Festa della mamma – 8 maggio 2011.


“Il latte della mamma non si scorda mai”

 

E’ un titolo un po’ curioso per parlare ancora nel nostro tempo delle mamme. Però una cosa è certa: ciascuna donna famosa, povera, ignorante, culturalmente chic, ad un certo momento della vita desidera ardentemente un figlio. La sua natura non le perdona il tempo dedicato a tante sciocchezze e non all’unica cosa importante per cui è al mondo: generare. Basta guardare alle starlette, cantanti, dive della nostra TV, per rendersene conto.

Però- nello stesso tempo- c’è da spaventarsi per come tuttora le madri siano abbandonate e muoiano ed occorre plaudire alla campagna presentata presso il Ministero della Salute, per la promozione dell’allattamento al seno “Il latte della mamma non si scorda mai”. Si tratta di una campagna itinerante volta a sensibilizzare le neomamme sui vantaggi dell’allattamento al seno per la salute del bambino sia dal punto di vista nutrizionale che su quello affettivo- psicologico, in particolar modo nel Sud Italia, dove si registrano tassi di allattamento al seno esclusivo o predominante mediamente più bassi. Per questo le Regioni individuate per la realizzazione di maggiori iniziative sono state la Calabria e la Puglia(mi torna strano: da sempre le donne meridionali sono state orgogliose di allattare i figli…).
La campagna, che coinvolgerà direttamente le strutture sanitarie locali e le associazioni di settore, prevede un percorso a tappe che toccherà le città di Foggia, Bari, Roma, Cosenza e Reggio Calabria, dove un camper allestito ad hoc farà sosta nelle principali piazze promuovendo l’allattamento al seno attraverso la distribuzione di materiale informativo e attività di sensibilizzazione sul tema (mostre, convegni, consulenze di esperti e di operatori sanitari). Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella,  ha spiegato il motivo di questo tour:”l’allattamento al seno è un gesto naturale, dobbiamo promuovere e restituire una cultura ‘spontanea’ della maternità. Va modificata anche la percezione comune che se ne ha, non è possibile che oggi venga visto come un gesto sconveniente in luoghi pubblici. C’è troppa paura a essere madri , una paura dovuta alla mancanza di sostegno da parte delle istituzioni, al veder sconvolta la propria vita. Ma anche paura del dolore. In questo senso mi piacerebbe poter allargare la prossima campagna anche alla promozione del parto naturale”( io …potrei farle da testimonial: i miei cinque figli sono nati tutti così)
Inoltre, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha raccomandato l’allattamento materno esclusivo per almeno i primi sei mesi di vita del bambino e il mantenimento del latte materno come alimento principale fino al primo anno di vita, pur introducendo gradualmente cibi complementari.( cfr. i media  e i quotidiani del 5-5-2011) .

Bello , poi, l’evento organizzato dalla Fondazione Idis – Città della Scienza con un programma ricco di laboratori, incontri con esperti, visite guidate alle mostre e spettacoli al planetario.
All’interno del Science Centre le mamme, insieme ai loro piccoli, scopriranno il meraviglioso mondo delle cure parentali nel mondo animale; partendo con le visite guidate alla mostra sugli insetti per conoscere coleotteri, insetti stecco e insetti foglia, blatte e api, e le loro strabilianti capacità. Si  ammireranno in presa diretta la nidificazione di alcune specie di uccelli, come falchi e barbagianni, però il percorso non potrà che concludersi con i mammiferi, sicuramente i più “materni” di tutto il mondo animale.
Grazie ad Aicote( = Associazione Interdisciplinare COterapie che da molti anni svolge progetti di attività, educazione e terapie con gli animali), si conosceranno mamme e cuccioli di cincillà, cavie peruviane, conigli nani e criceti, apprendendone le esigenze, le cure, la gestione e tutto ciò che riguarda questi piccoli animali.
Ma per la festa della mamma perché non concedersi anche un po’ di tempo esclusivamente per sé e avere qualche suggerimento, consiglio e curiosità sull’essere ancora più belle? Risponderà alle nostre domande il make up artist di “Idea Bellezza” che per l’occasione offrirà prove trucco a tutte le mamme interessate. Nell’ Officina dei Piccoli, poi, i bambini si divertiranno con i laboratori creativi, dove potranno realizzare piccoli regali per le loro mamme, dai fiori di carta, ai biglietti di auguri in carta riciclata, dagli scarabei portafortuna a tanti, tanti cuori di mamma. Le attività di Lacci Sciolti daranno l’atmosfera festosa, con travestimenti e animazioni itineranti in tutte le aree espositive, giochi di squadra e attività ludiche per i più piccoli.

Questo è il bello, ma- purtroppo- c’è anche il lato brutto.

 

 

Il dodicesimo Rapporto sullo Stato delle Madri del Mondo

Secondo il dodicesimo Rapporto sullo Stato delle Madri del Mondo”, presentato a Roma da Save the Children, 48 milioni le donne che ogni anno nel mondo partoriscono senza alcuna assistenza professionale, mille al giorno, 2 milioni quelle che lo fanno in completa solitudine e 358mila quelle che perdono la vita in conseguenza della gravidanza o del parto. Save the Children,  valuta il benessere materno- infantile in 164 paesi del mondo e istituisce una graduatoria, l’Indice delle madri, basandosi su parametri quali gli indici di mortalità infantile e materna, l’accesso delle donne alla contraccezione, la partecipazione delle donne alla vita politica.
Prima in questa graduatoria si conferma la Norvegia, seguita da Australia e Islanda. Nelle ultime dieci posizioni sono, invece, Afganistan, Niger, Guinea Bissau, Yemen, Chad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Mali, Sudan, Repubblica Centro Africana, dove a essere drammatiche non sono solo le condizioni delle partorienti ma anche quelle dei neonati. Secondo il rapporto, infatti, sono oltre  800.000 i  bambini nel mondo che muoiono alla nascita, quasi 3 milioni quelli che perdono la vita entro il primo mese e 8,1 milioni entro il quinto anno.  
E l’Italia? Il Bel Paese quest’anno esce dalla top 20, scendendo dalla posizione 17 alla 21, soprattutto a causa della bassa partecipazione delle donne alla vita politica, allo scarso uso di contraccettivi, alla mancanza di servizi alla famiglia. L’indice, infatti, oltre a prendere in considerazione la sopravvivenza della madre e del neonato al momento del parto e il loro stato di salute nel periodo immediatamente successivo, valuta anche la qualità della vita delle donne, il loro ruolo che ricoprono e il loro riconoscimento sociale. “Ed è su questo indicatore che l’Italia crolla”, spiega Raffaella Milano, responsabile dei programmi Italia- Europa di Save the Children. La percentuale delle donne sedute in parlamento, per esempio, in Italia è pari al 20%,  più bassa che in Afganistan (28%), Burundi (36%) e Mozambico (39%)(Cfr. quotidiani e media italiani dei primi di maggio 2011). Quest’anno poi la sezione italiana della ONLUS ha rilasciato, in concomitanza con il rapporto, anche un’altra indagine, “Piccole Mamme”,  condotta grazie al coinvolgimento di tre organizzazioni non profit impegnate nella tutela delle mamme: CAF Onlus di Milano, Il Melograno di Roma, L’Orsa Maggiore di Napoli. Secondo questa inchiesta, sono oltre 10.000 le mamme teenager (14 -19 anni) nel Bel Paese, molte delle quali già vivono un situazione familiare problematica. Circa 2.500 sono minorenni e fra queste ultime il l’82% è italiano. La maggior parte (71%) risiede nelle regioni meridionali e nelle isole, soprattutto in Sicilia, Puglia, Campania, Sardegna e Calabria, e a seguito della gravidanza interrompe la propria formazione scolastica.  
“Il numero delle mamme adolescenti è rimasto più o meno costante e contenuto negli anni, ma non per questo il fenomeno può essere ignorato”, spiega Raffaella Milano, secondo la quale molte sono le possibilità di intervento: implementare, e istituire laddove non sono presenti, adeguati corsi di educazione sessuale ed educazione alla maternità, ma soprattutto creare servizi di home visiting. E’ molto importante per le neomamme avere a disposizione figure professionali dedicate e formate che le sappiano guidare nella quotidianità della maternità e le aiutino a non abbandonare gli studi”, conclude la responsabile della ONLUS. C’è- inoltre- da tenere presente che per finanziare progetti di salute e nutrizione in 36 paesi, anche quest’anno Save The Children ha lanciato la campagna Every One: fino al 25 maggio è possibile contribuire ai programmi di salute e nutrizione portati avanti dall’associazione, donando 1 euro con un sms al 45599 e 2 o 5 euro chiamando lo stesso numero da rete fissa.

 

 

Se è una Festa della Mamma,

quali parole possono esprimere al meglio i nostri sentimenti, se non quelle del grande poeta Kahlil Gibran che scrive: La parola più bella sulle labbra del genere umano è “Madre“, e la più bella invocazione è “Madre mia”. E’ la fonte dell’amore, della misericordia, della comprensione, del perdono. Ogni cosa in natura parla della madre.


Ma altri degnissimi poeti hanno scritto:

Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’eterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti si’, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si riaccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’eterna pace

così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridiana face

di caritate, e giuso, intra mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre

sua disianza vuol volar senz’ali

(Poesia per la madre – Dante Alighieri)

 

 

E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile

( Supplica a Mia Madre – Pier Paolo Pasolini)

 

 

Non sempre il tempo la beltà cancella

o la sfioran le lacrime e gli affanni

mia madre ha sessant’anni e più la guardo

e più mi sembra bella.

Non ha un accento, un guardo, un riso

che non mi tocchi dolcemente il cuore.

Ah se fossi pittore, farei tutta la vita

il suo ritratto.

Vorrei ritrarla quando inchina il viso

perch’io le baci la sua treccia bianca

e quando inferma e stanca,

nasconde il suo dolor sotto un sorriso.

Ah se fosse un mio prego in cielo accolto

non chiederei al gran pittore d’Urbino

il pennello divino per coronar di gloria

il suo bel volto.

Vorrei poter cangiar vita con vita,

darle tutto il vigor degli anni miei

Vorrei veder me vecchio e lei…

dal sacrificio mio ringiovanita!

( A Mia Madre – Edmondo De Amicis)

 

 

E il cuore quando d’un ultimo battito

avrà fatto cadere il muro d’ombra

per condurmi, Madre, sino al Signore,

come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,

Sarai una statua davanti all’eterno,

come già ti vedeva

quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,

come quando spirasti

dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,

ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,

e avrai negli occhi un rapido sospiro

(La Madre – Giuseppe Ungaretti).

 

 

… Tu sei di tua madre lo specchio,

ed ella in te rivive

il dolce aprile del fior

dei suoi anni…

( Poesia ad un figlio – William Shakespeare).

 

 

– ‘… Don… don e mi dicono Dormi!

Mi cantano Dormi! Sussurrano

Dormi! Bisbigliano Dormi!

Là, voci di tenebra azzurra…

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era…

sentivo mia madre… poi nulla

sul far della sera’(

Mia madre – Giovanni Pascoli)

 

 

Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe,

gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord:

non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno,

molti mi devono lacrime da uomo a uomo.

So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti,

povera e giusta nella misura d’amore per i figli lontani.

Oggi sono io che ti scrivo:

‘Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte

con un mantello corto e alcuni versi in tasca.

Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo.- ‘

Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che portavano mandorle

e arance, alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, di sale, d’eucalyptus.

Ma ora ti ringrazio, questo voglio, ell’ironia che hai messo sul mio labbro,

mite come la tua. Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.

E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te

aspettano, e non sanno che cosa.

Ah, gentile morte, non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro

tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante,

su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi.

Ma forse qualcuno risponde?

O morte di pietà, morte di pudore.

Addio, cara, addio, mia dolcissima Mater

(Lettera Alla Madre – Salvatore Quasimodo).

 

 

Per i nostri lettori più giovani, ci sono anche libri e canzoni da dedicare alla propria mamma:

Mamma, Mamma lo sai che il tuo fiore sta sbocciando… Mamma, mamma lo sai che l’amore lo sta colorando… (Biagio Antonacci)

Stella stellina, la notte si avvicina, la luna è d’argento rumori più non sento. La mucca col vitello, la pecora e l’agnello, la gatta e il suo micino, la chioccia col pulcino, il bimbo e la sua mamma, tutti fan la nanna. (Ninnananna popolare)

Di parole ho la testa piena, con dentro”la luna” e la “balena”. C’e qualche parola un po’ bisbetica: “peronospora”,”aritmetica”. Ma le più belle le ho nel cuore, le sento battere: “mamma”,”amore”. (Gianni Rodari)

Mamma, solo per te la mia canzone vola, mamma, sarai con me, tu non sarai più sola! Quanto ti voglio bene! Queste parole d’amore che ti sospira il mio cuore forse non s’usano più, mamma! ma la canzone mia più bella sei tu! Sei tu la vita e per la vita non ti lascio mai più! (C. A.Bixio – B.Cherubini, dalla canzone “Mamma”)

Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono. (Honoré de Balzac)

Essere mamma è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Infatti… anche  senza forze  quando c’è un figlio da accudire una forza vitale irresistibile ti guida  per dargli certezze che si aspetta solo da te

(Maria de falco Marotta).

Da Giordano Bruno alla Shoah quei «mea culpa» a sorpresa

 

 

Papa audace in tante direzioni — dalla lotta al comunismo alla predicazione del Vangelo «fino ai confini della terra» — in nessuna Wojtyla fu sorprendente quanto nel «mea culpa» che culminò nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 2000.

Nei confronti di quell’eredità Benedetto XVI si pone come prudente continuatore: in due occasioni ha fatto sua la richiesta di perdono per la Shoah formulata dal predecessore e in un’altra ha formulato un proprio «mea culpa» per il peccato della pedofilia del clero.

«Confessione delle colpe e richiesta di perdono» era intitolata la speciale liturgia che si celebrò in San Pietro la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000. Sette rappresentanti della Curia romana leggevano altrettanti «invitatori», ai quali rispondeva il Papa con sette «orazioni», riguardanti i «peccati in generale», le «colpe nel servizio della verità», i «peccati» che hanno diviso la Chiesa, le «colpe nei confronti di Israele», le «colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni», i «peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano», i «peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona». Ecco la seconda confessione di peccato, riguardante «le colpe nel  servizio della verità», che fu letta dal cardinale Ratzinger: «Preghiamo perché ciascuno di noi, riconoscendo che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità, sappia imitare il Signore Gesù, mite e umile di cuore». Così suonò la quarta delle sette «confessioni», riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il
tuo nome fosse portato alle genti; noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendo perdono a Dio, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». A conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo pronunciò cinque «mai più» che suonano come una delle utopie evangeliche più forti che siano state affermate nella nostra epoca disincantata: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Dal riesame del caso Galileo (impostato nel novembre del 1969) all’ultimo pronunciamento autocritico, riguardante i tribunali dell’Inquisizione (arrivato il 15 giugno 2004, con la lettera di accompagnamento della pubblicazione degli atti del simposio storico sull’Inquisizione dell’ottobre del 1998) sono oltre un centinaio le circostanze in cui Giovanni Paolo ha riconosciuto «errori» e «colpe» del passato e del presente, o ha invitato i cattolici ad applicarsi a questo «esame». Ai temi già detti vanno aggiunti— tra i principali— la tratta dei neri, il maltrattamento degli indios, la strage degli Ugonotti, il saccheggio di Costantinopoli da parte dei «crociati» nel 1204, il rogo di Giordano Bruno nell’anno 1600. Più volte Benedetto in questi sei anni si è richiamato all’atto penitenziale del  predecessore e in due occasioni (il 12 febbraio del 2009 e il 17 gennaio 2010, durante la visita alla sinagoga di Roma) ha fatto sua e ripetuto alla lettera la richiesta di perdono riguardante gli ebrei. L’ 11 giugno 2010 abbiamo invece avuto una richiesta di perdono formulata in proprio dal Papa teologo e proposta a nome della Chiesa per una colpa dei suoi «figli»: lo ha fatto per un «peccato» di oggi—gli abusi sessuali del clero— e non della storia, come invece tante volte aveva fatto Papa Wojtyla ma come lui ha accompagnato il «mea culpa» con l’impegno a fare in modo che quel misfatto non si verifichi «mai più» . Appare dunque chiaro come in questa pedagogia della penitenza e della purificazione Papa Ratzinger segua le orme del predecessore e nello stesso tempo se ne distingua”.

 

in “Corriere della Sera” del 1 maggio 2011

Ma fare festa è sbagliato

 

«Giustizia è fatta!» ha proclamato il Presidente degli Stati Uniti nell’annunciare al suo Paese e al mondo che Osama bin Laden è stato ucciso. Confesso che i sentimenti che mi abitano come cristiano e come cittadino di un Paese che non contempla nel proprio ordinamento la pena di morte sono contrastanti.

Da un lato c’è la soddisfazione legata alla uscita di scena di una persona che, per sua stessa ammissione, ha seminato morte e odio, ha avvelenato la comprensione della religione, usandola come droga per esaltare la violenza, ha inquinato mortalmente la convivenza civile e i rapporti sociali, a livello locale e planetario.

D’altro canto il Vangelo, ma anche la mia coscienza umana, non mi autorizzano a rallegrarmi per la morte di un essere umano, fosse anche il più malvagio sulla terra, fosse anche il nemico mortale che ha attentato alla vita delle persone più care. Non si tratta di evocare l’esortazione cristiana al perdono – argomento su cui a lungo si è riflettuto dopo l’epifania del male assoluto nei campi di sterminio nazisti – ma di riconoscere con gravità e amarezza che la morte di una persona non è mai motivo di gioia: forse di sollievo, perché ormai quel malvagio non potrà più nuocere, anche se il
seme dell’odio gettato non smette per questo di crescere; forse è fonte di appagamento di quel desiderio di vendetta che abbiamo vergogna di confessare e che ci affrettiamo a nobilitare con il termine di giustizia; forse è occasione di rinnovato rimpianto per le vittime della violenza omicida e per non aver saputo fermare prima quello strumento di morte. Ma gioia no, quella non l’ho sentita nascere in me nell’apprendere la notizia dell’uccisione di Bin Laden e non vorrei vederla sul volto di un altro uomo, un uomo come me, un uomo come lo era Bin Laden. Come cristiano penso a Bin Laden ora in giudizio davanti a Dio: quel Dio il cui nome ha bestemmiato per seminare morte e predicare la guerra, quel Dio creatore degli uomini e protettore della vita cui ha dato un volto perverso e mortifero.

E mi è anche difficile fare mie le parole del presidente Obama: «Giustizia è fatta!». E non perché ritenga che l’unica giustizia sia quella divina, che il giudizio autentico sia solo quello che ci attende tutti al cospetto di Dio. Ma perché rimango convinto che ogni essere umano è e resta più grande delle sue colpe, anche quando queste sono spropositate. D’altronde anche la rivelazione biblica e cristiana afferma riguardo all’immagine di Dio impressa in ogni essere umano: l’omicida può smarrire la somiglianza con Dio, ma non può perdere quell’immagine che Dio stesso ha voluto
consegnare a ogni creatura umana, Caino compreso.

Ma anche della giustizia umana ho un concetto che non mi consente di vederla realizzata nell’uccisione mirata di un pluri-assassino: la cattura, il giusto processo, la messa in condizione di non nuocere di un criminale non richiedono necessariamente la sua soppressione fisica e non traggono da questa maggiore autorevolezza o efficacia. Sopprimere l’ingiusto non è ancora fare giustizia: perché giustizia, anche umana, sia fatta, a ciascuno di noi resta un compito che nessuna arma né squadra speciale può svolgere per conto nostro. Resta la vicinanza e la solidarietà con i parenti delle vittime della sua barbarie umana, resta il contrastare nel quotidiano le energie di morte che l’assassino ha scatenato, resta la ricostruzione di un tessuto umano e sociale vivibile, resta il rifiuto di rispondere al male con il male, resta la costruzione della pace con gli strumenti della pace, resta di proseguire tenacemente nell’operare ciò che è giusto. Davvero non basta che un malvagio sia annientato perché giustizia sia fatta.

 

in “La Stampa” del 3 maggio 2011

il cortile dei gentili

 

 

«Un luogo che porti a tutti il contagio della fede»

 

«Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di ‘cortile dei gentili’ dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto». Queste parole di Benedetto XVI hanno prodotto un effetto anche concreto: un dicastero vaticano, il Pontificio Consiglio della Cultura, ha dato il via a un’istituzione, denominata appunto ‘Cortile dei gentili’, per aprire un dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei.

 

L’evento inaugurale è avvenuto lo scorso marzo a Parigi in contemporanea in più sedi: alla Sorbona, all’Unesco, all’Académie Française e, per i giovani, nel piazzale di Notre-Dame, secondo prospettive diverse. Quel simbolo di apartheid e di separatezza sacrale che era il muro del ‘Cortile dei gentili’ è, quindi, cancellato da Cristo che desidera eliminare le barriere per un incontro nell’armonia tra i due popoli. È con questa ulteriore precisazione paolina che ha senso l’applicazione metaforica del ‘Cortile’ suggerita da Benedetto XVI. Credenti e non credenti stanno su territori differenti, ma non si devono rinserrare in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti. Certo, non si devono appiattire le differenze, liquidare le diverse concezioni, ignorare le discordanze. Ognuno ha i piedi piantati in un ‘cortile’ separato, ma i pensieri e le parole, le opere e le scelte possono confrontarsi e persino incontrarsi, senza per questo rinunciare alla propria identità, senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico.

In questo incontro tra i due ‘Cortili’, una scelta previa è quella della purificazione dei due concetti di base. Da un lato, i ‘gentili’ devono ritrovare una propria concezione dell’essere e dell’esistere così com’era espressa dai grandi sistemi ‘ateistici’ (pensiamo a un Marx o alla celebre parabola sul Dio morto della Gaia scienza di Nietzsche), prima che venissero incapsulati in sistemi politicoideologici o piombassero nello scetticismo e nell’idolatria delle cose o degenerassero nell’ateismo sprezzante, sarcastico e infantilmente dissacratorio. Dall’altro, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell’uomo e del mondo, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo e rivelando che la teologia ha un suo rigoroso statuto metodologico parallelo e specifico rispetto a quello della scienza. Ma oltre a questo, l’incrocio tra le voci diverse può avvenire attorno a temi comuni – anche se affrontati e risolti con esiti eterogenei – come l’etica, l’antropologia, la spiritualità, le domande ‘ultime’ su vita e morte, bene e male, amore e dolore, verità e menzogna, pace e natura, trascendenza e immanenza.

Per questa via si può giungere persino alla domanda sullo Sconosciuto, quell’Ágnostos Theós, il Dio ignoto, a cui faceva cenno san Paolo nel suo celebre discorso all’Areopago di Atene ( Atti degli Apostoli 17, 22-31), e che era ricordato nel brano di Benedetto XVI citato in apertura.
Senza attesa di conversioni o di inversioni di cammini esistenziali, ma soprattutto evitando le diversioni nel vuoto, nella banalità, negli stereotipi, gentili e cristiani – i cui ‘Cortili’ sono contigui nella città moderna possono scoprire consonanze e armonie pur nella loro difformità e possono far alzare lo sguardo a un’umanità spesso troppo curva solo sull’immediato, sulla superficialità, sull’insignificanza, verso l’Essere nella sua pienezza.

 

in “Avvenire” del 5 maggio 2011


Essere cristiani nell’Italia unita

 

 

Rivolta al passato dal ciglio del presente, avida di comprendere il perché del proprio tempo e delle cose umane nelle res gestae d’altri, anche la storia dell’esperienza cristiana, delle istituzioni e delle dottrine che ne emanano, è tenuta tesa da due forze contrapposte.

Anch’essa, come ogni altra storia, ha sentito la sirena che voleva farla diventare giudice d’un tribunale tutto moderno che le consegnerebbe l’uomo, imputato del mancato bene e del male procurato, e che — proprio come accadeva a Dio nella teodicea, secondo Odo Marquard non potrebbe che assolverlo davanti
all’abilità con cui egli sa appellarsi alla nequizia dei tempi, alla superficialità del suo intelletto, alla fragilità della «natura». D’altro canto la storia della vita cristiana ha dovuto anche misurarsi con la richiesta di fungere da garante di una ideologia delle origini, di un mitico passato a volte primitivo a volte concentrato in una più vicina stagione, al quale pretende di tornare sia chi invoca uno scatto riformatore sia chi impugna l’identità fra sé e un passato chiamato in causa per giustificare assetti di potere. Nella sua declinazione disciplinare tutta moderna di cui Reinhart Koselleck ha sviscerato le origini, la comprensione storico-critica di ciò che accade nel tempo a causa e all’interno dell’esperienza cristiana s’è collocata in molteplici modi nel paesaggio culturale europeo. Per capire storicamente ciò che i cristiani sono effettivamente stati, generazione dopo generazione, dentro una durata o uno spazio politico, con gli strumenti e i limiti propri di questo sapere critico, i sistemi di ricerca d’Occidente hanno prodotto modelli tra loro più distanti di quanto non siano i risultati di conoscenza ai quali hanno poi saputo giungere. La vicenda delle facoltà teologiche tedesche, delle divinity americane, della ricerca sul fatto religioso di stampo francese è ben diversa da quella italiana: espulsa la teologia dalla università, la ricerca è tornata attraverso la storia religiosa: e a questa è stato chiesto, nel secondo dopoguerra, di fornire le genealogie del «partito cristiano al potere», secondo la formula Baget Bozzo. È stata la storia del «movimento cattolico» — una chiave che trent’anni fa ha dato il meglio di sé e che altri hanno tentato di superare. Mentre si raccontava un’Italia volta a volta neutra, o sacra o religiosa, il lavoro di scavo ha formato una leva di studiosi (che per qualche decennio ha popolato il mondo universitario nazionale), accedendo ad una realtà più limpida e più profonda. Nell’Italia diventata Stato non orbitavano due mondi — uno di cittadini
da un lato e uno di cristiani dall’altro — condannati a narrarsi per contrapposizioni o per sintonie irreali. Esistevano più semplicemente dei soggetti capaci di legarsi e di sciogliersi, portatori d’una formazione spirituale attivata o anche solo residua, di un’educabilità alla Scrittura o ai sacramenti, osservanti o autoemancipati rispetto a discipline morali e dottrinali. Insomma: cristiani. Cristiani delle «Chiese di Dio che sono in Italia», si dovrebbe dire mutuando quella decisiva espressione di Paolo (1 Cor. 1,2) da cui discende la tradizione che vede nei fedeli d’una città la parrocchia orante in attesa della propria patria, secondo la formula dell’epistola a Diogneto così cara a grandi patrologi come Michele Pellegrino e Giuseppe Lazzati. Ma la consapevolezza ecclesiologica d’essere una «Chiesa di Dio che è in», gli italiani che confessano la loro fede in Gesù Cristo, non l’hanno ancora avuta, se non per qualche sprazzo legato alle grandi figure dei vescovi santi, a qualche testimone capace di coagulare attorno a sé una stagione spirituale, a storie comunitarie durate abbastanza per segnare una vita, a qualche momento alto della pratica sinodale. Spaventati
dalle prove del tempo o esaltati dalle mediazioni politiche, i cristiani si sono sentiti l’armatura che protegge il Papa o la spina protestante rimasta conficcata nel Paese che l’Inquisizione avrebbe voluto «liberare» dalla riforma. E, dunque, cristiani d’Italia di cui studiare le grande linee e le minoranze, le tensioni e le eredità, cogliere la complessità, i miti e le autocomprensioni che hanno segnato la storia che conosciamo. Quando questa si sarà distanziata, ci si potrà  domandare di nuovo — come faceva Giuseppe Donati nel 1929 — se sia stato il clericalismo di secoli «a rendere gli italiani quali furono e quali, purtroppo, sono sempre» o se viceversa non siano stati gli italiani a rendere il clericalismo qual è. Forse si vedrà con maggiore chiarezza se l’assioma dossettiano dei primi anni Cinquanta (per cui l’incapacità della Chiesa di sovraordinarsi alle svolte epocali della civiltà la rende responsabile dei mali che da quei mutamenti si producono) si possa applicare ad altri momenti della storia italiana. Per ora, di quelle letture e di quelle speranze che hanno mosso la storia che possiamo studiare è necessario tentare un inventario che le protegga dalle semplificazioni.

 

in “Corriere della Sera” del 5 maggio 2011

Karol: un film su Giovanni Paolo II

il film d’animazione Karol è incentrato sulla vita del Pontefice

 

Nel giorno della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, anche Boing renderà a suo modo omaggio alla figura di Karol Wojtyla con un lungometraggio prodotto da Mondo Tv. Andrà in onda, infatti, proprio domenica 1° Maggio, in prima serata alle 20.35, il film d’animazione Karol, incentrato sulla vita del Pontefice.

Realizzato con tecniche d’animazione in computer grafica, il film narra le principali vicende che hanno segnato il percorso umano e spirituale di Wojtyla. Una storia ricca di eventi ed emozionante, in cui ampio risalto verrà dato al rapporto tra il Papa e i giovani. Un rapporto da sempre molto intenso, che portò il Pontefice a istituire la Giornata Mondiale della Gioventù, diventata nel corso degli anni occasione d’incontro per milioni di ragazzi.

Il film, che vedrà Luca Ward dare la voce a Papa Giovanni Paolo II, si rivolge non solo ai più piccoli ma a tutta la famiglia, rappresentando un’ulteriore offerta della rete, sempre più premiata dal pubblico. Ad oggi Boing è infatti il canale più seguito nella fascia 4-14 anni, oltre che essere ottava rete nazionale, subito dopo le  reti generaliste Rai, Mediaset e La7.

Vite dei Grandi libri religiosi

 

Una nuova collana di Princeton University Press, “Lives of the great religious books”, è dedicata alle “biografie dei grandi libri” delle tradizioni religiose.

 

I libri hanno una vita: lunga, breve, brevissima, a volte abortita, vittima dei meccanismi del mercato della cultura più che di vizi di nascita. Vi sono poi libri che sono “classici” perché hanno dato forma ad una particolare cultura, portano significati in eccesso e in permanenza, resistono ad ogni interpretazione definitiva, e hanno un valore universale. Ricostruire la “biografia di un libro” è quindi importante per comprendere la cultura che lo ha fecondato, accolto, fatto viaggiare e tradurre, ampliare e rivedere, cambiare pubblico e recezione lungo i decenni e i secoli. Una nuova collana di Princeton University Press, “Lives of the great religious books”, è dedicata alle “biografie dei grandi libri” delle tradizioni religiose.

 

Nel programma della collana vi sono, tra gli altri, le Confessioni di Agostino, la Vulgata, Il libro tibetano dei morti, il Libro di Mormon, I Ching, la Bhagavad Gita.
I risultati del progetto editoriale sono di grande interesse, a giudicare dal volume dedicato a Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer da uno dei grandi storici della teologia, Martin E. Marty della University of Chicago (Dietrich Bonhoeffer’s “Letters and Papers from Prison”. A Biography, Princenton UP, 288 pp.). Il volume degli scritti dal carcere del pastore luterano Bonhoeffer, condannato a morte dal regime nazista a pochi giorni dalla fine della guerra nella primavera 1945 per aver collaborato all’attentato a Hitler del 1944, è uno dei testi fondamentali della teologia cristiana del Novecento.

 

Non si stenta a riconoscere la necessità di scrivere una storia di Letters and Papers from Prison. Il pastore e amico di Bonhoeffer, Eberhard Bethge, si risolse a raccogliere in un volume quegli scritti scampati alla censura e alle distruzioni della guerra solo nel 1950, quando per non pochi tedeschi Bonhoeffer era un traditore della patria e fin troppo popolare nella comunista Ddr (una diocesi protestante in Germania occidentale arrivò a proibire di intitolare parrocchie al nome di Dietrich Bonhoeffer). Da allora in poi Resistenza e resa ha acquisito valore universale e ha avuto decine di traduzioni in diverse lingue, in edizioni accresciute (l’ultima delle quali pubblicata in tedesco nel 1998).
La parte più interessante di questa “storia dei libri” riguarda le diverse recezioni e letture – teologiche, ideologiche, politiche – a cui ogni grande testo religioso è stato soggetto nella sua vita.
Alcuni dei testi fondamentali per la storia religiosa d’Italia (come Le piaghe della chiesa di Rosmini, Chiesa e Stato di Jemolo, Lettera a una professoressa di don Milani) meriterebbero simili “biografie”.

 

in “Europa” del 28 aprile 2011


Come insegnare ai ragazzi il desiderio di nuovi mondi

Il lavoro degli insegnanti è diventato oggi un lavoro di frontiera: supplire a famiglie inesistenti o angosciate, rompere la tendenza all’isolamento e all’adattamento inebetito di molti giovani, contrastare il mondo morto degli oggetti tecnologici e il potere seduttivo della televisione, riabilitare l’importanza della cultura relegata al rango di pura comparsa sulla scena del mondo, riattivare le dimensioni dell’ascolto e della parola che sembrano totalmente inesistenti, rianimare desideri, progetti, slanci, visioni in una generazione cresciuta attraverso modelli identificatori iperedonisti, conformistici o apaticamente pragmatici. Gli insegnanti consapevoli ce lo dicono in tutti i modi: “Non ascoltano più!”, “Non parlano più!”, “Non studiano più!”, “Non desiderano più!”. Cosa può dunque tenere ancora vivo il motore del desiderio? Non è forse questa la missione che unisce tutte le figure (a partire dai genitori) impegnate nel discorso educativo? Mestiere impossibile decretava Freud. Aggiungendo però a questa profezia pessimistica una buona notizia: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità, quelli che non si prendono per davvero come padri o insegnanti educatori. I migliori sono quelli che hanno contattato la loro insufficienza. Sono quelli che hanno preso coscienza dell’impossibilità e del danno che provocherebbe porsi come gli educatori migliori.
Proviamo ora a fare un esperimento mentale: chi sono gli insegnanti che non abbiamo mai dimenticato? Sono quelli che hanno saputo incarnare un sapere, sono quelli che ricordiamo non tanto per ciò che ci hanno insegnato ma per come ce lo hanno insegnato. Ciò che conta nella formazione di un bambino o di un giovane non è tanto il contenuto del sapere, ma la trasmissione
dell’amore per il sapere. Gli insegnanti che non abbiamo dimenticato sono quelli che ci hanno insegnato che non si può sapere senza amore per il sapere. Sono quelli che sono stati per noi uno “stile”. I bravi insegnanti sono quelli che hanno saputo fare esistere dei mondi nuovi con il loro stile. Sono quelli che non ci hanno riempito le teste con un sapere già morto, ma quelli che vi hanno fatto dei buchi. Sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte già fatte. Il bravo insegnante non è solo colui che sa ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy ne La strada, “sa portare il fuoco”. Portare il fuoco significa che un insegnante non è qualcuno che istruisce, che riempie le teste di contenuti, ma innanzitutto colui che sa portare e dare la parola, sa coltivare la possibilità di stare insieme, sa fare esistere la cultura come possibilità della comunità, sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire alcuna immagine di “allievo ideale”, ma
esaltando piuttosto i difetti, persino i sintomi, di ciascuno dei suoi allievi, uno per uno. È, insomma, come scrisse un grande pedagogista italiano quale fu Riccardo Massa, qualcuno che “sa amare chi impara”. Tutti ne abbiamo conosciuto almeno uno. Questa è la vera prevenzione primaria che servirebbe ai nostri figli: incontrarne almeno uno così. Dobbiamo, invece che ironici, essere riconoscenti all’esercito civile di chi ha scelto di vivere nella Scuola, a coloro che hanno autenticamente e appassionatamente scelto di amare chi impara.
Mi è capitato di voler continuare ad insegnare mentre venivo interrotto in aula dagli studenti che protestavano per la Legge Gelmini. Avevano ragione, ma ho insistito nel difendere le mie ragioni.
La democrazia è fatta di queste divergenze, di questi conflitti tra prese di posizione diverse che possono convivere mantenendosi tali. Volevo proseguire nella lezione perché un’ora di lezione non è un automatismo svuotato di senso, non è routine senza desiderio come invece sembrava pensassero i miei interlocutori. Certo questo è il morbo della Scuola, è la patologia propria del discorso dell’Università che ricicla un sapere che tende anonimamente alla ripetizione annullando la sorpresa, l’imprevisto, il non ancora sentito e il non ancora conosciuto. Il vero nemico
dell’insegnante è la tendenza al riciclo e alla riproduzione di un sapere sempre uguale a se stesso. È lo spettro che sovrasta e può condizionare mortalmente questo mestiere: adagiarsi sul già fatto, sul già detto, sul già visto. Ridurre l’amore per il sapere a pura routine. A quel punto non c’è più trasmissione di una conoscenza viva ma burocrazia intellettuale, parassitismo, noia, plagio, conformismo. Un sapere di questo genere non può essere assimilato senza generare un effetto di soffocamento, una vera e propria anoressia intellettuale. Eppure la Scuola continua ad essere fatta di ore di lezione che possono essere avventure, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Di fronte ai giovani che protestavano ho voluto continuare ad insegnare e l’ho fatto per tutti i maestri che mi hanno insegnato che un’ora di lezione può sempre aprire un mondo.
Il nostro tempo segnala una crisi senza precedenti del discorso educativo. Le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito il significato virtuoso e paziente della formazione rimpiazzandolo con l’illusione di carriere prive di sacrificio, rapide e, soprattutto, economicamente gratificanti. Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? Per questa ragione di fondo la Scuola viene invocata dalle famiglie come un’istituzione “paterna” che può separare i nostri figli dall’ipnosi telematica o televisiva in cui sono immersi, dal torpore di un godimento “incestuoso”, per risvegliarli al mondo. Ma anche come una istituzione capace di preservare l’importanza dei libri come oggetti irriducibili alle merci, come oggetti capaci di fare esistere nuovi mondi. Capissero almeno questo i suoi censori implacabili. Capissero che sono innanzitutto i libri – i mondi che essi ci aprono – ad ostacolare la via di quel godimento mortale che sospinge i nostri giovani verso la
dissipazione della vita (tossicomania, bulimia, anoressia, depressione, violenza, alcoolismo, ecc).
Lo sapeva bene Freud quando riteneva che solo la cultura poteva difendere la Civiltà dalla spinta alla distruzione. La Scuola contribuisce a fare esistere il mondo perché un insegnamento, in particolare quello che accompagna la crescita (la cosiddetta scuola dell’obbligo), non si misura certo dalla somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma dalla sua capacità di rendere disponibile la cultura come un nuovo mondo, come un altro mondo rispetto a quello di cui si nutre il legame familiare. Quando questo mondo, il nuovo mondo della cultura, non esiste o il suo accesso viene sbarrato, come faceva notare il Pasolini luterano, c’è solo cultura senza mondo, dunque cultura di morte, cultura della droga. Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi?

(L’autore ha scritto “Cosa resta del padre?” per Raffaello Cortina)

in “la Repubblica” del 29 aprile 2011

 

Si è identificato con la Chiesa perciò ne può essere la voce

Dal volume Giovanni Paolo II pellegrino per il Vangelo (Cinisello Balsamo – Torino, Edizioni Paoline – Editrice Saie, 1988) pubblichiamo integralmente l’articolo nel quale il cardinale Joseph Ratzinger ripercorreva e faceva emergere gli aspetti fondamentali dei primi dieci anni di pontificato di Karol Wojtyla.

Giovanni Paolo II è senz’altro colui che, ai nostri tempi, si è incontrato personalmente con il maggior numero di esseri umani. Innumerevoli sono le persone a cui egli ha stretto la mano, a cui ha parlato, con cui ha pregato e che ha benedetto. Se il suo elevato ufficio può creare distanza, la sua personale irradiazione crea invece vicinanza. Anche le persone semplici, incolte, povere non hanno da lui l’impressione della superiorità, dell’irraggiungibilità o del timore, quei sentimenti che colpiscono così sovente chi si trova nelle camere d’aspetto dei potenti, delle autorità. Quando poi si hanno contatti personali con lui, è come se lo si conoscesse da lungo tempo, come se si parlasse con un parente prossimo, con un amico. Il titolo di “Padre” (= Papa) non appare più solo un titolo, ma l’espressione di quel rapporto reale che si prova veramente davanti a lui.
Tutti conoscono Giovanni Paolo II: il suo volto, il suo modo caratteristico di muoversi e di parlare; la sua immersione nella preghiera, la sua spontanea letizia. Certe sue parole si sono incise in maniera indelebile nella memoria, a cominciare dall’appassionato richiamo con cui egli si è presentato all’inizio del suo pontificato: “Spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura di lui!”. Oppure queste altre: “Non si può vivere per prova, non si può amare per prova!”. In parole come queste si condensa tutto un pontificato. È come se egli volesse aprire dappertutto vie d’accesso a Cristo, come se desiderasse rendere accessibile a tutti gli uomini il varco verso la vita vera, verso il vero amore. Se, come Paolo, lo si ritrova instancabilmente sempre in cammino, fino “ai confini della terra”, se vuol essere vicino a tutti e non perdere alcuna occasione per annunciare la Buona Novella, non è per scopi pubblicitari o per sete di popolarità, ma perché si realizzi in lui la parola apostolica: Charitas Christi urget nos (II Corinzi, 5, 14). Accanto a lui lo si avverte: gli sta a cuore l’uomo perché gli sta a cuore Dio.
Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega anche perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona. Qui si manifesta anche un altro elemento di quella grande capacità di integrazione, che contrassegna il Papa che viene dalla Polonia: l’aver cambiato il classico “noi” dello stile pontificale con l'”io” personale e immediato dello scrittore e dell’oratore. Una simile rivoluzione stilistica non è da sottovalutare. A tutta prima può sembrarci l’ovvia eliminazione di un’usanza antiquata, che non si intonava più ai nostri tempi. Ma non si deve dimenticare che questo “noi” non era solo una formula di retorica cortigiana. Quando parla il Papa, egli non parla a nome proprio. In quel momento, in ultima analisi, non contano niente le teorie o le opinioni private che egli ha elaborato nel corso della sua vita, per quanto alto possa essere il loro livello intellettuale.
Il Papa non parla come un singolo uomo dotto, con il suo io privato o, per così dire, come un solista sulla scena della storia spirituale dell’umanità. Egli parla attingendo dal “noi” della fede di tutta la Chiesa, dietro il quale l’io ha il dovere di scomparire. Mi viene in mente a questo proposito il grande Papa umanista Pio II, Enea Silvio Piccolomini, il quale da Papa doveva talvolta dire, attingendo appunto dal “noi” del suo magistero pontificio, cose in contraddizione con le teorie di quel dotto umanista che precedentemente era stato lui stesso. Quando gli venivano segnalate simili contraddizioni soleva rispondere: Eneam reicite, Pium recipite (“Lasciate stare Enea, prendete Pio, il Papa”).
In un certo senso non è dunque un fenomeno innocuo se l'”io” rimpiazza il “noi”. Ma chi fa la fatica di studiare attentamente tutti gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, capisce ben presto che questo Papa sa distinguere molto bene tra le opinioni personali di Karol Wojtyla e il suo insegnamento magisteriale in quanto Papa; egli però sa anche riconoscere che le due cose non sono reciprocamente eterogenee, ma riflettono un’unica personalità imbevuta della fede della Chiesa. L’io, la personalità, è entrata interamente al servizio del “noi”. Non ha degradato il “noi” sul piano soggettivo di opinioni private, ma gli ha semplicemente conferito la densità di una personalità tutta plasmata da questo “noi”, tutta dedita al suo servizio.
Io credo che tale fusione, maturata nella vita e nella riflessione di fede, tra il “noi” e l'”io” fondi in modo essenziale il fascino di questa figura di Papa. La fusione gli consente di muoversi in questo suo sacro ufficio in maniera del tutto libera e naturale; gli consente di essere come Papa interamente se stesso, senza dover temere di far scivolare troppo l’ufficio nel soggettivo.
Ma come è cresciuta questa unità? In che modo una strada personale di fede, di pensiero, di vita conduce a tal punto nel centro della Chiesa? Questa è una domanda che va ben oltre la semplice curiosità biografica. Giacché proprio tale “identificazione” con la Chiesa senza velo alcuno di ipocrisia o di schizofrenia sembra impossibile oggi a molti uomini che sono in travaglio per la fede.
Nella teologia è diventato, nel frattempo, quasi civetteria di moda il muoversi in distanza critica a riguardo della fede della Chiesa e far sentire al lettore che lui, il teologo, non è poi così ingenuo, così acritico e servile da porre il suo pensiero del tutto al servizio di questa fede. In tal modo mentre la fede viene svalutata, le frettolose proposte di questi teologi non ne traggono alcuna rivalutazione; invecchiano in fretta come in fretta sono nate. Nasce allora di nuovo un grande desiderio non solo di ripensare intellettualmente la fede in modo leale, ma anche di poterla vivere in modo nuovo.
La vocazione di Karol Wojtyla maturò quando egli lavorava in un’azienda di produzione chimica, durante gli orrori della guerra e dell’occupazione. Egli stesso ha de-finito questo periodo di quattro anni, vissuto nell’ambiente operaio, come la fase formativa più determinante della sua vita. In tale contesto egli ha studiato la filosofia, apprendendola faticosamente dai libri, e il sapere filosofico gli si presentava di primo acchito come una giungla impenetrabile.
Il suo punto di partenza era stato la filologia, l’amore per la lingua, combinata all’applicazione artistica della lingua, in quanto rappresentazione della realtà in una nuova forma di teatro. È sorta così quella specie particolare di “filosofia” caratteristica del Papa attuale. È un pensiero in dialettica con il concreto, un pensiero fondato sulla grande tradizione, ma sempre alla ricerca della sua verifica nella realtà presente. Un pensiero che scaturisce da uno sguardo artistico e, nello stesso tempo, è guidato dalla cura del pastore: rivolto all’uomo per indicargli la via.
Mi sembra interessante scorrere per un momento la serie cronologica degli autori determinanti nei quali egli si imbatté lungo l’iter della sua formazione. Il primo era stato, come lui stesso riferisce nella sua intervista ad André Frossard, un manuale d’introduzione alla metafisica. Se altri studenti tentano solo di comprendere in qualche modo l’intera logica della struttura concettuale esposta nel testo e di fissarsela in mente in vista dell’esame, in lui ebbe inizio invece la lotta per una reale comprensione, cioè per cogliere il rapporto tra concetto ed esperienza, ed effettivamente si accese, dopo due mesi di duro impegno, il cosiddetto “lampo”: “Scoprii quale senso profondo aveva tutto ciò che io avevo prima solo vissuto e presagito”.
Poi arrivò l’incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza. Questa precisione del vedere, questa intelligenza dell’uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell’amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa. Infine egli scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l’opera di san Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell’interiorità, “dell’anima maturata nella grazia”. L’elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un’unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli. La crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici. La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva; le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica. Ma, quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto i piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l’uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare.
Così pare a me che sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un “filosofo”, che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall’incontro con l’uomo che cerca e che domanda. Wojtyla è stato ed è l’uomo. Il suo interesse scientifico fu sempre più contrassegnato dalla sua vocazione di pastore. Di qui si comprende come la sua collaborazione alla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il cui testo è determinato in modo centrale dalla preoccupazione per l’uomo, è diventata un’esperienza decisiva per il futuro Papa.
“La via della Chiesa è l’uomo”. Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Ne è risultato che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico. Anche questa era una importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa. Giacché la crisi dell’orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale. Qui si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull’uomo e il compito teologico, ed è così evidente, che non è possibile sottrarvisi.
Dove crolla l’antica metafisica, anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale. Wojtyla aveva imparato da Scheler a indagare, con una sensibilità umana finora ignota, l’essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, il linguaggio del corpo e, di conseguenza, l’essenza dell’amore. Egli ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo, ma proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci delinea le vie da percorrere: il pensiero dell’età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova, e Wojtyla l’ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d’esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l’ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.
Un altro elemento ancora è stato importante per questo cammino di vita e di pensiero, per l’unità di esperienza, pensiero e fede. Tutta la battaglia di quest’uomo non si è svolta dentro un cerchio più o meno privato, unicamente nello spazio interno di una fabbrica o in un seminario. Essa era circonfusa dalle fiamme della grande storia.
La presenza di Wojtyla in fabbrica fu conseguenza dell’arresto dei suoi professori universitari. Il tranquillo corso accademico fu interrotto e sostituito da un durissimo tirocinio in mezzo a un popolo oppresso. L’appartenenza al seminario maggiore del cardinal Sapieha era già, in quanto tale, un atto di resistenza. E così la questione della libertà, della dignità e dei diritti dell’uomo, della responsabilità politica della fede, non penetrò nel pensiero del giovane teologo come un semplice problema teorico. Era la necessità, molto reale e concreta, di quel momento storico.
Ancora una volta la situazione particolare della Polonia, situata nel punto d’intersezione tra est e ovest, era diventata il destino di questo Paese. I critici del Papa osservano con frequenza che egli, come polacco, conosce veramente solo la pietà tradizionale, sentimentale, del suo Paese e non può quindi comprendere pienamente le complicate questioni del mondo occidentale.
Nulla è più insensato di una simile osservazione, che tradisce un’ignoranza completa della storia. Basta leggere l’enciclica Slavorum apostoli per derivarne l’idea che precisamente di questa eredità polacca aveva bisogno il Papa per poter pensare all’interno di una molteplicità di culture. Essendo la Polonia un punto di intersezione delle civiltà, in particolare delle tradizioni germaniche, romaniche, slave e greco-bizantine, la questione del dialogo delle varie culture proprio in Polonia è, per molti aspetti, più ardente che altrove. E così proprio questo Papa è un Papa veramente ecumenico e veramente missionario, preparato provvidenzialmente anche in tale senso per affrontare le questioni del tempo successivo al concilio Vaticano II.
Rifacciamoci ancora una volta all’interesse pastorale e antropologico del Papa. “La via della Chiesa è l’uomo”. Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell’enciclica sul “Redentore dell’uomo” si può veramente capire se ci si ricorda che per il Papa “l’uomo” in senso pieno è Gesù Cristo. La sua passione per l’uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente. Qui l’antropocentrismo è aperto verso l’alto.
Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio come concorrente dell’uomo si è già da tempo capovolto in noia dell’uomo e per l’uomo. L’uomo non può più considerarsi centro del mondo. Ed ha paura di se stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva. Quando l’uomo viene collocato al centro escludendovi Dio, l’equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della lettera ai Romani (8, 19. 21-22), in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell’uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa della comparsa dei figli di Dio, della loro liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l’uomo, egli vorrebbe aprire le porte a Cristo. Giacché unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l’uomo e la creazione entrare nella loro libertà.
L’antropocentrismo del Papa è quindi, nel suo nucleo più profondo, teocentrismo. Se la sua prima enciclica è apparsa tutta concentrata sull’uomo, le sue tre grandi encicliche si coordinano naturalmente tra di loro in un grande trittico trinitario: l’antropocentrismo è nel Papa teocentrismo, perché egli vive la sua vocazione pastorale a partire dalla preghiera, fa la sua esperienza dell’uomo nella comunione con Dio e a partire da qui egli ha appreso a comprenderla.
Un’ultima osservazione. Il profondo amore del Papa a Maria è certamente, innanzitutto, un’eredità che gli viene dalla sua patria polacca. Ma l’enciclica mariana dimostra quanto questa pietà mariana è stata in lui biblicamente approfondita nella preghiera e nella vita. Nello stesso modo in cui la sua filosofia era stata resa più concreta e vivificata mediante la fenomenologia, ossia attraverso lo sguardo alla realtà che appare, così anche il rapporto con Cristo non rimane per il Papa nell’astratto delle grandi verità dogmatiche, ma diventa un concreto umano incontrarsi con il Signore in tutta la sua realtà e in tal modo logicamente anche un incontrarsi con la Madre, nella quale l’Israele credente e la Chiesa orante sono diventati persona. Ancora una volta è sempre e solo a partire da questa concreta vicinanza, in cui si vede il mistero di Cristo in tutta la ricchezza della sua pienezza divino-umana, che il rapporto col Signore riceve il suo calore e la sua vitalità. E naturalmente è qualcosa che si ripercuote su tutta l’immagine dell’uomo il fatto che questa risposta della fede ha preso figura per sempre in una donna, in Maria.
Che cosa voglio dire con tutto ciò? Il mio scopo era quello di dimostrare l’unità fra mistero e persona nella figura di Papa Giovanni Paolo II. Egli si è realmente “identificato” con la Chiesa, e ne può quindi essere anche la voce. Tutto ciò non è detto per glorificare una creatura umana, ma per dimostrare che il credere non estingue il pensare e non ha bisogno di mettere fra parentesi l’esperienza del nostro tempo. Al contrario: soltanto la fede dona al pensiero la sua apertura e all’esperienza il suo significato. L’uomo non diventa libero quando diviene un solista, ma quando riesce a trovare il grande contesto al quale appartiene. Dieci anni di pontificato di Giovanni Paolo II. L’ampiezza del suo messaggio appare già ora quasi incalcolabile, immensa. Ho voluto tentare di accennare in pochi tratti alle energie portanti che ne costituiscono la forza profonda, e, insieme, rendere così meglio comprensibile la direzione che egli ci indica. Il Signore voglia conservarci a lungo questo Papa, perché ci sia di guida sulla strada verso il terzo millennio della storia cristiana.

(©L’Osservatore Romano 1° maggio 2011)