organizzazione delle sue strutture di autorità e nel modo di vivere l’autorità, che dev’essere conforme a quanto vissuto da Cristo e da lui richiesto ai discepoli.

La parola di Gesù stigmatizza le logiche dei poteri mondani, ma soprattutto si rivolge alla chiesa: alla tentazione della mimesi dei meccanismi mondani, Gesù oppone la differenza cristiana fondata sul farsi servi gli uni degli altri. Se la chiesa è la testimone di Cristo Servo nella storia tra la croce e la parusia, allora la sua forma la mostra quale comunità non omologata, né asservita. Insomma, con una battuta, la chiesa non è uno Stato: “Tra voi, non è così”. Essa invece è, secondo le belle parole del Card. Carlo Maria Martini, “comunità alternativa”: “La chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modellini relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa. Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco”.

(Luciano Manicardi)

 

Preghiera

Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo». Non siamo infatti migliori dei due discepoli. Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.

Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori. Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.

Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita.

Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa. Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIX DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

Paolo VI e Romero santi. Il Papa: “Era Gesù il loro tesoro”

In Piazza San Pietro il rito presieduto da Francesco. “Hanno lasciato tutto per abbracciare la Sua via. Dove si mettono al centro i soldi non c’è spazio per Dio e per l’uomo”. Sono santi. Paolo VI, Oscar Arnulfo Romero Galdámez, Francesco Spinelli, Vincenzo Romano, Maria Caterina Kasper, Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e Nunzio Sulprizio aggiungono i loro nomi all’immenso elenco dei canonizzati di tutte le epoche. Papa Francesco li ha proclamati all’inizio della celebrazione eucaristica in una piazza San Pietro invasa da fedeli giunti da Brescia, Milano, Napoli, Pescara, dalla Spagna, dalla Germania e da tutta l’America Latina. Sono santi, ha detto il Papa nell’omelia, perché hanno fatto “la scelta coraggiosa di rischiare” per seguire Gesù e “hanno avuto il gusto di lasciare qualcosa per abbracciare la sua via”.

In sostanza hanno applicato quanto Gesù dice nel Vangelo proclamato in questa domenica 14 ottobre di “lasciare quello che appesantisce il cuore” e soprattutto le ricchezze terrene. “Dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo”, ha ammonito Francesco. “Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no – ha proseguito il Papa -. Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare”. “Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose”.

I santi invece hanno fatto la scelta di mettere Gesù al centro delle loro vite. “Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto”, ha sottolineato il pontefice. “Gesù non si accontenta di una ‘percentuale di amore’: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente”. L’ha fatto Paolo VI, ha ricordato Francesco, “sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome. Come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri”.

Paolo VI, ha fatto notare il Pontefice, “anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente. Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità”.Papa Bergoglio ha poi notato che “è bello che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia Mons. Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli”.

Lo stesso possiamo dire, ha aggiunto il Papa, di Francesco Spinelli, di Vincenzo Romano, di Maria Caterina Kasper, di Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e del nostro ragazzo napoletano Nunzio Sulprizio, santo giovane, coraggioso, umile – ha aggiunto a braccio -, che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e offerta di se stesso”. “Tutti questi santi, in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare. Il Signore ci aiuti a imitare i loro esempi”.Francesco ha anche proposto, alla luce di questi esempi, un esame di coscienza ai cristiani di oggi.

“Chiediamoci da che parte stiamo. Ci accontentiamo di qualche precetto o seguiamo Gesù da innamorati? Insomma, ci basta Gesù o cerchiamo tante sicurezze del mondo?”. Perciò ha esortato: “Chiediamo la grazia di saper lasciare per amore del Signore: lasciare le ricchezze, le nostalgie di ruoli e poteri, le strutture non più adeguate all’annuncio del Vangelo, i pesi che frenano la missione, i lacci che ci legano al mondo. Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di«autocompiacimento egocentrico»: si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti”. La tristezza, ha concluso il Papa, “è la prova dell’amore in compiuto”. Mentre la gioia sgorga da “un cuore alleggerito di beni, che libero ama il Signore”.

Alla Messa erano presenti numerosi capi di Stato, tra i quali il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. All’inizio della celebrazione è stato il prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, cardinale Angelo Becciu, a presentare brevemente i profili dei sette nuovi santi. Sono state portate all’altare le loro reliquie: per Paolo VI la maglietta che indossava a Manila nel 1970 con le gocce di sangue delle ferite subite in seguito all’attentato. Frammenti di osso per gli altri canonizzati. Una ciocca di capelli per Nazaria Ignazia March Mesa.

QUI LE BIOGRAFIE DEI NUOVI SANTI

Mimmo Muolo domenica 14 ottobre 2018

 

Sinodo. La domanda dei giovani: «Dateci una liturgia più bella e partecipata»

Emergono dal Sinodo due richieste alla Chiesa di tutto il mondo. Da una parte quella di offrire al clero, ai religiosi e alle religiose, ma anche ai formatori in genere, “una nuova educazione sul corpo, sull’affettività e sulla sessualità”. Dall’altro lato, e sono gli stessi giovani presenti nell’Assise sinodale ad averla formulata durante i lavori, quella di una liturgia migliore. “Dateci una liturgia più bella e partecipata – ha riferito così il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, la domanda dei ragazzi, aggiungendo che “è stata una vera sorpresa” per lui -, affinché attraverso la liturgia possiamo fare esperienza di Dio”.

Le due richieste sono emerse nel corso della conferenza stampa sull’andamento dei lavori, in una giornata in cui sono state distribuite anche le relazioni dei 14 circoli minori (quattro di lingua inglese, tre di lingua francese, uno tedesco, due spagnoli, tre italiani e uno portoghese).

Secondo il cardinale Désiré Tsarahazana, presidente della Conferenza episcopale del Madagascar, dal Sinodo viene innanzitutto “un appello alla conversione personale”. “In sostanza l’appello a tutti i battezzati affinché abbiano una vita più coerente con la fede”.
Questa è anche la chiave per affrontare in maniera decisiva la questione degli abusi e in generale della sessualità, un tema che è stato affrontato largamente nel corso dei lavori. Il cardinale africano ha poi annunciato, rispondendo a una domanda, che il Papa si recherà in Madagascar nel 2019, possibilità che il portavoce vaticano Greg Burke, presente alla conferenza stampa non ha confermato, anche se, ha detto, “viene studiata con cura”.

Allo stesso modo Burke non ha confermato un eventuale viaggio in Nord Corea, su invito del presidente nord coreano. “Aspettiamo che l’invito arrivi, poi si vedrà”, ha detto.

Per il resto i lavori del Sinodo stanno confermando il clima gioioso in cui si svolgono e il fatto che i giovani amano la Chiesa (lo ha detto il cardinale canadese Gérald Cyprien Lacroix). Una Chiesa “plurale, inclusiva e capace di camminare insieme con loro”, ha aggiunto l’uditrice suor Nathalie Becquart.

Tutte indicazioni che si ritrovano anche nelle relazioni dei circoli minori, insieme all’invito ad accompagnare le nuove generazioni sull’esempio di Gesù nei confronti dei discepoli di Emmaus (Circolo italiano A). Nella relazione del circolo italiano C questo invito diventa anche appello “a usare il web senza farsi usare”, o
“rifiuto della cultura dell’omologazione, definita spesso cultura del faraone”.

Temi come quello della famiglia (tradizionale, allargata, convivenze, nuove forme di unione) si affacciano spesso nelle relazioni, insieme alla domanda su come porsi pastoralmente di fronte a queste realtà. Anche le migrazioni ricorrono spesso nei resoconti del dibattito, come fenomeno epocale da affrontare sotto diversi profili, non ultimo quello dell’integrazione delle seconde generazioni, spesso relegate alla marginalità della “cultura dello scarto”.

da Avvenire Mimmo Muolo martedì 9 ottobre 2018

TUTTI GLI ARTICOLI SUL SINODO SUI GIOVANI

IL VIDEO DELL’INCONTRO TRA IL PAPA, I PADRI SINODALI E I GIOVANI

Cambiare il mondo con l’educazione

Il 6 ottobre 2018, nella sede nazionale della Fidae (Federazione Istituti di Attività Educativa) a Roma, è stata presentata l’edizione italiana della pubblicazione Design for Change – un movimento educativo per cambiare il mondo.
 
Sono intervenuti Virginia Kaladich, Presidente Fidae e Responsabile del Progetto “Io Posso!” in Italia; Kiran Bir Sethi, fondatrice del movimento Design for Change; Juan Antonio Ojeda, responsabile promozione dei progetti per OIEC; Monica Cantòn de Celis, coordinatrice di Design for Change Spagna.

La Fidae ha risposto con generosa disponibilità all’invito della Congregazione per l’Educazione Cattolica e dell’OIEC (Organizzazione delle scuole cattoliche nel mondo) facendosi promotrice in Italia della diffusione del progetto internazionale ispirato all’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco, in cui esorta il mondo a prendersi cura della “casa comune”. Bambini, ragazzi, giovani, attraverso il progetto “Io Posso!”, accolgono la sfida impegnandosi a migliorare l’ambiente in cui vivono, utilizzando la metodologia Design for Change (I can – io posso).

Si tratta di un progetto di cambiamento che si compone di quattro semplici fasi: sentire le necessità o i problemi; immaginare nuove soluzioni; agire e costruire il cambiamento; condividere la propria storia per contagiare e ispirare più persone possibili. L’obiettivo è quello di realizzare una catena mondiale di bambini, ragazzi, giovani e cambiare, passo dopo passo, il mondo. Per farlo, si mettono in gioco quattro competenze basilari (le quattro C): pensiero critico, creatività, collaborazione, comunicazione.

Per approfondire: https://ioposso.fidae.it/