Potere, regole e vita privata

 

 

La vicenda che ha portato nell’arco di poche ore all’arresto di Dominique Strauss-Kahn appartiene, a pieno diritto, a quegli eventi che segnano in modo definitivo non soltanto la brillante carriera di un uomo politico, ma la biografia stessa di una persona.

 

 

Ora, è abbastanza naturale che, davanti ad accuse tanto gravi quanto quelle di violenza sessuale, la reazione comune sia l’indignazione. In discussione qui, però, non è effettivamente il contegno più o meno irreprensibile di un uomo, ma la violenza da questi impartita ad una donna, per altro palesemente in una condizione sociale e lavorativa più fragile di lui, e quindi particolarmente vulnerabile.
Il caso, al di là delle diverse valutazioni, apre una questione generale che riguarda essenzialmente la difficile coerenza personale, evocata attualmente come in passato, sebbene amplificata dall’onnipresenza dei media. Si tratta della contraddizione tra i comportamenti sociali e personali dei governanti, o, come recitava il titolo di un famoso film di Miklós Jancsó, tra i “vizi privati e le pubbliche virtù”.
Senza voler proporre anacronistici appannaggi o paragoni impossibili, lo scandalo un tempo era come oggi arma di potere e ricatto, tant’è che dappertutto i potenti erano oggetto di critiche e di delegittimazioni shakespeariane. Inoltre, il consenso democratico, cui devono sottoporsi inevitabilmente i politici odierni, ha aggiunto un ulteriore controllo etico, come spiegava Jean Jacques Rousseau nel Contratto sociale. E quindi, reato a parte, non vale la pena propendere per un rigorismo puritano, poco produttivo in assenza di una dimostrata illegalità.
Tuttavia, il problema resta in piedi lo stesso. E optare per una separazione netta, precisa e drastica tra abilità o capacità gestionali – siano esse professionali o politiche – e comportamento individuale diviene assolutamente impossibile, perché totalmente assurda. Questa opinione, d’altronde, non è un prodotto culturale corrente, appartenendo in pieno alla mentalità e, direi perfino, alla cultura giuridica occidentale. Non soltanto Thomas Hobbes nel Leviatano concepì la sfera pubblica come un artificio sostanzialmente distinto dal privato, ma ritenne che l’estraneità delle due dimensioni fosse una condizione prioritaria per rispettare la vera essenza della politica che deve riguardare l’esclusivo esercizio del potere. Il più coerente teorizzatore di questo riduzionismo antropologico è stato Immanuel Kant, il quale nella Critica della ragion pura ha spiegato che l’identità personale è sconosciuta e irraggiungibile, autorizzando senza contraddizione una sorta di “valida incoerenza” nei comportamenti privati, sottoposti, di fatto, solo all’imperativo categorico della moralità pubblica. A ben vedere, quindi, l’attuale moralismo, che si concentra solo sul condannare o giustificare le nefandezze apparenti, presuppone lo stesso smarrimento scettico e originario dell’identità personale, sciolto, questa volta, in un relativismo multiplo, rivelatore sempre delle medesime contraddizioni.
La vera risposta, viceversa, sta nel tornare a parlare e a pensare in termini autenticamente personali.
Noi non siamo dei soggetti che hanno identità variabili e funzionali allo scopo: il mattino un professionista, a colazione un padre di famiglia, la sera un playboy, e così via. Ogni persona possiede in sé il valore e la responsabilità di  un’identità propria, l’Io, la quale non soltanto è e resta permanente, ma va gestita in coscienza e libertà per salvaguardare, tra l’altro, la salute mentale e la completezza stessa della personalità. L’alternativa dolorosa è, per l’appunto, la schizofrenia, la patologia psichiatrica o, usando una metafora letteraria, un’incomunicabilità finale tra il nostro Dottor Jeckyll e l’altrettanto nostro Mister Hyde. Va benissimo, insomma, difendere un amico in difficoltà, come alcuni hanno fatto disperatamente in questi giorni per Strauss-Kahn, specialmente quando il malcapitato è colpevole di un reato gravissimo. Come va benissimo screditare la sua minaccia politica con ogni mezzo. Ma non confondiamo la solidarietà e l’invettiva con la coerenza umana – prima ancora che etica – che è un dovere insostituibile per ciascuno, specialmente se ha assunto volontariamente un’alta responsabilità collettiva.
Il cosiddetto aspetto privato è diverso da quello pubblico e professionale, ma non appartiene ad un’altra persona, bensì alla stessa, la quale – similmente alle altre – deve mirare all’unità d’azione del proprio essere. Perciò, malgrado ogni retta concentrazione per evitare il moralismo, è chiaro che la vita privata di un uomo mi dice moltissimo sul suo essere affidabile o meno dal punto di vista pubblico. A meno che non consideriamo il lavorare una semplice mansione e il governare nulla altro che un potere assoluto, sottraendoci, in tal modo, definitivamente a qualsiasi valutazione antropologica del protagonista al di fuori del relativo e partigiano interesse.

 

di Joaquín Navarro-Valls
in “la Repubblica” del 24 maggio 2011

 

Michael”: il film del regista austriaco Markus Schleinzer

 

opera prima, presentata in Concorso alla 64.ma Edizione del Festival di Cannes

 

 

Che cosa narra il film MICHAEL

Michael, il titolo del film, è anche il nome del protagonista, un trentacinquenne dalla vita tranquilla per non dire mediocre e abituale. Metodico, appartenente alla classe media colpita dalla crisi economica, conduce un’esistenza tutta casa, lavoro e qualche amicizia superficiale. Ha solo un piccolo passatempo che lo appassiona in modo particolare: si chiama Wolfgang, ha dieci anni, e vive segregato nello scantinato di casa sua.

Michael è infatti un pedofilo, ma non uno di quei tipi borderline che suscitano subito dubbi, anzi, a prima vista sembra la persona più buona e mite del mondo. E come prova di questa gentilezza Michael offre al suo piccolo ’ospite’ parecchi comfort, cercando di rendergli la vita da recluso più comoda e gradevole possibile, con l’illusione di creare una sorta di rapporto paritario.

Colpisce in modo particolare la normalità che fa dà cornice a questa vicenda. Il regista infatti mostra gli avvenimenti dal punto di vista del pedofilo che, convinto di non compiere nulla di sostanzialmente sbagliato, restituisce allo spettatore un senso di serenità, che contrasta fortemente con le immagini da lucido aguzzino che scorrono sullo schermo. Paradossalmente Michael rimane spesso stupito dalle reazioni violente e ribelli di Wolfgang, che vorrebbe tornare a casa, e tenta più volte di convincere il bambino che sono stati i genitori ad abbandonarlo. Adottando uno stile che ricorda molto quello di Michael Haneke, del quale è stato assistente al casting per diversi film, il regista ha voluto realizzare una pellicola che colpisse dritto allo stomaco dello spettatore, mostrando l’orrore che affligge una piccola vita indifesa caduta nelle mani di un pericoloso orco(Cfr. quotidiani italiani del 16 maggio 2011).

 

 

Scheda del film

MICHAEL

titolo originale: Michael

paese: Austria

anno: 2011

genere: fiction

regia: Markus Schleinzer

durata: 96′

sceneggiatura: Markus Schleinzer

cast: Michael Fuith, Christine Kain, Ursula Strauss, Viktor Tremmel, Gisela Salcher

fotografia: Gerald Kerkletz

montaggio: Wolfgang Widerhofer

scenografia: Katrin Huber, Gerhard Dohr

costumi: Hanya Barakat

produttore: Nikolaus Geyrhalter, Markus Glaser, Michael Kitzberger, Wolfgang Widerhofer

produzione: Nikolaus Geyrhalter Filmproduktion

supporto: Österreichisches Filminstitut, Filmstandort Austria, ORF Film/Fernsehabkommen, Filmfonds Wien, Cine Tirol

distributori: Les Films du Losange

rivenditore estero: Les Films du Losange

 

 

Chi è Markus Schleinzer

Il regista  presenta per la prima volta un suo film da regista in concorso al Festival di Cannes, ma è un habitué della Croisette essendo stato direttore casting di Michael Hanneke, autore di  La pianista. Nel suo film si sente l’’influenza del maestro  per il suo soggetto tabù e il modo in cui è trattato, mantiene sia una filiazione artistica con Happiness di Todd Solondz che un legame diretto con l’attualità austriaca segnata dal caso Natascha Kampusch,la ragazzina che poi è diventata una star dei vari Talk Show, tenuta prigioniera per tanti anni dal suo aguzzino.
L’autore filma  la routine quotidiana con una neutralità sconcertante, dando poca importanza ai dettagli più sordidi o ai riferimenti temporali. Non si fa mai allusione al rapimento, ma il tentativo su un altro bambino lascia intendere il metodo e il lavaggio del cervello messi in atto. Per Schleinzer, suggerire è più importante che spiegare. I dialoghi sono ridotti al minimo che suppone il rapporto tra un pedofilo e la sua vittima manipolata. La natura sovversiva di questa relazione è costantemente anestetizzata da un trattamento basato sull’osservazione, senza pertanto entrare nel voyeurismo malsano.
Per il regista, il sequestro è come un ménage disfunzionale che ha al contempo le caratteristiche di una coppia e quelle di una famiglia monoparentale. Uomo e bambino guardano la televisione, mangiano tête à tête e lavano i piatti insieme. Michael arriva persino a portare la sua vittima in gita, fanno insieme i puzzle e le battaglie con le palle di neve. Ogni sera, il ragazzino viene riportato nella sua prigione sotterranea, dove viene chiuso a doppia mandata, vittima regolare di sevizie che il pedofilo segnerà più tardi con una piccola croce su un calendario. Il carnefice è organizzato e manipolatore, ma non ha niente del personaggio malvagio dei thriller. Piuttosto, emana da Michael un’impressione di naturalezza ed è dal potere di questa normalità che nasce l’orrore.
Schleinzer gioca con le aspettative del suo pubblico seminando, lungo tutto il film, false piste e indizi sul contesto di questo crimine e le sue implicazioni nella vita del personaggio principale. Non è presentato come un uomo particolarmente mostruoso né simpatico, e lo spettatore è tenuto a distanza dalle sue intenzioni abilmente svelate un po’ per volta, fino alla sorprendente conclusione( Cfr.. Domenico La Porta, in CINEUROPA del 17 maggio2011).

 

 

Ma non mi piace  che il nome Michael

venga associato solamente alle brutture che- simili a serpi velenosi, come quell’orribile prete bestemmiatore, pedofilo e commerciante di carne umana, qual’é Riccardo Seppia, il parroco della chiesa di Santo Spirito a Sestri Ponente.

E’ consolante sapere che è citato nella Bibbia ebraica, nel Libro di Daniele 12,1, come primo dei principi e custode del popolo di Israele.

Nel Nuovo Testamento è definito come arcangelo nella Lettera di Giuda 9, mentre nell’Apocalisse di Giovanni 12,7-8 è l’angelo che conduce gli angeli nella battaglia contro il drago, rappresentante il demonio, e lo sconfigge. Esso è implicitamente nominato in Giosuè 5:14-15 e in Zaccaria 3:2. Essendo qui chiamato Angelo Personale del Signore possiamo ritrovare la sua figura in Genesi 16,7 che rimanda a 1Corinzi 10,4 che a sua volta si ricollega a Esodo 3,2 e 23:21 che rimandano ad Isaia 9,5 e 63,9 per poi ritrovarsi in Giudici 2:1 e rivelarsi nel collegamento tra Malachia 3:1 e Marco 1,2 e Salmo 106:20 e Giovanni 1,1.

Numerosi poi sono gli scritti apocrifi vetero e neo-testamentari in cui l’arcangelo Michele compare a vario titolo. Per esempio, nell’ Apocalisse siriaca di Baruc è scritto che detiene le chiavi del Paradiso; nella Vita di Adamo ed Eva si dice che fu lui ad insegnare ad Adamo a coltivare la terra; nell’ Apocalisse di Mosè detta ai figli di Adamo ed Eva i doveri rituali verso i defunti; nel Vangelo di Bartolomeo si racconta che fu lui a portare a Dio la terra e l’acqua necessarie a creare Adamo; nella Ascensione di Isaia si racconta che fu lui a rimuovere la pietra dal sepolcro di Gesù; nella Apocalisse della Madre di Dio accompagnò la Vergine in un viaggio infernale per mostrarle le pene a cui sono sottoposti i dannati…. (Cfr. Wikipedia).

In ogni caso, il cinema può dare una mano alla gerarchia cattolica, per tentare di “spegnere” i troppi scandali dovuti ai molti, moltissimi preti pedofili. Non sarebbe più semplice permettere ai giovani che vorrebbero servire Cristo nella comunità, frequentare anche l’altro genere, in modo che la loro sessualità si sviluppi in maniera naturalmente umana?

E Dio li creò. Maschio e femmina li creò(Dal libro della Genesi)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma quanti sono gli abbandoni scolastici?

 

Istat: un giovane su 5 tra i 18 e i 24 anni abbandona gli studi
E di questi solo la metà trova un’occupazione

 

Nel 2010 il 19% dei giovani risulta aver abbandonato la scuola senza conseguire un diploma. È quanto emerge dal Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010 diffuso dall’Istat di cui parlano sostanzialmente tutti i quotidiani, soffermandosi sull’allarmante dato sulla povertà.

Il dato, che era già stato rilevato da Eurostat nei mesi scorsi, si riferisce ai giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni per complessive 800 mila persone di cui il 60% sono maschi.

Ma si parla anche di istruzione, e si apprende che ad abbandonare gli studi senza il diploma di scuola superiore sono stati esattamente il 18,8% degli studenti, contro una media europea del 14,4%. Di coloro che hanno lasciato gli studi, sono occupati la metà dei giovani. È occupato il 31,9% delle giovani donne che hanno abbandonato gli studi contro tassi di abbandono e di occupazione tra i maschi rispettivamente del 22% e 56,8%.

Le differenze territoriali sono marcate: particolarmente grave la situazione della Sicilia, dove più di un quarto dei giovani lascia la scuola con al più la licenza media. Percentuali superiori al 23% si registrano anche in Sardegna, Puglia e Campania. Più in linea con il traguardo europeo del 2020 (soglia del 10% indicata nella Strategia Europa 2020) appare il Nord-est, con un tasso di abbandono scolastico intorno al 12 per cento nella provincia autonoma di Trento e in Friuli-Venezia Giulia.

Dai dati dell’indagine Excelsior nel periodo compreso fra l’anno scolastico 2004/05 e quello 2007/08 il numero di diplomati degli istituti tecnici italiani è sceso da 181.099 a 163.915, con un gap rispetto alla domanda potenziale da un minimo di circa 24 mila unità (nel 2005) a un massimo di oltre 127 mila diplomati tecnici (nel 2007).


tuttoscuola.com lunedì 23 maggio 2011

 


Incredibile ma vero: 195 mila abbandoni all’anno nelle superiori statali

 

Il 2° Rapporto sulla qualità nella scuola di Tuttoscuola ha contribuito ad aprire in periferia il dibattito su alcune tematiche molto “calde”, tra cui quella della dispersione scolastica (che, forse, è meglio chiamare degli abbandoni) particolarmente significativa in alcune aree del Paese, come, ad esempio, nel Nord Ovest e nelle Isole.

Ancora una volta ricordiamo che la dispersione rigorosamente rilevata dal 2° Rapporto sulla base dei dati ufficiali pubblicati dal Miur è riferita soltanto al percorso negli istituti statali di istruzione secondaria superiore e non considera, quindi, l’eventuale passaggio dalla scuola statale a quella non statale o alla formazione professionale oppure all’apprendistato formativo; un passaggio dal percorso statale che, se pur non puntualmente calcolabile per mancanza di rilevazioni ufficiali generali, si può, tuttavia, considerare non quantitativamente rilevante, visto che, complessivamente la scuola secondaria superiore non statale accoglie soltanto circa il 7% dell’intera popolazione scolastica degli istituti superiori e fa registrare incrementi molto modesti nelle classi successive a quelle del primo anno di corso (dove ipoteticamente possono affluire gli studenti che hanno abbandonato il percorso statale).

Del resto va considerato che su oltre 190 mila studenti – come v edremo meglio dopo – che lasciano la scuola statale, ben 120 mila risultano dopo anni senza un titolo di studio superiore alla terza media, come documentano i dati Eurostat. Pertanto solo 70 mila circa continuano a studiare altrove. E comunque anche per loro è sintomo di un malessere, se a un certo punto hanno deciso di cambiare strada.

Si potrebbe poi pensare (o sperare) che i dati complessivi sugli abbandoni degli studenti negli istituti statali registrati dal 2° Rapporto di Tuttoscuola al termine dell’anno scolastico 2009-10 rappresentino una situazione critica contingente. Ma, purtroppo, non è così.

Lungo l’intero percorso statale negli istituti superiori dal 1° al 5° anno abbandonano circa 190 mila studenti, che non arrivano all’esame di maturità; al termine del 2009-10 dei 616.645 studenti che nel 2005-06 erano iscritti al 1° anno di corso ne erano rimasti iscritti 420.872: mancavano, dunque, all’appello 195.773 ragazzi che avevano abbandonato la scuola statale, cioè il 31,75%!

La quantità annua di abbandoni è così elevata (190-200mila all’anno) da non sembrare vera, al punto che autorevoli commentatori l’hanno messa in dubbio.

Eppure i dati parlano da soli, come si può constatare dalla tabella allegata ( http://www.tuttoscuola.com/ts_news_491-1.doc ) con la quale Tuttoscuola ha rilevato, tali e quali, i dati di scolarizzazione degli ultimi quindici anni, facendo risaltare la differenza tra l’iniziale e il finale del percorso statale. Le percentuali medie di abbandoni sono andate diminuendo (dal 36,8% di dieci anni fa al 31,7% dell’ultimo anno), ma restano ancora a livelli di allarme, che ci tengono lontani dall’Europa.


tuttoscuola.com lunedì 23 maggio 2011

 

 

I giovani Neet in aumento
Nel Rapporto annuale Istat la situazione dei giovani tra i 15 e i 19 anni fuori dai circuito formativo e lavorativo

 

L’Istat ha presentato questa mattina il XIX Rapporto annuale sulla situazione del Paese, un’ampia rilevazione che sviluppa una riflessione documentata sulle trasformazioni che interessano economia e società.

Obiettivo del Rapporto, come si legge nella sua presentazione sul sito dell’Istituto (www.istat.it) è quello di mettere a fuoco la situazione economica e sociale del Paese e di fornire elementi utili alle decisioni di tutta la collettività, integrando le informazioni prodotte dall’Istat e dal Sistema statistico nazionale e tenendo conto dei progressi della statistica ufficiale nella misurazione degli aspetti demografici, sociali ed economici.

Il Rapporto di quest’anno, organizzato in cinque capitoli e, come sempre, arricchito da tavole statistiche e approfondimenti. si sviluppa lungo due filoni: la lenta uscita dalla recessione e l’onda lunga dell’impatto economico e sociale della crisi. Il Rapporto è corredato da una sintesi dei più significativi risultati e da un’appendice di tavole statistiche.

Tra gli altri, è di particolare interesse il capitolo dedicato ai neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni fuori dal circuito formativo e lavorativo.

Nel 2010 in Italia hanno raggiunto 2,1 milioni di unità, 134 mila in più dell’anno precedente, pari al 22,1 per cento della popolazione di questa età, una quota nettamente superiore a quella tipica degli altri paesi europei. La maggioranza dei Neet rilevati nel 2010 è stata tale anche in almeno due dei tre anni precedenti il momento dell’intervista, dato questo che segnala una preoccupante persistenza in questa condizione di esclusione.

Un terzo dei Neet è disoccupato, un terzo è non disponibile a lavorare e un terzo fa parte della “zona grigia”: quindi, la grande maggioranza di questi giovani (con una punta dell’80 per cento tra i maschi del Mezzogiorno) mostra un interesse alla partecipazione al mercato del lavoro, perché disoccupati o inattivi disponibili a lavorare.

Quasi un quarto delle giovani è Neet, contro un quinto dei giovani. I Neet maschi vivono nell’87,5 per cento dei casi nella famiglia di origine, mentre per le giovani ciò avviene solo nel 56 per cento dei casi: 450 mila donne che appartengono a questa categoria sono partner o madri e molte di loro si dichiarano “casalinghe”.

Poco più della metà dei Neet che vive con i genitori proviene dalla classe operaia, a fronte di percentuali del 30 per cento tra gli studenti e del 42 per cento tra gli occupati.


tuttoscuola.com lunedì 23 maggio 2011

 

 

I dati dell’Istat e di Tuttoscuola

 

C’è un’apparente discordanza di dati sugli abbandoni scolastici rilevati da Tuttoscuola negli istituti statali di istruzione secondaria di II grado e quelli evidenziati dal Rapporto annuale Istat sui Neet, i giovani senza formazione e senza lavoro.

Tuttoscuola, in diversi servizi, ha evidenziato come nella scuola statale superiore si perdano ogni anno tra i 190 e i 200 mila studenti che abbandonano  la scuola lungo il percorso del quinquennio che va dalla prima alla quinta. Nell’ultima rilevazione gli abbandoni sono risultati di circa 195 mila unità, pari ad un tasso di dispersione di circa il 30%. Dai che sono riportati completamente su questo sito nella rubrica “settimana”.

L’Istat parla di giovani che, dopo la scuola media, non hanno conseguito alcun titolo di studio per una quantità di poco inferiore al 20%.

Come si spiega questa differenza di circa 10 punti in percentuale che equivalgono a circa 60-70 mila giovani in meno che abbandonano?

Il target di riferimento dell’Istat sono i 18-24enni, cioè giovani che hanno avuto altre possibilità per seguire percorsi formativi, anche dopo la scuola media, non coincidenti con il percorso statale all’interno della secondaria superiore.

Dopo la scuola media una quota di ragazzi sceglie percorsi alternativi a quello statale; altri, dopo l’insuccesso scolastico nella statale passano alla non statale o alla formazione professionale.

Una parte ritenta il percorso statale attraverso i corsi serali, contribuendo, quindi, alla riduzione complessiva dei giovani privi di diploma.

Non c’è, dunque, sostanziale discordanza tra i dati di Tuttscuola e del Rapporto istat; entrambi, purtroppo, confermano, se pur da prospettive diverse, una pesante criticità nazionale che ci vede nelle posizioni della bassa classifica in Europa.


tuttoscuola.com martedì 24 maggio 2011

 

Gloria a Dio e pace sulla terra

Dal 17 al 27 maggio si svolgerà a Kingston, in Giamaica, una Convocazione ecumenica internazionale dal titolo «Gloria a Dio e pace sulla terra». Il documento preparatorio è stato a suo tempo inviato alla chiese. Esso cerca di uscire dall’alternativa paralizzante che spesso, nel passato, ha condizionato la riflessione teologica e la prassi delle chiese su questo tema. Da una parte, alcuni sottolineavano che l’uso della forza va evitato sempre e comunque, richiamandosi a esempio alle parole di Gesù nel Discorso della montagna, interpretate nel senso di una assoluta nonviolenza. Altri sottolineavano che, in tal modo, si rischia, almeno in alcuni casi, di lasciare libero corso all’oppressione di poteri malvagi nei confronti dei più deboli: in questa seconda prospettiva, l’estrema risorsa di una reazione armata non può essere esclusa ed esiste qualcosa come una «guerra giusta». È vero, però, che questo atteggiamento, che vuol essere realista, ha giustificato, anche in anni recenti, guerre del tutto ingiuste. Il documento preparatorio si sforza di porre al centro le possibilità di promuovere la pace mediante la giustizia sociale e le risorse della politica, riducendo gli spazi di praticabilità dell’uso della forza.
Negli anni Trenta del secolo scorso, il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer riteneva che le chiese dovessero esprimersi in comune, sul tema della pace, in modo tale da impegnare tutti i cristiani. Limitarsi ad analisi e raccomandazioni, secondo Bonhoeffer, significherebbe ammettere che la parola della chiesa non dispone di alcuna capacità di incidere, oggi, nella storia. Una testimonianza incisiva può passare solo attraverso scelte precise, tali da imporre un sì o un no, in nome del Signore Gesù. La Convocazione di Kingston non è un concilio ecumenico, e non ha simili pretese. È auspicabile, tuttavia, che essa riesca a esprimere magari poche linee guida, ma chiare e in grado di mobilitare le chiese su progetti anche limitati, ma ben definiti. L’ecumenismo di questi decenni è assai statico: un segnale di vitalità sarebbe, per molti cristiani e cristiane, uno stimolo importante.

 

in “Riforma” – settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste, Metodiste e Valdesi – del 13 maggio 2011

La rivincita della spiritualità

Lasciata fuori (o quasi) l’editoria religiosa dai libri che hanno fatto l’Italia, i temi della spiritualità si prendono la rivincita nelle sale del Lingotto, dove alcuni degli incontri più seguiti di ieri riguardavano appunto questi argomenti. Non è un caso che Erri De Luca, nel pomeriggio, abbia riempito la Sala Oval ed Enzo Bianchi, nella serata, abbia trattenuto nella Sala Rossa molti lettori, nonostante un disguido che ha fatto slittare l’incontro di mezz’ora. Sono stati due degli appuntamenti più seguiti (oltre naturalmente a Umberto Eco, abbonato al tutto esaurito), che hanno convogliato quello che Ernesto Ferrero definisce un bisogno «di fare qualcosa per la collettività e che forse sopperisce a una drammatica assenza di riferimenti nella società». Il volto religioso del Salone è affidato a non credenti come Erri De Luca, che afferma di escludere la divinità dalla sua vita, ma non da quella degli altri; agli uomini di Chiesa più progressisti, quelli che parlano, come Enzo Bianchi, anche agli increduli; ai preti di battaglia impegnati nel sociale, come don Virginio Colmegna e don Giacomo Panizza, anche loro ieri impegnati, allo stand di Ibs, in un incontro,
moderato da Marco Revelli, che ha affrontato i temi caldi dell’immigrazione e dell’accoglienza. Di Chiesa e religione si parla abbondantemente in questo Salone e spesso in chiave critica, soprattutto verso le gerarchie. Oggi toccherà al potere temporale con incontri che certo non saranno indulgenti, a partire dal «dialogo immaginario» del matematico Piergiorgio Odifreddi con Joseph Ratzinger, fino al «Dossier Vaticano» in cui Bruno Ballardini, che affronta l’opera di evangelizzazione della Chiesa come una strategia che adotta gli strumenti del marketing, dialoga con Ferruccio Pinotti,
autore di una controinchiesta su Wojtyla. Domani sarà Michela Murgia a raccontare gli stereotipi in cui la Chiesa ha rinchiuso l’immagine femminile. Ieri però è stato il giorno delle Sacre Scritture. E non è un caso che Erri De Luca, da anni impegnato, ricorda Ferrero, «in un corpo a corpo con parole antiche» per le sue traduzioni della Bibbia, e il priore della comunità monastica di Bose,  Enzo Bianchi, abbiano entrambi analizzato la stessa pagina del Vangelo di Giovanni, quella dell’adultera condannata alla lapidazione che Gesù salva con le parole «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». De Luca, che ha appena pubblicato E disse (Feltrinelli), risale al cuore nel monoteismo, raccontando la storia di Mosé che «va a prendersi» sul Monte Sinai «la notizia della divinità», e la recapita a un popolo che accetta di prendere su di sé quel carico, ma parla anche delle Sante dello scandalo (Giuntina), cinque donne tra cui Maria, una «genealogia che passa attraverso Davide e arriva fino al Messia, figure che hanno avuto un ruolo decisivo nel rapporto con la divinità, mortificato, nel corso, dei secoli, da traduzioni che hanno attribuito alle Scritture una condanna del corpo femminile». Delle donne nella Bibbia parla anche Bianchi, che presenta una pubblicazione liturgica, un Evangeliario secondo il rito romano, pubblicato dal Messaggero di Padova. Un incontro che insiste sulla necessita di «riseminare il Vangelo, liofilizzato nei valori cristiani», dice Ugo Sartorio, direttore del «Messaggero di Sant’Antonio». «Vangelo — ricorda il priore di Bose — significa buona notizia. Non tutta la Bibbia è Vangelo. Ho l’impressione che noi
oggi non sentiamo il Vangelo come una buona notizia perché le stesse Chiese l’hanno imbalsamato, ne hanno fatto un breviario di etica, un deposito di dogmi. Il Vangelo dovrebbe rallegrare, spingere verso la felicità, è una buona notizia, che non si può dare in modo rabbioso, arrogante, nemico. Il fatto è che noi cristiani non sappiamo più dare una buona notizia» .

di Cristina Taglietti
in “Corriere della Sera” del 14 maggio 2011

 

Ripudiare la guerra. davvero

 

«L’Italia ripudia la guerra», dice la nostra Costituzione del 1948 all’articolo 11.

 

Ma non la ripudiano gli italiani, per lo meno quelli che contano sul piano economico e politico. E per questo si continuano a costruire armi, anche dispendiose (come i cacciabombardieri da 16 miliardi di euro), che fanno lavorare e guadagnare molte imprese, e così si va a bombardare in Libia (come già in Iraq ed in Afghanistan), perché ci si copre con l’ombrello dell’Onu o della Nato.
Non è che il ripudio della guerra della Costituzione corrispondesse al disinteresse per la pace. Anzi ripudiare la guerra era un’espressione di amore alla pace, se è vero quanto scriveva nel 1963 papa Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, che è follia (alienum a ratione…fuori dalla ragione) pensare che la guerra possa portare alla giustizia e alla pace. E ne dà, papa Giovanni, anche la ragione: da una parte i terribili mezzi di distruzione di cui si arricchiscono costantemente gli arsenali, dall’altra l’accresciuta possibilità di dialogo e di verifiche sotto la tutela di organismi internazionali.
È proprio questa mancanza di ricerca di dialogo che porta i problemi a situazioni così gravi da rendere pressoché indispensabile l’intervento militare. Ed è quello che sta accadendo con la Libia, con la quale si sono intrattenuti rapporti più che amichevoli con un’iniziale dimostrazione di disinteresse se non di favore (per non «disturbarlo», si disse), cercando poi di non lasciarsi scavalcare dagli europei più decisi, fino ad andare anche noi a bombardare, con l’avallo del presidente della Repubblica. Non solo però ce n’eravamo lavate le mani prima, ma abbiamo continuato a lavarcele anche dopo, senza mai tentare un serio intervento diplomatico e senza darci veramente da fare perché l’Onu o l’Europa se ne facessero promotori. Anche con Hitler si fece così: lo si lasciò fare (vedi Monaco 1938), trovandosi poi nella necessità di fare una guerra per garantire la pace. Si farà così anche con la Siria, per cui si spendono molte parole ma senza seri interventi diplomatici, per giungere poi a dimostrare necessario l’intervento militare? Non sarà esplicita, ma si ha l’impressione di un’implicita convinzione che tanto poi andremo a bombardare, così useremo le nostre armi raffinate (se no, cosa ci stanno a fare?) e poi ne faremo altre ancora più raffinate. E alla fine per lo meno ci guadagneremo.
Quello che manca – a chi governa, ma anche ad ancora troppi cittadini – è la convinzione che la guerra va veramente ripudiata, e che quindi bisogna cercare in tutti i modi gli espedienti politici e diplomatici che la rendano superflua. Se, come dice il proverbio, la necessità aguzza l’ingegno, il dovere di ripudiare la guerra deve farci trovare i modi necessari per giungere alla pace.
L’obiezione comune è che questa è un’utopia, in un mondo di violenza. Eppure si faceva guerra un tempo fra le nostre città, finché lo Stato nazionale le ha rese impossibili, così come sono inimmaginabili oggi le guerre che hanno insanguinato per secoli le Nazioni dell’Europa. E allora si dovrà dare forza e autorità all’Onu come arbitro veramente superiore (ridimensionando i veti che ne minano la democrazia e quindi l’attendibilità) in grado, con una forza di polizia, di garantire una soluzione dei problemi senza il ricorso alla guerra (così, sia pure in altre situazioni, l’Onu riuscì ad evitare nel 1956 la guerra per il Canale di Suez).
Abbiamo ricordato in questi giorni, riflettendo sulla figura di Giovanni Paolo II, che il potere del mondo comunista è caduto senza una guerra. Invece non si è saputo cercare la via nonviolenta per portare la pace in Afganistan ed in Iraq, come lo stesso papa Wojtyla cercava e supplicava, e ci siamo immersi nelle tragedie e nei drammi tuttora in corso. Purtroppo anche noi cristiani, malgrado i forti appelli alla coerenza con il Vangelo per il rifiuto della violenza e per la costruzione di una vera pace basata sulla solidarietà, siamo più sensibili all’idolo di “mammona”, cioè della ricchezza
e del potere, che co nducono inevitabilmente alla guerra.
Vorrei fare eco all’appello del Consiglio Nazionale di Pax Christi per sollecitare tutti a «ripudiare la guerra» con convinzione e con impegno, reagendo, muovendoci, appoggiando le iniziative che sorgono, condizionando la vita sociale e le elezioni, facendoci sentire in ogni modo, obbligando così i politici, i responsabili, a cercare e trovare le vie nonviolente ed efficaci per una pace effettiva.

 

di Mons. Luigi Bettazzi

Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi
in “Adista” – Segni Nuovi – n. 40 del 21 maggio 2011

don Michele Do: “qui è nato un uomo”

don Michele Do

 

 

 

«Quando in un branco un compagno dà una zampata,

l’immediato istinto dell’animale è la ritorsione.

La prima volta che un animale trattiene la zampata,

avverte l’orrore del sangue e non reagisce alla violenza:

qui è nato un uomo».

 

Di lui mi avevano spesso parlato amici comuni, ma anche laici e sacerdoti che accorrevano lassù nel paesino della Val d’Aosta ove aveva trascorso la maggior parte della sua vita, nella purezza assoluta della natura e della sua meditazione e testimonianza. Sto parlando di don Michele Do (1918-2005) e oggi lo rievoco attraverso queste sue righe che vogliono rappresentare simbolicamente quando si compie la vera ominizzazione.

Noi passiamo dallo stato bestiale a quello umano nel momento in cui il nostro pugno lascia cadere a terra il sasso di Caino o la spada della vendetta o la zampata dell’assalto, e proviamo nausea e orrore della violenza.
Questo è, certo, il primo grande passo verso la nascita dell’uomo, ossia la scoperta del perdono e dell’amore. Ma don Michele va oltre e continua così, prospettando un’altra tappa fondamentale:

 

«Quando uno degli animali che procede nel branco,

alza gli occhi e vede le stelle,

quando ne avverte per la prima volta lo stupore, la meraviglia, il mistero,

quando – come dice Fogazzaro – sente su di sé, sul proprio cuore,

il peso delle stelle: qui è nato l’uomo».

 

La nostra realtà è, infatti, bidimensionale. Noi non guardiamo solo orizzontalmente, incontrando con gli occhi le altre
creature; noi abbiamo un altro sguardo che sale verticalmente, verso l’infinito e il Creatore. È questa l’estrema avventura dell’uomo e della donna, affacciarsi sulle immensità del mistero e cercare di raggiungerle. Siamo un microcosmo che può contenere il cosmo e persino l’infinito, come suggeriva Pascal.

 

di Gianfranco Ravasi
in “Avvenire” del 19 maggio 2011

 

 

 

Don Michele Do
di Carlo Carozzo
in “Il Gallo” del maggio 2011

 

Fra le persone che hanno influito sulla mia formazione spirituale di adulto c’è sicuramente Michele Do, un prete che aveva scelto di vivere in montagna a St. Jacques, un paesino della Valle D’Aosta per ripensare nel silenzio e nella solitudine la sua formazione appassionandosi alla lettura, tra l’altro, dei teologi francesi e di alcuni autori del modernismo. Dopo non molto tempo la sua solitudine prese a essere molto frequentata da cristiani in ricerca e da studiosi di spicco come padre Turoldo e Panikkar che salivano fino alla rettoria per scambiare con lui e attingere alla sua sapienza.

 

Uomo dell’amicizia

Personalmente lo conobbi al Gallo verso il 1964 quando, come ogni anno, passava a salutare e conversare con la

nostra Katy Canevaro. Era l’uomo dell’amicizia considerata da lui «sacramento dell’amore di Dio», fedelissimo agli amici che trovavano sempre in lui accoglienza, comprensione delle loro traversie e dei loro dubbi. Dal 1979 ogni anno salivamo in gruppo da lui come discepoli a un discepolo perché, come diceva lui, non c’è altro maestro oltre Gesù. Noi ci attendevamo che ci parlasse di Dio, come poi accadeva, ma prima ci spiazzava con domande rivolte a noi per stimolare la nostra responsabilità e partecipazione alla conversazione.
Non amava scrivere se non qualche lettera agli amici, era l’uomo della parola appassionata, lucida, serena, mentre la voce si incrinava talvolta quando parlava del mistero del male, suo grande tormento.
Ci voleva allora la pazienza e l’amore di due suoi grandi amici, Piero Racca e Silvana Molina, per sbobinare, ordinare e raccogliere in un libro dal titolo Per un’immagine creativa del cristianesimo le sue relazioni in gruppi, omelie, appunti con lunghe prefazioni di Piero e Silvana, un intervento di Giancarlo Bruni e preziose note di Clara Gennaro. Don Michele aveva affrontato e lungamente macinato i grandi interrogativi dell’esistenza, il male, Dio, il senso della vita, l’uomo che considerava abitato da una legge profonda, «una legge ascensionale, di ascensione in ascensione» (p. 157).

 

Un cammino e una fatica che
non possono essere annullati né abbreviati, neppure da Dio. La pienezza divina, l’interiorizzazione di Dio, il diventare uno con Dio, è come il pane che deve essere guadagnato con il sudore della nostra fronte. Leonardo diceva: «Dio cede tutti i suoi beni a prezzo di fatica e il sommo bene, che è Dio, a prezzo di somma fatica». Non si salta a piedi giunti nel regno di Dio e neanche a colpi di miracoli e di sacramenti, neanche con quello del battesimo (p. 224).

La meta, che è diventare, come in Gesú, «uno con Dio» è dunque senza fine, giorno per giorno, età per età, una fatica sfibrante, si potrebbe dire, ma non è cosí perché Dio attrae nell’intimo e ci dona la forza dello Spirito senza di cui si rimane immobili, ripetitivi, vecchi anche a vent’anni. Questo perché Dio, è Dio, l’inesauribile:

Siccome Dio è l’inesauribile, l’uomo non esaurirà mai il suo cammino ascensionale verso la pienezza. Un traguardo appena raggiunto diventa inizio per un nuovo cammino. Questa è la visione cristiana della vita. Dio è nel cuore dell’uomo, è immanente, ma anche trascendente. Gesú ci dice: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli». L’uomo è, dunque, una realtà che deve essere continuamente trascesa e superata. È una gioiosa trascendenza che fa ascendere, trasfigura e veste l’uomo di grazia e di verità fino al suo compimento, quando Dio sarà tutto in tutte le cose e quindi Dio sarà tutto in tutto l’uomo (pp. 155-156).

 

Due letture del cristianesimo

C’è da un lato la lettura tradizionale. La creazione, e quindi l’uomo, nascono perfetti, poi subentra il peccato di Adamo ed è lí la sorgente del male che intacca la natura e l’uomo in profondità al punto che occorrerà il sacrificio espiatorio di Gesú in cui il Verbo si è incarnato, per placare la collera del Padre, è la Redenzione; in questa logica Cristo fonda la chiesa la quale applica a tutti noi con i sacramenti, in particolare con il battesimo, i meriti, la salvezza e la giustificazione ottenuti da Cristo sulla croce. Ma c’è tuttavia anche una seconda lettura:

Dio non crea il mondo e l’uomo nella sua divina pienezza, lo crea come il fiore del campo che nasce dalla povertà originaria della zolla (…) All’inizio del Genesi si dice: «Dio creò il cielo e la terra, ma la terra era vacua, informe, tenebrosa» (Gn 1, 2). In questa lettura non c’è un peccato originale ed originario, c’è una povertà originaria.
E su questa terra povera, vacua, informe e tenebrosa aleggia lo Spirito. E, a mano a mano che la terra si apre e lo Spirito la penetra e la intride, lí incomincia il cammino ascensionale: dal caos originario, alla bellezza e al miracolo del cosmo
(pp. 219-220).

 

Purtroppo nella sua vicenda storica, senza escludere l’oggi, nella pratica e nella riflessione cristiana ha prevalso il giuridismo stretto alleato del moralismo che non solo hanno impoverito il mistero cristiano, ma anche, se non soprattutto, lo hanno alterato facendo di Dio un grande Faraone dispotico e dell’uomo una creatura infima, pressoché impotente e tenebrosa:

Ricordate il prologo di Giovanni: «E la luce venne e le tenebre non l’hanno accolta … ma a coloro che l’hanno accolta, ha dato il potere di diventare figli di Dio». Ecco il miracolo: compiere questo cammino ed essendo figli di Dio poter fare cose che Dio solo sa fare; questo è il potere che ci è stato dato, non il potere che noi abbiamo impoverito interpretandolo carnalmente. Perdonare i nemici, trasfigurare il dolore, immedesimarsi nel prossimo, queste sono cose divine: qui c’è, infatti, un salto oltre il biologico, oltre l’umano (p. 220).

L’essenziale della fede non è soltanto rispettare la morale nei comportamenti, ma prima di tutto lasciarsi guidare dallo Spirito per giungere a «interiorizzare Dio e fare le cose di Dio: questa è la salvezza» (p. 220), siamo quindi lontanissimi, a tutt’altro livello da quello etico e giuridistico!
L’azione liberatrice della creatura costitutivamente imperfetta è quindi una realtà molto profonda perché essa

è qualcosa in via di creazione, in divenire; è, direi, una realtà in cammino, siamo tutti in itinere, siamo degli itineranti, non dei passanti. Nella visione nichilista, invece, noi siamo dei passanti; veniamo da un nulla e torniamo nel nulla, fuochi fatui nella notte, momenti effimeri dell’effimero, siamo pura inconsistenza. Nella visione religiosa cristiana, veniamo, sí, dal nulla, ma siamo pellegrini verso una patria e verso una pienezza. Homo viator, spe herectus, noi siamo ontologicamente tensione verso Dio, in cammino verso Dio. (…)

Il vero grande esodo, è l’esodo dal nulla alla divina pienezza, e, in fondo, alla radice di ogni religiosità, c’è la grande preghiera indú: «guidami, luce benigna, dall’irreale (dal nulla originario) al reale, dalla tenebra alla luce» (pp. 222-223).
Questi itineranti che noi siamo camminano guidati dallo Spirito verso una divina pienezza, una ascesa che non è indolore, né facile, incontra difficoltà, tentazioni, e conosce anche la croce, nessuno può essere sottratto alla  condizione umana, tanto meno i seguaci di un Crocifisso:

Questo cammino ascensionale dal vacuum, dal caos che è in noi si compie nella lotta, nella fatica, nel dolore e nel travaglio. (…) Non c’è strada di circonvallazione che possa evitare la strada che porta al calvario. Il caos, l’inanis, il
vacuum è legge strutturale (pp. 224-226).

A differenza del Dio di Gesú annunciato forse per secoli, questa immagine delineata, annunciata, vissuta da don Michele non desta paura, ma suscita gioia e una grande serenità, quella che egli ha sperimentato durante una gravissima crisi cardiaca nella quale aveva rischiato di morire:

Il volto di Dio, infatti, è infinitamente piú grande e del cuore e del sogno dell’uomo, ma non contro, né il mio cuore, né il mio sogno. Per questa immagine di Dio allora, amici, lietamente do la vita. Cerco in questa direzione. Cerco perché, in fondo, è una ricerca: non ho soluzioni. Di cominciamento in cominciamento, di ripresa in ripresa, di cominciamenti e riprese senza fine (p. 232).

 

Il male e Dio


Nell’età della cristianità durata per secoli la presenza di Dio era quasi un’evidenza, la società e la cultura erano come impastate con le religioni che in qualche modo spiegavano pressoché tutto. Pure per il Dio di Gesú è stato abbastanza cosí, anche se non solo per il popolo, la sua immagine era spesso perversa, era il Dio che premiava i buoni (non sempre però!) e castigava i cattivi, addirittura la peste veniva da Lui. Oggi nel nostro mondo secolarizzato per lo piú non è cosí. Tutt’altro! Oggi si cercano spiegazioni immanenti per tutto, talvolta pure per i miracoli, riconosciuti dalla chiesa dopo
un lungo processo di ricerca, molti pensano che non esistono perché è quello che la scienza non ha ancora spiegato, ma lo farà in futuro. Quindi credere è diventato molto piú difficile, e in particolare per la presenza del male non sempre spiegabile con le negatività dell’uomo e della natura. Il male, infatti, è l’opposto di Dio, se per troppa buona sorte non esistesse

Dio rientrerebbe nel novero di quelle verità che non si rifiutano se non per difetto di intelletto (…) Ma il male c’è, il male esiste. Ed è l’ostacolo: ostacolo non solo che nasconde o muro che impedisce, ma scandalo che piú radicalmente dice non Dio, dice negazione di Dio. Il male non è solo il silenzio, è assenza di Dio (p. 198).

Talvolta pensiamo che per i santi non sia cosí perché hanno uno sguardo piú profondo e, soprattutto, piú libero e fiducioso in Dio. Eppure santa Teresina di Lisieux, oggi dichiarata dal magistero dottore della chiesa, parlava di un buco nero in cui non si vede piú niente ed era il luogo dove lei stava con il corpo e con lo spirito. E inoltre diceva: «Quando io canto la bellezza, la pienezza e la gioia del regno, voi pensate che il velo per me si sia squarciato; ma non è un velo, è un muro che dalla terra si alza fino al cielo. Io canto quello in cui voglio credere» (p. 206).
La constatazione della presenza del male e dei disastri che provoca è dunque una potenza negativa cosí forte e intensa da non sfuggire a una santa dottore della chiesa. Non è incomprensibile perché le devastazioni che produce hanno interrogato l’uomo di tutti i tempi e ogni cultura ha cercato di rispondere all’unde malum di Agostino elaborando le ipotesi e talora anche le spiegazioni piú diverse. Quella cristiana è stata per secoli ed è tuttora, tranne eccezioni di qualche teologo, il peccato di Adamo che ha prodotto una caduta ontologica della creazione a cominciare dall’essere
umano. Don Michele definisce «follia» (p. 231) questa spiegazione se anche salva l’innocenza di Dio. Da dove dunque il male? Ecco che cosa scrive:


La radice del male originario non è una radice morale, il peccato dell’uomo o il peccato di Dio, ma una radice metafisica. La creazione non è segnata dalla colpa né dell’uomo né di Dio; è segnata ontologicamente dal suo nulla originario. Questa, mi pare, è la radice del male che è nella creazione e che è presente anche nell’uomo» (p. 222).

Al punto che
la vita è ancora, per tanta parte, vacua, inanis et tenebrosa. Simone Weil vede una «dura legge della necessità», che domina, nella vita domina la negatività, e dunque il non-Dio. Ma siamo in cammino (p. 225).

Appunto, questa è la risorsa per non cadere nel nichilismo e attingere la speranza:
…Occorre salire. L’ascensione è legge fondamentale dell’essere, costitutiva dell’essere: salendo conosco, salendo capisco, ma se non salgo non capisco e non conosco, (…) ma questo cammino, amici, è fatica nostra, è conquista nostra, certo in sinergia con la luce» (p. 226).

Dunque salire. È la «legge ascensionale» di cui tante volte ci ha parlato don Michele. Una legge di vita. Una legge di speranza. Nessun automatismo. È una conquista e, insieme, da lasciar essere in noi. Scavando con intelligenza e cautela per scartare tutto ciò che in noi la impaccia. E allora si sprigiona la vita.

 

Vita  Pastorale n. 2 febbraio 2009 - Home Page

In ricordo del grande sacerdote proveniente dalla diocesi di Alba e vissuto in Valle d’Aosta, è statopubblicato il volume Per un’immagine creativa del cristianesimo, curato dai suoi amici.

 

Shahabz Bhatti: il testamento spirituale di un martire

Una lezione di santità

“Fino all’ultimo respiro continuerò a servire Gesù

e questa povera, sofferente umanità”.

 

Lo scorso 2 marzo è stato ucciso, da terroristi islamici, Shahbaz Bhatti,  perché “cristiano, infedele e bestemmiatore”. Era il ministro delle minoranze religiose.

Un mese dopo, al termine dell’udienza generale di mercoledì 6 aprile, Benedetto XVI ha ricevuto suo fratello, Paul Bhatti, medico, per molti anni in Italia, rientrato in patria proprio per proseguire la sua missione e nominato consigliere speciale del primo ministro del Pakistan per le minoranze religiose.

Con Paul ha incontrato il papa anche il grande imam di Lahore, Khabior Azad, amico personale di Shahbaz.

La Bibbia che Shahbaz aveva sempre con sé è ora a Roma nel memoriale dei martiri dell’ultimo secolo, nella basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina.

In Pakistan, su una popolazione di 185 milioni di abitanti, i cristiani sono il 2 per cento, un milione dei quali sono cattolici. Ma anche tra i musulmani vi sono delle minoranze in pericolo: sciiti, sufi, ismailiti, ahmadi.

La legge contro la bestemmia è un’arma impugnata contro le minoranze. Fu introdotta dagli inglesi nel 1927 e mantenuta in vigore nel 1947, dopo l’indipendenza e la separazione del Pakistan dall’India. Per trent’anni non fu applicata. Ma a partire dal 1977, dopo il colpo di stato militare di Zia-ul-Haq, in Pakistan l’islamizzazione è andata crescendo e alla legge contro la bestemmia – rimessa in auge con aggravanti – si sono aggiunte altre norme basate sulla sharia. Ad esempio, occorrono quattro testimoni perché sia provata la violenza sessuale su una donna, che altrimenti è considerata adultera. Oppure, altro esempio, un musulmano che violenta una cristiana, ma poi la obbliga a sposarlo e a convertirsi all’islam, non è più perseguibile per stupro.

Per chi bestemmia Maometto è stata introdotta la pena di morte, e per la profanazione del Corano l’ergastolo. La commissione Giustizia e Pace dei vescovi cattolici del Pakistan ha calcolato che dal 1987 al 2009 sono state 1032 le persone ingiustamente colpite dalla legge contro la bestemmia.

Una di queste è Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 e in attesa della sentenza di appello. Fu accusata da altre donne del suo villaggio che erano al lavoro con lei nei campi, tra le quali era scoppiata una lite per l’utilizzo dell’acqua. Anche se venisse assolta o graziata, Asia non si sentirebbe al sicuro, perché vari esponenti musulmani l’hanno minacciata comunque di morte.

Un nuovo caso definito dai vescovi pakistani “di abuso della legge contro la bestemmia per vendette personali” ha colpito nei giorni scorsi un altro cristiano, Arif Masih, nel villaggio di Chak Jhumra.

Una giornata di preghiera per Asia Bibi, Arif Masih e tutte le altre persone arrestate per la medesima accusa sarà celebrata il 20 aprile, mercoledì santo, in Pakistan e in altri paesi. A Roma, nella cappella del parlamento italiano, il cardinale Jean-Louis Tauran celebrerà una messa, che sarà anche in memoria di Shahbaz Bhatti.

Le denunce di bestemmia si fondano sulla parola dell’accusatore, che non può però riferire i contenuti precisi dell’offesa per non essere imputato del medesimo delitto. I giudici temono a loro volta di essere uccisi, come talora è già avvenuto, se assolvono un imputato. Quindi tendono spesso a ritardare la sentenza, senza però concedere la libertà su cauzione. Inoltre, come regola generale, un non islamico, in tribunale, deve avere avvocato e giudice dei musulmani.

Su ciò che la sua uccisione ha significato in Pakistan e nel mondo intero, uno degli articoli più informati e allarmati è senz’altro quello uscito su “La Civiltà Cattolica” con la data del 2 aprile 2011.

 

 

 

 

 

L’ASSASSINIO DI SHAHBAZ BHATTI

di Luciano Larivera S.I.

 



[…] C’è uno stato, il Pakistan, il cui arsenale atomico continua a crescere. Ma la cui stabilità politica è minacciata ogni giorno, e in modo sistematico, da violenza e odio etnico e religioso. Il suo tragico esempio è l’avvertimento, per altri paesi islamici, di come il virus dell’intolleranza religiosa possa andare fuori controllo e condurre progressivamente una democrazia al collasso. […] Per questo non si può dimenticare un eroico e generoso politico pakistano, Shahbaz Bhatti. Un cristiano mite e serio.

*

“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio e nella crocifissione di Gesù. Fu il suo amore che mi indusse a offrire il mio servizio alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo soltanto tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

“Mi è stato chiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solamente un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino di me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considero un privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia.

“Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, di amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: la gente non odierà, non ucciderà nel nome della religione, ma si ameranno gli uni gli altri, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione.

“Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarlo senza provare vergogna”.

È il testamento spirituale di Shahbaz Bhatti, ministro federale delle minoranze religiose del Pakistan, nato il 9 settembre 1968 e assassinato lo scorso 2 marzo da un commando estremista nella capitale Islamabad. Era membro del principale partito di governo, il PPP, Partito Pakistano del Popolo. Poche settimane prima aveva chiesto: “Pregate per me. Sono un uomo che ha bruciato le sue navi alle sue spalle: non posso e non voglio tornare indietro in questo impegno. Combatterò l’estremismo e mi batterò a difesa dei cristiani fino alla morte”. Bhatti abitava con la madre e altri familiari. Aveva deciso di non sposarsi per consacrarsi alla sua missione. Non aveva scelto il sacerdozio “perché voleva stare in mezzo alla gente, a contatto diretto con le persone e le loro difficoltà, cosa che spesso i sacerdoti non riescono a fare nel suo paese”.

Il 2 marzo il ministro si trovava con l’autista e una nipote nell’auto di servizio, non blindata nonostante le richieste. Il commando terrorista ha strappato Bhatti fuori dalla vettura e lo ha massacrato con 30 colpi di arma da fuoco. L’assassinio è da attribuire ai talebani pakistani del Punjab. Hanno agito indisturbati e hanno lasciato sul luogo del delitto alcuni volantini firmati Tehrik-e-Taliban-Punjab. Il ministro non aveva voluto la scorta, memore che il suo amico e collega di partito Salmaan Taseer, governatore del Punjab e musulmano, era stato ucciso proprio da un membro della sua scorta, senza che gli altri uomini a sua protezione intervenissero. Era avvenuto due mesi prima, il 4 gennaio. E il suo assassino è stato trasformato in eroe, con una gara tra avvocati per difenderlo gratis.

*

Taseer e Bhatti perseguivano l’ideale di Muhammad Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, di un paese dove, rispetto ai musulmani sunniti, le minoranze religiose (sciiti, musulmani sufi, ismailiti, ahmadi, cristiani, sikh, indù, zoroastriani, bahai…) godano di uguali diritti. Entrambi sono stati “puniti” per aver lottato per l’abolizione o almeno la riforma della legge sulla blasfemia, la radice dei problemi dei cristiani pakistani. Voci estremiste chiedono che venga considerata blasfemia qualsiasi richiesta di modificare la “legge nera”. Tale legge sembra intoccabile. E se ne fa un uso strumentale, soprattutto nel più popoloso Punjab, per dirimere controversie personali anche tra musulmani. C’è l’impunità per chi la fa applicare in forme extragiudiziali. Ma come ha osservato di recente il direttore della sala stampa vaticana, p. Federico Lombardi, questa legge “in sé è veramente blasfema, perché in nome di Dio è causa di ingiustizia e morte”. […] Bhatti voleva tenere in vita la commissione per la revisione della legge sulla blasfemia, voluta dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, e presente nel suo programma elettorale per il voto del 6 novembre 2008.

Un’ulteriore colpa del governatore musulmano e del ministro cattolico è di aver chiesto la liberazione di Asia Bibi, una cattolica di 45 anni madre di cinque figli, condannata all’impiccagione nel novembre 2010 per avere offeso il Profeta Maometto, ma in attesa della sentenza di appello. Bhatti non alimentava clamore mediatico sulla vicenda di Asia Bibi, per non rinfocolare la reazione fondamentalista. E, in generale, i cattolici si dissociano dalle iniziative che tendono a innescare un conflitto con le istituzioni pakistane. Ciò nonostante, in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, la Chiesa cattolica pakistana e i cristiani indiani hanno lanciato l’ennesimo appello per la liberazione di Asia Bibi, che rischia di essere uccisa in carcere. Inoltre hanno affermato che questa donna simboleggia tutte le altre, dietro le sbarre o in apparente libertà, oppresse da disparità, intolleranza e violenza a causa del sesso o della fede professata.

Dopo i funerali di stato nella capitale, il “martire” Bhatti è stato sepolto, alla presenza di 10.000 persone di ogni credo, a Khushpur nei pressi di Faisalabad, in Punjab. In questo villaggio cattolico fondato dai domenicani, il ministro passò la sua fanciullezza. Con l’ultimo rimpasto di governo, il premier Yousaf Raza Gilani del PPP aveva confermato l’incarico a Bhatti, viste anche le insistenze occidentali, nonostante il taglio dei ministri da 60 a 22 per contenere la spesa pubblica, e le pressioni dei partiti islamici di coalizione per eliminare quel dicastero. Bhatti era, inoltre, il solo non musulmano nel governo federale del Pakistan.

*

Benedetto XVI, lo scorso settembre, lo aveva incontrato nella sua qualità di ministro; e, nel discorso al corpo diplomatico del 10 gennaio, il pontefice aveva menzionato la legge contro la blasfemia in Pakistan, incoraggiando “di nuovo le autorità di quel paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla”. Inoltre aveva reso omaggio al sacrificio coraggioso del governatore Taseer. Ma una parte dei pakistani non intende ascoltare le parole del papa. In particolare, i partiti religiosi considerano gli interventi di Benedetto XVI un’ingerenza nella politica interna. I fondamentalisti controllano la mente dei loro seguaci, fomentando odio e violenza. Eppure i cristiani hanno buoni rapporti con la maggioranza dei musulmani. Dopo l’Angelus dello scorso 6 marzo, il papa ha rivolto questo appello e ulteriori gesti per confortare i cattolici pakistani traumatizzati dall’omicidio: “Chiedo al Signore Gesù che il commovente sacrificio della vita del ministro pakistano Shahbaz Bhatti svegli nelle coscienze il coraggio e l’impegno a tutelare la libertà religiosa di tutti gli uomini e, in tal modo, a promuovere la loro uguale dignità”.

La gigantografia di Bhatti dal 5 marzo è esposta sulla facciata del ministero degli esteri italiano, per non dimenticare l’uomo e per affermare l’impegno della diplomazia italiana a difesa della libertà religiosa nel mondo. Il ministro degli esteri Franco Frattini, intervistato da “Avvenire” il 3 marzo, ha riferito una confidenza avuta da Bhatti, nel suo modesto ufficio di Islamabad lo scorso novembre: “Mi disse che i suoi avversari stavano cercando di togliere i fondi al ministero per le minoranze religiose, un modo per ridurlo all’insignificanza e, quindi, alla chiusura. E mi disse di aiutarlo a far conoscere il suo lavoro nella comunità internazionale, perché soltanto così avrebbe potuto salvare il suo ministero”. Frattini ha poi aggiunto: “Adesso i codardi di quell’Europa che rifugge dalla condanna del fondamentalismo religioso verseranno le loro lacrime di coccodrillo, alleati di quei codardi che in Pakistan conoscono solamente il sangue degli attentati […]. Penso a coloro che in Europa sono molto attenti al ‘politically correct’, fino al punto di non utilizzare mai, nei documenti ufficiali, le parole ‘cristiani perseguitati’. La ritengo una codardia politica che oggi, di fronte a un nuovo martire, è ancor più scandalosa”. […]

*

Davanti a questo crimine terroristico, i vescovi pakistani hanno subito dichiarato e confermato che “si tratta di un perfetto, tragico esempio dell’insostenibile clima di intolleranza che viviamo in Pakistan. Chiediamo al governo, alle istituzioni, a tutto il paese, di riconoscere e affrontare con decisione tale questione perché si ponga fine a questo stato di cose in cui la violenza trionfa”. Essi hanno anche inviato la richiesta alla Santa Sede perché Bhatti sia proclamato martire, ucciso “in odium fidei”. Lo stesso imam della moschea Badshahi a Lahore, Khabior Mohammad Azad, sconvolto per la morte del suo “buon amico” Bhatti, ha denunciato che “la gente non ha più il diritto di esprimere le proprie opinioni” e che “quanti hanno rivendicato l’assassinio non sono musulmani, né esseri umani”, perché “l’islam è una religione di pace, che insegna a rispettare le minoranze”.

Purtroppo gli omicidi motivati dalla religione sono perorati pubblicamente da estremisti islamici come atti che fanno piacere ad Allah e che garantiscono l’immediata salvezza. Ma lo stato pakistano non riesce a prevenire e a sanzionare la violenza contro le minoranze. Anzi, l’odio religioso è alimentato addirittura nelle scuole pubbliche pakistane. Nei testi ufficiali di studio sono esclusi i riferimenti alle minoranze religiose, non considerate parte della nazione. Oltre alla istruzione deformata, ci sono predicatori nelle moschee, in televisione e su internet che proclamano la lista dei nemici da abbattere e così alimentano la “cultura” dell’intolleranza religiosa. Adesso all’indice c’è la deputata Sherry Rehmam, che nel 2010 aveva proposto una modifica della legge sulla blasfemia, senza ricevere l’appoggio del suo partito, il PPP, che l’ha costretta a ritirare l’iniziativa. Vive semi-nascosta e riceve continue minacce di morte. Per altri non resta che cercare asilo all’estero.

Oltre ai cristiani, in Pakistan, sono legalmente discriminati gli ahmadi in quanto non-musulmani ma eretici, e per questo boicottano le elezioni. Ci sono tensioni tra le due scuole sunnite dei Deobandi e dei Barelvi. E la violenza religiosa è sistematica e può colpire tutti. Così, ad esempio, il 4 marzo dieci musulmani sufi, in quanto considerati eretici da altri musulmani, sono stati uccisi nei pressi di un loro luogo sacro vicino a Peshawar. Ma le manifestazioni di piazza delle minoranze o dei musulmani moderati non fanno paura, e la loro voce si perde, oltre che essere esposte ad attentati suicidi. Il 5 marzo, un musulmano, Mohammad Imran, è stato assassinato in un villaggio vicino a Rawalpindi. Era stato scarcerato per mancanza di prove con l’accusa di aver offeso Maometto. Il 15 marzo è morto in carcere Qamar David, un cristiano condannato ingiustamente all’ergastolo per blasfemia. Aveva ricevuto percosse e maltrattamenti dalle guardie penitenziarie. E la sua morte, per arresto cardiaco, desta molti dubbi tra i cristiani. Cadono vittime degli estremisti anche gli attivisti dei diritti umani, come Naeem Sabir, ucciso nella provincia del Beluchistan lo scorso 1° marzo.

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Il Pakistan soffre di innumerevoli lacerazioni etniche e politiche. Il clima di intolleranza è alimentato dagli estremisti omicidi e da leader religiosi radicali, ma anche da avvocati, giornalisti, politici per loro fini egemonici. Nel Beluchistan sono ancora attivi i movimenti separatisti, anche perché la distribuzione della ricchezza è molto disuguale sul territorio pakistano. L’etnia pasthun, pur non cercando la secessione e l’annessione con una parte del territorio afghano, è sempre più dominata dall’ideologia fondamentalista e antigovernativa. Poi ci sono le tensioni con l’India per il Kashmir. C’è inoltre insofferenza nei confronti del governo filoindiano di Hamid Karzai in Afghanistan. Con Pechino, l’alleato più stretto di Islamabad in chiave anti-indiana, si è rafforzata la cooperazione per costruire centrali nucleari. La relazione del Pakistan con gli Stati Uniti è invece sempre più difficile. E il sentimento antiamericano è diffuso anche perché, in territorio pakistano, l’azione della CIA è parzialmente indipendente dalle autorità nazionali, e proseguono gli attacchi dei droni statunitensi contro i talebani afghani e i membri di Al-Qaeda nel Pakistan occidentale.

Inoltre gli estremisti religiosi si sono infiltrati nelle forze armate e nei servizi segreti, che sostengono i talebani afghani ma sono in conflitto con parte dei talebani pakistani, coordinati a loro volta con gli jihadisti che lottano per l’annessione del Kashmir indiano al Pakistan. La costellazione dei gruppi estremisti è ampia e nebulosa. Dietro il paravento di attività educative e caritative, il loro reclutamento si rafforza nelle madrasse, le scuole coraniche, e nei campi dei profughi afghani o degli sfollati dopo le alluvioni della scorsa estate. Per di più le forze armate hanno un forte potere di veto sul governo; ma non sembrano disposte a un colpo di stato, magari su ispirazione islamista, perché la soluzione dei problemi sociali ed economici del paese è fuori della loro portata, e i militari non vogliono rischiare l’impopolarità. Purtroppo il governo e la magistratura spesso sembrano aver capitolato davanti alle ingerenze degli estremisti e dei servizi segreti pakistani. La legge antiblasfemia, nelle sue varie applicazioni, giustifica il terrore politico e scoraggia i pakistani liberali. I musulmani moderati sono stritolati dall’autorità delle forze armate, dal fanatismo religioso e dall’ingerenza dei paesi stranieri, quando favoriscono corruzione, abuso di potere e crimini contro i diritti umani, come la tortura. Le rivendicazioni sociali stanno quindi diventando appannaggio dei fondamentalisti, che però non hanno gli strumenti culturali, tecnici e burocratici per risolvere i problemi di cronico sottosviluppo economico del paese.

L’intimidazione e l’impunità delle violenze estremiste e delle rappresaglie militari sono i cardini su cui si regge il caos pakistano. La stessa fragile identità nazionale rischierebbe di svaporare se queste due pratiche guidassero la costituzione materiale del paese. Inoltre, benché improbabile, non si può escludere che la crescente anarchia pakistana permetta a gruppi jihadisti di impossessarsi di materiale e armi atomiche, di cui gli USA non sembrano conoscere interamente l’allocazione. È il Pakistan il boccone più ghiotto per al-Qaeda, che sta nutrendo ideologicamente l’estremismo interno, affermando che il governo civile di Islamabad è illegittimo, perché irreligioso, e andrebbe distrutto. Così, purtroppo, l’esecutivo e il PPP sembrano ostaggio dei partiti fondamentalisti e degli estremisti.

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Tuttavia Paul Bhatti, fratello dell’ucciso, è stato nominato consigliere speciale del premier per le minoranze religiose. Se nella “Terra dei puri” arriverà quello che resta della “primavera democratica” araba, il nuovo patto sociale pakistano, per bloccare la spirale autodistruttiva, richiede il rapido ristabilimento di un sistema giudiziario penale funzionante. Ciò include necessariamente la riforma radicale della legge antiblasfemia, che giustifica l’uso extragiudiziale della violenza, anche contro chi si converte dall’islam. Nel medio e lungo periodo è indispensabile un sistema scolastico pubblico universale e aperto a un’educazione più moderna, anche per creare valide competenze lavorative. Nuove idee di giustizia e veritiere ricostruzioni della storia del paese possono fare capitalizzare la ricchezza del pluriforme popolo pakistano. Ciò impone che la spesa pubblica non possa essere drenata in modo sproporzionato dalle spese militari, e che la pace con l’India e in Afghanistan sia ritenuta necessaria per lo sviluppo sostenibile del Pakistan. Nel paese non è in atto un conflitto religioso ma politico, col rischio di guerra civile. E il dialogo interreligioso è impotente quando una religione è usata come strumento di potere, di oppressione e di sottosviluppo.

 

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La rivista da cui è stato ripreso l’articolo, stampata con il previo controllo e l’autorizzazione della segreteria di stato vaticana:

> La Civiltà Cattolica

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Khushpur, il villaggio natale di Shahbaz Bhatti, nella fertile pianura del Punjab, è stato fondato da missionari cattolici un secolo fa e i suoi 5 mila abitanti sono quasi tutti battezzati.

Il villaggio è pulito, operoso, ospitale. Ha scuole frequentate. C’è parità tra uomo e donna. Padre Piero Gheddo del Pontificio Istituto Missioni Estere, che l’ha visitato, lo descrive in un articolo su “Tempi” come “un esempio concreto e ben visibile della differenza che passa tra cristianesimo e islam”:

> Ecco perché i cristiani in Pakistan danno fastidio

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Un libro-intervista di Shahbaz Bhatti è uscito in Italia nel 2008, per i tipi di Marcianum Press, l’editrice del patriarcato di Venezia:

Shahbaz Bhatti, “Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza”, Marcianum Press, Venezia, 2008.

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La scheda sul Pakistan del rapporto internazionale sulla libertà religiosa curato dal dipartimento di stato degli Stati Uniti:

> Pakistan

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La catechesi di Benedetto XVI sui santi non canonizzati, sui santi “semplici”, la cui “bontà di ogni giorno” è però “la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità”:

> Udienza generale di mercoledì 13 aprile 2011

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Due messe per un’unica Chiesa

 

 

Un solo rito romano in due forme, antica e moderna.

È la medicina di Benedetto XVI per sanare un disordine liturgico arrivato “al limite del sopportabile”.

Per chi non si fida, è uscito un nuovo documento con le istruzioni

 

Per capire il perché della liberalizzazione della messa in rito romano antico, decisa da Benedetto XVI col motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007 e confermata con l’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi, la guida più sicura continua a essere la lettera ai vescovi con cui papa Joseph Ratzinger accompagnò quel motu proprio:

> “Cari fratelli nell’episcopato…”

In essa, Benedetto XVI descriveva la situazione “al limite del sopportabile” che intendeva sanare. Se non solo i lefebvriani – la cui volontà di rottura era “però più in profondità” – ma anche molte persone fedeli al Concilio Vaticano II “desideravano ritrovare la forma, a loro cara, della sacra liturgia”, cioè tornare all’antico messale, il motivo era il seguente, a giudizio del papa:

“In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.

La convinzione di Benedetto XVI è invece che “le due forme dell’uso del rito romano possono arricchirsi a vicenda”. Il rito antico potrà essere integrato da nuove feste e nuovi testi. Mentre “nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”.

Il che è proprio ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito “moderno” ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.

Nell’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi con la data del 30 aprile 2011, festa di san Pio V, è citato quest’altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:

“Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

E viceversa – ribadisce l’istruzione al n. 19 – i fedeli che celebrano la messa in rito antico “non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria”.

Ecco dunque il link all’istruzione diffusa il 13 maggio 2011 sull’applicazione del motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007.

> Universæ Ecclesiæ

Mentre questa è la nota di sintesi curata dal direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi:

> “L’Istruzione sull’applicazione del motu proprio…”

Sia l’istruzione che la nota sono state diffuse nelle principali lingue. Così come si trova tradotta in più lingue, nel sito del Vaticano, anche la lettera di Benedetto XVI ai vescovi del 2007.

Curiosamente, però, il motu proprio “Summorum Pontificum” continua ad essere presente nel sito della Santa Sede soltanto in due lingue, e tra le meno conosciute: la latina e l’ungherese:

> Summorum Pontificum

Intanto, il prossimo 15 maggio, IV domenica di Pasqua, sarà celebrata nella basilica papale di San Pietro in Vaticano, all’Altare della Cattedra, per la prima volta, una messa solenne in rito antico.

Il celebrante sarà il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della congregazione per il culto divino.

Dirigerà il coro, con musiche di Giovanni Pierluigi da Palestrina, il cardinale Domenico Bartolucci, già maestro perpetuo della Cappella Musicale Sistina.

La messa concluderà un convegno sul motu proprio “Summorum Pontificum”, tra i cui relatori figurano lo stesso cardinale Cañizares, il vescovo Athanasius Schneider e monsignor Guido Pozzo, segretario della pontificia commissione “Ecclesia Dei” che ha emesso l’istruzione “Universæ Ecclesiæ”.

Il programma del convegno:

> “Una speranza per tutta la Chiesa”

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Notizie, analisi documenti sulla Chiesa cattolica a cura di Sandro Magister

 

 

Vogliamo di seguito dare una sintetica documentazione sul dibattito in atto:


“Per poter assorbire la… contestazione [dei lefebvriani], il Vaticano ha moltiplicato le concessioni… Ma il risultato finora visibile è di averli incoraggiati a ulteriori appetiti… Sembra che la Chiesa di Ratzinger accetti di farsi liquida, se non babelica. In nome del principio dell’accoglienza ammette che gruppuscoli di cattolici arcaici con preti di loro gusto, anzi, che preti nomadi di passaggio si presentino occasionalmente in una parrocchia per far messe in latino. Le norme prescrivono ora che vengano accontentati… non si ricordava un simile grado di contestazione dell’autorità dei vescovi”
“Torna la messa in latino, per i fedeli che d’ora in poi la chiederanno. I vescovi dovranno mostrare «generosa accoglienza» nel concederla a chi la pretenderà… Ma i fedeli tradizionalisti che vogliono seguire la messa in latino… «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa messa o dei sacramenti celebrati con il rito del Concilio Vaticano II». E devono inoltre «riconoscere il Romano Pontefice come pastore supremo della Chiesa universale»”
“«Generosa accoglienza» verso quanti chiedono il messale precedente alla riforma liturgica, spiega il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, per garantire «la legittimità e l’effettività dell’uso del messale antico e lo spirito di comunione ecclesiale: la finalità papale di riconciliazione non va ostacolata o frustrata, ma favorita e raggiunta»” (ndr.: si continua a non tener conto delle gravi obiezioni alla reintroduzione dell’antico rito, sul rapporto tra lex credenti e lex orandi, sul fatto che la liturgia rinnovata è espressione della nuova consapevolezza di sé della chiesa espressa nel concilio, che in particolare la celebrazione liturgica è una celebrazione della comunità, la maggiore attenzione all’importanza della proclamzione e ascolto della Parola…)
“L’«istruzione… insiste… sulla finalità di riconciliazione» del Papa, ha spiegato padre Federico Lombardi: e infatti da una parte invita alla «generosa accoglienza» dei fedeli che chiedessero la forma extraordinaria, cioè la vecchia messa; dall’altra avverte che questi fedeli «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria»”
Universae, anzi Controversae Ecclesiae. Maggiori incertezze dopo la infelice Istruzione Universae Ecclesiae della Commissione “Ecclesia Dei” “Anche l’ultimo anello della catena – la Istruzione Universae Ecclesiae – risulta schiacciato da un problema strutturalmente insolubile: come si fa a “istruire” intorno ad una contraddizione patente? Più si istruisce e meno si capisce” ” Se all’improvviso – … – un rito “non più vigente”, superato dalla versione riformata dello stesso, torna magicamente in vigore e pretende di valere in parallelo rispetto a quello che lo aveva intenzionalmente emendato, rinnovato e superato, tutto subisce una sorta di deformazione irrimediabile”
“La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica.
“Ma come fai a non considerare che le affermazioni della Istruzione contribuiscano ad aprire il varco proprio alla “indifferenza” verso la Riforma liturgica, verso la chiesa comunione, verso la articolazione ministeriale della liturgia e della Chiesa, verso il canto come patrimonio comune, verso la partecipazione attiva, verso la iniziazione cristiana degli adulti, verso la corresponsabilità laicale nella offerta…” “A me pare, francamente, che se si deve lamentare una carenza grave in tutta questa vicenda è proprio una mancanza di stile. Precisamente di quello cattolico.”

 

Interessante editoriale del settimanale cattolico inglese”il clericalismo è ancora molto in voga e rappresenta una chiave di lettura per analizzare le motivazioni culturali che hanno dato origine allo scandalo degli abusi sessuali dei preti all’interno della Chiesa stessa.” ” al clericalismo era stato inferto un duro colpo dall’enfasi con cui il Concilio aveva parlato di sacerdozio comune dei fedeli come conseguenza del comune sacramento del battesimo. Ma è del tutto evidente oggi una reazione clericale tra quanti stanno percorrendo il cammino di formazione al sacerdozio o tra quelli di recente ordinazione” “Il Vaticano continua ad aggiungere munizioni nelle mani della lobby pro-Tridentino all’interno della Chiesa, come è accaduto anche con l’ultima istruzione, Universae Ecclesiae”