Quale sinergia tra scuola e comunità cristiana?

Si terrà a Roma martedì 20 novembre 2018 il seminario di studio su iniziazione cristiana, scuola e insegnamento della religione cattolica dal titolo “Generare alla vita e alla fede. Quale sinergia tra scuola e comunità cristiana”.
L’incontro è organizzato da tre uffici della Conferenza Episcopale Italiana: l’Ufficio catechistico nazionale, l’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e il Servizio nazionale per l’insegnamento della religione cattolica. Alla riunione parteciperanno diversi invitati scelti dagli uffici organizzatori. Molti di loro uniscono al lavoro nella scuola il servizio nella catechesi in parrocchia.
Aprirà i lavori la preghiera presieduta da S.E. Mons. Stefano Russo, Segretario Generale della CEI.
La relazione della mattinata, che sarà affidata al prof. Pierpaolo Triani, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, avrà per titolo “Cosa sarà di questo bambino? (Luca 1,57-66.80). le opportunità e problematiche nel rapporto tra scuola e comunità cristiana”, mentre nel pomeriggio ci si confronterà a partire dalle esperienze di alcuni insegnanti di religione che sono anche catechisti. Sul tema “Lo racconteremo ai nostri figli. Iniziazione Cristiana e IRC: dalla separazione alla sinergia” interverranno infatti Elena Lauricella della diocesi di Agrigento e suor Ginevra Rossi della diocesi di Aosta. La sintesi dei lavori sarà curata da fratel Enzo Biemmi.
 
ALLEGATI

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Daniele 12,1-3

 

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.  

      

 

  • La struttura dei 14 capitoli del libro di Daniele, a cui appartiene il brano della prima lettura, è molto semplice. Si tratta infatti di un libro nel quale prevale l’elemento narrativo, composto dal racconto delle vicende di Daniele alla corte del re Nabucodonosor (cap. 1-6), dalla descrizione delle sue visioni (capp. 7-12) e da tre episodi molto noti (il caso di Susanna, la confutazione dei sacerdoti del Dio Bel e l’uccisione del Drago-idolo: capp. 13-14). Più complesso è invece il modo con cui questo libro biblico trasmette il suo messaggio. Gli esegeti infatti collocano il libro di Daniele al culmine di quella produzione letteraria che nel Giudaismo è conosciuta come letteratura apocalittica. Questo genere letterario è stato molto utilizzato dagli autori dei testi apocrifici (quelli non accettati nel canone biblico): le loro immagini, le loro speculazioni sui numeri, le descrizioni di grandi bestie e di angeli, i segni

    premonitori della fine del mondo sono stati utilizzati (ma molto più sobriamente) anche dagli autori di alcuni libri biblici o di parti di essi (Daniele, parti di Is, Ez, Zc, Apocalisse).

         Il contenuto dell’apocalittica è racchiuso nel significato stesso di questo termine, che in greco significa «rivelazione». Al popolo biblico (e nel NT alla comunità cristiana) che si sente sfiduciato e che sta per cedere alla tentazione di sentirsi definitivamente abbandonato dal suo Dio, l’autore sacro assicura la «rivelazione» di Dio attraverso visioni, sogni, immagini e simboli che il destinatario sa comprendere e interpretare (a differenza della difficoltà che incontriamo noi oggi). L’angoscia dei tempi di persecuzione (sia per il popolo biblico che per i cristiani) favoriva l’utilizzazione del genere letterario dell’apocalittica; esso solo permetteva di proiettare l’attuale situazione di sofferenza nella vittoria definitiva che Dio avrebbe saputo riportare sul male e sui persecutori del suo popolo. Il momento dell’angoscia e della persecuzione veniva così considerato come via alla definitiva vittoria di Dio e dei buoni.

         In questo contesto va letto anche il brano della prima lettura. «Il tempo di angoscia» va compreso alla luce della riflessione che l’apocalittica fa sul momento presente della persecuzione: esso è preludio alla vittoria di Dio e del bene, non alla sconfitta e all’annullamento del suo popolo. «Si troverà scritto nel libro» è l’immagine biblica che rasserena l’uomo: egli fa parte del progetto di Dio («il libro»), un progetto buono e destinato a realizzarsi nel bene; perciò l’uomo non deve temere né il fallimento né l’abbandono. «Michele» è uno degli angeli che l’apocalittica colloca a protezione delle nazioni. Secondo l’angelologia giudaica ogni nazione ha un angelo protettore, descritto spesso come «capo» o «principe» o «comandante» di eserciti celesti (cf. Dan 10,13).

         «Vita eterna e l’infamia eterna» esplicitano la condizione dell’uomo davanti a Dio, dopo la risurrezione, a seconda del ruolo che ciascuno ha rivestito nella vita presente. Il momento della persecuzione sembra dar ragione ai più forti e alle potenze del male e sembra porre fine a tutto ciò in cui il popolo biblico ha sempre creduto. La «rivoluzione» che Dio fa al suo popolo è che la vera sorte e il vero destino dell’uomo sono definiti da Lui nell’aldilà e non nell’alternarsi continuo delle vicende di questo mondo.

 

Seconda lettura: Ebrei 10,11-14.18

 

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

 

 

  • La lettera agli Ebrei propone il tema del sacerdozio di Cristo, un tema che non viene trattato esplicitamente nei Vangeli. Nell’esporre la sua riflessione, l’autore di questa lunga «omelia» (come viene definita la Lettera agli Ebrei) si sofferma ora sul confronto tra il sacerdozio dell’AT e quello di Gesù, evidenziandone le differenze. Il primo era ereditario nell’ebraismo, infatti, la carica di sommo sacerdote (almeno fino ai tempi di Erode il Grande) era a vita e veniva trasmessa ai discendenti. Inoltre ad esso poteva accedere solo chi apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi. Nel NT, invece, il sacerdozio costituisce uno speciale rapporto tra il credente e Gesù, una particolare chiamata, una risposta radicale alla sua sequela, cioè una vocazione.

         I sacerdoti dell’AT ripetevano ogni giorno e ogni anno gli stessi sacrifici e le stesse feste, senza tuttavia ottenere la salvezza e il perdono definitivo («Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati»). Il sacrificio di Gesù, invece, è definitivo ed esaustivo: con l’offerta di se stesso al Padre sulla croce ha ottenuto «una volta per sempre» la salvezza per tutta l’umanità.

         L’espressione «si è assiso per sempre alla destra di Dio» (che ricalca il Salmo 110 messianico-sacerdotale) sottolinea l’unicità («una volta per sempre») e la definitività del sacerdozio di Cristo; l’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera «sacerdotale» è stata perfetta e non ha bisogno di essere ulteriormente completata con ripetizioni di riti e sacrifici, come invece avveniva nel sacerdozio levitico.

         Fondamentalmente il sacerdozio di Cristo consiste nell’aver egli sempre compiuto la volontà del Padre e nell’essersi offerto a lui nella totale disponibilità del suo essere (come le vittime sacrificate), fino ad accogliere docilmente la croce per la salvezza definitiva dell’umanità.

 

Vangelo: Marco 13,24-32

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

   

 

Esegesi

 

     Il brano evangelico contiene la conclusione del «discorso escatologico» di Gesù. In questo discorso sugli «ultimi avvenimenti» (come significa in greco il termine éscathon) si intrecciano e si sovrappongono vari elementi: la descrizione della distruzione del tempio di Gerusalemme la descrizione della fine del mondo, l’esortazione alla vigilanza e il ricorso ad alcuni temi cari al genere letterario dell’apocalittica. Gli studiosi hanno cercato di collocare in un certo ordine tutto questo complesso materiale e di interpretarlo per una migliore comprensione del messaggio che l’evangelista vuole comunicare al lettore (cf. J. Dupont, La distruzione del tempio e la fine del mondo. Studi sul discorso di Mc 13, Ed. Paoline, Roma 1979, pp. 44-54).

     Questo messaggio è profondamente radicato nella Bibbia e nella persona di Gesù. La Bibbia annuncia in ogni sua pagina l’avvento del Regno di Dio e Gesù realizza nella sua persona e nella sua vita questa promessa. Il nostro brano utilizza le immagini del genere letterario dell’apocalittica («in quel giorno», «quella tribolazione», «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi», «il sole si oscurerà»), ma il contenuto e totalmente aperto alla salvezza portata da Gesù e alla sua presenza nel mondo, da Lui amato e salvato (a differenza delle immagini apocalittiche che lo vedono destinato alla catastrofe).                           

     Questa salvezza è stata possibile grazie all’incarnazione di Gesù e alla sua obbedienza al Padre, accettata fino alle estreme conseguenze, compresa l’esclusione dalla sua rivelazione di quanto in essa non rientrava (la conoscenza e la divulgazione del momento preciso della fine del mondo). Anche il cristiano deve rinunciare a calcoli cronologici, ma deve spendere ogni giorno della sua vita aderendo alle parole e al vangelo di Gesù, che realizzano la promessa biblica del Regno di Dio, «vicino» ad ogni generazione che si succede.

 

Meditazione

 

Ci stiamo ormai avviando verso la conclusione dell’anno liturgico. Il brano del Vangelo che viene annunciato in questa domenica fa parte del «discorso escatologico» («delle realtà ultime»), che in Marco com­prende tutto il capitolo 13 (è il discorso più lungo riportato dal secon­do evangelista). Gesù è appena uscito dal tempio, dove ha fatto l’elogio di una povera vedova che ha gettato nel tesoro tutto quanto aveva per vivere, e si sta dirigendo verso il monte degli ulivi da dove si può ammi­rare lo splendore del tempio. I discepoli, guardando questa incredibile costruzione, ne restano colpiti, e uno di loro dice a Gesù: «Maestro, guarda che pietre e che costruzione!». Ed in effetti si trattava di un complesso architettonico che suscitava le meraviglie di chiunque lo avesse veduto. Nello stesso Talmud si legge: «Chi non ha visto ultimato il santuario in tutta la sua magnificenza, non sa cosa sia la sontuosità di un edificio» (Sukka 51b). Gesù, quasi interrompendo le affermazioni di meraviglia del discepolo, dice a tutti che di quella costruzione non sarebbe rimasta pietra su pietra. I discepoli, al sentire queste parole, restano ovviamente stupiti e increduli. I tre più intimi, cui si aggiunge Andrea, subito chiedono quando tale disastro dovrebbe accadere. E Gesù risponde con un lungo discorso nel quale descrive gli avvenimen­ti degli «ultimi giorni». Il brano evangelico che è stato annunciato in questa domenica (Mc 13, 24-32) riporta il punto culminante del discor­so. Gesù, dopo aver parlato della «grande tribolazione» di Gerusalemme, annuncia che seguiranno sconvolgimenti cosmici: «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le poten­ze che sono nei cieli saranno sconvolte». E aggiunge: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».

Il testo evangelico suggerisce che il «Figlio dell’uomo» non viene nella stanchezza delle nostre abitudini, e neppure si inserisce nel natu­rale sviluppo delle cose. Quando egli verrà porterà un cambiamento radicale sia nella vita degli uomini che nella stessa creazione. Per espri­mere questa trasformazione profonda — una sorta di violenta interruzione della storia — Gesù riprende il linguaggio tipico della tradizione apocalittica allora molto diffusa, e parla di crollo cosmico, di scardinamento del sistema planetario. Già il profeta Daniele aveva preannuncia­to: «Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popo­lo, chiunque si troverà scritto nel libro». I testi della Scrittura non aval­lano, però, una sorta di «teoria della catastrofe», secondo la quale deve esserci prima l’inabissarsi del mondo in un completo fallimento per poter quindi attendere finalmente Dio che volgerà al bene ogni cosa. No, Dio non arriva alla fine, quando tutto è perduto; Egli non rinnega la sua creazione, che è stata creata tutta buona (cfr. Gn 1); nel libro dell’Apocalisse, infatti, leggiamo: «Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà esistevano e furono create» (4,11). La Scrittura, in tutte le sue pagine, esorta piuttosto ad operare (e ad invocare) per l’instaura­zione di una creazione nuova secondo l’immagine della città futura descrittaci nelle pagine finali dell’Apocalisse: «Vidi un cielo nuovo e una terra nuova; il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (21,1-2). Lo sconvolgimento del creato, che ci sarà, è finalizzato appunto all’instaurazione di questa «Gerusalemme» ove tutti i popoli della terra saranno radunati come in un’unica grande famiglia. Se del tempio che vedevano gli apostoli non sarebbe rimasta pietra su pietra è perché nella futura Gerusalemme non ci sarà più un tempio, appun­to come sta scritto: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’On­nipotente e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21, 22).

Gesù parla di «ultimi giorni», ma dice anche che tali rivolgimenti avverranno in «questa generazione», ossia nel tempo che coinvolgeva i suoi ascoltatori. Del resto era la stessa presenza di Gesù a realizzare lo sconvolgimento del corso normale della vita del mondo; basti pensare a quanto accadeva con la sua predicazione e a quanto accadde con la sua resurrezione. L’irruzione del «Figlio dell’uomo» era ormai avvenu­ta e sarebbe continuata per tutte le generazioni che si sarebbero succe­dute lungo la storia. Il «giorno del Signore», prefigurato da Daniele e dagli altri profeti, irrompe in ogni generazione, anzi in ogni giorno della storia (è questo il vero senso della scansione degli anni in prima e dopo Cristo). E suggestiva l’espressione usata da Gesù sulla prossimi­tà degli «ultimi giorni». Egli dice: «sappiate che egli è vicino, è alle porte». Questa immagine è usata anche altre volte dalle Scritture per esortare i credenti ad essere pronti per accogliere il Signore che passa. «Ecco, il giudice è alle porte», scrive Giacomo nella sua lettera (5,9). E l’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Alle porte di ogni giornata della nostra vita c’è il Signore che bussa, c’è il «giorno ultimo» che attende di essere accolto, c’è il giudizio di Dio che intende trasformare il tempo che già ora viviamo.

La «fine del mondo» deve avvenire ogni giorno; ogni giorno dobbia­mo far finire un piccolo o un grande pezzo del mondo cattivo e malva­gio che, non Dio, ma gli uomini costruiscono. Del resto i giorni che passano finiscono inesorabilmente; di essi non resta più nulla se non il loro bagaglio di bene o, purtroppo, di male che noi realizziamo. La Scrittura ci invita ad avere davanti agli occhi questo futuro verso cui siamo diretti: la fine del mondo non è la catastrofe, ma l’instaurazione della città santa che scende dal cielo. Si tratta di una città, ossia di una realtà concreta non astratta che raccoglie tutti i popoli attorno al loro Signore. Questo è il fine (e, in certo modo, anche la fine) della storia. Ma questa città santa deve essere seminata già da ora nei nostri giorni, perché possa crescere e trasformare la vita degli uomini a sua immagi­ne. Non si tratta di un innesto automatico e facile. Gesù parla anche di opposizioni e persino di tradimenti, insomma di un cammino che richiede vigilanza, attenzione e anche lotta. E tuttavia non manca di assicurare i suoi della sua protezione. Dice loro: «nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime». Del resto ogni generazione cristiana deve percorrere la via trac­ciata dal Maestro. C’è quindi una fatica quotidiana che ogni credente deve compiere per costruire il mondo nuovo che Gesù è venuto ad iniziare. Ma la perseveranza nell’ascolto del Signore e nella sua sequela sono la garanzia della salvezza. Ricordando quanto Gesù ha detto: «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

 

L’immagine della domenica

  
 

Notte che mi guidasti,

oh, notte più dell’alba compiacente!

Oh, notte che riunisti

L’Amato con l’amata,

amata nell’Amato trasformata!

(Giovanni della Croce)


Preghiere e racconti

Una scheggia di luce

Fin dai primordi della civiltà marinara l’uomo ha imparato a fare dei grandi fuochi sulla costa, per aiutare i naviganti a orizzontarsi nella notte.

Ai fuochi, sono succeduti i fari e, anche se ormai siamo nell’epoca dei satelliti, la maggior parte dei fari continua fedelmente a fare il suo lavoro.

Da bambina rimanevo incantata per ore a guardare il fascio di luce che il grande faro di Barcola proiettava nel golfo antistante.

La sua regolarità era quasi ipnotica.

C’era il buio, e poi subito dopo quella striscia di luce che sferzava la notte con regolare fermezza, come se avesse voluto tagliarla a spicchi. Una volta ho voluto persino andare a visitarlo, ma dato che era giorno è stata una delusione. Senza le lanterne e il buio intorno, non era altro che una torre molta alta.

Che cos’altro sono i sacramenti, se non la luce che irrompe nella notte e ci permette di ritrovare la rotta che ci conduce in porto?

E che cos’è questa luce, se non il respiro dell’Eterno che, per un istante, irrompe nel tempo? Credevamo che tutto fosse qui invece, a un tratto, scopriamo che c’è una realtà che ci trascende, che precede la nostra esistenza e la segue.

E questa realtà ci parla del divino che c’è in noi. In fondo al grigiore dei giorni, una scheggi di luce splendente.

Invece di lasciarla, in cantina, a coprirsi di polvere, decidiamo di prenderci cura di lei, di lustrarla come faceva Aladino con la sua lampada. Non ne uscirà un Genio obbediente, ma qualcosa di più bello e di più grande.

Di più sorprendente.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015, 182-183).

 

Ogni giorno un mondo nasce e uno muore

Un Vangelo sulla crisi e insieme sulla speranza, che non intende incutere paura (non è mai secondo il vangelo il volto di un Dio che incute paura), che vuole profetizzare non la fine, ma il fine, il significato del mondo.

La prima verità è che l’universo è fragile nella sua grande bellezza: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo… Eppure non è questa l’ultima verità: se ogni giorno c’è un mondo che muore, ogni giorno c’è anche un mondo che nasce. «E si va di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi» (Gregorio di Nissa).

Quante volte si è spento il sole, quante volte le stelle sono cadute a grappoli dal nostro cielo, lasciandoci vuoti, poveri, senza sogni: una disgrazia, una malattia, la morte di una persona cara, una sconfitta nell’amore, un tradimento. Fu necessario ripartire, un’infinita pazienza di ricominciare. Guardare oltre l’inverno, credere nell’estate che inizia con il quasi niente, una gemma su un ramo, la prima fogliolina di fico, «nella speranza che viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa» (Paul Ricoeur).

Gesù educa alla speranza, a intuire dentro la fragilità della storia come le doglie di un parto, come un uscire dalla notte alla luce. Quanto morir perché la vita nasca (Clemente Rebora). Ben vengano allora certe scosse di primavera a smantellare ciò che merita di essere cancellato, anche nella istituzione ecclesiastica. E si ricostruirà, facendo leva su due punti di forza.

Il primo: quando vedrete accadere queste cose sappiate che Egli è vicino, il Signore è alle porte. La nostra forza è un Dio vicino, «la sua strada passa ancora sul mare, anche se non ne vediamo le tracce» (Salmo 77,20). La nostra nave non è in ansia per la rotta, perché sente su di sé il suo Vento di vita.

Il secondo punto di forza è la nostra stessa fragilità. Per la sua fragilità l’uomo, tanto fragile da aver sempre bisogno degli altri, cerca appoggi e legami. Ed è appoggiando una fragilità sull’altra che sosteniamo il mondo. Dio è dentro la nostra fragile ricerca di legami, viene attraverso le persone che amiamo. «Ogni carne è intrisa d’anima e umida di Dio» (Bastaire).

Il Vangelo parla di stelle che cadono. Ma il profeta Daniele alza lo sguardo: i saggi risplenderanno, i giusti saranno come stelle per sempre, il cielo dell’umanità non sarà mai vuoto e nero, uomini giusti e santi si accendono su tutta la terra, salgono nella casa delle luci, illuminano i passi di molti. Sono uomini e donne assetati di giustizia, di pace, di bellezza. E sono molti, sono come stelle nel cielo. E tutti insieme foglioline di primavera, del futuro buono che viene.

(Ermes Ronchi)

 

Vivere l’attesa del Signore

Prima lettura e vangelo contengono un messaggio escatologico: Daniele annuncia il tempo della resurrezione e il vangelo l’evento della venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. In entrambi i testi l’evento annunciato è al contempo di giudizio e di salvezza. L’escatologia, con al suo centro la venuta del Signore nella gloria, è dimensione che presenta difficoltà notevoli per una sua traduzione in termini di vita spirituale e anche di annuncio e di predicazione. Ora, la venuta gloriosa è anzitutto una parola in cui Gesù impegna se stesso (“Le mie parole non passeranno”: Mc 13,31), è una promessa del Signore che chiede fiducia al credente.

La Bibbia cristiana termina con la promessa del Signore “Sì, vengo presto” (Ap 22,20) che, mentre chiude il libro, apre la storia dei cristiani nel mondo alla speranza e al futuro. Inoltre l’annuncio della venuta del Signore è parte integrante del mistero cristologico: Cristo è già venuto nella storia nel passato, ma verrà anche nel futuro alla fine della storia; è il Verbo che ha presieduto la creazione nell’“in principio” e il Veniente che sigillerà la nuova creazione escatologica.

Il Christus totus è anche il Cristo che verrà: la venuta finale è pertanto istanza perenne di giudizio della chiesa. Il Veniente è il Signore della chiesa. Dire che “il Signore verrà nella gloria” significa affermare la signoria di Cristo sulla storia e sul tempo. La venuta del Signore non porta con sé lo scacco del mondo, ma il suo futuro: mentre annuncia una fine instaura un fine. Il Dio rivelato da Gesù Cristo è il futuro, non il fallimento del mondo.

Il vangelo sottolinea che l’annuncio della venuta del Signore non aliena il credente dall’oggi, anzi gli chiede capacità di aderire al presente, anzi alla terra in cui vive, e di amarla. Una delle parole di Gesù più dense di tenerezza e di attenzione al reale è il detto che segue l’annuncio dei fenomeni cosmici che accompagneranno la venuta del Figlio dell’uomo: “Dal fico imparate la parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina” (v. 28).

Solo chi sa osservare realmente i rami del fico e coglie il momento in cui essi mettono i nuovi germogli può esprimersi così. Solo chi ama la terra, questa terra, può credere la nuova terra della promessa. Mentre annuncia l’evento escatologico, Gesù chiede all’uomo di mettersi alla scuola dell’albero del fico e, con esso, di tutta la natura colta come parabola della storia di Dio con il mondo. La fedeltà alla terra è la condizione per credere e attendere la venuta gloriosa del Signore.

La venuta è annunciata come certa, ma il suo momento è incerto (v. 32): il credente può dunque assumerla spiritualmente nello spazio di un’attesa che si declina come resistenza (cioè forza nelle avversità e nelle tribolazioni della storia: Mc 13,24 e i vv. precedenti), come pazienza (cioè capacità di vivere l’incompiutezza del quotidiano), come perseveranza (cioè rifiuto di apostatare nei tempi bui), come fede che crede le cose invisibili più salde e sicure di quelle visibili (cf. 2Cor 4,17-18). “Beato chi attenderà con pazienza” (Dn 12,12).

Lo sconvolgimento delle realtà celesti (cf. Mc 13,24-25) dice che è in atto un evento divino, ma sole e luna, astri e potenze celesti erano anche, nel pantheon degli antichi romani (e Marco scrive a cristiani di Roma) entità divinizzate. Qui non vi è solo la fine del mondo, ma la fine di un mondo, il crollo del mondo degli dèi pagani detronizzati dal Figlio dell’uomo.

E se si afferma che la fine dell’idolatria si compirà con il Regno di Dio instaurato dalla venuta del Signore, si insinua anche che la prassi dei cristiani nel mondo può costituire un segno del regnare di Dio grazie alla vigilanza per non far regnare su di sé gli idoli. Probabilmente, molti destinatari romani del vangelo prima della conversione erano adoratori di questi idoli. Annunciando la sua venuta gloriosa, Gesù chiede dunque ai cristiani, come gesto profetico, la conversione. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione.

(Luciano Manicardi)

 

Dopo l’11 settembre

Il paradosso del nostro tempo nella storia è che

abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse,

autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.

Spendiamo di più, ma abbiamo meno,

comperiamo di più, ma godiamo meno.

Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole,

più comodità, ma meno tempo.

 Più conoscenza, ma meno giudizio,

più esperti, e ancor più problemi,

più medicine, ma meno benessere.

 Beviamo troppo, fumiamo troppo,

spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco,

guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo,

facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi,

vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.

 Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà,

ma ridotto i nostri valori.

Parliamo troppo, amiamo troppo poco

e odiamo troppo spesso.

 Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere,

ma non come vivere.

Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.

 Siamo andati e tornati dalla Luna,

ma non riusciamo ad attraversare la strada

per incontrare un nuovo vicino di casa.

Abbiamo conquistato lo spazio esterno,

ma non lo spazio interno.

 Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.

Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.

Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.

Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.

Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.

 Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni,

per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.

Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta,

grandi uomini e piccoli caratteri,

ricchi profitti e povere relazioni.

 Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi,

case più belle ma famiglie distrutte.

Questi sono i tempi dei viaggi veloci,

dei pannolini usa e getta,

della moralità a perdere,

delle relazioni di una notte,

dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto,

dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.

 E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina

e niente in magazzino.

Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera,

e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri,

o di cancellarle.

 Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora,

perché non saranno con te per sempre.

Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno

che ti guarda dal basso in soggezione,

perché quella piccola persona presto crescerà

e lascerà il tuo fianco.

 Ricordati di dare un caloroso abbraccio

alla persona che ti sta a fianco,

perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore

e non costa nulla.

 Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari,

ma soprattutto pensalo.

Un bacio e un abbraccio possono curare ferite

che vengono dal profondo dell’anima.

Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti,

perché un giorno quella persona non sarà più lì.

 Dedica tempo all’amore,

dedica tempo alla conversazione,

e dedica tempo per condividerei pensieri preziosi della tua mente.

 E ricorda sempre:

la vita non si misura da quanti respiri facciamo,

ma dai momenti che ci tolgono il respiro.

(George Carlin).

 

Le due venute

Noi annunciamo non solo una, ma due venute di Cristo, la seconda molto più risplendente della prima. La prima si compì sotto il segno della pazienza, la seconda porta la corona del regno regale. Per lo più, infatti, il Signore nostro Gesù Cristo si manifesta in duplice modo: in due nascite, una da Dio prima dei secoli e una dalla Vergine al compimento dei secoli; in due discese, una nel nascondimento come pioggia sul vello (cfr. Sal 71 [72] ,6) e una che alla fine sarà manifesta; in due venute: nella prima, avvolto in fasce dentro la stalla e, nella seconda, avvolto da un manto di luce (cfr. Lc 2,7; Sal 103 [104] ,2); nella prima, sottoposto all’umiliazione della croce che non giudicò vergognosa e, nella seconda, scortato da schiere angeliche nella gloria. Crediamo fermamente, dunque, non solo alla prima venuta, ma attendiamo anche la seconda. Se nella prima abbiamo detto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21,9), nella seconda ripeteremo di nuovo le stesse parole e così correndo incontro al Signore insieme agli angeli, prostrandoci diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23,39). Il Salvatore verrà di nuovo non per essere giudicato, ma per giudicare quelli che l’hanno giudicato. […] Viene il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli, viene nella gloria nell’ultimo giorno; vi sarà infatti la fine di questo mondo e sarà creato un mondo nuovo. Sarà rinnovata la terra sommersa da corru-zioni, furti, adulteri e ogni genere di peccati, il mondo bagnato di sangue misto a sangue (cfr. Os 4,1), perché questa meravigliosa dimora dell’uomo non resti colma di iniquità. Questo mondo possa perché ne appaia uno migliore. […] Passeranno le cose che ora vediamo e verranno quelle migliori che attendiamo, ma nessuno pretenda di sapere quando. Sta scritto: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7). Non devi temerariamente pretendere di sapere che cosa accadrà dopo, né supinamente adagiarti nel sonno. Sta scritto: «Vegliate perché nell’ora in cui non l’aspettate verrà il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42.44).

(CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi 15,1.3-4, PG 33.869A-B; 872C-873; 876A).

 

La biblioteca di Dio

Credo che in qualche punto dell’universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell’uomo. Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.

(Isaac Bashevis Singer).

 

Trova il tempo

Trova il tempo di pensare;

trova il tempo di pregare;

trova il tempo di ridere.

È la fonte del potere;

è il più grande potere sulla terra;

è la musica dell’anima.

Trova il tempo per giocare;

trova il tempo per amare ed essere amato;

trova il tempo di dare.

È il segreto dell’eterna giovinezza;

è il privilegio dato da Dio;

la giornata è troppo corta per essere egoisti.

 Trova il tempo di leggere;

trova il tempo di essere amico;

trova il tempo di lavorare.

 È la fonte della saggezza;

è la strada della felicità;

è il prezzo del successo.

 Trova il tempo di fare la carità;

è la chiave del Paradiso.

(poesia scritta sul muro della Casa dei bambini di Calcutta).

 

Insegnami ad usare bene il tempo

Dio mio,

insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai

e ad impiegarlo bene,

senza sciuparne.

Insegnami a prevedere senza tormentarmi,

insegnami a trarre profitto dagli errori passati,

senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.

Insegnami ad immaginare l’avvenire senza disperarmi

che non possa essere quale io l’immagino.

Insegnami a piangere sulle mie colpe senza cadere nell’inquietudine.

Insegnami ad agire senza fretta,

e ad affrettarmi senza precipitazione.

Insegnami ad unire la fretta alla lentezza,

la serenita’ al fervore, lo zelo alla pace.

Aiutami quando comincio,

perche’ e’ proprio allora che io sono debole.

Veglia sulla mia attenzione quando lavoro,

e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.

Fa’ che io ami il tempo che tanto assomiglia alla Tua grazia

perche’ esso porta tutte le opere alla loro fine e alla loro perfezione

senza che noi abbiamo l’impressione di parteciparvi in qualche modo.

(Jean Guitton)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIII DOM TEMP ORD ANNO B

 

GMCS 2019: “Dalle community alle comunità”

Questo il tema che il Santo Padre Francesco ha scelto per la 53Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che si celebra nel 2019: «Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). Dalle community alle comunità.  Il tema sottolinea l’importanza di restituire alla comunicazione una prospettiva ampia, fondata sulla persona, e pone l’accento sul valore dell’interazione intesa sempre come dialogo e come opportunità di incontro con l’altro. Si sollecita così una riflessione sullo stato attuale e sulla natura delle relazioni in Internet per ripartire dall’idea di comunità come rete fra le persone nella loro interezza. Alcune delle tendenze prevalenti nel cosiddetto social web ci pongono infatti di fronte a una domanda fondamentale: fino a che punto si può parlare di vera comunità di fronte alle logiche che caratterizzano alcune community nei social network? La metafora della rete come comunità solidale implica la costruzione di un “noi”, fondato sull’ascolto dell’altro, sul dialogo e conseguentemente sull’uso responsabile del linguaggio.

Già nel suo primo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali, nel 2014, Il Santo Padre aveva fatto un appello affinché Internet sia “un luogo ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone umane”. La scelta del tema del Messaggio del 2019 conferma l’attenzione di Papa Francesco per i nuovi ambienti comunicativi e, in particolare, per le Reti Sociali dove il Pontefice è presente in prima persona con l’account @Pontifex su Twitter e il profilo @Franciscus su Instagram.

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:1Re 17,10-16

In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.

 

 

v Dopo l’annuncio della siccità (v. 1) e la chiamata da parte di Dio con il ritiro al torrente Cherit (vv. 2-7), ora Elia deve spostarsi a Sarepta, circa 15 km a sud di Sidone, sulla costa fenicia, terra dalla quale proveniva Gezabele, nemica dichiarata di JHWH e dunque di Elia stesso. In quel territorio Elia non si trova più sotto la giurisdizione di Acab. L’ordine può essere stato dato da Dio a motivo della persecuzione, che ormai potrebbe essere aperta (cf. 18,10). Proprio una vedova, che già per il suo stato sociale era condannata agli stenti, viene individuata come sostegno del profeta. Umanamente questo è paradossale, ma è sempre Dio a garantire la vita al di là delle umane risorse e aspettative.

     Nell’antico vicino oriente le vedove erano riconoscibili per l’abito da lutto che esse indossavano, segno permanente della loro incompletezza dopo la perdita dello sposo (cf. Gn 38,13; Gdt 10,3). Entrato in città, Elia ne scorge una che raccoglie la legna destinata a cuocere le ultime poche risorse che sono rimaste per lei e suo figlio: un pugno di farina e una goccia d’olio. La vedova a cui Elia è inviato è sul lastrico, rassegnata ormai alla morte e alla cui alternativa non vede esonerato neanche il proprio figlio.

     La donna esaudisce prontamente il desiderio di Elia in merito alla sete, come del resto prevede il grande senso di ospitalità orientale, ma recrimina per la richiesta di cibo. Il fatto che la donna invochi JHWH nella sua risposta ad Elia può dipendere dal fatto di avere riconosciuto in lui un ebreo sia per l’abbigliamento che per la pronuncia. Secondo l’uso orientale la donna giura per la divinità dell’ospite. Il giuramento rivela che quanto viene asserito dalla donna è vero ed importante.

     Alla comprensibile protesta della donna Elia risponde non trascurando i suoi legittimi bisogni, ma invitandola a farli precedere da un atto di fede attraverso l’oracolo che egli pronuncia. Il contenuto delle parole di Elia non sono semplicemente un rovesciamento di prospettiva di futuro che aveva la vedova, la quale si sentiva ormai alla fine, ma anche una indicazione chiara di colui che offrirà la soluzione. L’oracolo profetico è chiaramente forgiato sulla fede monoteista israelitica secondo la quale JHWH è l’unico Signore del creato dal quale la pioggia dipende. Vi è qui un chiaro atteggiamento polemico verso il culto forestiero di cui Gezabele era promotrice e che riconosceva in Baal il dio della fecondità, manifestata appunto nei riguardi della terra con la pioggia.

     Colui che regola i cicli naturali, che detiene il controllo delle riserve celesti (Gb 38,22-30) ha certamente potere anche sulla dispensa della vedova. Essa si fida della parola di Elia e il miracolo si compie. Attraverso il suo profeta Dio stesso si è presentato a quella diseredata non per toglierle il poco che le era rimasto, ma per aggiungere vita e speranza.

     A causa di questo episodio Elia viene considerato nella pietà giudaica il patrono dei casi impossibili.

 

Seconda lettura: Ebrei 9,24-28

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.

 

 

v Già il v. 11 del nostro capitolo aveva parlato del santuario non fatto da mani di uomo. Ora, riprendendo la liturgia del giorno dell’espiazione, si parla ancora del rapporto simbolico che intercorre tra il tempio di Gerusalemme, imponente costruzione umana, e il santuario celeste. In 8,2 l’autore aveva già trattato di questo simbolo molto lontano dalla realtà che esso rappresenta, dal momento che il vero santuario in cui Cristo è entrato è il cielo stesso. Lì Gesù si trova direttamente di fronte al Padre e diventa il nostro avvocato, come veniva ricordato nel passaggio della scorsa domenica in 7,25.

     Ritornando alla liturgia dello jom kippur, cioè del giorno della espiazione, Gesù viene paragonato al sommo sacerdote, ma per istituire un contrasto. Mentre il primo doveva annualmente «comparire», in modo solenne per indicare l’entrata del gran sacerdote nella parte più sacra del tempio, il santo dei santi, per Gesù non è così. Egli non ha bisogno di reiterare la sua offerta, perché per la purificazione dal peccato non si serve del sangue di terzi, che nel caso del sommo sacerdote era addirittura di animale, sangue di cui idealmente veniva rivestito e dal quale veniva protetto nel suo accesso al Santo dei santi; sangue che non era in grado di purificare dai peccati. Per questo il sacrificio, anche se svolto con la maggiore solennità, aveva una scadenza annuale che già in se stessa era dichiarazione di limitatezza.

     Il v. 26 si apre con un ragionamento che procede per assurdo, per condurre alla comprensione della efficacia di quanto è stato compiuto da Cristo. Se fossero valsi per Lui i criteri che regolavano l’espiazione nell’antico culto, egli avrebbe dovuto accompagnare tutta la storia umana, fin dalle sue origini, con il sacrificio. Infatti la storia degli uomini è storia di peccatori e di miserie. Al contrario, una sola volta, nella pienezza dei tempi, cioè nel momento stabilito dal Padre, Gesù è «apparso» prima nel tempo, dimensione in cui si commettono i peccati, e, dopo aver consumato in esso il sacrificio di se stesso, è «apparso» nel santuario celeste rivestito del proprio sangue che lo qualifica come efficace espiatore ed intercessore. È pertanto sul sangue stesso di Gesù che si basa l’assoluta validità del suo sacrificio e dunque la sua non reiterabilità.

     Nei vv. 27-28 vi è un nuovo confronto tra Gesù e l’esperienza umana. Per l’uomo dopo la morte viene il giudizio, per Gesù invece vi sarà una seconda «apparizione». Il tratto più interessante di questi versetti è il modo in cui viene presentata la parusia, perché certamente di essa parla l’autore quando dice che Cristo «apparirà una seconda volta». Il ritorno finale viene descritto rifacendosi ancora alla liturgia del giorno della espiazione. Quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi tutto il popolo rimaneva fuori in attesa di lui che uscendo avrebbe portato il perdono divino. Così nel suo ritorno finale Cristo uscirà come vero sommo ed eterno sacerdote dal santuario celeste per portare la salvezza a coloro che lo attendono. Prevale qui un aspetto positivo della venuta finale descritta come il compimento dell’attesa della sospirata, completa assoluzione.

 

Vangelo: Marco 12,38-44

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

    

 

Esegesi

     Il brano evangelico è diviso in due sezioni. La prima è costituita dai vv. 38-40 che contengono l’ultimo insegnamento impartito da Gesù nel capitolo 12 di Marco. La seconda, introdotta da un cambiamento di luogo, occupa i vv. 41-44 con la vedova additata ad esempio di vera pietà. Uno sguardo d’insieme alla tradizione sinottica ci avvertirebbe che l’atteggiamento polemico di Gesù verso gli scribi fu forte e non raro; basterebbe ricordare il capitolo 23 di Matteo. La comunità primitiva si preoccupò subito di conservare memoria degli insegnamenti di Gesù in questa materia per ricavare anche da essi uno stile nuovo di vita al suo interno. Il vangelo di Marco ha conservato poco materiale a questo proposito, e la parte che ci tocca leggere in questa domenica è la più polemica. Gli scribi vengono presi di mira a causa della loro preoccupazione per l’esteriorità. Probabilmente la loro condizione di studiosi e di esperti del testo sacro era manifestata nell’abbigliamento da un mantello apposito che essi si ponevano sulle spalle. Altri segni di distinzione ai quali erano particolarmente attaccati erano gli atti di omaggio e di riguardo che venivano loro riservati in pubblico, innanzitutto nelle piazze, dove un gran numero di persone potevano assistere agli atti di deferenza che ricevevano. Anche nelle case private, in occasione di banchetti, e persino nei luoghi di culto, le sinagoghe, desideravano essere in rilievo occupando i primi posti. L’ultima apostrofe che Gesù riserva loro riguarda la vita di pietà vissuta in pubblico come atto di esibizionismo religioso.

     Staccata dal piano esteriore è la loro avidità che prende di mira le persone meno tutelate: le vedove. Professionalmente gli scribi offrivano la loro consulenza in materia legale, il che equivaleva in una società e cultura come quella giudaica, ad una competenza religiosa perché tutto veniva regolato alla luce della Torâ. Essi però erano esosi per le loro prestazioni persino con i meno abbienti. Le parole con le quali Gesù conclude le considerazioni a loro riguardo sono assai dure. All’affermazione alla quale essi tanto tengono per il presente farà seguito una condanna più pesante di quella riservata al popolo. Forse si può notare qui una fine ironia: a queste persone esasperatamente preoccupate di primeggiare sarà data loro la possibilità di farlo persino nella dimensione definitiva, ma in un modo negativo.

     La seconda sessione del nostro brano (vv. 41-44) narra un episodio che si svolge in un ambiente specifico del grande complesso del tempio. Si tratta di un corridoio dell’atrio, luogo in cui anche le donne potevano recarsi. In questo corridoio vi erano tredici urne nelle quali venivano deposte le offerte dei devoti. Ad introdurre il denaro nel contenitore era un sacerdote al quale l’offerente indicava lo scopo di quanto consegnava. Le urne si distinguevano proprio anche per la speciale destinazione data all’offerta e dunque all’uso che ne sarebbe stato fatto. Anche in questo ambiente non manca l’ostentazione che fa da legame narrativo con la sezione precedente: i ricchi gettano molto danaro. Proprio questo filo conduttore ci porta a scoprire che la pericope liturgica si gioca sul contrasto.

     All’esteriorità e all’avidità di cui si è parlato si contrappone la generosità e la pochezza della vedova. Di proposito viene detto che la somma in suo possesso è costituita da due unità monetarie, le più piccole allora conosciute nel sistema numismatico della Giudea. Rimaneva così alla vedova la possibilità di un’equa, ragionevole divisione delle sue risorse con Dio. Non è stato questo il suo criterio di scelta. Completamente dimentica di sé ha affidato tutte le sue sostanze, quindi praticamente la sua vita a Dio.

     Sulla linea del contrasto il messaggio evangelico potrebbe dunque essere questo: Dio non è una possibilità da sfruttare per la propria affermazione, ma una persona alla quale umilmente e fiduciosamente abbandonare se stessi.

 

Meditazione

La scena evangelica si apre con una singolare notazione: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri». Perché? Gesù toccava il cuore della gente perché l’amava a tal punto da dare la sua stessa vita per loro. Ascoltare il Vangelo, e ascoltarlo volentieri, era decisivo per la salvezza. Già l’antico libro del Siracide esortava l’uomo saggio ad «ascoltare volentieri la parola divina» (6,35).

Siamo al termine del viaggio di Gesù verso Gerusalemme e il contra­sto con gli scribi e i farisei ha raggiunto il suo culmine. L’evangelista Marco sottolinea la diversità tra l’atteggiamento della folla e quello della gerarchia religiosa. Non è una differenza di appartenenza. Il Vangelo di domenica scorsa parlava, ad esempio, di uno scriba che «non era lontano dal regno dei cieli». Il nodo del problema sta nel cuore dell’uomo, ossia se sente il bisogno di essere salvato. Gesù ascolta le domande della folla che lo segue e non vuole disattenderne il bisogno e tanto meno abban­donarla al suo destino. Il rifiuto o la disattenzione a quel grido avrebbe significato riconsegnare quella folla nelle mani degli scribi e dei farisei, cattivi pastori, che avrebbero lasciato tutti nella disperazione. L’indifferenza non è mai neutra; è molto di più, è abbandono dei più deboli in balìa degli «scribi». E ogni tempo ha i suoi «scribi» che si aggi­rano con lunghe vesti, che occupano i primi seggi nelle assemblee e nelle agorà della politica e della cultura, che ricevono i saluti e l’ossequio della maggioranza. Scribi e farisei sono coloro che dettano cosa sia la felicità o l’infelicità; sono coloro che governano le coscienze e i gusti, che ci indirizzano con un’autorità che spesso non cogliamo ma alla quale sog­giaciamo. Sono dei veri «maestri» di vita. Hanno a disposizione potenti mezzi, come potenti e forti erano gli scribi al tempo di Gesù. Egli, allora come oggi, con la povertà della predicazione evangelica, vuole scalzarli dal loro ruolo di guida perché non impongano più pesi gravi e inutili sulle spalle della gente disperata. Gesù, solo lui, è il vero buon pastore.

Gesù non si arresta nella sua requisitoria e aggiunge: «Essi divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere». Le case delle vedove sono quelle di chi non ha nessuno che li difenda. Ancora oggi sono molte le case di vedove e di orfani non difesi, a volte si tratta di paesi interi. Sì, ci sono tante vedove come quella di Sarepta, di cui abbiamo ascoltato dal primo libro dei Re. Al tempo di Elia e di Gesù le vedove, assieme a orfani e stranieri, erano considerate tra i poveri. Infatti essere vedova (e, essendo numerose le guerre, era facile trovarsi in quella condizione) voleva dire perdere i propri diritti, ma soprattut­to la possibilità di avere il necessario per vivere. Quanti sono costretti a dichiarare anche oggi: «Non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e moriremo»! In tante case e in tante terre non c’è da mangiare per il domani. Non c’è futuro. Chi guarderà queste vedove? Chi si prenderà cura di loro? Chi volgerà loro almeno uno sguardo?

Gesù le guarda. Le guarda come oggi ha fissato i suoi occhi sulla vedova che dava la sua offerta per il tempio. Gesù la vede mentre pone nelle mani del sacerdote due soli spiccioli. Nessuno, ovviamente, vi fa caso. Non è di famiglia nobile o di casa reale per attirare l’attenzione; non appartiene al mondo delle persone ricche o famose per essere notata. Non conta nulla. Se qualcuno dei passanti l’ha vista, l’avrà anche giudicata male. Cosa ha dato? Solo due spiccioli! Nulla, rispetto alle sostanziose offerte che i ricchi ostentavano. Ma quella donna, insi­gnificante agli occhi dei più e magari anche disprezzata, è guardata con affetto e ammirazione da Gesù. Solo da lui. Neppure i discepoli si accorgono di lei. Possiamo immaginare Gesù che al vedere la scena chiama gli amici perché rivolgano l’attenzione a quella vedova. Ai discepoli, distratti o attenti solo a ciò che fa impressione, Gesù insegna a guardare con amore e attenzione anche le cose più piccole. È lo stes­so sguardo di Dio, che con sollecitudine si prende cura dei poveri, come abbiamo cantato nel Salmo 145, una vera icona dell’amore di Dio per i poveri. Con la solennità dei momenti importanti – ben diver­so è il giudizio degli uomini! – Gesù dice: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». Non ha trattenuto per sé neppure uno dei due spiccioli. Ella, a differenza degli altri e di tutti noi, ha amato Dio con tutta la sua anima e tutte le sue forze, sino a dare tutto quello che aveva. In una società che insegna a trattenere per se stessi, il dono della vedova e le parole di Gesù – perché si ha sempre bisogno delle parole del Signore per capire anche le cose semplici – ci indicano quanto siano vere le parole di Gesù riportate negli Atti degli Apostoli: «Sì è più beati nel dare che nel ricevere» (20,35).

Non è un caso che un episodio così insignificante e comunque così poco appariscente sia posto dall’evangelista a conclusione della vita pubblica di Gesù e del suo insegnamento nel tempio di Gerusalemme. Al contrario del giovane ricco che «se ne andò triste» perché aveva molti beni e volle conservarli per sé (Mc 10,22), questa povera vedova, donando tutto, ci insegna come amare Dio e il Vangelo. Ella si allonta­nò felice. Non era in verità vedova. Agli occhi degli uomini appariva tale. Su di lei si erano posati gli occhi d’amore di Gesù. La stessa felici­tà gusteremo noi se, come lei, sapremo dare il nostro povero cuore interamente al Signore.

Torniamo brevemente sull’episodio di Elia. La vicenda di Elia si apre nel capitolo 17 del Primo Libro dei Re proprio con il racconto dell’incontro del profeta con la vedova di Sarepta. Siamo innanzitutto in un territorio pagano, quindi la vedova non appartiene al popolo di Israele, non crede nel Dio di Elia. Eppure ella accoglie Elia e lo ascolta. Gesù stesso, rispondendo all’incredulità degli abitanti di Nazareth, citerà proprio questo episodio: «C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone» (Lc 4,25-26). La profezia di Elia, prima ancora di essere annuncio della parola di Dio, è incontro umano con una povera vedova, per la quale egli compie il miracolo del cibo e della vita ridonata al figlio. Fa parte del compito profetico, affi­dato ad ogni cristiano, comunicare la misericordia di Dio al mondo, a cominciare dai poveri. Ma anche i poveri, come quella vedova, hanno bisogno di ascoltare la parola del profeta, anzi hanno diritto di ascol­tarla, perché solo essa può cambiare nel profondo la loro condizione avvicinandoli a Dio. Gesù, proprio nella sinagoga di Nazareth, fa pro­prio il compito profetico di Is 61: «Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). L’annuncio del Vangelo non è mai disgiunto dalla preoccupazione umana di fronte al bisogno materiale di coloro che incontriamo, ma guai se non tenessimo insieme questi due aspetti della vita cristiana.

 

L’immagine della domenica

  

IN CAMMINO VERSO TRIACASTELA – CAMMINO DI SANTIAGO 2018


Sulla bilancia della giustizia divina

non si pesa la quantità dei doni,

bensì il peso dei cuori. 

(Leone Magno)


Preghiere e racconti

“Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa”

La generosità di cui parla il papa è una conseguenza della fede, intesa come “l’atteggiamento interiore di chi fonda la propria vita su Dio, sulla sua Parola, e confida totalmente in Lui”.

Riferendosi alla liturgia della 32ma domenica durante l’anno (B) il pontefice presenta la figura di due vedove, quella di Sarepta di Sidone, nel Primo Libro dei Re (17,10-16), e quella che offre due spiccioli al tesoro del tempio, nell’episodio narrato dal vangelo di Marco (12,41-44).

“Entrambe queste donne – spiega il papa – sono molto povere, e proprio in tale loro condizione dimostrano una grande fede in Dio. La prima compare nel ciclo dei racconti sul profeta Elia. Costui, durante un tempo di carestia, riceve dal Signore l’ordine di recarsi nei pressi di Sidone, dunque fuori d’Israele, in territorio pagano. Là incontra questa vedova e le chiede dell’acqua da bere e un po’ di pane. La donna replica che le resta solo un pugno di farina e un goccio d’olio, ma, poiché il profeta insiste e le promette che, se lo ascolterà, farina e olio non mancheranno, lo esaudisce e viene ricompensata. La seconda vedova, quella del Vangelo, viene notata da Gesù nel tempio di Gerusalemme, precisamente presso il tesoro, dove la gente metteva le offerte. Gesù vede che questa donna getta nel tesoro due monetine; allora chiama i discepoli e spiega che il suo obolo è maggiore di quello dei ricchi, perché, mentre questi danno del loro superfluo, la vedova ha offerto ‘tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere’ (Mc 12,44)”.

“Quella della vedova, nell’antichità,  – continua – costituiva di per sé una condizione di grave bisogno. Per questo, nella Bibbia, le vedove e gli orfani sono persone di cui Dio si prende cura in modo speciale: hanno perso l’appoggio terreno, ma Dio rimane il loro Sposo, il loro Genitore. Tuttavia la Scrittura dice che la condizione oggettiva di bisogno, in questo caso il fatto di essere vedova, non è sufficiente: Dio chiede sempre la nostra libera adesione di fede, che si esprime nell’amore per Lui e per il prossimo. Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa. E infatti entrambe le nostre vedove di oggi dimostrano la loro fede compiendo un gesto di carità: l’una verso il profeta e l’altra facendo l’elemosina. Così attestano l’unità inscindibile tra fede e carità, come pure tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo – come ci ricordava il Vangelo di domenica scorsa.

“Il Papa San Leone Magno – continua – di cui ieri abbiamo celebrato la memoria, così afferma: ‘Sulla bilancia della giustizia divina non si pesa la quantità dei doni, bensì il peso dei cuori. La vedova del Vangelo depositò nel tesoro del tempio due spiccioli e superò i doni di tutti i ricchi. Nessun gesto di bontà è privo di senso davanti a Dio, nessuna misericordia resta senza frutto (Sermo de jejunio dec. mens., 90, 3)”.

“La Vergine Maria – conclude – è esempio perfetto di chi offre tutto se stesso confidando in Dio; con questa fede ella disse all’Angelo il suo «Eccomi» e accolse la volontà del Signore. Maria aiuti anche ciascuno di noi, in questo Anno della fede, a rafforzare la fiducia in Dio e nella sua Parola”.

(Benedetto XVI)

 

Un bel gesto

Trascorremmo quella notte in un delizioso alberghetto sulla riva di un lago circondato da un fitto bosco. L’edificio era costruito in pietra e legno e dotato di caminetti in cui crepitava un bel fuoco. I motivi disegnati sulla carta da parati si ispiravano al nome di ogni stanza. La nostra si chiamava La prateria: era di color verde chiaro e le pareti erano piene di piante e fiori silvestri. Le regole della casa costrinsero Ali a dormire solo quella notte, in una piccola ma confortevole cuccetta, ma era chiaro che il mio amico avrebbe fatto una gran fatica a separarsi fisicamente ed emotivamente dal suo cucciolo.

Quando scendemmo per la cena non fu una gran sorpresa incontrare la stessa famiglia chiassosa che avevamo già notato all’ora di pranzo, visto che in quella zona gli hotel non sono certo numerosi. Com’era ovvio, la nostra entrata provocò lo stesso trambusto di poche ore prima, a dimostrazione del detto: “Qualunque cosa farai, non riuscirai mai ad accontentare tutti”. Tuttavia, con il passare dei minuti, forse per colpa della stanchezza di bambini e adulti, l’atmosfera al loro tavolo si fece così sgradevole che cominciammo a sentirci a disagio per l’evidente aggressività e violenza trattenuta a stento che si respirava in quella sala. Il figlio più piccolo piangeva disperato. Un altro era in punizione senza cena. Un terzo era costretto a finire una porzione di pesce che evidentemente non gli piaceva. Gli altre due tenevano gli occhi fissi sul piatto, senza il coraggio di aprire la bocca. Il mio giovane amico, poco avvezzo ai litigi familiari, rimase profondamente colpito dalla scena, fin quasi a perdere l’appetito. E fu allora che compì il secondo miracolo d’amore del nostro viaggio: si alzò da tavola, andò a prendere Ali e, portandolo in braccio come un soffice bebè bianco, lo offrì in regalo ai bambini. Loro, con gli occhi che sprizzavano gioia, allungarono le mani per accarezzarlo. Il gesto e l’atteggiamento del giovane principe furono così commoventi che i genitori non seppero cosa dire. Quando alla fine si decisero a reagire e cercarono di rifiutare il dono, Ali faceva già parte delle loro vite. […] Da quel momento la felicità tornò a regnare nella sala da pranzo e il mio giovane amico si godette la sua cena, interrotta di continuo dai saluti e dalle risate dei bambini, oltre che dai latrati di gioia di Ali, che a quel punto aveva ben cinque amici pronti a giocare con lui e a soddisfare ogni sua necessità.          

“È stato proprio un bel gesto, soprattutto perché stamattina quei bambini ti avevano preso in giro” commentai per vedere come avrebbe reagito. Ma per tutta risposta lui disse: “Sei stato tu a farmi capire che li avevo provocati con il mio aspetto strano, ed è normale che i bambini reagiscano in maniera spontanea. E poi, non ne potevo più di quella tensione, e ho seguito l’impulso da fare qualcosa per allentarla. Ali mi è stato accanto, portandomi felicità quando più ne avevo bisogno. Mi fa piacere che adesso possa illuminare altri cuori”.

Con questa gratificante esperienza volgeva al termine la seconda giornata del nostro viaggio. Una volta ancora, ebbi l’impressione che il giovane principe avesse superarto con un solo gesto tutte le mie prolisse spiegazioni.

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 85-87)

 

L’offerta della vedova

Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più. Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte. Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza. Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.

(F. MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 123-124).

 

Gli spiccioli della vedova e il tesoro in Cielo

Il Vangelo mette a confronto due magisteri: quello degli scribi, teologi e giuristi importanti, e quello di una vedova povera e sola; ci porta alla scuola di una donna senza più difese e la fa maestra di vita. Gli scribi sono identificati per tre comportamenti: per come appaiono (passeggiano in lunghe vesti) per la ricerca dei primi posti nella vita sociale, per l’avidità con cui acquisiscono beni: divorano le case delle vedove, insaziabili e spietati.  Tre azioni descritte con i verbi che Gesù rifiuta: apparire, salire e comandare, avere. Sintomi di una malattia devastante, inguaribile, quella del narcisismo.

Sono di fatto gli inconvertibili: Narciso è più lontano da Dio di Caino. Gesù contrappone un Vangelo di verbi alternativi: essere, discendere, servire e donare. Lo fa portandoci in un luogo che è quanto di più estraneo al suo messaggio si possa immaginare: in faccia al tesoro del tempio; e lì, seduto come un maestro, osserva come la gente getta denaro nel tesoro: “come” non “quanto”.

Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. I ricchi gettavano molte monete, Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine. Due spiccioli, un niente, ma pieno di cuore. Gesù se n’è accorto, unico; chiama a sé i discepoli, li convoca, erano con la testa altrove, e offre la sua lettura spiazzante e liberante: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Gesù non bada alla quantità di denaro. Anzi afferma che l’evidenza della quantità è solo illusione. Conta quanto peso di vita c’è dentro, quanto cuore, quanto di lacrime, di speranza, di fede è dentro due spiccioli.

L’uomo per star bene deve dare. È la legge della vita, siamo progettati così. Questa capacità di dare, e dare come un povero non come un ricco, ha in sé qualcosa di divino! Tutto ciò che è fatto con tutto il cuore ci avvicina all’assoluto di Dio.

Il verbo salvifico che Gesù propone in contrapposizione al “divorare” degli scribi, è “gettare”, ripetuto sette volte nel brano, un dare generoso e senza ritorno. Lo sa bene la vedova, l’emblema della mancanza. La sua mano getta, dona con gesto largo, sicuro, generoso, convinto, anche se ciò che ha da donare è pochissimo. Ma non è la quantità che conta, conta sempre il cuore, conta l’investimento di vita. La fede della vedova è viva e la fa vivere. Non le dà privilegi né le riempie la borsa, ma le allarga il cuore e le dà la gioia di sentirsi figlia di Dio, così sicura dell’amore del Padre da donare tutto il poco che ha. Questa donna, che convive col vuoto e ne conosce l’angoscia, è fiduciosa come gli uccelli del cielo, come i gigli del campo. E il Vangelo torna a trasmettere il suo respiro di liberazione.

(Ermes Ronchi)

 

Sulle orme di Cristo

1. Il gesto dell’obolo della vedova, su cui soffermiamo l’attenzione, è episodio in assoluto decisivo per la comprensione dell’intero scritto di Marco. Ne è una chiave di lettura, non a caso collocata tra la conclusione delle controversie di Gesù al tempio e sul tempio (Mc 11,27-12,40) e la profezia sulla distruzione del tempio (Mc13), con la proclamazione del Cristo pietra scartata divenuta pietra d’angolo di una nuova costruzione.

Opera fatta dal Signore, meraviglia ai nostri occhi (Mc 12,1-12; Sal 118,22-23). Non dunque di prima intenzione un racconto morale sulla generosità-non generosità, ma una narrazione esemplificativa del destino di morte di Gesù e del senso di quella morte e della intera sua vita.

2. Tutto muove da un atto di osservazione di Gesù, il quale «seduto di fronte al tesoro», alla cassetta cioè che raccoglieva le elemosine fatte al tempio, guarda la folla che vi depone la propria offerta. Sostanziosa, molte monete, quella di tanti ricchi, una cifra pressoché insignificante quella di una povera vedova, due monetine che fanno un soldo (Mc 12,41-42). All’osservazione Gesù fa seguire la chiamata a sé dei discepoli e l’interpretazione di quanto ha visto: questa vedova ha gettato più di tutti, tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere, non il superfluo (Mc 12,43-44). Non ha gettato cioè qualcosa ma ha buttato la sua stessa vita, il tutto di sé, questa la sua offerta per un mondo, aspetto da sottolineare, rappresentato da un tempio che non dà frutti e da gente che conta che si distingue per divorare le case delle vedove (Mc 12,40), dei poveri. In breve per un mondo non meritevole di ogni luogo e tempo, a cominciare da ciascuno e dalle proprie Chiese.

Un gesto assurdo, al di là di ogni logica, da parte di una creatura unica, la sola ad agire così, e per una realtà umana in declino che continua a tagliare i suoi figli minori (Mc 12,1-8), eppure amata al punto da dare tutto il proprio corpo e tutto il proprio sangue per essa (Mc 14,22-25). Gesù nella vedova ha letto se stesso e la sua morte così assurda, così inutile e così altamente significativa: è da dono radicale di sé a chi radicalmente ti nega che qualcosa di nuovo può nascere sotto il sole, le lacrime segno di una guarigione (Lc 22,62) operata da queste piaghe d’amore (1Pt 2,24).

3. Marco apre finestre che costituiranno materia ininterrotta di riflessione nella Chiesa delle origini e di sempre, il significato folle e scandaloso (1Cor 1,23) di un evento, la Croce, evocato dall’episodio dell’obolo della vedova. Dio in Cristo si identifica con una creatura nella miseria la cui generosità senza limite senza riserve stà nel donare totalmente se stessa, per puro amore, a un mondo assurdo che la sfrutta. Icona dello spegnersi di Cristo per uomini di ogni dove senza frutti, senza qualità, sempre pronti a spegnerlo: io, tu, noi, loro senza eccezione alcuna, infastiditi dalla sua stessa presenza che costringe a rendersi conto del come siamo presenti al mondo. Ma ove tale dono di sé del Cristo viene accolto, e le vie al sì sono tante quante sono le creature umane, lì inizia a nascere l’uomo nuovo, la catena delle vedove che nella loro pochezza hanno appreso qual’è la vera ricchezza che dà senso al vivere e al morire aprendo scenari inediti di resurrezione, consumare se stessi per ciò che amabile non è.

Sulle orme di Dio in Cristo e in forza del suo sguardo al contempo lucido e tenero: vede la mia insipienza e ci muore per rendermi sapiente, vede la mia cattiveria e ci muore per rendermi buono, vede la mia meschina astuzia e ci muore per rendermi semplice. Vede la mia non qualità e mi sogna a sua altezza: «predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio» (Rm 8,29).

(Giancarlo Bruni)

 

Essere dono

Ognuno è chiamato ad essere dio. Ma essere dio non vuol dire  avere tutto, servirsi di ogni cosa  e di ogni uomo; non vuol dire essere un “potente” per opprimere gli altri. Essere dio vuol dire  essere un potente che dona agli altri il suo potere; vuol dire dare un senso di eternità a ciò che ci circonda, dare speranza ai disperati, gioia a chi piange, luce a chi non vede…Vuol dire indicare Dio a chi crede che Dio non esista.

(O. OLIVIERO, L’amore ha già vinto. Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 22).

 

Il mendicante e il re

Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.

Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare. Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.

 

Si privò di tutto quanto aveva per vivere

«Chi usa misericordia verso il povero, presta a interesse al Signore» (Pr 19,17). […] Colui che presta denaro ai poveri del Signore, attende dal Signore la ricompensa della vita eterna. Del resto, anche il beato apostolo Paolo nel suo insegnamento attesta che, tra le preoccupazioni di tutte le chiese, quella che lui ha per i poveri non è di certo la più piccola. Dice infatti: «Soltanto ricordiamoci dei poveri, cosa che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10); e in un altro passo esclama: «Niente abbiamo portato venendo in questo mondo, e niente possiamo portar via» (1Tm 6,7); e ancora: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7). […] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell’animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare. Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali. Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà. Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio. […] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.

(PAOLINO DA NOLA, Lettere 34,2-4, PL 61,345C.346A-C).

 

Le persone sono doni

Qualche tempo fa, ho ricevuto un articolo non firmato intitolato Le persone sono doni. Vorrei parafrasarne alcuni passi come segue:

«Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti. Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente. Alcuni vengono strapazzati durante l’invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.

Ma il dono non è l’involucro ed è importante rendersene conto. È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall’involucro esteriore.

Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c’è bisogno dell’aiuto altrui. Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati. Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.

Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono. Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia. E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.

Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni. Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu. Siamo doni vicendevoli».

(J. POWELL, Parlami di te. So ascoltare il tuo Cuore, Milano, Gribaudi, 2005, 24-25).

 

I valorosi sono sempre tenaci?

“I valorosi sono sempre tenaci?”. Dal cielo, il Signore sorride contento, perché era ciò che Egli voleva: che ciascuno avesse nelle proprie mani la responsabilità della propria vita. In fin dei conti aveva dato ai propri figli il più grande di tutti i doni: la capacità di scegliere e di decidere i propri atti. Soltanto gli uomini e le donne segnati nel cuore dalla fiamma sacra avevano coraggio di affrontarLo. E soltanto questi conoscevano il cammino per tornare al Suo amore, giacché capivano finalmente che la tragedia non era una punizione, ma una sfida.

Elia rivide a uno a uno tutti i suoi passi: dal momento in cui aveva lasciato la falegnameria, aveva accettato la propria missione senza discutere. Anche se fosse stata vera, e lui pensava che lo fosse, Elia non aveva mai avuto l’opportunità di vedere che cosa accadeva nei cammini che aveva rifiutato di percorrere. Perché aveva paura di perdere la fede, la dedizione, la volontà. Riteneva che fosse molto rischioso sperimentare il cammino delle persone comuni: alla fine avrebbe potuto anche abituarsi e amare ciò che vedeva. Non capiva che anche lui era una persona come tutte le altre, anche se udiva gli angeli e riceveva di tanto in tanto qualche ordine da Dio: era talmente convinto di sapere ciò che voleva da essersi comportato proprio come coloro che non avevano mai preso una decisione importante nella vita.

Era sfuggito al dubbio. Alla sconfitta. Ai momenti di indecisione. Ma il Signore era generoso, e lo aveva condotto nell’abisso dell’inevitabile per dimostrargli che l’uomo deve scegliere, e non accettare, il proprio destino.

(Paulo COELHO, Monte Cinque, Bompiani, Milano, 1998, 206-207).

 

Preghiera

Signore Gesù,

che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchirci con la tua povertà,

aumenta la nostra fede!

È sempre molto poco ciò che abbiamo da offrirti,

ma tu aiutaci a consegnarlo senza esitazione nelle tue mani.

Tu sei il Tesoro del Padre e il Tesoro dell’umanità:

in te si riversa la pienezza della divinità,

eppure tu attendi ancora, da noi, l’obolo di ciò che siamo,

perfino del nostro peccato.

Crediamo che tu puoi trasformare la nostra miseria in beatitudine per molti,

ma tu insegnaci la generosità e l’abbandono confidente dei poveri in spirito!

Vogliamo accettare la sfida della tua parola e donarti tutto,

anche il necessario per l’oggi e il domani: tu stesso fin d’ora sei la Vita per noi.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXII DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

“Esercizi di comunicazione. Visione, strategia e tecnica di Community Building”

“Esercizi di comunicazione. Visione, strategia e tecnica di Community Building” è il corso di alta specializzazione promosso da Centro culturale San Paolo (Ccsp), Center for Generative Communication (Cfgc) dell’Università di Firenze (nella foto il direttore Luca Toschi) e Polo Universitario “Città di Prato”.

Il progetto, spiega don Ampelio Crema, presidente del Ccsp, in un’intervista per il sito del Copercom, “si prefigge anche l’obiettivo di creare una rete tra realtà ecclesiali e laiche attente al mondo della comunicazione per dar vita a una nuova figura professionale più che mai urgente nelle nostre realtà”. Quindi “formare una figura professionale capace di ideare e progettare strategie di comunicazione orientate a costruire Comunità di interessi, obiettivi e pratiche che rafforzino l’identità e gli obiettivi di associazioni, organizzazioni, imprese, istituzioni, oratori, parrocchie”. In questo modo, osserva don Crema, “si promuove un nuovo modello comunicativo che sappia coniugare il raggiungimento concreto degli obiettivi, nei tempi necessari, con i valori che intende sostenere e rafforzare”. Questo è “il Community Building: mettere a disposizione le competenze di un gruppo di lavoro, costituito ad hoc, per creare insieme una comunità formativa che ha l’obiettivo di praticare in diversi contesti reali i risultati di un processo di costruzione della conoscenza”.

Ogni partecipante al corso presenta un proprio progetto di comunicazione (personale, di una associazione, di un gruppo di associazioni…) e viene aiutato da un tutor ad applicare nel suo progetto di comunicazione di partenza quanto scopre nel corso.

Al momento, già varie realtà hanno partecipato in primavera agli incontri di programmazione del corso (Focsiv, Movimento dei Focolari, Noi Associazione, Sermig…) e altre stanno dando il proprio appoggio a questo progetto formativo in varie forme.

Il corso inizierà il 17 novembre e durerà sei mesi. Le lezioni si svolgeranno nel fine settimana, anche in e-learning. Sono previsti cinque incontri formativi in presenza che, si svolgeranno a Firenze e a Roma. Si rilascerà un attestato di partecipazione a coloro che porteranno a termine il progetto individuale (valutato da un Comitato tecnico-scientifico), oltre ad aver frequentato almeno il 70% delle ore di lezione in presenza. Il corso è di 120 ore. Ci si può iscrivere entro il 28 ottobre.

Info

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

 Prima lettura:Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

 

v Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.

     Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

     Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

     Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

              

 

v La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

     I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

     Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

 

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

 

 

 

Esegesi

     Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

     Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

     Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

     Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

     Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

     Che cosa possiamo rispondere?

     Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

     La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

     La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

 

Meditazione

È bene per noi, uomini e donne della terra, ancora sotto il dominio del peccato e della morte, pregare con chi è passato attraverso la grande tribolazione, la morte, colei che sembra allontanare definitivamente da Dio e dalla vita che egli ci ha donato. E, mentre celebriamo la liturgia, ci uniamo a coloro che celebrano la liturgia del cielo e cantano la lode di Dio. Sono i santi, uomini e donne diversi, che si sono fatti ascoltato­ri della Parola di Dio e discepoli di Gesù, scegliendo di vivere non per se stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi. La Chiesa, nostra madre, in modo sapiente, anticipa la festa di tutti i Santi alla memoria dei fedeli defunti, quasi per aiutarci a comprendere il mistero della morte e perché non siamo dominati dalla paura. Il Signore infatti non abbandona gli uomini all’abisso della morte e nel Figlio Gesù, primo­genito di una moltitudine di fratelli, ci fa già cantare nella liturgia la gioia della resurrezione. La memoria dei santi accanto a noi ci aiuta a guardare con speranza il tempo che viviamo; soprattutto ci aiuta a non vivere prigionieri del nostro piccolo mondo, della terra su cui cammi­niamo, neppure delle realtà ecclesiali di cui siamo parte. Vi è una mol­titudine immensa di uomini e donne, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, che insieme a noi e alla nostra comunità canta la salvezza che viene da Dio attraverso l’Agnello e ci rende partecipi di un popolo grande, in cui la diversità di origine e di cultura non diventa motivo di divisione e di inimicizia. È il popolo di Dio, sacramento dell’unità della famiglia umana, come ha detto il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, liberato dall’odio, dalla divisione, dall’inimicizia, da tutti quei motivi di separazione che ancora non permettono agli uomini di vivere sulla terra quella visione del cielo.

Le parole dell’Apocalisse sembrano descrivere un altro mondo, lon­tano, irraggiungibile, impossibile da realizzare nel nostro. Sì, siamo di fronte davvero a un mondo altro, diverso da quello di tutti i giorni, spesso costellato di divisioni, contrapposizioni, inimicizie, che impedi­scono l’unità e intralciano il superamento del proprio io in una comunione e una sintonia con gli altri. Ci sono ancora troppe inimicizie che passano nei cuori di ognuno. Quante divisioni ancora tra i popoli, quanti conflitti nella vita di ogni giorno, fondati sulla difesa di se stessi e del proprio interesse. Le parole dell’Apocalisse rimangono una visio­ne e una profezia, ma sono anche una vocazione, quella di ognuno dei cristiani che da uomini della terra diventano uomini spirituali e si fanno discepoli del Signore, entrando già fin d’ora a far parte di quella moltitudine immensa. E un popolo di poveri, di gente che piange, di miti; di affamati e assetati di giustizia, di misericordiosi, di puri di cuore, di operatori di pace, di perseguitati per causa della giustizia e del Signore. Sembra un popolo di deboli, perché i poveri sono disprez­zati, coloro che soffrono abbandonati, i miti dileggiati, i cercatori di giustizia e di pace considerati degli ingenui, i perseguitati dimenticati, come tanti cristiani nel mondo. Qual è la loro forza se non di essere in quel popolo? Quale la loro felicità e beatitudine se non nella certezza che Dio realizzerà la sua parola e che fin da oggi sono radicali nella promessa di Dio? Questo Vangelo, che abbiamo ascoltato molte volte, traccia un itinerario tanto diverso dal vangelo di questo mondo, che proclama beati i ricchi, i forti, i belli, i furbi, coloro che fanno il loro interesse. La Chiesa lo ripropone nella solennità di tutti i santi, per farci comprendere qual è la via della santità, a cui tutti siamo chiamati.

Si vive talvolta una vita modesta, incentrata su se stessi, istintiva e suscettibile, ci si accontenta di quanto si riesce a percepire dal nostro orizzonte quotidiano, impauriti davanti alle grandi visioni. Così la visio­ne di Dio si appanna e svanisce. Per far parte di quella moltitudine immensa e poter incontrare il Dio della vita passando attraverso la grande tribolazione senza soccombere, bisogna essere più ambiziosi nell’amore, non tiepidi e calcolatori, non avari ed egoisti, non chiusi nel proprio mondo di buoni, che giudicano gli altri. I martiri, che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello e di cui la Chiesa fa sempre memoria, ci indicano la forza di una vita spesa nell’amore. Uno degli ultimi, che la Chiesa proclamerà beato, è don Pino Puglisi, un sacerdote che ha dato la sua vita per il Vangelo e non ha ceduto alla mentalità violenta e mafiosa da cui era circondato. La visione di Dio ci chiama ad essere santi, a vivere sulla terra come cittadini del cielo, familiari e cercatori di Dio, amici dei poveri e dei bisognosi per poter essere un giorno con loro, miti in un mondo pre­potente e violento, operatori di pace là dove permangono piccoli o grandi conflitti, affamati di quella giustizia di Dio, che mai è disgiunta dalla misericordia e non invoca la vendetta sul colpevole e sul malvagio. Se vogliamo un mondo migliore e più umano, percorriamo la via della santità, che ci è così bene indicata nelle beatitudini. E, se vogliamo realizzarla, uniamoci ai poveri, perché sono i primi beati, i primi a far parte del regno di Dio. Gesù, secondo i Vangeli sinottici, incontra per primi i discepoli e i poveri, i malati, gli indemoniati. Tutti loro fanno parte della sua famiglia. E noi potremo esser ugualmente felici, percor­rendo la via che il Signore ha proclamato dal monte delle beatitudini, nuovo Sinai, come la legge di Dio, l’insegnamento nuovo che porta a compimento l’antico senza abolirne il valore.

A noi, discepoli dell’unico che ha vissuto tutte le beatitudini, il Signore Gesù, viene chiesto di lasciarci attrarre da questo popolo, ribel­landoci all’individualismo che ci vorrebbe divisi. Le beatitudini sono le parole che ogni giorno ci permetteranno di far parte della famiglia di Dio e di gustare la gioia e la bellezza di essere un noi, un unico popolo, dove non esistono più confini di nazione, tribù, popolo, lingua. Ci tro­viamo davanti all’antico sogno di Dio che volle gli uomini non nemici né divisi, ma fratelli. Oggi nella festa di tutti i santi lo vediamo realizzar­si e ci sentiamo coinvolti in un disegno di amore che va oltre quanto siamo in grado di comprendere e di vivere ogni giorno. Non tiriamoci indietro per paura di perdere noi stessi. Aspiriamo alla santità, che è comunione con il Signore, vita gioiosa con i fratelli e amica dei poveri. Viviamo l’audacia di essere uomini e donne di quella moltitudine immensa, che non accetta la divisione come un fatto normale né il conflitto come naturale. La vittoria di Gesù sulla morte, la testimonian­za di coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello, raf­forzano la nostra esistenza in un mondo di gente incerta e impaurita e ci aiutano a guardare al futuro con speranza e con la certezza che il Signore non permetterà al male di soffocare i tanti segni di bene che i suoi discepoli custodiscono. La beatitudine dei discepoli di Gesù sarà la gioia di continuare a vivere in quella moltitudine immensa e senza con­fini, popolo di umili e di poveri, santificato dalla presenza di Dio e reso forte dal suo amore che ha vinto la morte.

Per questo ovunque nel mondo i cristiani continuano incessante­mente ad innalzare la loro lode al Padre e all’Agnello, primogenito di quella moltitudine immensa: «Amen, lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli». Nella preghiera di lode essi ritrovano la forza per l’agire, la speranza che si fa tenace ricerca della pace contro il pessimismo e il realismo triste di chi accetta l’inimicizia come un fatto naturale e inevitabile. La visione di Dio ci precede sempre. Non dimentichiamolo! E l’Eucaristia in qual­che modo la rende più vicina perché ci rende più vicini al Signore e ci fa parte già in questo mondo di quella moltitudine immensa che cele­bra la vittoria di Dio sul male. Mentre egli si manifesta a noi, siamo costituiti come suo popolo e ci avviciniamo a lui in quella comunione di amore che diventa canto di lode e rendimento di grazie.

 

Preghiere e racconti

La santità è sempre giovane

«Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

 

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

 

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).

 

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

 

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

 

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

 

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

 

     

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI (Anno B)

 

 

Sinodo. I giovani e l’impegno nel mondo: ecco il testo finale del Sinodo

Un documento ampio, ricco e articolato, che affronta ogni aspetto della condizione giovanile. Che, soprattutto, ricorda e testimonia come i ragazzi di oggi, pur tra mille difficoltà, non siano soli ma abbiano in Gesù un maestro e un compagno di viaggio con cui condividere le loro inquietudini. E nella Chiesa una madre affettuosa che ogni volta aspetta il loro ritorno a casa.
Una casa dove vige la regola dell’ascolto. Se c’è infatti un verbo che più di ogni altro è risuonato nell’aula sinodale sin dal primo giorno di lavoro, è stato “ascoltare”. Che significa avvicinare l’altro, provare a capirlo, non lasciarlo mai solo. Aiutarlo a trovare la strada per diventare protagonista. E il testo finale ne è la plastica documentazione, perché ciascuno dei suoi 167 paragrafi è sempre orientato, per meglio dire “sta” dalla parte dei ragazzi. Un documento ampio, si diceva, che comprende un’introduzione, un proemio, tre parti e una conclusione, che indica ai giovani, a ciascuno di loro, la meta della santità. Vocazione di ogni uomo e di ogni donna. Tutti i punti sono stati approvati con la maggioranza qualificata dei 2/3 compresi i temi relativi alla sessualità e alla presenza delle donne nella Chiesa, quelli con il maggior numero di “non placet”.

Uno dei paragrafi più controversi del documento finale del Sinodo è il numero 39, le «domande dei giovani»: ha avuto 195 placet e 43 non placet dei padri sinodali. «Frequentemente – si legge – la morale sessuale è causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna. Di fronte ai cambiamenti sociali e dei modi di vivere l’affettività e la molteplicità delle prospettive etiche, i giovani si mostrano sensibili al valore dell’autenticità e della dedizione, ma sono spesso disorientati. Essi esprimono più particolarmente un esplicito desiderio di confronto sulle questioni relative alla differenza tra identità maschile e femminile, alla reciprocità tra uomini e donne, all’omosessualità».

«Riconoscere e reagire a tutti i tipi di abuso» è il titolo della sezione che raccoglie i paragrafi 29-31, sul tema degli abusi nella Chiesa. In essa si legge che «il Sinodo esprime gratitudine verso coloro che hanno il coraggio di denunciare il male subìto: aiutano la Chiesa a prendere coscienza di quanto avvenuto e della necessità di reagire con decisione». Tra i motivi che tengono oggi tanti giovani distanti dalla Chiesa, il paragrafo 53 ricorda «gli scandali sessuali ed economici; l’impreparazione dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani; la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio; il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità cristiana; la fatica della Chiesa di rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea».

La seconda parte è incentrata sul «mistero della vocazione» e «l’arte di discernere», la terza affronta in particolare la vita dei giovani nelle parrocchie. Forte è l’invito a «vivere in comunione con loro, crescendo insieme nella comprensione del Vangelo e nella ricerca delle forme autentiche per viverlo». Inevitabile la richiesta che le parrocchie sappiano accogliere meglio i giovani, perché «i giovani ci chiedono di camminare insieme». Dunque «porsi in ascolto» che è qualcosa di «più che sentire» la loro voce. «Potremmo procedere verso una Chiesa partecipativa e corresponsabile, capace di valorizzare la ricchezza della varietà di cui si compone» (paragrafo 123), quindi anche dei giovani, cominciando dalla fase della preparazione ai Sacramenti dell’iniziazione cristiana.
L’invito è a «non vivere la fede come un insieme di nozioni e regole che appartengono a un ambito separato dalla loro esistenza» esorta il documento al punto 128. Occorre dunque «un ripensamento pastorale della parrocchia in una logica di corresponsabilità ecclesiale e di slancio missionario». Ecco perché gli «itinerari catechistici devono dimostrare l’intima connessione della fede con l’esperienza concreta di ogni giorno» (numero 133), con una catechesi che si rinnovi nei linguaggi e nelle metodologie. La stessa pastorale giovanile è chiamata a essere «in chiave vocazionale», superando «una certa frammentazione attualmente esistente al suo interno».

Cercando di affrontare anche alcuni ambiti concreti, ecco l’attenzione all’ambiente digitale che «rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli»: esserci sì, ma con discernimento. Sul tema dei migranti vengono ribaditi i quattro verbi indicati dal Papa: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. E mentre si chiede una maggior presenza e ruolo della donne nella Chiesa, si chiede anche di trovare «modalità più adeguate» per «cammini formativi rinnovati sulla visione cristiana della corporeità e della sessualità». «Dio ama ogni persona e così fa la Chiesa rinnovando il suo impegno contro ogni discriminazione e violenza su base sessuale, pur riaffermando la determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità tra l’uomo e la donna.

AVVENIRE Redazione Catholica sabato 27 ottobre 2018

Sinodo Giovani: ecco cosa dice il Documento Finale

Tre parti, 12 capitoli, 167 paragrafi, 60 pagine: così si presenta il Documento finale della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Il testo è stato approvato nel pomeriggio del 27 ottobre nell’Aula del Sinodo. Il Documento è stato consegnato nelle mani del Papa che ne ha, poi, autorizzato la pubblicazione
 
È l’episodio dei discepoli di Emmaus, narrato dall’evangelista Luca, il filo conduttore del Documento finale del Sinodo dei giovani. Letto in Aula a voci alterne dal Relatore generale, Card. Sérgio da Rocha, dai Segretari speciali, padre Giacomo Costa e don Rossano Sala, insieme a Mons. Bruno Forte, membro della Commissione per la Redazione del testo, il Documento è complementare all’Instrumentum laboris del Sinodo, del quale riprende la suddivisione in tre parti. Accolto da un applauso, il testo – ha detto il Card. da Rocha – è “il risultato di un vero e proprio lavoro di squadra” dei Padri Sinodali, insieme agli altri partecipanti al Sinodo e “in modo particolare ai giovani”. Il Documento raccoglie, quindi, i 364 modi, ovvero emendamenti, presentati. “La maggior parte di essi – ha aggiunto il Relatore generale – sono stati precisi e costruttivi”.

“Camminava con loro”

In primo luogo, dunque, il Documento finale del Sinodo guarda al contesto in cui vivono i giovani, evidenziandone punti di forza e sfide. Tutto parte da un ascolto empatico che, con umiltà, pazienza e disponibilità, permetta di dialogare veramente con la gioventù, evitando “risposte preconfezionate e ricette pronte”. I giovani, intatti, vogliono essere “ascoltati, riconosciuti, accompagnati” e desiderano che la loro voce sia “ritenuta interessane e utile in campo sociale ed ecclesiale”. Non sempre la Chiesa ha avuto questo atteggiamento, riconosce il Sinodo: spesso sacerdoti e vescovi, oberati da molti impegni, faticano a trovare tempo per il servizio dell’ascolto. Di qui, la necessità di preparare adeguatamente anche laici, uomini e donne, che siano in grado di accompagnare le giovani generazioni. Di fronte a fenomeni come la globalizzazione e la secolarizzazione, inoltre, i ragazzi si muovono verso una riscoperta di Dio e della spiritualità e ciò deve essere uno stimolo, per la Chiesa, a recuperare l’importanza del dinamismo della fede.

La scuola e la parrocchia

Un’altra risposta della Chiesa alle domande dei giovani arriva dal settore educativo: le scuole, le università, i collegi, gli oratori permettono una formazione integrale dei ragazzi, offrendo al contempo una testimonianza evangelica di promozione umana. In un mondo in cui tutto è connesso- famiglia, lavoro, tecnologia, difesa dell’embrione e del migrante- i vescovi definiscono insostituibile il ruolo svolto da scuole ed università dove i giovani trascorrono molto tempo. Le istituzioni educative cattoliche in particolare sono chiamate ad affrontare il rapporto tra la fede e le domande del mondo contemporaneo, le diverse prospettive antropologiche, le sfide scientifico-tecniche, i cambiamenti del costume sociale e l’impegno per la giustizia. Anche la parrocchia ha il suo ruolo: “Chiesa nel territorio”, essa necessita di un ripensamento nella sua vocazione missionaria, poiché spesso risulta poco significativa e poco dinamica, soprattutto nell’ambito della catechesi.

I migranti, paradigma del nostro tempo

Il Documento sinodale si sofferma, poi, sul tema dei migranti, “paradigma del nostro tempo” in quanto fenomeno strutturale, e non emergenza transitoria. Molti migranti sono giovani o minori non accompagnati, in fuga da guerre, violenze, persecuzioni politiche o religiose, disastri naturali, povertà, e finiscono per diventare vittime di tratta, droga, abusi psicologici e fisici. La preoccupazione della Chiesa è soprattutto per loro – dice il Sinodo – nell’ottica di un’autentica promozione umana che passi attraverso l’accoglienza di rifugiati e profughi, e sia punto di riferimento per i tanti giovani separati dalle loro famiglie d’origine. Ma non solo: i migranti – ricorda il Documento – sono anche un’opportunità di arricchimento per le comunità e le società in cui arrivano e che possono essere rivitalizzate da essi. Risuonano, quindi, i verbi sinodali “accogliere, proteggere, promuovere, integrare” indicate da Papa Francesco per una cultura che superi diffidenze e paure. I vescovi chiedono anche più impegno nel garantire a chi non vorrebbe migrare il diritto effettivo di rimanere nel proprio Paese. L’attenzione del Sinodo va inoltre a quelle Chiese che sono minacciate, nello loro esistenza, dalle emigrazioni forzate e dalle persecuzioni subite dai fedeli.

Fermo impegno contro tutti i tipi di abuso. Fare verità e chiedere perdono

Ampia, poi, la riflessione sui “diversi tipi di abuso” (di potere, economici, di coscienza, sessuali) compiuti da alcuni vescovi, sacerdoti, religiosi e laici: nelle vittime – si legge nel testo – essi provocano sofferenze che “possono durare tutta la vita e a cui nessun pentimento può porre rimedio”. Di qui, il richiamo del Sinodo al “fermo impegno per l’adozione di rigorose misure di prevenzione che ne impediscano il ripetersi, a partire dalla selezione e dalla formazione di coloro a cui saranno affidati compiti di responsabilità ed educativi”. Bisognerà, dunque, sradicare quelle forme – come la corruzione o il clericalismo – su cui tali tipi di abusi si innestano, contrastando anche la mancanza di responsabilità e trasparenza con cui molti casi sono stati gestiti. Al contempo, il Sinodo si dice grato a tutti coloro che “hanno il coraggio di denunciare il male subito”, perché aiutano la Chiesa a “prendere coscienza di quanto avvenuto e della necessità di reagire con decisione”. “La misericordia, infatti, esige la giustizia”. Non vanno però dimenticati i tanti laici, sacerdoti, consacrati e vescovi che ogni giorno si dedicano, con onestà, al servizio dei giovani, i quali possono davvero offrire “un prezioso aiuto” per una “riforma di portata epocale” in questo ambito.

La famiglia “Chiesa domestica”

Ulteriori temi presenti nel Documenti riguardano la famiglia, principale punto di riferimento per i giovani, prima comunità di fede, “Chiesa domestica”: il Sinodo richiama, in particolare, il ruolo dei nonni nell’educazione religiosa e nella trasmissione della fede, e mette in guardia dall’indebolimento della figura paterna e da quegli adulti che assumono stili di vita “giovanilistici”. Oltre alla famiglia, per i giovani conta molto l’amicizia con i loro coetanei, perché permette la condivisione della fede e l’aiuto reciproco nella testimonianza.

Promozione della giustizia contro la “cultura dello scarto”

Il Sinodo si sofferma, poi, su alcune forme di vulnerabilità vissute dai giovani in diversi settori: nel lavoro, dove la disoccupazione rende povere le giovani generazioni, minandone la capacità di sognare; le persecuzioni fino alla morte; l’esclusione sociale per ragioni religiose, etniche o economiche; la disabilità. Di fronte a questa “cultura dello scarto”, la Chiesa deve lanciare un appello alla conversione ed alla solidarietà, divenendo un’alternativa concreta alle situazioni di disagio. Sul fronte opposto, non mancano invece i settori in cui l’impegno dei giovani riesce ad esprimersi con originalità e specificità: ad esempio, il volontariato, l’attenzione ai temi ecologici, l’impegno in politica per la costruzione del bene comune, la promozione della giustizia, per la quale i ragazzi chiedono alla Chiesa “un impegno deciso e coerente”.

Arte, musica e sport, “risorse pastorali”

Anche il mondo dello sport e della musica offre ai giovani la possibilità di esprimersi al meglio: nel primo caso, la Chiesa invita a non sottovalutare le potenzialità educative, formative ed inclusive, dell’attività sportiva; nel caso della musica, invece, il Sinodo punta sul suo essere “risorsa pastorale” che interpella anche ad un rinnovamento liturgico, perché i giovani hanno il desiderio di una “liturgia viva”, autentica e gioiosa, momento di incontro con Dio e con la comunità. I giovani apprezzano celebrazioni autentiche in cui la bellezza dei segni, la cura della predicazione e il coinvolgimento comunitario parlano realmente di Dio”: vanno aiutati quindi a scoprire il valore dell’adorazione eucaristica e a comprendere che “la liturgia non è puramente espressione di sé, ma azione di Cristo e della Chiesa”. Le giovani generazioni, inoltre, vogliono essere protagoniste della vita ecclesiale, mettendo frutto i propri talenti, assumendosi responsabilità. Soggetti attivi dell’azione pastorale, essi sono il presente della Chiesa, vanno incoraggiati a partecipare alla vita ecclesiale, e non ostacolati con autoritarismo. In una Chiesa capace di dialogare in modo meno paternalistico e più schietto, infatti, i ragazzi sanno essere molto attivi nell’evangelizzazione dei loro coetanei, esercitando un vero apostolato che va sostenuto e integrato nella vita delle comunità.

“Si aprirono i loro occhi”

Dio parla alla Chiesa e al mondo attraverso i giovani, che sono uno dei “luoghi teologici” in cui il Signore si fa presente. Portatrice di una sana inquietudine che la rende dinamica – si legge nella seconda parte del Documento – la gioventù può essere “più avanti dei pastori” e per questo va accolta, rispettata, accompagnata. Grazie ad essa, infatti, la Chiesa può rinnovarsi, scrollandosi di dosso “pesantezze e lentezze”. Di qui, il richiamo del Sinodo al modello di “Gesù giovane tra i giovani” e alla testimonianza dei santi, tra i quali si annoverano tanti ragazzi, profeti di cambiamento.

Missione e vocazione

Un’altra “bussola sicura” per la gioventù è la missione, dono di sé che porta ad una felicità autentica e duratura: Gesù, infatti, non toglie la libertà, ma la libera, perché la vera libertà è possibile solo in relazione alla verità e alla carità. Strettamente legato al concetto di missione, c’è quello di vocazione: ogni vita è vocazione in rapporto a Dio, non è frutto del caso o un bene privato da gestire in proprio – afferma il Sinodo – ed ogni vocazione battesimale è una chiamata per tutti alla santità.  Per questo, ciascuno deve vivere la propria vocazione specifica in ogni ambito: la professione, la famiglia, la vita consacrata, il ministero ordinato e il diaconato permanente, che rappresenta “una risorsa” da sviluppare ancora pienamente.

L’accompagnamento 

Accompagnare è una missione per la Chiesa da svolgere a livello personale e di gruppo: in un mondo “caratterizzato da un pluralismo sempre più evidente e da una disponibilità di opzioni sempre più ampia”, ricercare insieme ai giovani un percorso mirato a compiere scelte definitive è un servizio necessario. Destinatari sono tutti i giovani: seminaristi, sacerdoti o religiosi in formazione, fidanzati e giovani sposi. La comunità ecclesiale è luogo di relazioni e ambito in cui nella celebrazione eucaristica si viene toccati, istruiti e guariti da Gesù stesso. Il Documento Finale evidenza l’importanza del sacramento della Riconciliazione nella vita di fede e sprona genitori, insegnanti, animatori, sacerdoti ed educatori ad aiutare i giovani, attraverso la Dottrina sociale della Chiesa, ad assumersi responsabilità in ambito professionale e sociopolitico. La sfida in società sempre più interculturali e multireligiose, è indicare nel rapporto con la diversità un’occasione di arricchimento reciproco e comunione fraterna.

No a moralismi e false indulgenze, sì a correzione fraterna

Il Sinodo quindi promuove un accompagnamento integrale centrato su preghiera e lavoro interiore che valorizzi anche l’apporto della psicologia e della psicoterapia, quando aperte alla trascendenza. “Il celibato per il Regno” – si raccomanda – dovrebbe essere inteso come “dono da riconoscere e verificare nella libertà, gioia, gratuità e umiltà”, prima della scelta definitiva. Si punti ad accompagnatori di qualità: persone equilibrate, di ascolto, fede, preghiera, che si siano misurate con le proprie debolezze e fragilità e siano per questo accoglienti “senza moralismi e false indulgenze”, sapendo correggere fraternamente, lontani da atteggiamenti possessivi e manipolatori. “Questo profondo rispetto – si legge nel testo – sarà la migliore garanzia contro i rischi di plagio e abusi di ogni genere”.

L’arte di discernere

“La Chiesa è l’ambiente per discernere e la coscienza – scrivono i Padri Sinodali –  è il luogo nel quale si coglie il frutto dell’incontro e della comunione con Cristo”: il discernimento, attraverso “un regolare confronto con una guida spirituale”, si presenta quindi come il sincero lavoro della coscienza”, “può essere compreso solo come autentica forma di preghiera” e “richiede il coraggio di impegnarsi nella lotta spirituale”. Banco di prova delle decisioni assunte sono la vita fraterna e il servizio ai poveri. I giovani sono, infatti, sensibili alla dimensione della diakonia.

“Partirono senza indugio”

Maria Maddalena, prima discepola missionaria, guarita dalle ferite, testimone della Resurrezione è l’icona di una Chiesa giovane. Fatiche e fragilità dei giovani “ci aiutano ad essere migliori, le loro domande – si legge – ci sfidano, le critiche ci sono necessarie perché non di rado attraverso di esse la voce del Signore ci chiede conversione e rinnovamento”. Tutti i giovani, anche quelli con diverse visioni di vita, nessuno escluso, sono nel cuore di Dio. I Padri mettono in luce il dinamismo costitutivo della sinodalità, ovvero il camminare insieme: il termine dell’Assemblea e il documento finale sono solo una tappa perché le condizioni concrete e le necessità urgenti sono diverse tra Paesi e continenti. Di qui l’invito alle Conferenze Episcopali e alle Chiese particolari a proseguire il processo di discernimento con lo scopo di elaborare soluzioni pastorali specifiche.

Sinodalità, stile missionario

“Sinodalità” è uno stile per la missione che sprona a passare dall’io al noi e a considerare la molteplicità di volti, sensibilità, provenienze e culture diverse. In questo orizzonte vanno valorizzati i carismi che lo Spirito dona a tutti evitando il clericalismo che esclude molti dai processi decisionali e la clericalizzazione dei laici che frena lo slancio missionario. L’autorità – è l’auspicio – sia vissuta in un’ottica di servizio. Sinodali siano anche l’approccio al dialogo interreligioso ed ecumenico mirato alla conoscenza reciproca e all’abbattimento di pregiudizi e stereotipi, e il rinnovamento della vita comunitaria e parrocchiale perché accorci le distanze giovani-Chiesa e mostri l’intima connessione tra fede ed esperienza concreta di vita. Formalizzata la richiesta più volte avanzata in Aula di istituire, a livello di Conferenze Episcopali, un “Direttorio di pastorale giovanile in chiave vocazionale” che possa aiutare i responsabili diocesani e gli operatori locali a qualificare la loro formazione ed azione con e per i giovani”, contribuendo a superare una certa frammentazione della pastorale della Chiesa. Ribadita l’importanza delle Gmg così come quella di centri giovanili ed oratori che però necessitano di essere ripensati.

La sfida digitale

Ci sono alcune sfide urgenti che la Chiesa è chiamata a cogliere. Il Documento Finale del Sinodo affronta la missione nell’ambiente digitale: parte integrante della realtà quotidiana dei giovani, “piazza” in cui essi trascorrono molto tempo e si incontrano facilmente, luogo irrinunciabile per raggiungere e coinvolgere i ragazzi anche nelle attività pastorali, il web presenta luci ed ombre. Se da una parte, infatti, permette l’accesso all’informazione, attiva la partecipazione sociopolitica e la cittadinanza attiva, dall’altra presenta un lato oscuro – il così detto dark web – in cui si riscontrano solitudine, manipolazione, sfruttamento, violenze, cyberbullismo, pornografia. Di qui, l’invito del Sinodo ad abitare il mondo digitale, promuovendone le potenzialità comunicative in vista dell’annuncio cristiano, e ad “impregnare” di Vangelo le sue culture e dinamiche. Si auspica la creazione di Uffici e organismi per la cultura e l’evangelizzazione digitale che, oltre a “favorire lo scambio e la diffusione di buone pratiche, possano gestire sistemi di certificazione dei siti cattolici, per contrastare la diffusione di fake news riguardanti la Chiesa”, emblema di una cultura che “ha smarrito il senso della verità”, incoraggiando la promozione di “politiche e strumenti per la protezione dei minori sul web”.

Riconoscere e valorizzare donne nella società e nella Chiesa

Il Documento evidenzia anche la necessità di un maggiore riconoscimento e valorizzazione delle donne nella società e nella Chiesa, perché la loro assenza impoverisce il dibattito ed il cammino ecclesiale: urge un cambiamento da parte di tutti – si legge – anche a partire da una riflessione sulla reciprocità tra i sessi. Si auspicano “una presenza femminile negli organi ecclesiali a tutti i livelli, anche in funzioni di responsabilità” ed una “partecipazione femminile ai processi decisionali ecclesiali nel rispetto del ruolo del ministero ordinato”. “Si tratta di un dovere di giustizia” – afferma il documento – che trova ispirazione in Gesù e nella Bibbia. 

Corpo, sessualità e affettività

Quindi, il Documento si sofferma sul tema del corpo, dell’affettività, della sessualità: di fronte a sviluppi scientifici che sollevano interrogativi etici, a fenomeni come la pornografica digitale, il turismo sessuale, la promiscuità, l’esibizionismo on line, il Sinodo ricorda alle famiglie e alle comunità cristiane l’importanza di far scoprire ai giovani che la sessualità è un dono. Spesso la morale sessuale della Chiesa è percepita come “uno spazio di giudizio e di condanna”, mentre i ragazzi cercano “una parola chiara, umana ed empatica” ed “esprimono un esplicito desiderio di confronto sulle questioni relative alla differenza tra identità maschile e femminile, alla reciprocità tra uomini e donne, all’omosessualità”. I vescovi riconoscono la fatica della Chiesa nel trasmettere nell’attuale contesto culturale “la bellezza della visione cristiana della corporeità e della sessualità”: è urgente ricercare “modalità più adeguate, che si traducano concretamente nell’elaborazione di cammini formativi rinnovati”. “Occorre proporre ai giovani un’antropologia dell’affettività e della sessualità capace di dare il giusto valore alla castità” per la crescita della persona, “in tutti gli stati di vita”. In tal senso si chiede di prestare attenzione alla formazione di operatori pastorali che risultino credibili e maturi da un punto di vista affettivo-sessuale. Il Sinodo constata inoltre l’esistenza di “questioni relative al corpo, all’affettività e alla sessualità che hanno bisogno di una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale, da realizzare nelle modalità e ai livelli più convenienti, da quelli locali a quello universale. Tra queste emergono quelle relative alla differenza e armonia tra identità maschile e femminile e alle inclinazioni sessuali”. “Dio ama ogni persona e così fa la Chiesa rinnovando il suo impegno contro ogni discriminazione e violenza su base sessuale”. Ugualmente – prosegue il documento – il Sinodo “riafferma la determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità uomo-donna e ritiene riduttivo definire l’identità delle persone a partire unicamente dal loro orientamento sessuale”. Allo stesso tempo si raccomanda di “favorire” i “percorsi di accompagnamento nella fede, già esistenti in molte comunità cristiane”, di “persone omosessuali”. In questi cammini le persone sono aiutate a leggere la propria storia; ad aderire con libertà e responsabilità alla propria chiamata battesimale; a riconoscere il desiderio di appartenere e contribuire alla vita della comunità; a discernere le migliori forme per realizzarlo. In questo modo si aiuta ogni giovane, nessuno escluso, a integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé”.

Accompagnamento vocazionale

Tra le altre sfide segnalate dal Sinodo c’è anche quella economica: l’invito dei Padri è ad investire tempo e risorse sui giovani con la proposta di offrire loro un periodo destinato alla maturazione della vita cristiana adulta che “dovrebbe prevedere un distacco prolungato dagli ambienti e delle relazioni abituali”. Inoltre, mentre si auspica un accompagnamento prima e dopo il matrimonio, si incoraggia la costituzione di equipe educative, che includano figure femminili e coppie cristiane, per la formazione di seminaristi e consacrati anche al fine di superare tendenze al clericalismo. Speciale attenzione viene chiesta nell’accoglienza dei candidati al sacerdozio che a volte avviene “senza una conoscenza adeguata e rilettura approfondita della loro storia”: “l’instabilità relazionale e affettiva, e la mancanza di radicamento ecclesiali sono segnali pericolosi. Trascurare la normativa ecclesiale a questo riguardo – scrivono i Padri Sinodali – costituisce un comportamento irresponsabile, che può avere conseguenze molto gravi per la comunità cristiana”.

Chiamati alla santità            
“Le diversità vocazionali – conclude il Documento Finale del Sinodo sui giovani – si raccolgono nell’unica e universale chiamata alla santità. Purtroppo il mondo è indignato dagli abusi di alcune persone della Chiesa piuttosto che ravvivato dalla santità dei suoi membri”, per questo la Chiesa è chiamata ad “un cambio di prospettiva”: attraverso la santità di tanti giovani disposti a rinunciare alla vita in mezzo alle persecuzioni pur di mantenersi fedeli al Vangelo, può rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico.

Il dono del Papa ai partecipanti al Sinodo

Infine, come ricordo del Sinodo dei Giovani, il Santo Padre ha fatto dono a tutti i partecipanti di una formella in bronzo in bassorilievo, raffigurante Gesù e il giovane discepolo amato. Si tratta di un’opera dell’artista italiano Gino Giannetti, coniata dalla Zecca dello Stato della Città del Vaticano, emessa in soli 460 esemplari.

Paolo Ondarza e Isabella Piro – Città del Vaticano

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Geremia 31,7-9

Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».      

 

 

v Il piccolo brano di questa lettura è inserito nella raccolta degli oracoli di restaurazione composti in varie epoche dal profeta Geremia (30,2s), profeta di «distruzione», ma anche di «edificazione» (1,10). Dopo aver annunziato in generale l’estrema rovina del suo popolo e il cambiamento di sorte del «resto» di Giacobbe (30,1-22), in 31,1-6 viene espressa la somma gioia del Padre d’Israele e del suo portavoce nel contemplare il viaggio del ritorno in patria degli Israeliti: è l’aver trovato grazia agli occhi del Signore, aver esperimentato l’immensa pietà («amore eterno… e compassione», 31,3) del Dio dei padri. Segue la descrizione festosa del rientro in Palestina sulle labbra dello stesso Signore:

     v. 7: dice il Signore: «innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate». È un invito a tutta l’assemblea dei credenti a godere per le meraviglie operate dall’Altissimo (Sal 96.97), e precisamente per la salvezza del «resto» d’Israele, il prediletto tra i popoli («la prima delle nazioni»): l’intera ricostituzione di quella stirpe, a cui è stata fatta una promessa eterna; di questa Dio si è ricordato nel tempo della loro sventura, quando erano ormai ridotti a un piccolo numero (Is 41,13-20).

     v. 8: «Ecco, li riconduco… dalle estremità della terra». L’onnipotenza divina non conosce limiti di spazio, né difficoltà di itinerari: li raggiungerà dovunque si trovino e guiderà verso il loro paese, compresi zoppi e infermi, esattamente come ha già fatto con i loro antenati attraverso il deserto del Sinai (Is 40,10), «portando gli agnellini sul petto e conducendo pian piano le pecore madri» (Is 40,11).

     v. 9: «li riporterò tra le consolazioni… io sono un padre per Israele». Dopo il pianto, li attende ora una grande consolazione, dopo l’oppressione della schiavitù, l’abbondanza dei beni nella loro terra preparata da secoli da JHWH, «scorrente latte e miele (Es 3,8) e fiumi d’acqua». La motivazione: Dio è un vero Padre, pieno di tenerezza, che non potrà mai dimenticare il suo primogenito: «ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (31,3; Os 11,8).

     Viene così esaltata sia l’assoluta potenza del Dio d’Israele dinanzi a cui non c’è alcuna barriera, sia la sua fedeltà ai disegni d’amore manifestati ai patriarchi del popolo eletto. È un sovrano pietoso di cui tutte le creature si possono fidare, sempre pronto a intervenire a favore di chi riconosce la sua infinita benevolenza paterna. Lo confermerà splendidamente il Maestro divino Gesù (Mt 6,25-34).

 

Seconda lettura: Ebrei 5,1-6

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek». 

      

 

v L’autore della lettera sta presentando Gesù nella sua missione di Salvatore dell’umanità, in quanto si è fatto partecipe e solidale della nostra natura (2,14-17). Da qui la designazione di nostro mediatore di pace, espiatore di tutte le nostre colpe e nostro sommo Sacerdote presso il trono dell’Altissimo (2,14-17). Si continua poi a elencare le sue prerogative di fedeltà, di misericordia, di efficacia (fino a tutto il c. 10).

     In 5,1-10 abbiamo la precisa definizione del sacerdozio di Cristo.

     v. 1: «Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini». Anzitutto una definizione basilare, applicabile a ogni tipo di mediatore sacro fra gli uomini e la Divinità: essere presi dal gruppo dei propri simili e designati nell’ambito delle realtà religiose, col compito di offrire doni graditi al Signore supremo e sacrifici di animali in riparazione delle offese fatte alla maestà divina. Proprio ciò che si era realizzato nell’ordinamento levitico del popolo ebreo: consacrazione dei figli di Levi al servizio del culto e per la presentazione delle offerte sull’altare di JHWH (Es 28.29; Lv 2.4).

     v. 2: «Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli…». In secondo luogo saranno dotati di compassione, cioè di comprensione e misericordia verso la debolezza dei propri fratelli, in quanto anch’essi partecipi dei loro limiti e delle loro manchevolezze, sia pure per mancanza di piena cognizione del male compiuto («ignoranza») e per cui saranno tenuti a offrire espiazione anche per se stessi (Lv 9,7).

     v. 4: «Nessuno attribuisce a se stesso questo onore». In terzo luogo occorre che la designazione a quell’ufficio provenga dall’alto. Nessuno può presumere di avere il singolare compito di accostarsi al trono del Dio tre volte santo per attirare sugli altri le divine compiacenze. Solo Lui può conferire questo onore a chi vuole: così è stato per Aronne (Es 28,1), così sarà per i primi rappresentanti di Cristo (Gv 3,27:15,16); chi se ne è arrogato il diritto è stato radiato dal suo cospetto (Nm 16;1 Re 13,1-5).

     v. 5: «Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote». Cristo è sommo sacerdote perché così l’ha solennemente dichiarato JHWH, conferendogli la sua somma compiacenza: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2,7), «in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Nato da donna (Gal 4,4) e insieme consostanziale al Padre, partecipe della natura umana e della divina, è già costituito supremo mediatore fra l’umanità e la Divinità per la sua perfetta solidarietà con l’uomo e la sua unione ipostatica col Verbo. Così è stato confermato con un altro oracolo divino: «tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek» (Sal 110,4). Al cap. 7 della nostra Lettera verrà spiegata la superiorità nel tempo e nel valore del sacerdozio di Melchisedek (che si presenta nella Genesi senza genealogia e ereditarietà umana) nei confronti del sacerdozio levitico (iniziato nel tempo e ereditario), e di conseguenza viene esaltata la sublimità e perennità del Sacerdozio di Cristo, evidentemente designato dall’Altissimo, indefettibile e efficacissimo.

     In conclusione in Cristo Gesù abbiamo un Mediatore sommo e universale: santissimo, che non ha avuto bisogno di offrire espiazione per sé, dotato di immensa pietà e solidarietà per i suoi fratelli, che ha lavato i peccati di tutti col suo sangue divino, che penetra i cieli fino al trono dell’Eterno e può ottenerci ogni benedizione e salvarci da ogni male.

 

Vangelo: Marco 10,46-52

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. 

 

 

Esegesi

L’episodio della guarigione del cieco di Gerico, nel II Vangelo, fa da cerniera tra la sezione dell’ultimo tratto di viaggio di Gesù verso Gerusalemme (10,34-45), e la sezione dell’ingresso trionfale del re davidico nella città santa. La prima si chiude con l’incomprensione dei discepoli dopo l’annunzio della passione; e la seconda inizia con l’aperta acclamazione messianica del figlio di David (11,1-11.27-33). Il racconto sembra orientato verso la piena adesione al Salvatore divino nella sua più alta manifestazione.

      v. 46: «mentre Gesù partiva da Gèrico». Gesù scendendo dalla Transgiordania è di passaggio a Gerico, diretto verso Gerusalemme (a circa 30 Km), per celebrarvi la sua ultima Pasqua e il suo supremo sacrificio. Con lui ci sono i suoi discepoli e una folla di persone, probabilmente suoi seguaci e pellegrini. All’uscita della città, sul ciglio della strada si trova un cieco mendicante. Parte del suo mantello pare gli stia disteso accanto per ricevervi le elemosine dei pii giudei, più abbondanti in quei giorni sacri; tale posizione del mendicante, ci sembra, risulti dalla duplice «lezione» del v. 50: apobalòn «gettando» (il mantello) e epibalòn «rimettendolo» (sulle spalle). Il nome di Bartimeo viene riportato in questo racconto solo da Mc (cf. Lc 18,35; Mt 20,30): quando si scriveva il II Vangelo, l’uomo doveva essere ben noto nella primitiva comunità di Gerusalemme.

 v. 47: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare». Dal brusio di tanta gente avrà percepito che lì in mezzo c’era proprio il famoso Gesù di Nazaret, di cui certamente aveva sentito meraviglie. Gli si desta una grande speranza, e con tutta la forza della sua voce comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Il titolo rivolto al Rabbì di Galilea, quanto al Vangelo di Mc, lo si trova soltanto qui: evocava le attese nazionalistico-messianiche del popolo ebreo; in Mc 12,35 viene riportato come affermazione degli scribi. Ma Bartimeo l’avrà inteso in un senso più ampio, come di colui che aveva grandi poteri e portava ogni liberazione e guarigione.

      v. 48: «Molti lo rimproveravano perché tacesse». La folla cerca di zittire l’importuno, come i discepoli avrebbero voluto fare con la donna cananea (Mt 15,23) e per i bambini che andavano incontro a Gesù (Mc 10,13). Quell’uomo però non desiste: ha nel cuore una ferma fiducia nella bontà del mite Rabbì nazareno e grida più forte che può… È l’insistenza nel pregare, che tanto raccomandava il Maestro divino (Lc 11,5-9; 18,1-8). Lui infatti, mentre in simili circostanze ha cercato di imporre il silenzio alle acclamazioni degli astanti (Mc 7,36), adesso interviene per dare ascolto a quella accorata implorazione.

      v. 49: «Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Vi ha incontrato qualcosa di speciale. La stessa folla cambia atteggiamento: tutti presentono che si è dinanzi a qualcosa di nuovo, se lui si è fermato per parlare al mendicante: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».

      v. 50: «gettato via il suo mantello, balzò in piedi». L’ha compreso anche lui e si alza, abbandonando mantello e eventuali offerte dei pellegrini, per correre ormai verso la sua salvezza: la sente già nell’intimo del suo cuore! Non ha bisogno di altro.

      v. 51: «Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Ai piedi del Maestro, non grida più. Lui gli da l’opportunità di esprimere chiaramente l’oggetto della sua richiesta. Non si tratta di ottenere un aiuto qualsiasi, ma di raggiungere quel che da nessun essere puramente umano era possibile avere: la luce dei suoi occhi spenti. «Rabbunì, che io veda di nuovo!» Rabbunì («mio buon Signore») ha qualcosa di più affettuoso e vivo del semplice Rabbì, come quello pronunziato dalla Maddalena, quando riconobbe all’improvviso il suo amato Maestro (Gv 20,16): un riferimento all’insondabile pietà del Figlio di David!

      v. 52: «Va’, la tua fede ti ha salvato… e lo seguiva lungo la strada». La fede di quel povero cieco ha raggiunto il più alto grado, richiesto e sollecitato spesso dal divin Maestro: un abbandono sincero nella trascendente bontà e potenza dell’Unto di JHWH. Il quale, commosso come in casi analoghi, semplicemente risponde con una sola parola: «la tua fede ti ha salvato», conferendogli il dono più grande, che egli stesso desiderava elargire a tutti (Lc 19,9s; Gv 3,17): non la semplice guarigione di un organo corporale, ma la completa restaurazione della persona: «venite a me, e io vi ristorerò» (Mt 11,28); un nuovo rapporto di shalom, pace e armonia, con Dio e con tutto ciò che ci circonda (Mc 5,34; Lc 7,50; 17,19). «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (v. 52b). Così Bartimeo non rimase più a Gerico, la lussuosa città degli Erodiadi, ad attendere l’elemosina, ma da quel giorno si mise a seguire la comunità del Maestro divino, conquistato dal suo immenso amore, verso Gerusalemme, la città della sua morte redentrice e della sua gloriosa risurrezione.

      Il cammino del cieco di Gerico verso la vera luce si presenta come un esemplare itinerario per chi dalla tristezza di un’esistenza opaca e senza avvenire vuole pervenire al traguardo della vera vita. Saper percepire la salutare presenza di chi ci passa accanto, il calore del Sole divino che ci illumina; lasciare salire verso di Lui l’anelito della propria anima, implorare incessantemente finché ci avvenga di essere toccati dall’esperienza viva del suo splendore e della sua infinita benevolenza.

 

 Meditazione

 

Marco, che ci ha accompagnato nelle domeniche di questo anno, ci fa incontrare oggi il Signore nella sua ultima tappa prima di entrare in Gerusalemme. Abbiamo visto lungo il cammino il clima nuovo, quasi di festa, che Gesù creava tra la gente delle città e dei villaggi ove pas­sava. In tanti accorrevano a lui, soprattutto i deboli, i poveri, i lebbro­si, i malati. Tutti desideravano avvicinarlo, toccarlo, parlargli; volevano da lui pace e felicità per la loro vita. E Gesù li accoglieva tutti. Ad un mondo fatto di adulti che amano nascondere la propria debolezza a se stessi e agli altri, Gesù insegna il contrario. Per gli uomini è norma­le giudicare, pretendere, rivendicare piuttosto che chiedere e doman­dare aiuto; come pure è molto più normale condannare piuttosto che perdonare. Il Signore instaura un altro clima tra gli uomini, un clima di fiducia; anche i più lontani e i più disprezzati possono avvicinarsi a lui e invocare guarigione e salvezza. Anzi, con il suo comportamento di fatto li esortava a rivolgersi a lui con fede. La richiesta fatta con fede era l’unica cosa che pretendeva. E il motivo era profondo: la preghie­ra fatta con fede apre sempre il cuore ad un modo diverso di vivere. La si apprende però solo quando si è poveri o ci si accorge di essere tali. Lo aveva capito Bartimeo che mendicava alla porta di Gerico. Come tutti i ciechi, anche lui è rivestito di debolezza. Ai ciechi non restava altro che mendicare, aggiungendo così alla cecità la dipenden­za totale dagli altri. Nei Vangeli sono come l’immagine della povertà e della debolezza.

Bartimeo, come Lazzaro, come tanti altri vicini e lontani da noi, giacciono alle porte della vita in attesa di qualche conforto. Eppure Bartimeo è esempio per ognuno di noi, esempio del credente che chie­de e che prega. Attorno a lui tutto è buio; non vede chi passa, non riconosce chi gli sta vicino, non distingue né i volti né gli atteggiamen­ti. Ma quel giorno fu diverso. Sentì il rumore della folla che si avvicina­va. E nel buio della sua vita e delle sue percezioni, intuì una presenza: ha «sentito che era Gesù Nazareno…», nota l’evangelista. Ebbe la sensazione che quel giovane profeta non era come tanti altri che gli erano passati vicino sino a quel momento. E quanti ne aveva sentiti passare in anni e anni di mendicità! A quanti aveva teso la mano, a quanti aveva chiesto aiuto, quanti aveva sentito passare vicini e poi progressivamen­te allontanarsi! E l’esperienza del non vedere, ma è anche l’esperienza dell’elemosina, dell’incontro di un attimo e poi di tutta la distanza che viene posta tra chi è ricco e chi mendica, tra chi vede e chi è cieco. Bartimeo è un uomo costretto a chiedere per l’assenza di ogni altra risorsa. È un mendicante; e non può fare altro che chiedere. Alla noti­zia di quel passaggio comincia a gridare: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È una invocazione molto povera. Non è un parlare abile, come ad esempio fece l’uomo ricco che osservava i comandamenti sin dalla giovinezza e che si rivolse a Gesù chiamandolo «buono». Qui l’invocazione è semplice e assieme drammatica. Quel cieco non ha null’altro che il grido; è l’unico modo per superare il buio e le distan­ze che non riusciva a misurare. Nel Primo Testamento il grido è quello del povero che si rivolge a Dio per ottenere giustizia e salvezza, come Israele in Egitto (cfr. Es 2,23). Quel grido però non piaceva alla folla, tanto che tutti, «lo rimproveravano», sottolinea l’evangelista, cercando di farlo tacere. Era un urlo sconveniente, un grido scomposto e comunque esagerato, come spesso accade ai poveri; rischiava inoltre di disturbare anche quel felice incontro tra Gesù e la folla della città. In tutta la sua presunta ragionevolezza era una logica spietata; non solo lo sgridavano; volevano farlo tacere. Quel cieco non aveva nulla a che fare con la vita di quella città. Gli era permesso mendicare, ma senza scon­volgere i ritmi ordinari e abituali della città. E per quella folla compo­sta di uomini che si credevano sani e di non dover nulla a nessuno era facile incutere timore e terrore a un povero mendicante che dipende­va in tutto da loro. Ma la presenza di Gesù fece superare ogni timore. Bartimeo sentì che la sua vita poteva cambiare totalmente da quell’in­contro. E con voce ancora più forte gridò ancora: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È la preghiera dei piccoli, dei poveri che giorno e notte, senza sosta, perché continuo è il loro bisogno, si rivolgono al Signore; è l’invocazione dei deboli che hanno ricevuto la notizia del suo passaggio e ripongono in lui la loro speranza. Gesù non è sordo al grido dei deboli. Gesù, udito quell’urlo di aiuto, si fermò. È come il buon samaritano che non passa oltre, come fecero il sacerdote e il levita, e come la folla vorrebbe che Gesù facesse. Al contrario, Gesù si fermò e rispose al grido di Bartimeo.

La risposta inizia con una chiamata: «Gesù si fermò e disse: chiama­telo! Chiamarono il cieco dicendogli: coraggio! Alzati, ti chiama!». È sempre il Signore che chiama, ma si serve di altri uomini, della loro parola. Essi si avvicinano a noi e ci incoraggiano ad incontrare Gesù, anzi ci portano a lui. Ma poi l’incontro con il Signore è sempre perso­nale, richiede un colloquio diretto, familiare, come quello di un figlio che si rivolge fiducioso al padre. Bartimeo appena sentì che Gesù vole­va vederlo, gettò via il mantello e corse verso di lui. Gettò via quel mantello che da anni lo copriva, era forse l’unico riparo contro il freddo agghiacciante degli inverni e soprattutto dei cuori induriti della folla. Non serviva più coprire la sua povertà, non aveva più biso­gno di quel riparo, perché aveva sentito che il Signore lo chiamava. Balzò in piedi e andò di corsa da Gesù. Correva anche se non vedeva; in verità «vedeva» molto più profondamente di tutta quella folla. Sentì la voce di Gesù e andò verso quella voce. Era solo una voce, ma era l’unica che finalmente lo chiamava per accoglierlo. Era diversa dal mormorio e dalle parole grosse della folla che voleva farlo tacere. Quella voce, quella parola, era per lui un nuovo punto di riferimento, a tal punto saldo, da permettergli di correre, mentre era ancora cieco, senza alcun sostegno. Bartimeo seguì quella voce e incontrò il Signore. Così accade per chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. L’ascolto della Parola di Dio non conduce verso il vuoto, non porta verso un immaginario psicologico; l’ascolto conduce all’incontro per­sonale con il Signore. Così è avvenuto per Bartimeo. È Gesù che inizia a parlare, quasi a prolungare la chiamata che gli aveva fatto. È davvero diverso da tutti coloro che sino ad allora aveva incontrato. Gesù non getta nelle sue mani qualche spicciolo, pur necessario, per poi andare via. No, si ferma, gli parla, mostra interesse per lui e la sua condizione e gli chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Bartimeo, senza frapporre tempo e parole inutili, così come prima aveva pregato con semplicità, gli dice: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». Sa che è il momento dell’incontro, il momento del passaggio, quello che può trasformare radicalmente tutta la sua vita. Non divaga e tanto meno mente; gli chiede la cosa che più conta per lui, la vista. Potrebbe sem­brare una richiesta non nobile. Ma ciò che conta per il Signore è che il cieco si rivolga a lui con fede. Bartimeo ha riconosciuto la luce pur senza vederla. Per questo ha riavuto subito la vista. «Va’, la tua fede ti ha salvato!», gli dice Gesù. Da quel momento Bartimeo non mendica più lungo la via di Gerico, ma prende a seguire Gesù lungo le vie del mondo. Era diventato discepolo, subito, senza indugio, perché aveva cominciato a vedere.

Si conclude così il capitolo 10, questa sezione iniziata con la molti­plicazione dei pani al capitolo 6, in cui Gesù aveva rimproverato i disce­poli incapaci di riconoscerlo come il pane di vita: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? (8,18). Ci vollero due ciechi (8,22-26 e Bartimeo) e un sordomuto (7,31-37) perché i discepoli potessero almeno cominciare a porsi la domanda sull’ascoltare e sul vedere, per capire. Si dovrà forse ricostituire quel popolo, di cui fanno parte «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente», che il profeta Geremia ha annunciato, per poter anche noi vedere e riconoscere la salvezza che viene dal Signore. Lui, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, è venuto a salvarci perché tutti siamo mendicanti del suo amore, come Bartimeo.

 

L’immagine della domenica

 


O boschi e fitte selve,

piantati dalla mano dell’Amato!

O prato verdeggiante,

di bei fiori smaltato,

ditemi se qui egli è passato! 

(Giovanni della Croce, CB, st. 4)


Preghiere e racconti

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

 Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

 Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

 Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

 

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grath, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

 

Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore

«Il comandamento del Signore è limpido, da luce agli occhi» (Sal 18 [19] ,9). Accogli Cristo, accogli la facoltà di vedere, accogli la tua luce perché tu conosca bene Dio e l’uomo. Il Verbo che ci ha illuminati è «più prezioso dell’oro e delle pietre preziose; desiderabile più del miele e del favo» (Sal 18 [19],11). Come può, infatti, non essere desiderabile colui che ha dato luce alla mente ottenebrata e ha aperto gli occhi dell’anima portatori di luce? […] Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore. Questo è ciò che egli ha promesso al Padre: «Racconterò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (Sal 21 [22] ,23). Loda e proclama tuo padre, Dio; le tue parole mi salveranno, il tuo canto mi istruirà. Fino a ora ho errato nella speranza di trovare Dio, ma poiché tu mi illumini, Signore, trovo Dio per mezzo di te, e ricevo il Padre da te, divengo tuo coerede, poiché non ti sei vergognato di avermi come fratello (cfr. Eb 2,11). Cancelliamo, dunque, cancelliamo l’oblio della verità, l’ignoranza e, rimuovendo le tenebre che ci impediscono la vista come nebbia per gli occhi, contempliamo il vero Dio, acclamandolo innanzitutto con queste parole: «Rallegrati, luce»; poiché una luce dal cielo brillò su di noi sepolti nelle tenebre e prigionieri nell’ombra di morte (cfr. Is 9,1; Mt 4,16; Lc 1,79), più pura del sole, più dolce della vita terrena. Questa luce è la vita eterna e tutto quanto partecipa di essa vive, ma la notte teme la luce e, nascondendosi per la paura, lascia il posto al giorno del Signore; l’universo è diventato luce insonne e l’occidente si è trasformato in oriente. Ecco che cosa significa la nuova creazione (cfr. Gal 6,15). Poiché il sole di giustizia (cfr. Ml 3,20), che cavalca l’universo, percorre tutto il genere umano imitando il Padre che fa sorgere il suo sole su tutti gli uomini (cfr. Mt 5,45) e su di essi sparge la rugiada della verità. Egli ha trasformato l’oriente in occidente crocifiggendo la morte e trasformandola in vita. Ha strappato l’uomo dalla rovina e l’ha stabilito nel cielo, tramutando la corruzione in incorruttibilità e trasformando la terra in cielo.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Esortazione ai greci 11,114-115, in Id., Protreptico ai greci, Torino 1940, pp. 231.233.235).

 

La fede ha un senso?

Spesso nella quotidianità sperimentiamo di non poter fare affidamento sugli altri. Uno ci ha giurato eterna fiducia, e tuttavia ci lascia. Un altro sembra essere solido e avere una posizione certa, ma poi si lascia coinvolgere in scandali. I politici si orientano secondo il vento che tira. Proprio in questa situazione è importante non reagire in modo cinico, ironico o addirittura con rassegnazione. Continuano a esserci persone sulle quali si può fare davvero affidamento, che non promettono troppo, che sono sincere e contem­poraneamente fedeli. E c’è un fondamento ultimo della mia vita, sul quale posso fare affidamento: persino quando ab­bandono me stesso, perché non riesco più a sopportarmi, Dio non mi abbandona.

Per i bambini è particolarmente importante l’affidabili­tà. Per loro è importante potersi fidare e credere che il loro angelo non li abbandona, anche se i genitori li abbandona­no; che il loro angelo è con loro e li sostiene, anche là dove non riescono più a farlo loro stessi. Una fiducia così pro­fonda fa in modo che loro tengano fede a se stessi e che possano sviluppare la propria personalità. Solo una fiducia del genere dà loro solidità in mezzo a un mondo insicuro.

[…] L’esperienza mostra che nessuno può vivere senza fiducia. Persino chi è stato continuamente deluso dagli altri, desidera intensamente avere persone di cui ci si può fidare. Ha dentro di sé la sensazione di aver bisogno di questa fiducia per avere un punto fermo in questo mondo. E se gli altri lo deludono continuamente, allora cerca un altro soste­gno. Anche la fiducia in Dio normalmente ha bisogno del­l’esperienza della fiducia umana. Ma si fa anche esperien­za che la mancanza di fiducia umana ci porta a porre la nostra fiducia in Dio. Ciascuno ha in sé il desiderio inten­so di potersi fidare. E nel desiderio intenso di fiducia si pre­senta già l’inizio della fiducia in noi.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 80-81).

 

Quale sicurezza offre la fede?

Un aspetto ulteriore della fede non punta al sapere e all’interpretazione, ma all’atteggiamento. Credo a qualcuno. Fede è fiducia in una persona. Anche se questa fiducia, in ultima analisi, ritiene che Dio sia il sostegno vero e proprio della nostra vita, per molti non è possibile confidare in Dio, che appare così lontano. E tuttavia, si sentono in qualche modo sostenuti. Dietrich Bonhoeffer, nella famosa poesia composta prima di venire ucciso in campo di concentramento, ha parlato delle forze amiche che ci sostengono: “Da forze amiche meravigliosamente avvolti, attendiamo consolati quello che verrà. Dio è con noi di sera e di mattina, sarà con noi in ogni nuovo giorno”. A queste parole possono ricorrere anche coloro che hanno difficoltà a riconoscere Dio come il fondamento della loro fiducia.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 84).

 

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce.

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole).

 

Preghiera

 Io sono venuto

in questo mondo

perché coloro

che non vedono

vedano e quelli

che vedono

diventino ciechi.

 Apri i miei occhi, Signore,

alle meraviglie del tuo amore.

Io sono cieco sulla strada.

Guariscimi: voglio vederti.

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOMENICA TEMPO ORD ANNO B