L’uomo non vive di solo benessere

Pubblichiamo il testo dell’omelia tenuta dal cardinale Ennio Antonelli, già presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nella Messa per il V Pellegrinaggio nazionale delle famiglie per la famiglia, celebrata a Napoli in Piazza Dante prima della serata dedicata alle Dieci Piazze.

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Grazia e pace e ogni bene a tutti voi e alle vostre famiglie dal Signore nostro Gesù Cristo!

Siamo qui riuniti per partecipare al bellissimo progetto “10 Piazze per 10 Comandamenti”. Sono incontri di festa, ed è giusto che sia così perché per i Comandamenti di Dio, per la legge di Dio, bisogna essere grati, bisogna far festa. È una legge di libertà, una legge di amore, una legge per la vita, per la vita umana autentica, per la vita buona, per la vita personale, per la vita sociale. È giusto far festa: dice la parola di Dio stessa nel Salmo 118 che i precetti del Signore fanno gioire i cuori. Certo, si rattristano anche quando non li osserviamo con piena responsabilità, e allora la coscienza ci rimprovera, ma di per sé sono per la vita, sono per la gioia, sono per la felicità, adesso e nell’eternità.

Oggi siamo qui per celebrare, per festeggiare il quarto Comandamento, “Onora il padre e la madre”, un Comandamento che riguarda la vita familiare. E questo nostro incontro inizia con la liturgia della 24ª domenica del Tempo ordinario. Le Letture come messaggio principale ci presentano la dinamica, la logica, l’orientamento di fondo della vita di Gesù e della vita vera cristiana. È la logica dell’amore inteso come dono di sé, come dedizione a Dio e agli altri. Questa logica dell’amore e della carità conferma, assume i Comandamenti e li porta a perfezione, in un certo senso li trascende. Quindi è molto adatto questo messaggio per questo incontro che stiamo celebrando. Abbiamo ascoltato dal Vangelo l’importante dialogo tra Gesù e i discepoli a Cesarea di Filippi. Questo dialogo si colloca nel momento centrale della vita pubblica di Gesù. Il momento della cosiddetta svolta di Gesù: fino a quell’ora il Signore si era dedicato soprattutto alle folle, alle masse. Da allora in poi si dedica soprattutto ai discepoli, ovviamente senza trascurare le folle.

Ma c’è una svolta piuttosto evidente nei racconti evangelici. Gesù aveva compiuto molte guarigioni, aveva mostrato la potenza di Dio, la misericordia di Dio. La gente lo aveva seguito in massa, con entusiasmo, piena di meraviglia per quello che lui compie, piena di speranza per il futuro e si domandava: «Chi è mai costui? Chi è quest’uomo così potente, così buono?». E dava diverse interpretazioni, risposte. Qualcuno diceva: «È Giovanni Battista che Erode ha fatto decapitare e che è risuscitato dai morti», qualcun altro diceva: «È Elia», il profeta che secondo l’Antico Testamento era stato tratto in Cielo sul carro di fuoco e secondo l’aspettativa della gente doveva ritornare nei tempi del Messia. Comunque dicevano: «È un profeta, è un grande profeta che è sorto tra di noi». Ma Gesù dice ai discepoli: «Ma voi chi dite che io sia?», e Pietro a nome di tutti dice: «tu sei il Cristo, tu sei il Messia». Gesù accetta questa professione di fede di Pietro ma nello stesso tempo ordina severamente di non dirlo in giro alla gente, di non dirlo a nessuno: «Sì, sono il Messia ma non lo dite».

Perché questo? Perché la gente, i discepoli stessi avevano una falsa immagine del Messia, si aspettavano un re trionfatore, un re che guidasse la rivolta del popolo contro i Romani, che liberasse il popolo dall’oppressione dell’Impero romano, che portasse la libertà e il benessere, che inaugurasse un regno potente, facesse di Gerusalemme il centro del mondo. Quelle che la gente nutriva erano speranze terrene di gloria e di grandezza, Gesù invece è il Messia in un senso completamente diverso. Si rivolge ai discepoli e dice che il Figlio dell’Uomo deve essere rifiutato, respinto dalle autorità della nazione, deve essere perseguitato, oltraggiato, umiliato, suppliziato, ucciso, e poi risusciterà. I discepoli rimangono profondamente disorientati, sbalorditi: «ma che sta dicendo?», e Pietro a nome di tutti lo tira in disparte e dice: «Ma che dici? Non ti deve assolutamente succedere quello che stai dicendo». Pietro rimprovera Gesù, ma Gesù a sua volta rimprovera Pietro, come avete sentito: «Va’ dietro di me, satana, non pretendere di andarmi davanti e di dirmi tu quello che bisogna fare. Vieni dietro a me, a te spetta seguirmi, va’ dietro di me o tentatore, perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini, secondo gli interessi, la mentalità terrena degli uomini».

E poi Gesù, non contento di questo, raduna la folla e dice: «Non pensate che seguirmi sia una passeggiata, una marcia trionfale. Se qualcuno vuol venire dietro me, vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita la perderà ma chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo la salverà». È un discorso difficile per la gente, difficile per gli stessi discepoli, persino per Pietro.

È questa la “svolta di Galilea”: da allora in poi le folle cominciano ad abbandonarlo, non lo capiscono più, rimangono profondamente deluse. Gesù parla di «chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo», cioè chi dona la propria vita per amore, facendo della sua vita un dono, un dono al regno di Dio, a Dio e agli altri. E questo naturalmente costa anche sacrificio, bisogna portare la croce per questo. Ma chi imparerà a donare la sua vita, anche col sacrificio, questi la ritroverà, non perde in realtà la vita, la acquista, la rende autentica, piena, trova la felicità già adesso e poi nell’eternità. È questa l’esperienza che fanno tutti i veri cristiani: il centuplo già adesso e poi la vita eterna.

Ma è un discorso difficile, contrario alla mentalità spontanea, all’interesse immediato, al piacere immediato, alla miopia delle nostre vedute umane, dell’opinione pubblica. E quindi bisogna avere il coraggio di credere sul serio a Gesù, di prenderlo sul serio e di andare controcorrente. Gesù ci assicura che non è una speranza solo nel futuro: adesso soffri e solo dopo la morte, troverai… anche subito! C’è un altro detto di Gesù: c’è più gioia a dare che a ricevere. Non c’è gioia solo nel seguire la propria soddisfazione o nella propria gratificazione, interesse, bene immediato; ma c’è gioia anche a donare, provare per credere! Lo sanno le mamme per esempio, in famiglia, quando con amore fanno dei grossi sacrifici ma si sentono anche interiormente contente perché stanno facendo qualcosa di bello per i loro figli, lo stanno facendo per la loro famiglia. C’è più gioia a dare che a ricevere, già adesso: questo vale per tutta la vita cristiana, e in particolare per la vita di famiglia.

Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica Deus caritas est, dice che l’amore coniugale vero è sintesi di eros e agape, è sintesi di amore e desiderio, di ricerca della propria soddisfazione – giusto e umano anche questo – ma sintesi con la dedizione e l’impegno per il bene dell’altro coniuge. Quindi l’amore-desiderio deve essere unito con l’amore-dono. E allora l’amore-desiderio non è più egoismo, ma viene nobilitato, diventa pieno, autentico amore. E questo è anzitutto amore reciproco tra i coniugi, l’uno per l’altro, e poi è amore comune dei genitori verso i figli, dedizione ai figli, con la procreazione, con la cura e con l’educazione. Questo comporta sacrificio, la croce: Gesù lo dice chiaramente, non ci inganna.

Comporta tanti sacrifici, piccoli e grandi, nelle varie circostanze della vita, quasi ogni giorno, ma porta anche una gioia autentica nella misura in cui riusciamo a vivere coerentemente questa logica dell’amore che è sintesi dieros e agape. A Milano, nel recente Incontro mondiale delle famiglie, è stata presentata una ricerca sociologica “La famiglia, risorsa della società”. Sono stati confrontati diversi modelli, diverse forme di famiglia o para-famiglia – oggi c’è molta fantasia nella società e nella cultura – ed è risultato che le famiglie “normali”, quelle che poi sarebbero anche nelle aspirazioni della gran parte della gente, compresi i giovani, le famiglie normali cioè uomo e donna uniti in matrimonio, con due o più figli, sono le più felici, le meno lamentose, le più coraggiose nell’affrontare la vita, le più generose. Sono più felici e più stabili, perché tra l’altro i figli sono un rafforzamento del legame dei coniugi stessi; sono più pro-sociali, cioè più aperte, più attente, più disponibili, più impegnate anche verso la società, verso le altre famiglie, verso i problemi dei poveri, verso la società in generale. Sono famiglie anche mediamente più povere, questo è significativo, perché non sono sostenute anzi sono penalizzate sia dallo Stato sia dal mercato, e quindi sono mediamente più povere, ma sono più felici.

Cosa significa questo? L’uomo non vive di solo benessere, l’uomo non vive di beni materiali soltanto: vive soprattutto di relazioni buone, e quando c’è la ricchezza di relazioni c’è anche la gioia, il gusto di vivere. E allora ecco, le famiglie che hanno due o più figli hanno ricchezza di relazioni, magari minore ricchezza di beni materiali, ma maggior ricchezza di relazioni. E quindi sono anche l’ambiente più adatto per la crescita umana di tutti i membri, dei figli innanzitutto ma anche degli adulti stessi, sono la scuola più vera, più autentica di umanità, e portano anche un maggiore benessere alla società. Viceversa, la povertà di relazioni crea infelicità e danni alle persone e alla società. Nello stesso libro in cui è stata pubblicata questa ricerca c’è anche uno studio dei dati sociologici, disponibili nel mondo già da tempo, una ricerca di sfondo: i figli, i giovani che crescono senza la figura paterna o con la madre soltanto o con nessuno dei due genitori, negli Stati Uniti sono il 90% dei senza casa, gli sbandati; il 72% degli omicidi, l’85% dei carcerati, il 60% degli stupratori.

Notate quanti danni alle persone e alla società vengono fuori quando la famiglia non c’è o non funziona? In Francia, l’80% dei ricoverati in psichiatria sono persone che sono cresciute in una famiglia incompleta o sfasciata, inesistente. In generale, , i giovani che crescono con un solo genitore, hanno doppia probabilità di diventare delinquenti rispetto agli altri che crescono in una famiglia normale. Questo per quanto riguarda i figli. Ma anche per gli anziani non va bene. Gli anziani che non hanno avuto figli, che non li hanno voluti soprattutto – se non sono venuti non è colpa di nessuno – vanno incontro alla solitudine. La mancanza di figli, la scarsità di figli genera solitudine per gli anziani e la solitudine è una grande povertà.

Dice Madre Teresa di Calcutta, che di povertà se ne intendeva, che è più grave, fa soffrire di più la povertà della solitudine che non quella della miseria dei Paesi poveri. E lei diceva spesso che i Paesi del benessere, in realtà, sono più poveri dei Paesi sottosviluppati, più poveri di umanità e anche di gusto di vivere – e questo non ci vuole molto a rendersene conto se si va in un Paese dell’Africa, per esempio si vedono tanti bambini che sono festosi, gioiosi, non hanno niente eppure sembra che abbiano tutto.

E poi la de-natalità, la mancanza di figli, prepara un futuro molto rischioso per gli anziani, mette a rischio l’economia, lo Stato sociale, le pensioni, l’assistenza degli anziani: in un futuro non lontano il trend è questo. È chiaro che la famiglia normale, quella di due o più figli con una coppia stabile di coniugi, la famiglia cosiddetta normale è la famiglia che è un grande bene per tutti, per le persone e per la società. In fondo è quel tipo di famiglia che il Comandamento di Dio vuole sostenere: “Onora il padre e la madre”, e viceversa i genitori sono i primi che devono dedicarsi seriamente ai figli, l’amore deve essere nelle due direzioni e innanzitutto deve partire dai genitori verso i figli.

Mi pare che queste statistiche presentate a Milano confermino la validità dei Comandamenti di Dio, confermino che i Comandamenti di Dio sono per la vita, per la vita buona già adesso: non solo per il futuro, per l’eternità, ma già adesso, per la vita buona delle persone, per la vita buona della società. E quindi mi pare davvero giusto e bello che noi facciamo festa, che festeggiamo, celebriamo i Comandamenti di Dio e in particolare il quarto Comandamento nell’incontro di oggi.

XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Sapienza 2,12.17-20

«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

Presentazione generale:

a) Il contesto – I capp. 1-5 del libro della Sapienza presentano la figura del «sapiente» e dello «stolto» (chiamati anche «giusto» e «empio»): chi sono, cosa fanno, come concepiscono la vita; quali valori privilegiano, a quali cose e persone danno il primato. Nella tradizione biblica «giusto» (o «sapiente») è l’uomo che sa riferire tutto a Dio e sa leggere la storia, gli avvenimenti, la stessa vita di ogni giorno alla luce della dimensione religiosa e nell’atteggiamento di chi sa accogliere ogni cosa come dono del suo Signore. «Empio» o «stolto» è l’uomo che pone al centro del suo vivere se stesso, le cose, il successo. È l’uomo incapace di cogliere la presenza di Dio nel suo mondo e nella sua vita. L’empio, comunque, non è l’ateo, nel senso che noi oggi diamo a questo termine. La Bibbia non conosce la figura moderna dell’ateo, ma solo l’uomo che di fronte al male, al dolore o a qualsiasi altro elemento che provoca differenza e disagio, si interroga sulla certezza della presenza di Dio «qui» e «adesso», proprio come fanno gli «empi» di questa lettura (cf. Sal 13,1: «Lo stolto pensa: ‘Non c’è Dio’»).

b) Il tema –  È il contrasto tra la concezione del vivere propria degli empi e quella dei giusti. In questo contrasto vengono evidenziate le reazioni degli empi nei confronti di quanti vivono alla luce della Parola di Dio e dei valori che ad essa si ispirano. Questo testo è stato applicato alla Passione di Gesù e alla sua vita apparentemente abbandonata da Dio sulla croce. Gli evangelisti pongono sulle labbra di coloro che assistono alla sua crocifissione le ultime parole di questo brano («Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuole bene», cf. Mt 27,43). In Gesù, giusto per eccellenza, si rivela non l’abbandono di Dio, ma il suo amore e la sua vicinanza all’uomo. Dalle sue sofferenze e dalla sua croce, infatti, ha origine la salvezza degli uomini. Per la chiesa primitiva il nostro brano (come pure il Sal 21,9 che contiene le medesime espressioni) sono stati considerati profezie riguardanti Gesù, il Giusto consegnato nelle mani degli empi e morto per la nostra salvezza.

Annotazioni

— v. 17: «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo… ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta»; queste parole vanno collocate nel contesto generale del libro della Sapienza, che contiene una forte critica nei confronti degli Israeliti che avevano rinnegato la loro formazione religiosa ed erano passati alla cultura ellenistica. Dall’ellenismo (introdotto in Oriente da Alessandro Magno, nel 333 a.C.) avevano accettato anche le mode e le abitudini (palestre, teatri, spettacoli, terme ecc.) e anche l’invito a non farsi più circoncidere. Quest’ultimo elemento era da sempre considerato caratteristico della formazione e della religiosità ebraiche.

— v. 19: «Mettiamolo alla prova… per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione»: questi verbi che si riferiscono alla «tentazione» — e che la Bibbia ama attribuire a Dio — sono qui attribuiti agli empi, i quali si propongono non di rafforzare la fede e la fiducia dei giusti (secondo il significato che la Bibbia dà alla tentazione), ma di farli deviare dalla via del bene e di scoraggiarli dal compiere ogni cosa secondo Dio e nella fedeltà alla sua Parola.

Seconda lettura: Giacomo 3,16-4,3

Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia. Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.

Presentazione generale:

La Lettera di Giacomo comprende una serie di esortazioni senza un ordine logico, che si ispirano all’idea fondamentale di un’esistenza cristiana da vivere nella fedeltà al vangelo, nella carità e nella solidarietà (a questo si rifanno le severe espressioni che la Lettera usa contro i ricchi, incapaci di solidarietà e chiusi alle necessità del prossimo bisognoso). Una vita così vissuta esprime anche la ricchezza interiore dell’uomo che, opponendosi ai vizi, alle passioni cattive e alle suggestioni del potere e del denaro, manifesta padronanza di sé e fedeltà al progetto di Dio sull’uomo e sulla creazione. Il nostro brano comprende due temi: a) la qualità della vera sapienza, quella che conduce a vivere secondo il progetto di Dio (Gc 3,13-18); b) la riflessione sulle cause delle ostilità nel cuore dell’uomo e nel mondo e i loro rimedi (Gc 4,1-12).

Annotazioni

— v. 16: «C’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni»: queste espressioni fanno parte del cosiddetto «catalogo dei vizi» che spesso la predicazione degli apostoli richiamava per mettere in guardia chi non accoglieva l’invito del vangelo a convertirsi dalle opere cattive e a vivere con attenzione e impegno (cf. 2Cor 12,20).

— v. 17: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera»: questa descrizione della «vera» sapienza si ispira alla concezione che di essa hanno i Sinottici e Paolo (cf. Gal 5,22-23). In particolare è da sottolineare l’affinità di questi termini con il resto delle Beatitudini (Mt 5,1 ss), un testo che nell’evangelista Matteo diventa il programma di vita del cristiano. Vivere secondo questo programma è anche per Giacomo un segno della vera sapienza cristiana che vede, giudica, illumina tutto alla luce del vangelo e della persona di Gesù. Anche l’espressione «buoni frutti» richiama il Vangelo (cf. Mt 7.16-20): «Dai loro frutti li riconoscerete») 4,1: «Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? »: alla ricerca dei rimedi da contrapporre ai mali dell’uomo (guerre, liti, contese), Giacomo propone atteggiamenti e comportamenti che, sanando l’interno dell’uomo («il cuore») hanno poi la capacità di influire positivamente anche sul mondo esteriore. Per questo sono importanti il dominio delle passioni, la forza della preghiera e l’attenzione a vivere secondo le virtù che caratterizzano e distinguono il cristiano (vv. 2-3).

Vangelo: Marco 9,30-37

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Esegesi

Presentazione generale:

a) Il contesto – È quello che caratterizza la seconda parte del vangelo di Marco. Secondo lo schema di questo evangelista, la prima parte contiene il racconto dei miracoli di Gesù (cc. 1-8) per orientare il lettore alla comprensione della sua identità di Messia e Figlio di Dio (come farà Pietro in 8,27-29, che è «il centro» del vangelo di Marco). La seconda parte (cc. 9-16) è tutta impostata sulle esigenze radicali che Gesù chiede ai discepoli e ai cristiani di ogni tempo che lo vogliono seguire. Con il nostro brano ha inizio la descrizione di queste esigenze. Esse vengono collocate in questa seconda sezione perché solo chi ha riconosciuto

la vera identità di Gesù (in tutto obbediente al Padre fino ad accettare la croce) sa anche accettare il suo destino di morte e di risurrezione.

b) Il tema – È la presentazione della missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio (che passa attraverso la croce e la morte) e la richiesta al discepolo di ogni tempo di partecipare a questo progetto nella totale obbedienza che ha caratterizzato Gesù.

Annotazioni

— v. 30: «Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse»: questa frase è da collocare nel contesto del cosiddetto «segreto messianico»: Gesù cioè vuole essere riconosciuto come Messia e Figlio di Dio non nell’esteriorità dei miracoli (che aveva finora compiuti in Galilea), ma nella obbedienza a Dio che lo consegna alla croce e alla morte.

— v. 31: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini»: «Figlio dell’uomo» è uno dei titoli messianici di Gesù, che si ispira a Dan 7,14 (testo ritenuto messianico nell’interpretazione biblica) e al profeta Ezechiele (che inizia sempre i suoi oracoli con l’espressione «Figlio dell’uomo», tuttavia senza significato messianico, ma con il significato comune di «uomo»).

Il verbo «consegnare» è molto ricco teologicamente. Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: per la loro salvezza Dio «consegna» Gesù nelle loro mani. Gesù, infatti, non è stato tradito («tradire» è un secondo significato dello stesso verbo paradìdomi, che traduciamo con «consegnare») solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato «consegnato» a morte da Dio stesso. Gesù non è stato ucciso (nel senso teologico) dai contemporanei (anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte), ma dalle «mani» di ogni uomo (= dai suoi peccati) alle quali Dio ha «consegnato» Gesù.

— v. 34: «Avevano discusso tra loro chi fosse più grande»: i discepoli si aspettavano da un momento all’altro che Gesù inaugurasse il Regno messianico (che essi vedevano erroneamente anticipato dai miracoli da Lui compiuti), nel quale pensavano di essere favoriti con un posto di particolare prestigio.

— v. 35: «Sedutosi… preso un bambino… chi accoglie uno solo di questi bambini»: il verbo «sedersi» indicava l’attività di insegnamento del maestro o del rabbino. Il verbo da anche l’idea della profondità e della gravità degli insegnamenti che Gesù sta per dare ai discepoli («essere l’ultimo… essere il servo di tutti»).

«Bambini» e «piccoli» nel vangelo (oltre al loro proprio significato letterale) indicano anche i membri più deboli della comunità cristiana, le persone più dimenticate e per le quali nessuno ha uno sguardo o un’attenzione particolare. Di esse deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile sotto il dominio del peccato.

Meditazione

C’è un’immagine, nel racconto di Marco, che ritorna spesso e che ritma un po’ tutta la narrazione: è l’immagine della via, immagine allo stesso tempo reale e simbolica. È la strada che conduce a Gerusalemme e che Gesù percorre con i suoi discepoli, ma è anche il simbolo dell’itinerario che ogni discepolo deve compiere nella misura in cui sceglie di seguire Gesù. Lungo la via il discepolo impara a posare la pianta dei suoi piedi nell’orma che Gesù lascia; lungo la via il discepolo impara a conoscere il volto di Gesù, il segreto del suo cammino, la meta a cui tende tutta la sua vita; lungo la via il discepolo scopre anche la sua debolezza, la sua incapacità a seguire il Signore Gesù, la sua durezza di cuore, la sua cecità; lungo la via, infine, il discepolo comprende che solo riconoscendo la sua povertà può avere la grazia della sequela, il dono di scoprire che è sempre Gesù a camminare avanti, mentre egli può solo e sempre stare dietro.

Nella pericope del racconto di Marco proposta in questa domenica, lungo la via ascoltiamo ora una parola di Gesù che il discepolo ha già udito (cfr. Mc 8,31), ma che al suo orecchio appare sempre dura, addirittura estranea: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (9,31). Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi che offrono la sequenza di una storia drammatica e paradossale, inaudita, la vicenda ‘pasquale’ di Gesù. Una vicenda già contenuta in filigrana nella storia dei profeti, di coloro che Dio invia per comunicare la sua parola di giudizio e di salvezza sulla storia degli uomini. La storia del profeta, del giusto, è sempre una storia drammatica, contraddittoria e violenta, e in questi termini la rilegge il libro della Sapienza (cfr. la prima lettura). «Tendiamo insidie al giusto… mettiamolo alla prova con violenze… condanniamolo ad una morte infamante» (Sap 2,12.17-20): è questa la risposta degli empi a una parola di Dio, comunicata dal profeta, una parola che suona come accusa a una logica di ingiustizia e di violenza (quella logica condannata in Gc 3,16-4,3). Il profeta diventa segno di contraddizione, odiosa pietra di scandalo («per noi è di incomodo e si oppone alle nostre azioni»: 2,12) per un sistema sociale e religioso basato sulla ipocrisia, ma nascosto dietro una apparente legalità. Ecco perché la sua parola deve essere neutralizzata dimostrandone l’inefficacia ridicola e malefica, o più semplicemente deve essere eliminato.

Ma tra i tre verbi che caratterizzano la vicenda del ‘profeta’ Gesù, uno in particolare offre una luce per raggiungere il cuore di avvenimenti di per sé incomprensibili. Si tratta del verbo consegnareviene consegnato nelle mani…»: paradidotai eis cheiras), un verbo che domina tutta la via crucis del Figlio dell’uomo: Giuda, il discepolo che lo tradisce, lo consegna ai soldati; i soldati ai capi del popolo; i capi del popolo a Pilato e questi ai crocefissori. Ma il paradosso è che il Padre stesso consegna il Figlio alla morte e in questa morte è Dio stesso a consegnarsi all’uomo, a donarsi, a offrire per l’uomo la sua stessa vita.

Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi oscuri per il discepolo che insegue i suoi pensieri, che cerca un volto di Gesù molto diverso da quello che lui ora gli sta presentando. Il discepolo non comprende questa logica che gli pare assurda. Ma pur non comprendendo, ha paura di domandare: «…non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,32). È veramente paradossale questa reazione. Chi non capisce, chiede. E perché il discepolo non osa chiedere? Forse perché ha paura della risposta: o meglio, ha paura di un confronto con la parola di Gesù. Il discepolo preferisce nascondersi dietro le proprie molte parole, le quali offrono cammini più facili, indicano desideri più gratificanti, immediati: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (9,34).

Lungo la strada allora Gesù fa fare una sosta al discepolo, ponendo anzitutto una domanda, che però resta senza risposta: «Di che cosa stavate discutendo lungo la strada?» (9,33). Sembra quasi che di fronte a Gesù il discepolo non sappia usare la parola. Ed è veramente così: il discepolo non sa usare la parola, resta muto, perché non ha ascoltato la Parola, quella parola che è il cammino di Gesù, quella parola dura che è la croce. Solo Gesù può dare una risposta alle molte parole e ai silenzi del discepolo. E la sua risposta è sconcertante e vera allo stesso tempo. Essa ha come due momenti, due angolature attraverso cui si può rileggere la vicenda di Gesù, ma che diventano anche altrettante scelte concrete per il discepolo. «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (9,35). Gesù prende sul serio il desiderio del discepolo, essere il primo, cioè realizzarsi pienamente, poter emergere nella vita. Ma la risposta che Gesù offre è sconcertante: inverte quella strada che il discepolo credeva di poter percorrere per essere il più grande. Per Gesù essere il più grande non è porsi sull’altro, prevalere sull’altro, cercare tutto ciò che è primo; essere grandi è stare ai piedi dell’altro, essere per l’altro dono, consegnarsi all’altro perché esso possa vivere. In una parola, il discepolo deve capire che c’è una sola via che realizza pienamente il desiderio più vero di vita che abita in lui: è proprio quella via da cui il discepolo ha distolto lo sguardo, la via di Gesù, «il quale da ricco che era si fece povero… che non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso…» (cfr. 2Cor 8,9; Fil 2,6.7); la via dell’umiltà, la via del servizio, la via del dono.

Ma c’è un passo ulteriore, un salto di qualità che Gesù fa compiere al discepolo. «E preso un bambino lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie… colui che mi ha mandato”» (9,36-37). Questo gesto di Gesù, pieno di compassione e di tenerezza, libera il discepolo da un’ultima tentazione. Essere all’ultimo posto, essere il servo di tutti, significa essere liberati dalla tentazione del potere. Ma il discepolo può ancora essere attratto dalla pretesa di essere sempre lui quello che deve fare o deve dare agli altri. Scoprire che al centro non c’è tanto il suo servizio all’altro, ma l’altro come persona, anzi il piccolo, l’ultimo come un dono da accogliere, significa essere veramente liberi e poveri. Chi veramente dona, chi si fa ultimo, chi si fa nostro servo è il Signore Gesù: è lui il piccolo che sta in mezzo a noi come servo, è lui che ci dona tutto rivelandoci il volto misericordioso del Padre. Di fronte al piccolo, qualunque esso sia, non possiamo fare altro che aprire le nostre mani per ricevere il dono della compassione del Padre, nel volto di Gesù.

Preghiere e racconti

In mitezza e umiltà

«Essi però non comprendevano quelle parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,32). Tale ignoranza da parte dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza della loro mente, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore. Questi uomini che vive-vano ancora secondo la carne ed erano ignari del mistero della croce, si rifiutavano di credere che colui che essi avevano riconosciuto quale Dio vero sarebbe morto ed essendo abituati a sentirlo parlare in parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, cercavano di attribuire un senso figurato anche a quello che diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione. «E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”. Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mc 9,33-34). Sembra che la discussione tra i discepoli a proposito del primo posto fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che qui era stato affidato loro qualcosa di segreto. Ma già da prima erano convinti, come racconta Matteo (cfr. Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del Regno dei cieli, e che la chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome. Ne concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri o che Pietro era superiore a tutti. Il Signore, vedendo i pensieri dei discepoli, cerca di correggere il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà e fa loro intendere che non si deve cercare di essere primi; così, dapprima li esorta con il semplice comandamento dell’umiltà e, subito dopo, li ammaestra con l’esempio dell’innocenza del bambino. Dicendo infatti: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37) […] li esorta, a motivo della loro malizia, a essere anche loro come bambini, cioè a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia e la devozione senza ira. Prendendo poi in braccio il bambino, indica che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili e che, quando avranno messo in pratica il suo comandamento: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), solo allora potranno gloriarsi.

(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco, CCL 120.n. 551).

Soprattutto un viaggio di ricerca

“Io sono un navigatore e un viaggiatore, e ogni giorno scopro una nuova regione della mia anima” … Queste  semplici ma straordinariamente parole di Kahil Gibran (Sabbia e onda) possono ben attagliarsi al tema di queste pagine, poiché pongono in rilievo un fatto fondamentale: l’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé.

Il viaggio deve essere soprattutto uno strumento di approfondimento interiore, un mezzo per andare oltre le secche della quotidianità e far sì che l’anima respiri nuova aria, si alimenti con nuove energie spirituali. Viaggiare è conoscere, ma è anche conferma della conoscenza acquisita e anche un modo per essere nella storia, senza distorsioni, linearmente, forse partendo dalle origini.

(Massimo CENTINI, Il cammino di Santiago, Xenia, Milano, 2009, 10-11).

Collaboratori della gioia di tutti

Chiamato a servire, nell’impegno di ogni giorno, nella specificità dei servizi d’amore cui Dio lo chiama, il cristiano non deve mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo. Il segreto che gli permette di mantenere intatta la sua capacità di leggere giorno dopo giorno i segni della salvezza di Dio, che è all’opera, sta nell’incontro fedele e perseverante con Cristo, sorgente di vera gioia.

Questa gioia dell’incontro col Signore accompagna la vita del cristiano: anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano “pieni di gioia e di Spirito Santo” (Atti 13,52). La gioia è un frutto dello Spirito, conseguenza del dimorare in Dio nella preghiera e nella celebrazione del suo amore per noi, sperimentato nella fede e nella speranza: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Tessalonicesi 5,16-18). La gioia si coniuga così alla carità, vissuta nel portare con Cristo il peso della sofferenza propria e altrui.

Servire è farsi collaboratori della gioia di tutti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Corinzi 1,24).

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 71).

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

Preghiera per il servizio

Signore,

mettici al servizio dei nostri fratelli

che vivono e muoiono nella povertà

e nella fame di tutto il mondo.

Affidali a noi oggi;

dà loro il pane quotidiano

insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.

Signore,

fa di me uno strumento della tua pace,

affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio,

lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia,

l’armonia dove c’è la discordia,

la verità dove c’è l’errore,

la fede dove c’è il dubbio,

la speranza dove c’è la disperazione,

la luce dove ci sono ombre,

e la gioia dove c’è la tristezza.

Signore,

fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata,

di capire, e non di essere capita,

e di amare e non di essere amata,

perché dimenticando se stessi ci si ritrova,

perdonando si viene perdonati

e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

Rendici umili servi di tutti!

Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo». Non siamo infatti migliori dei due discepoli. Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.

Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori. Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio. Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita

Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa. Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER APPROFONDIRE:

XXV DOM TEMP ORD ANNO B

Religion Today Filmfestival

Nella Sala Marconi di Radio Vaticana, è stata presentata alla stampa, l’11 settembre 2012, la quindicesima edizione del Religion Today Filmfestival, il festival itinerante del cinema delle religioni che promuove la cultura del dialogo e della pace. Da più di quattro anni, il RTFf annovera la partecipazione attiva della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’UPS.

Religion Today è il primo festival itinerante dedicato al cinema delle religioni, nato nel 1997 per:

  • contribuire alla diffusione e distribuzione del film religioso come contributo particolare allo sviluppo culturale e spirituale
  • promuovere, attraverso il cinema, una cultura del dialogo e della pace tra le religioni, nel riconoscimento delle differenze
  • creare un luogo di incontro e scambio per registi e operatori delle comunicazioni provenienti da diverse culture e religioni
  • favorire la diffusione di un’informazione corretta sulle grandi religioni in tutte le sedi del festival

Nella sede della FSC si svolgerà il Seminario internazionale “Conflitti. Religioni e (non) violenza“, in programma per lunedì 22 ottobre.

La conferenza stampa si è tenuta in una data fortemente simbolica nell’anniversario delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2011.

La direttrice di RTFf, dott.ssa Katia Malatesta, ha presentato il ricco programma di un’edizione che dalla storia specifica della nonviolenza, nell’incontro tra le religioni orientali e occidentali, si estende alla complessità del rapporto tra religione e (non) violenza come tema che investe il presente e il futuro della nostra società.

Alla conferenza stampa sono intervenuti il dott. Piefrancesco Sacco (Capo Unità Analisi, Programmazione e Documentazione storico- diplomatica della Segreteria Generale del Ministero degli Affari Esteri), dott. Alessandro Martinelli (Direttore del Centro diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso di Trento), il prof. Paolo Trianni (Docente presso l’Università Pontificia Sant’Anselmo e membro del coordinamento della sezione italiana di Religions for Peace) e don Mauro Mantovani (Vicerettore UPS e Decano FSC).

Il programma del seminario internazionale di RTFf che avrà luogo all’UPS sarà presto reso pubblico nei suoi dettagli. È prevista la partecipazione di quattro specialisti del settore provenienti in rappresentanza di varie religioni.

PER SAPERNE DI PIU’ CLICCA QUI:

http://www.religionfilm.com/

Giovani, protagonisti del mondo che cambia

Riportiamo di seguito una riflessione sulla disoccupazione giovanile firmata da monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto (in Abruzzo), e pubblicato sull’edizione di domenica 9 settembre del quotidiano Il Sole 24 Ore.

È drammatico il dato sulla disoccupazione giovanile nel nostro Paese. Un giovane su tre, fra chi ne avrebbe le potenzialità, è senza lavoro, con prospettive incerte anche sull’immediato avvenire. Impegnarsi per creare opportunità occupazionali ai giovani è compito prioritario nell’agenda delle cose da fare, come ha riconosciuto con chiarezza il Presidente Monti. Il Governo dovrà certo fare la sua parte, ma sarebbe illusorio pensare che il problema si risolva unicamente dall’alto.

Mai come in questo campo si richiede una sinergia ampia e convinta, che vada dalle famiglie alla scuola, dalla società civile alla comunità ecclesiale, dalle imprese ai sindacati, dalle amministrazioni locali alle diverse agenzie che operano sul territorio al servizio del bene comune. È importante, però, che i primi protagonisti di questo sforzo corale siano proprio i giovani.

Come? Vorrei rispondere a questa domanda partendo da un’immagine biblica, tratta dal libro dei Numeri (cap.13), dove si narra degli esploratori mandati da Mosè a visitare la terra promessa. Ritornando, essi portano il grappolo d’uva, il melograno e il fico e, nel raccontare quello che hanno visto, trasmettono una tale, convinta emozione, che tutto il popolo decide di affrontare il rischio di entrare in una terra dove abitano i giganti. È l’immagine di quello che dovrebbero fare i giovani di fronte alle sfide della crisi in atto. Come gli esploratori, i giovani non sono i capi del popolo, non sono Mosè, né Aronne; essi non sono neanche i sacerdoti o i leviti, e neppure la grande massa costituita dalle famiglie, dagli anziani, dai bambini. I giovani sono per loro natura gli esploratori, mandati a scoprire il futuro di tutti. Chi entrerà nella terra promessa, chi la vedrà e la farà sua? Chi ne intuisce già i tratti, ne avverte il sapore e il profumo? Sono i giovani.

In questo senso, aveva ragione Giovanni Paolo II nel dire che sono loro le sentinelle del mattino, che annunciano con i loro sogni e le loro attese il giorno che verrà. Sono loro i primi destinatari di quel sì di Dio al mondo, di cui parla spesso Benedetto XVI. I giovani anticipano il futuro, ce lo fanno assaggiare. Ecco perché un adulto che abbia perso il contatto coi giovani diventa presto vecchio; e chi è rimasto a contatto con loro conserva una carica stupefacente di giovinezza e di speranza.

Mi chiedo, allora, quali caratteristiche dovranno avere questi esploratori della terra promessa. Come agli inviati del libro dei Numeri, è chiesto ai giovani di raccontare un mondo ai più sconosciuto: essi devono essere dei narratori. Narrare non significa aver capito tutto, voler spiegare tutto, descrivere ogni dettaglio. Narrare vuol dire comunicare un’esperienza vissuta in maniera così intensa da risultare contagiosa di futuro. È questo che mi aspetto dai giovani: che aiutino tutti noi a conoscere, attraverso i loro racconti – che sono i loro “sogni diurni”, le loro attese e speranze – un mondo che per tanti aspetti non conosciamo, quello che condividono ogni giorno nelle scuole, negli ambienti di vita, con i loro amici, con quanti sanno dialogare con loro. Da questo mondo ci separa spesso una distanza, che ci rende difficile capirlo. È evidente, peraltro, che non si può imparare la lingua degli altri senza conoscerli. Chi conosce la lingua dei giovani, chi sta esplorando il mondo che deve venire, sono anzitutto loro, i giovani stessi. Perciò, noi adulti abbiamo bisogno di loro, perché senza di loro non potremo parlare al futuro; è grazie a loro, se accettano di coinvolgersi nell’avventura di sognare insieme e di organizzare la speranza, che anche noi potremo parlare al domani e costruirlo con loro. Il mio appello è allora a coinvolgere i giovani nello sforzo creativo del progetto, necessario ad aprire le vie del domani di tutti. Gli organismi di partecipazione (ad esempio scolastica) sono importanti, ma non bastano. Occorre un livello ulteriore di ascolto e di condivisione.

Oltre a essere i narratori della speranza, i giovani, come gli esploratori della terra di Canaan, sono chiamati a considerare lucidamente il desiderio e le sfide della conquista. Quando presentano il melograno, il fico e l’asta con i grappoli d’uva, gli esploratori lo fanno per dire: “Guardate che bello, questi sono i frutti della terra promessa”, una terra di cui si sono innamorati. Essi descrivono qualcosa per cui vale la pena di rischiare. Vorrei chiedere allora ai giovani: non narrateci l’ovvio, lo scontato; narrateci, invece, quello che nella vita vi fa sognare. Narrateci le vostre speranze, i vostri desideri; siate i trasmettitori di un’esperienza che solo l’amore dischiude, perché solo se si guarda con amore la terra della promessa di Dio, si può anche vedere il grappolo d’uva e il melograno e il fico. Aiutateci a sognare con voi un sogno anche arduo, ma possibile! Proprio per questo, come fecero gli esploratori della terra promessa, non tacete a voi stessi e agli altri le difficoltà dell’impresa. Il vostro sogno sia a occhi aperti, tanto da risultare interprete lucido e razionale della realtà! Bisogna scommettere sulle capacità dei giovani: ad essi non dobbiamo solo chiedere di trasmetterci un’emozione, ma anche di aiutarci a pensare, di proporci delle sfide, di farci valutare senza ambiguità le difficoltà dell’impresa. Nella terra promessa ci sono i giganti, le grandi agenzie che puntano solo al profitto e non esitano a scarificare ad esso i più deboli, a cominciare dai giovani! Non si può, né si deve tacere sulle difficoltà, le sfide, le prove che vanno affrontate. Amare i giovani significa chiedere loro sacrifici sensati, impegnarli a prepararsi, a studiare, a esercitarsi nel dono di sé. Guai a stimolarli solo a fare bella figura, ad apparire! I giovani vanno educati e devono educarsi a capire i problemi, a esaminarli e ad affrontarli insieme con gli altri, a lavorare sodo per superarli.

Da questo consegue una svolta decisiva: da semplici destinatari, più o meno raggiunti dalle nostre analisi e dai nostri progetti, i giovani vanno riconosciuti e trattati da veri protagonisti e interlocutori. Qui c’è il nuovo cui aprirsi: normalmente si parla dei giovani, si progetta sui giovani, ma i giovani non ci sono. In tutti gli organismi decisionali i giovani sono una rarità: si studiano i loro problemi, ma loro sono assenti, non convocati. Ovviamente, con questo non intendo entrare nel dibattito intorno ai cosiddetti “rottamatori” e alle loro ragioni, ma stimolare tutti, specialmente gli adulti e quanti hanno responsabilità di azione, ad ascoltare seriamente il mondo dei giovani, con mente lucida e cuore aperto. Ai giovani, infine, perché siano protagonisti del loro domani, chiederei di sentirsi caricati di un invio, coscienti di una responsabilità, portatori di speranza e di fede, innamorati della bellezza, che salverà il mondo. Giovani luminosi, capaci di guardare agli altri non con indifferenza, ma con attenzione d’amore, col desiderio di raggiungere tutti con un sogno comune, pronti a pagare il prezzo necessario per fare della speranza il dono di un presente possibile. Don Lorenzo Milani proponeva ai ragazzi di Barbiana il motto “I care”, mi sta a cuore: abbiamo bisogno di giovani che credano in questo, che amino i deboli e i poveri, che regalino un po’ del loro tempo agli altri, che non si risparmino nel prepararsi seriamente al domani, che soprattutto non si chiudano mai a quelle che i credenti chiamano – con discernimento e umile consapevolezza – le sfide e le sorprese di Dio. È quello che auguro a tutti i nostri giovani e in modo speciale a chi in questi giorni inizia un nuovo anno scolastico, perché sia cammino fecondo verso un futuro più giusto e bello per tutti.

Non c’è formazione integrale senza insegnamento della religione

Nicola Rosetti spiega come sarebbe difficile comprendere la storia, la scienza, la cultura senza sapere di religione

Un nuovo anno scolastico è alle porte e fra le tante materie che i nostri alunni studieranno ce n’è una che possono scegliere: l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC). L’IRC in Italia è regolato dai Patti Lateranensi e dalle successive modifiche approvate di comune accordo dalla Chiesa Cattolica e dallo Stato Italiano.

Su questa materia è in corso da sempre un vivace dibattito: ci si interroga sulla sua presenza accanto alle altre materie, sulla sua legittimità all’interno dell’ordinamento degli studi di uno stato laico e sulla sua opportunità, visto che molti alunni appartengono ad altre religioni o non si riconoscono in nessuna di esse.

Se vogliamo capire la presenza dell’insegnamento religioso fra le attività didattiche, dobbiamo prima chiederci più in generale quale sia la finalità generale della scuola.

L’istituzione scolastica ha il dovere di aprire gli occhi degli alunni sulla realtà che li circonda e di questa  fa parte, a pieno titolo, l’esperienza religiosa. Se vogliamo per i nostri alunni una formazione integrale, cioè completa, non possiamo non farli riflettere su questo significativo e determinante aspetto della realtà: gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno aderito ad una religione e questa ha spesso determinato i costumi e i modi di vivere dei popoli, al punto che nella nostra lingua le parole “culto” e “cultura” sono affini.

Una volta appurato che la presenza dell’IRC rientra nel quadro delle attività formative rivolte agli studenti, ci si domanda perché l’insegnamento religioso sia confessionale. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, il fatto che l’IRC sia gestito dalla Chiesa Cattolica e dallo Stato Italiano non è un’anomalia nel panorama europeo.

Infatti l’insegnamento religioso, presente in quasi tutti gli stati dell’Unione Europea, è cogestito dagli stati e dalle comunità religiose maggiormente diffusi in essi. Laicità non vuol dire ateismo. La laicità, rettamente intesa, rispetta il fattore religioso e in uno stato laico, religione e politica, pur essendo distinte, possono collaborare per il bene comune delle persone: l’insegnamento religioso va visto proprio in questa logica. Questo principio è anche sancito dall’articolo 7 della nostra Costituzione, la quale afferma  che Chiesa e Stato sono indipendenti e sovrani.

La religione cattolica è sicuramente la tradizione religiosa più comune e diffusa nel nostro paese e lo Stato Italiano la riconosce come parte integrante del proprio patrimonio culturale. Ecco dunque perché viene data la possibilità ai nostri alunni di conoscerla. Il cattolicesimo ha influito nel corso dei secoli sulla nostra civiltà: sarebbe sicuramente più complicato comprendere la Divina Commedia, i Promessi Sposi, un dipinto di Giotto o di Caravaggio senza possedere una minima conoscenza dei contenuti di questa religione.

Questo vale sia per gli alunni italiani che per quelli stranieri che vivono nel nostro paese. Gli alunni che appartengono ad altre tradizioni religiose possono frequentare l’IRC, che non va confuso con il catechismo. Questi alunni hanno la possibilità di studiare, senza aderirvi, la religione cattolica e ciò può essere per loro un’ulteriore opportunità di integrazione. Allo stesso tempo, per gli alunni cattolici la presenza durante l’ora di religione di ragazzi appartenenti ad altre religioni può costituire una grande occasione di confronto.

Il contributo delle scuole cattoliche

I nuovi dati sugli istituti paritari, presentati in anteprima dal Messaggero di sant’Antonio

Sei miliardi di risparmio l’anno per le casse dello Stato; 9 mila istituti; 727 mila studenti. Il Messaggero di sant’Antonio presenta in anteprima nazionale i numeri delle scuole paritarie cattoliche, che verranno presentati a ottobre dal Centro studi per la scuola cattolica della Cei.

La scuola è ripartita portando con sé l’annoso dibattito tra scuola statale e scuole paritarie private, un patrimonio pubblico che conta 9 mila istituti e 727 mila studenti. Il Messaggero di sant’Antonio, numero di settembre, fa il punto della situazione offrendo una lettura approfondita sul ruolo della scuola paritaria nel sistema scolastico italiano. Lo fa con un ampio servizio realizzato dal giornalista Alberto Friso, intitolato Paritarie cattoliche, si riparte.

RIAPERTURA. «Per chi frequenta le 9 mila scuole paritarie cattoliche sparse per l’Italia – scrive il periodico diffuso in oltre 160 Paesi del mondo e con una diffusione di oltre 500 mila copie soltanto in Italia – poter entrare in classe a settembre significa anche tirare un bel sospiro di sollievo. Perché l’estate appena trascorsa, come purtroppo accade da alcuni anni, è stata una stagione di lotta e passione nella quale ha fatto capolino, per molti istituti, addirittura il rischio chiusura, a causa dei tagli del contributo statale. Nel settembre 2011, ben 605 scuole non hanno riaperto i battenti».

SONO PUBBLICHE. Il testo base cui riferirsi è la legge 62 del 2000, che all’articolo 1 dice: «Il sistema nazionale di istruzione (…) è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali». Quindi «scuola pubblica» è sia statale che paritaria. La contrapposizione tra «pubblica» e «private» non ha più motivo di essere o, meglio, è impropria nei termini.

I TAGLI. A partire dalla legge 62, lo Stato si è impegnato a sostenere le paritarie con uno stanziamento che si è sempre aggirato intorno ai 530 milioni di euro l’anno. Un finanziamento già di per sé sottostimato, ma comunque una risorsa. Nel 2009, tuttavia, questo sostegno è stato dimezzato. Ecco il perché del tira e molla delle ultime estati: da una parte l’eredità del taglio, dall’altra la battaglia delle paritarie – con i cattolici in testa – per ripristinare almeno la quota di sopravvivenza. «Che il contributo sia di sopravvivenza – osserva il Messaggero di sant’Antonio – è facilmente comprensibile: sono di media una cinquantina di euro al mese per studente, sul mercato privato non basterebbero nemmeno per due ore di ripetizioni». Ad oggi, il taglio permane, nonostante gli impegni presi a parole.

I CONTI. La spesa pubblica per ogni allievo della statale è di 6.635 euro; per un allievo  della paritaria, invece, l’erario eroga 661 euro (elaborazione Agesc). Il risparmio per lo Stato è di 5.974 euro a studente, ovvero, in totale, di 6 miliardi e 334 milioni l’anno.

I NUMERI. Le paritarie sono in tutto 13.500, di cui circa 9 mila cattoliche o di ispirazione cristiana, frequentate da 727 mila studenti. Spiccano per numero le scuole dell’infanzia, con 6.610 istituti e 443 mila allievi. Vale a dire che in Italia due bambini su cinque di 3-6 anni scelgono la scuola dell’infanzia cattolica (in alcune zone, come il Veneto, sono quasi due su tre). Molte meno sono le altre classi di scuole: le superiori sono 621 istituti, con 61 mila studenti; le primarie (elementari) sono 1.130, con 156 mila bambini. Le secondarie di I grado (medie), infine, sono 3.178, con 67 mila alunni. I dati anticipano l’uscita del rapporto La scuola cattolica in cifre. Anno scolastico 2011-’12, in uscita in ottobre per l’editrice La Scuola, a cura del Centro studi per la scuola cattolica della Cei.

GLI INTERVENTI. Nell’articolo intervengono Sergio Cicatelli, direttore del Centro studi per la scuola cattolica della Cei; Francesco Macrì, presidente Fidae (Federazione degli istituti di attività educative); Roberto Gontero, presidente Agesc (Associazione genitori scuole cattoliche); Ugo Lessio, presidente Fism Veneto (Federazione italiana scuole materne); Isa Navoni, preside dei licei classico, linguistico e scientifico dell’all’istituto paritario Madonna della Neve di Adro (BS).

Indagine OCSE: cresce in Europa l’età media degli insegnanti

Bilanci per l’istruzione non adeguati ai tempi; invecchiamento medio della categoria degli insegnanti; squilibrio tra maschi e femmine tra gli iscritti negli atenei.

Sono tre dei problemi rilevati da una indagine dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici) resa nota oggi, che indaga la situazione scolastica nei 34 Paesi aderenti, 21 dei quali Ue.

Secondo la ricerca, oltre il 50% dei docenti di scuola secondaria superiore in Germania e in Italia ha superato i 50 anni di età; in altri cinque Paesi dell’Unione (Austria, Repubblica ceca, Estonia, Paesi Bassi, Svezia) il dato è oltre il 40%.

Ocse esprime preoccupazione anche per la “disparità tra i generi”: la relazione segnala che “quasi un terzo di donne in più rispetto agli uomini si iscrive all’istruzione universitaria nell’Ue”.

Permane poi la questione delle risorse finanziarie investite nell’educazione. Androulla Vassiliou, commissario europeo per l’istruzione, commenta: “Gli Stati membri dell’Ue riconoscono che l’investimento nell’istruzione è essenziale per il futuro d’Europa e per la sua prosperità nel lungo periodo. Dai dati emerge che il costo dell‘istruzione è di gran lunga controbilanciato dai vantaggi che se ne traggono. Non abbiamo però motivo di essere troppo soddisfatti: la relazione evoca anche la necessità di riforme per modernizzare l’istruzione e renderla più attraente sia agli occhi degli studenti che degli insegnanti”.

Come insegnare la religione con l’arte

Tra le tante proposte per una nuova evangelizzazione e per un insegnamento della religione che sia strettamente connesso ad un progetto culturale, ha destato grande interesse la pratica di alcuni insegnanti di utilizzare le arti visive.

Una vera e propria catechesi della bellezza che mentre fa conoscere e spiega e svela il mistero di capolavori artistici, pittorici, architettonici, scultorei, allarga gli orizzonti verso il sacro e il divino.

A questo proposito le suore Maria Luisa Mazzarello e Maria Franca Tricarico, docenti alla Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, hanno curato e pubblicato un cofanetto di cinque volumi edito da Il Capitello ed Ellenici, con il titolo “Insegnare la religione con l’arte”.

Secondo suor Mazzarello: “Comunicare la fede percorrendo la via della bellezza è certamente avvalersi più di una opportunità per incontrare e penetrare il mistero”.

L’arte – ha aggiunto – è parola silenziosa ed eloquente per incontrare Dio. L’arte, infatti, è luogo teologico, espressione della fede attraverso le formule iconografiche. L’arte è la via del concreto che apre alla comprensione del trascendente”.

Per approfondire un tema di così grande attualità e interesse ZENIT ha intervistato suor Maria Franca Tricarico.

Come è possibile insegnare religione seguendo percorsi artistici?

Nel supertecnologico XXI secolo la Chiesa non manca di richiamare l’attenzione sulla rilevanza del linguaggio dell’arte cristiana il cui scopo, oggi come nel passato, è quello di ‘demonstrare invisibilia per visibilia’  cioè ‘spiegare le cose invisibili attraverso quelle visibili’.

Dall’esperienza in aula e dialogando con gli insegnanti, risulta che il ricorso all’arte è una strada percorribile. L’arte – come aveva scritto Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti – è per sua natura una sorta di appello al Mistero. L’arte, dunque, è un linguaggio che attraverso le forme simboliche svela agli alunni, non solo a quelli della scuola superiore, ma anche a quelli della scuola dell’infanzia, le “cose di Dio”. I nostri ragazzi oggi, sono un po’ come quegli “illetterati” di cui parlava Gregorio Magno i quali vedendo comprendevano. Lo stesso vale a scuola. L’esperienza ci dice che per i ragazzi un’immagine è più eloquente del solo discorso che va comunque ricuperato, forse proprio a partire da un’opera d’arte.

In definitiva, il percorso artistico nell’insegnamento della religione significa riappropriarsi della tradizione antica, significa ri-attualizzarla; significa considerare l’arte quale “testo” che ri-dice la parola di Dio e, nel caso dell’arte contemporanea, quale “testo” che lascia intravedere il religioso e la dimensione spirituale anche attraverso la precarietà esistenziale dell’uomo.

In concreto, in aula le opere d’arte vanno proposte come testo-documento, come esegesi pratica, come esegesi figurativa della Scrittura. Operativamente, per l’analisi delle opere, si può prevedere

▪ la presentazione e l’osservazione dell’opera d’arte: si sollecitano i ragazzi a guardare con attenzione tutti gli elementi presenti nell’opera proposta e ad elencarli (descrizione preiconografica);

▪ il passaggio dalla descrizione dell’opera all’interpretazione simbolica: si sollecitano i ragazzi a scoprire che tutti gli elementi presenti nelle opere di diverse epoche hanno un preciso intento comunicativo, e a tentarne un’interpretazione; si provocano interrogativi che consentono di formulare ipotesi di significato da convalidare alla luce di varie fonti, in particolare il testo biblico come fonte privilegiata. Tutto questo per scoprire gli elementi di significato di cui il testo-arte è portatore (analisi iconografica e interpretazione iconologica).

Inoltre, si può pure prevedere la riespressione dei contenuti trasmessi dall’opera d’arte mediante la produzione dei ragazzi: è il momento di verifica delle competenze acquisite in ordine alla lettura e alla comprensione dell’opera d’arte la quale nasce sempre da un’idea biblico-teologica che si materializza in personaggi, forme, colori, volumi, disposizioni spaziali, ecc. I ragazzi sono invitati ad assumere i seguenti atteggiamenti: silenzio immaginativo, esternazione delle proprie idee, dialogo, produzione individuale e/o di gruppo. In questo modo la classe si costituisce quale “bottega d’arte” dove viene potenziata l’immaginazione e la creatività attraverso processi di reinterpretazione e di rielaborazione.

Un’importante attenzione didattica va rivolta alla scelta delle opere. Si escluderanno opere in cui prevalgono dettagli inutili e l’effetto scenografico; come pure quelle che “infantilizzano” il Mistero. Si sceglieranno invece opere che si propongono per la loro semplicità ed essenzialità, come pure opere che penetrano la Sacra Scrittura, la ri-dicono, la interpretano e l’attualizzano.

Una tale scelta deriva dalla consapevolezza che l’arte è un testo complesso non nel senso di difficile, ma nel senso che racchiude una molteplicità di elementi riconducibili a vari aspetti del dato cristiano. L’attenzione pedagogica e didattica che si richiede è allora quella di proporre agli alunni espressioni artistiche a seconda della loro età e delle loro capacità cognitive ben sapendo che ogni traccia, ogni espressione dell’arte cristiana è un testo che può essere letto, compreso e interpretato a vari livelli.

In definitiva, la via dell’arte cristiana nell’azione didattica è percorribile anche se richiede da parte dell’insegnante una particolare “attrezzatura” cognitiva e la passione per l’arte. Tutto ciò si acquista con una continua formazione e contemplazione.

Per questo, nel corso degli anni, con una mia collega, ho curato la pubblicazione dei sette testi della Collana “Insegnare Religione con l’Arte” (Elledici) il cui scopo è appunto quello di aiutare gli insegnanti nella loro formazione. Questi testi sono indirizzati anche agli studenti degli Istituti Superiori di Scienze Religiose e ai Catechisti.

zenit del 5/09/12

Giovani e scuola: risultati di un’indagine

La Scuola è tra le istituzioni che incontrano maggior grado di fiducia tra le giovani generazioni. Secondo il campione analizzato, la netta maggioranza (oltre il 55%) dà ad essa un voto positivo.

E’ quanto emerge dall’indagine “Rapporto Giovani” dell’Istituto di Studi Superiori Giuseppe Toniolo, realizzata dall’Ipsos, da un campione, rappresentativo su scala italiana, di 4500 giovani tra i 18 e i 29 anni.

Ancor più alto il gradimento (valore positivo per quasi due su tre) tra quelli ancor più giovani (20 anni o meno).

Rispetto alla ripartizione geografica, la fiducia tende ad essere maggiore dove scuola e Università offrono migliori strutture e maggiori livelli di preparazione. Il voto positivo supera infatti il 60% al Nord. I valori sono comunque positivi nella maggioranza dei casi anche nel Centro e nel Sud.

Valori sensibilmente più alti sono, inoltre, assegnati al sistema formativo dai giovani che vivono in una famiglia con genitori più istruiti, dove il valore dello studio tende ad essere maggiormente trasmesso. In particolare, se il padre è laureato la quota di voti positivi arriva vicina al 65%. La percentuale di consensi rimane comunque sopra il 50% anche per chi proviene da classe socio-culturale più bassa.

Sia studio che lavoro

Solleva molte preoccupazioni in Italia il fenomeno dei “Neet”, ovvero dei giovani che non studiano e nemmeno lavorano. Esiste,però, anche la categoria opposta, formata da giovani che studiano e nel contempo anche lavorano. Un gruppo di particolare interesse per vari motivi: perché con la crisi economica questi giovani pur avendo trovato un lavoro non rinunciano allo studio, in funzione di migliorare comunque le proprie prospettive future. Ovvero perché,  pur studiando, hanno deciso di iniziare già a confrontarsi con il mercato del lavoro. Una scelta meritoria, quella di cercare durante gli studi di mantenersi del tutto o parzialmente da soli, tanto più in un Paese come il nostro che presenta i più alti tassi di dipendenza economica dei giovani dai genitori nel mondo sviluppato.

Una scelta dettata non sempre e solo da necessità, ma spinta anche dal desiderio di autonomia e da un senso di responsabilità. Ma che si scontra anche con le difficoltà a conciliare tali due impegni.

Nel nostro ampio campione considerato (oltre 4500 giovani nella fascia 18-29 anni), tra coloro che studiano, la quota di chi svolge una qualche attività lavorativa è vicina a uno su cinque tra chi proviene da famiglie con classe sociale più bassa, ma è comunque su livelli di rilievo anche per chi proviene da famiglie più benestanti.

La possibilità di coniugare studio e lavoro è inoltre molto più elevata al Nord rispetto al Sud, sia per le maggiori opportunità di occupazione ma anche per la maggior presenza di studenti fuori sede che vivono lontani dalla famiglia di origine con i costi che questo comporta.

Come ci si può aspettare, la percentuale aumenta con l’età. Sale a circa un caso su tre attorno ai 25 anni, e si avvicina a un caso su due verso i 30 anni.

Riguardo al tipo di contratto, anche qui come ci si poteva aspettare, molto bassa è la quota di chi ha un contratto a tempo indeterminato, pari a poco più di uno su quattro tra coloro che hanno un lavoro alle dipendenze, mentre circa il 16% ha invece un lavoro autonomo.

Chiesa in Europa: per crescere insieme

Si è concluso oggi a Cipro l’incontro Ccee-Comece su radici cristiane e coesione sociale

Una tre giorni di appuntamenti, dibattiti e spunti di riflessione: questo il seminario promosso a Cipro dalla Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e dedicato alla coesione sociale, giunto oggi al termine.

Riaffermato che “non è possibile un’Europa coesa che dimentichi le sue radici cristiane” si è ribadito che la “Chiesa può e deve inserirsi all’interno del dibattito sulla coesione sociale, anzi il suo contributo è fondamentale”.

Come ha sottolineato il card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, presidente della Cei e vice-presidente del Ccee (insieme a mons. Józef Michalik, arcivescovo di Przemyśl-Polonia) “la Chiesa ha un grande messaggio per quanto concerne la questione sociale e la società in generale grazie alla dottrina sociale della Chiesa che è il compendio delle implicazioni a livello culturale, sociale, economico, politico, ma soprattutto antropologico del mistero di Cristo e del Vangelo”.

Ecco, quindi, che questo seminario, organizzato dal Ccee (www.ccee.org) e condiviso dalla Comece, la Commissione degli episcopati della Comunità europea (www.comece.org), ha inteso rispondere a questa esigenza. Le Chiese cattoliche europee, ha rilevato il cardinale Bagnasco, sentono “profonda la missione di mettersi a servizio dell’evangelizzazione, sapendo che dentro al Vangelo vi è l’elevazione di tutto l’uomo e, quindi, della società”. 

Una cultura della diversità. Muovendo dal concetto di coesione sociale e richiamandosi alle parole delle Sacre Scritture,Andreas Pitsillides, docente di teologia e membro del Parlamento di Cipro, ha lanciato un messaggio importante a favore della multiculturalità. E come non affrontare un tema così importante proprio in questa terra? Cipro, rappresenta, infatti, un esempio per tutta l’Europa, perché “non si può parlare di coesione sociale se viene meno il concetto d’integrazione”. A tale scopo il teologo ha invocato un sempre maggior impegno da parte di tutti per creare una “cultura della diversità”. Al riguardo, ha aggiunto Pitsillides, “l’impegno e la missione della Chiesa cattolica nel promuovere la coesione sociale in Europa è fondamentale e per raggiungere questo obiettivo è importante comunicare con la gente, stando sempre al passo con le sfide di ogni epoca”. La parola è poi passata a Marios Mavrides, anche lui membro del Parlamento e docente associato all’Università europea di Cipro. Nel suo intervento, dal titolo “Costruire una società giusta: una prospettiva economica”, ha spiegato che, “nonostante i significativi passi in avanti per combattere le ingiustizie, la povertà e la disuguaglianza non sono ancora state debellate”. Concludendo il suo intervento ha poi aggiunto: “La costruzione di una società giusta non è facile e soprattutto non è un compito che può avere una fine, possiamo sempre puntare al meglio. Tuttavia, non riusciremo mai a raggiungere la perfezione”. 

Una prospettiva integrale. A mons. Giampaolo Crepaldi, presidente della Commissione del Ccee promotrice del seminario, è toccato il compito di ripercorrere le tappe salienti di questa tre giorni. Con l’intervento “Verso una ‘road map’ per la commissione ‘Caritas in Veritate’”, mons. Crepaldi ha focalizzato l’attenzione su tre punti salienti emersi dall’incontro: l’identità degli organismi del Ccee e della Comece, l’uso della dottrina sociale della Chiesa e l’Europa. “Chiedo scusa – ha detto – se la ‘road map’ è fatta più di domande che di risposte, ma a me sembra che porre le domande giuste, sia una maniera corretta per iniziare a rispondere in maniera adeguata”. Mons. Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza e uno dei quattro vice-presidenti della Comece e presidente della Commissione sulle questioni sociali della stessa Comece, ha voluto mettere in rilievo le varie declinazioni emerse del concetto di coesione sociale. “A mio avviso – ha affermato mons. Ambrosio – questo tema va affrontato in una prospettiva integrale anche se è giusto, nel mantenere una visione d’insieme, distinguere le varie problematiche. Infine credo sia importante evidenziare la visione culturale e politica di tale concetto, richiamandoci anche ai padri fondatori dell’Europa”. Concludendo l’intervento e riallacciandosi alle tematiche sociali, mons. Ambrosio ha ricordato l’importante appuntamento delle seconde “Giornate sociali europee” che si terranno in Spagna, a Granada, il prossimo anno e che vedranno nuovamente il coinvolgimento del Ccee, della Comece e di tutte le Chiese europee.

Il grande dono. Un messaggio di speranza è stato, infine, lanciato dall’arcivescovo dei maroniti di Cipro, Youssef Soueif, il quale ha ricordato che l’Europa ha dovuto far fronte a numerose difficoltà. “La minaccia della crisi economica – ha detto – ci mette nuovamente a dura prova, ma le guerre, anche quelle economiche, si affrontano nello Spirito di Cristo, l’Unico in grado di trasformare le difficoltà in grazie e benedizioni”. Come ha ricordato, infatti, il cardinale Bagnasco: “L’Europa è il grembo originario del cristianesimo e non deve perdere questo grande dono”.

a cura di Nike Giurlani, inviata Sir Europa a Cipro