SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.

Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Esegesi

Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

Che cosa possiamo rispondere?

Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

Meditazione

È bene per noi, uomini e donne della terra, ancora sotto il dominio del peccato e della morte, pregare con chi è passato attraverso la grande tribolazione, la morte, colei che sembra allontanare definitivamente da Dio e dalla vita che egli ci ha donato. E, mentre celebriamo la liturgia, ci uniamo a coloro che celebrano la liturgia del cielo e cantano la lode di Dio. Sono i santi, uomini e donne diversi, che si sono fatti ascoltato­ri della Parola di Dio e discepoli di Gesù, scegliendo di vivere non per se stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi. La Chiesa, nostra madre, in modo sapiente, anticipa la festa di tutti i Santi alla memoria dei fedeli defunti, quasi per aiutarci a comprendere il mistero della morte e perché non siamo dominati dalla paura. Il Signore infatti non abbandona gli uomini all’abisso della morte e nel Figlio Gesù, primo­genito di una moltitudine di fratelli, ci fa già cantare nella liturgia la gioia della resurrezione. La memoria dei santi accanto a noi ci aiuta a guardare con speranza il tempo che viviamo; soprattutto ci aiuta a non vivere prigionieri del nostro piccolo mondo, della terra su cui cammi­niamo, neppure delle realtà ecclesiali di cui siamo parte. Vi è una mol­titudine immensa di uomini e donne, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, che insieme a noi e alla nostra comunità canta la salvezza che viene da Dio attraverso l’Agnello e ci rende partecipi di un popolo grande, in cui la diversità di origine e di cultura non diventa motivo di divisione e di inimicizia. È il popolo di Dio, sacramento dell’unità della famiglia umana, come ha detto il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, liberato dall’odio, dalla divisione, dall’inimicizia, da tutti quei motivi di separazione che ancora non permettono agli uomini di vivere sulla terra quella visione del cielo.

Le parole dell’Apocalisse sembrano descrivere un altro mondo, lon­tano, irraggiungibile, impossibile da realizzare nel nostro. Sì, siamo di fronte davvero a un mondo altro, diverso da quello di tutti i giorni, spesso costellato di divisioni, contrapposizioni, inimicizie, che impedi­scono l’unità e intralciano il superamento del proprio io in una comunione e una sintonia con gli altri. Ci sono ancora troppe inimicizie che passano nei cuori di ognuno. Quante divisioni ancora tra i popoli, quanti conflitti nella vita di ogni giorno, fondati sulla difesa di se stessi e del proprio interesse. Le parole dell’Apocalisse rimangono una visio­ne e una profezia, ma sono anche una vocazione, quella di ognuno dei cristiani che da uomini della terra diventano uomini spirituali e si fanno discepoli del Signore, entrando già fin d’ora a far parte di quella moltitudine immensa. E un popolo di poveri, di gente che piange, di miti; di affamati e assetati di giustizia, di misericordiosi, di puri di cuore, di operatori di pace, di perseguitati per causa della giustizia e del Signore. Sembra un popolo di deboli, perché i poveri sono disprez­zati, coloro che soffrono abbandonati, i miti dileggiati, i cercatori di giustizia e di pace considerati degli ingenui, i perseguitati dimenticati, come tanti cristiani nel mondo. Qual è la loro forza se non di essere in quel popolo? Quale la loro felicità e beatitudine se non nella certezza che Dio realizzerà la sua parola e che fin da oggi sono radicali nella promessa di Dio? Questo Vangelo, che abbiamo ascoltato molte volte, traccia un itinerario tanto diverso dal vangelo di questo mondo, che proclama beati i ricchi, i forti, i belli, i furbi, coloro che fanno il loro interesse. La Chiesa lo ripropone nella solennità di tutti i santi, per farci comprendere qual è la via della santità, a cui tutti siamo chiamati.

Si vive talvolta una vita modesta, incentrata su se stessi, istintiva e suscettibile, ci si accontenta di quanto si riesce a percepire dal nostro orizzonte quotidiano, impauriti davanti alle grandi visioni. Così la visio­ne di Dio si appanna e svanisce. Per far parte di quella moltitudine immensa e poter incontrare il Dio della vita passando attraverso la grande tribolazione senza soccombere, bisogna essere più ambiziosi nell’amore, non tiepidi e calcolatori, non avari ed egoisti, non chiusi nel proprio mondo di buoni, che giudicano gli altri. I martiri, che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello e di cui la Chiesa fa sempre memoria, ci indicano la forza di una vita spesa nell’amore. Uno degli ultimi, che la Chiesa proclamerà beato, è don Pino Puglisi, un sacerdote che ha dato la sua vita per il Vangelo e non ha ceduto alla mentalità violenta e mafiosa da cui era circondato. La visione di Dio ci chiama ad essere santi, a vivere sulla terra come cittadini del cielo, familiari e cercatori di Dio, amici dei poveri e dei bisognosi per poter essere un giorno con loro, miti in un mondo pre­potente e violento, operatori di pace là dove permangono piccoli o grandi conflitti, affamati di quella giustizia di Dio, che mai è disgiunta dalla misericordia e non invoca la vendetta sul colpevole e sul malvagio. Se vogliamo un mondo migliore e più umano, percorriamo la via della santità, che ci è così bene indicata nelle beatitudini. E, se vogliamo realizzarla, uniamoci ai poveri, perché sono i primi beati, i primi a far parte del regno di Dio. Gesù, secondo i Vangeli sinottici, incontra per primi i discepoli e i poveri, i malati, gli indemoniati. Tutti loro fanno parte della sua famiglia. E noi potremo esser ugualmente felici, percor­rendo la via che il Signore ha proclamato dal monte delle beatitudini, nuovo Sinai, come la legge di Dio, l’insegnamento nuovo che porta a compimento l’antico senza abolirne il valore.

A noi, discepoli dell’unico che ha vissuto tutte le beatitudini, il Signore Gesù, viene chiesto di lasciarci attrarre da questo popolo, ribel­landoci all’individualismo che ci vorrebbe divisi. Le beatitudini sono le parole che ogni giorno ci permetteranno di far parte della famiglia di Dio e di gustare la gioia e la bellezza di essere un noi, un unico popolo, dove non esistono più confini di nazione, tribù, popolo, lingua. Ci tro­viamo davanti all’antico sogno di Dio che volle gli uomini non nemici né divisi, ma fratelli. Oggi nella festa di tutti i santi lo vediamo realizzar­si e ci sentiamo coinvolti in un disegno di amore che va oltre quanto siamo in grado di comprendere e di vivere ogni giorno. Non tiriamoci indietro per paura di perdere noi stessi. Aspiriamo alla santità, che è comunione con il Signore, vita gioiosa con i fratelli e amica dei poveri. Viviamo l’audacia di essere uomini e donne di quella moltitudine immensa, che non accetta la divisione come un fatto normale né il conflitto come naturale. La vittoria di Gesù sulla morte, la testimonian­za di coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello, raf­forzano la nostra esistenza in un mondo di gente incerta e impaurita e ci aiutano a guardare al futuro con speranza e con la certezza che il Signore non permetterà al male di soffocare i tanti segni di bene che i suoi discepoli custodiscono. La beatitudine dei discepoli di Gesù sarà la gioia di continuare a vivere in quella moltitudine immensa e senza con­fini, popolo di umili e di poveri, santificato dalla presenza di Dio e reso forte dal suo amore che ha vinto la morte.

Per questo ovunque nel mondo i cristiani continuano incessante­mente ad innalzare la loro lode al Padre e all’Agnello, primogenito di quella moltitudine immensa: «Amen, lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli». Nella preghiera di lode essi ritrovano la forza per l’agire, la speranza che si fa tenace ricerca della pace contro il pessimismo e il realismo triste di chi accetta l’inimicizia come un fatto naturale e inevitabile. La visione di Dio ci precede sempre. Non dimentichiamolo! E l’Eucaristia in qual­che modo la rende più vicina perché ci rende più vicini al Signore e ci fa parte già in questo mondo di quella moltitudine immensa che cele­bra la vittoria di Dio sul male. Mentre egli si manifesta a noi, siamo costituiti come suo popolo e ci avviciniamo a lui in quella comunione di amore che diventa canto di lode e rendimento di grazie.

Preghiere e racconti

La santità è sempre giovane

«Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI (Anno B)

Intervista al Cardinal Bagnasco sul Sinodo dei Vescovi

“Il punto non è venirne a capo, ma tenere desto il fuoco. Ascoltando quest’agorà delle genti mi sono accorto che passione per il Vangelo fino alla morte ce n’è molta”.

Lo ha detto il card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ieri sera, su Tv2000, intervistato da alcuni giornalisti dell’emittente dei cattolici e di Radio Inblu sul significato del Sinodo dei vescovi appena concluso.

Il tesoro tra le mani. “Gli eventi della Chiesa non vogliono ripetere un ritornello ma ridestare questa fiamma”, ha risposto spiegando la funzione del Sinodo, “perché l’amore bisogna rimotivarlo e accorgersi del tesoro che si ha in mano. Il dramma più grave, quando l’uomo vive una difficoltà, è sentirsi solo. Allora tutto pare insormontabile, si arrende e diventa passivo. È invece giusto sapere che, in qualunque momento, l’uomo incontra Cristo che lo precede”.

Incontrarsi di persona. “Conoscenza e ragionevolezza della propria fede, alimentata nella cura amorevole di Gesù Cristo, in un contesto che non è favorevole”: questa è la sfida a cui siamo chiamati. “L’incontro personale con Gesù”, senza il quale “anche il pensiero di Cristo sarà difficile da interiorizzare e tradurre in termini vivi”, va inserito, ha spiegato il porporato, “nell’aria che respiriamo tutti”, perché “i cattolici non vivono sotto una campana”. C’è, però, “una strana separatezza tra la fede proclamata e i criteri desunti, aspirati in modo acritico dall’aria del secolarismo”, che non è diffuso “solo nel mondo occidentale, ma anche in quei territori di recente tradizione cattolica”.

Una voce forte e costante. A proposito dei diritti dei cristiani in Medio Oriente e Nord Africa, la Chiesa, ha sottolineato il card. Bagnasco, “dev’essere coscienza critica. Non maestra che bacchetta ma profezia. Profezia vuol dire incarnarsi nella storia, nel mondo, come ci ha insegnato il Maestro. La Chiesa – ha proseguito – dev’essere sempre presente ovunque, seguendo, col discernimento che lo spirito le dona, quei semi buoni da valorizzare, in ordine alla dignità della persona umana”. In merito al fondamentalismo, “da qualunque parte venga”, la Chiesa “deve elevare ed eleva la sua voce, forte e costante, insieme alla sua preghiera”, che vuol dire “denunciare violazioni diritti fondamentali e invocarne in tutte le sedi il rispetto”. È doveroso però, ha aggiunto, che “anche la comunità internazionale parli forte e costante”.

Farsi profezia. Sul valore della “Chiesa profetica” il presidente Cei si è soffermato spiegando come “nell’Antico Testamento ‘profetico’ è chi guarda le cose con gli occhi di Dio, cogliendone così la verità e l’esito. Ma lo è anche colui che anticipa un mondo nuovo, secondo Dio. È la comunione il miracolo che autentica l’annuncio, e si fa profezia del mondo nuovo. Ma c’è la profezia – ha aggiunto – anche nel momento in cui la Chiesa parla e annuncia il Vangelo, quando la Chiesa richiama l’errore di certi stili, e dice ‘no’. A volte questo non è capito, ma il ‘no’ è solo l’altra faccia del ‘sì’. Dire che un comportamento porta alla rovina è profezia”.

Cuore materno e pulsante. Sul tema della famiglia, “la Chiesa si deve porre facendo pulsare il suo cuore materno. Ma, in quanto madre delle genti, dev’essere anche maestra” e dunque “accompagnare, sostenere, incoraggiare, dare fiducia, dire una parola di verità”. Per rispondere alle esigenze delle famiglie contemporanee, “nel documento ‘Sacramentum caritatis’ – ha segnalato il porporato – vengono indicati nove modi per partecipare alla vita della Chiesa, pur nell’impossibilità di accostarsi alla comunione”. In questo contesto, una “grande solitudine abbraccia i nostri ragazzi”, che “vogliono essere amati, tutto il resto è relativo. Se sentono che le figure educative vogliono loro bene e sono là per loro, tutto il resto si dipana. Il linguaggio, seppur con la sua importanza, non è prioritario ma secondario rispetto al cuore che essi cercano”.

Creature di confine. Quanto all’evangelizzazione, “dobbiamo far emergere la dimensione costitutiva della persona”, che è fatta di fiducia. L’uomo “non può vivere senza fiducia. In questo senso il limite, che è parte costitutiva della persona, è un grandissimo alleato del Vangelo”, perché “l’esperienza che facciamo del limite ci dice che abbiamo bisogno degli altri, che non possiamo vivere chiusi in noi stessi, ma solo andando incontro con fiducia al dono fatto di noi stessi agli altri. Io – ha detto il card. Bagnasco – ho molta fiducia nel bisogno di fiducia. Chi ha paura di perdere la vita e la trattiene, la perderà davvero. Chi la dona, invece, la troverà”. Di qui “il passaggio dagli altri all’Altro, l’unico che può riempire il cuore umano, piccolo ma creato per l’infinto. L’uomo, d’altra parte, è una creatura di confine, tra terra e cielo, tempo ed eterno”.

Un’antropologia integrale. Il card. Bagnasco ha riservato una riflessione anche all’impegno dei cattolici: “Quanto più politica, economia e finanza segnano difficoltà e scandali, tanto più il cattolico non si può ritirare, anzi è chiamato in causa. Il suo è un dovere: ciascuno, secondo la propria vocazione e capacità, deve partecipare al bene pubblico. Non certo per voglia di potere, ma per servire al bene comune, non per imporre legislazione di fede ma in nome di un’antropologia integrale, che scopriamo alla luce del Vangelo ma non prescinde dall’uso della ragione”.

Come la luna. “Trasparenza” e “credibilità” sono state, infine, le parole che il card. Bagnasco ha indicato in risposta agli scandali che possono coinvolgere la Chiesa: “Il Santo Padre ci indica continuamente la via della trasparenza”, e “la credibilità è un desiderio che dobbiamo avere per Lui, il Signore. ‘La Chiesa è come la luna, che riflette la luce del sole’, diceva Sant’Ambrogio. Dobbiamo pensare ad essere credibili e fedeli”.

Dal Convegno CEI: “Famiglia, lavoro, festa.. tre doni”

Famiglia, lavoro, festa: realtà, anzi “doni” che devono trovare un loro equilibrio per una vita dignitosa. Il tema è stato posto all’ordine del giorno ieri, nella seconda giornata del convegno nazionale dei direttori diocesani della pastorale sociale, in corso a Bari (dal 25 al 28) per iniziativa dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro.

L’autunno e le radici. “Coniugare fede e vita, la Bibbia con il giornale” è l’indicazione “pastorale” data da mons. Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro. L’arcivescovo ha evidenziato il bisogno di un “ritorno alla fede e all’etica”. Il nostro tempo, ha osservato mons. Bregantini, può essere paragonato alla stagione autunnale, nella quale cadono le foglie, “ma l’albero non muore se mantiene le sue radici”. L’autunno è anche il tempo della semina, “momento per essere intraprendenti e consapevoli”. In questa realtà come porre i tre “doni di Dio”: famiglia, lavoro e festa?

“La famiglia – ha risposto il presule – non può essere concepita senza gli altri due doni, che vanno visti come due grandi ali, dove lavoro è sinonimo di dignità mentre festa di gratuità, e per poter volare servono entrambi”. “Famiglia, lavoro e festa non possono essere lasciate a se stesse, richiedono un lavoro pastorale fiducioso e propositivo”, ha precisato mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Acerenza e segretario della medesima Commissione Cei.

Vera Negri Zamagni, docente di storia economica all’Università di Bologna, ha ricordato come “attraverso il lavoro le persone partecipino all’attività creatrice di Dio”, annotando però che “il lavoro è un diritto molto particolare”, per il quale “non basta una legislazione”.

Nel tempo e nello spazio. Per Francesco Belletti, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, “famiglia e lavoro vanno considerati come due alleati, due luoghi nei quali si costruisce il concetto di adulto e, in particolare, di adulto educato alla fede”. “Quando si parla di famiglia e lavoro – ha sottolineato – imprescindibile è l’inserimento nel tempo e nello spazio”. Il tempo, perché “le società devono pensare prima di tutto per generazioni, avendo come primo obiettivo un progetto sociale ambizioso”. “Per esempio – ha precisato – alcune grandi aziende hanno proposto d’inserire un part-time per le persone prossime alla pensione, agevolando così l’assunzione dei giovani”. Ma anche considerare il tempo in relazione all’agenda quotidiana, “permettendo di armonizzare il lavoro con le esigenze della famiglia”.

Poi lo spazio, che va visto – ha rilevato il presidente del Forum – come l’insieme di “luoghi relazionali”, poiché “le persone si riconoscono nei luoghi che frequentano”. Ed è per questo che, a suo avviso, andrebbe rilanciato il concetto di “localismo”, visto però non in maniera “competitiva e conflittuale, ma finalizzato alla costruzione del bene comune”.

Famiglie sempre più povere. Andando ad analizzare, dati alla mano, il rapporto tra distribuzione del reddito e famiglie, l’economista Luigi Campiglio ha rilevato che “la riduzione del reddito familiare è oggi uno dei problemi più delicati e sensibili per la ripresa economica del Paese”. Il “reddito disponibile per le famiglie – ha illustrato Campiglio – è in diminuzione già dal 2002”; nel 2010 “il 20% delle famiglie con redditi elevati ha generato il 64% del risparmio”, mentre “la quota d’indebitamento è aumentata”. “Il fatto che la famiglia non venga considerata un centro di decisione economica per la spesa – ha precisato – è un errore gravissimo perché depotenzia ogni politica economica, che pensa ai singoli individui quando a decidere è proprio la famiglia”. D’altra parte, pure la situazione giovanile è “sofferente” già da prima della crisi, come ha notato Carlo Dell’Aringa (docente di economia politica alla Cattolica) e il rischio è “che le situazioni s’incancreniscano”, creando nei giovani “ferite che difficilmente si rimarginano”.

Il valore della maternità. Sul dato demografico si è concentrata Barbara Imperatori, docente di economia aziendale all’Università Cattolica, che ha sottolineato il basso tasso di occupazione femminile del nostro Paese. “Purtroppo in Italia ben il 76% dei top manager percepisce la maternità come un inconveniente, con un relativo aumento dei costi e una diminuzione della produttività”. Non a caso sono sempre di più le donne che abbandonano il lavoro dopo una gravidanza, mentre coloro che restano rilevano un forte grado di conflittualità interna. Sulla base di un progetto di ricerca portato avanti da Imperatori emerge però che, in realtà, la maternità può essere un’opportunità per l’azienda più che un limite, ma questo implica “una rieducazione del datore di lavoro e del sistema aziendale”. “Se le future madri si sentono supportate dai loro capi e possono contare su un dialogo trasparente e costruttivo i costi si abbassano notevolmente”.

Torna quindi, il concetto di “flessibilità”, più volte emerso nel corso di queste giornate, secondo il quale “bisogna tener conto anche delle esigenze dei lavoratori, superando i rapporti conflittuali in favore di alleanze costruttive”.

a cura di Nike Giurlani e Francesco Rossi, inviati Sir a Bari

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio-Anno B

Prima lettura: Geremia 31,7-9

 

  Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».      

 Il piccolo brano di questa lettura è inserito nella raccolta degli oracoli di restaurazione composti in varie epoche dal profeta Geremia (30,2s), profeta di «distruzione», ma anche di «edificazione» (1,10). Dopo aver annunziato in generale l’estrema rovina del suo popolo e il cambiamento di sorte del «resto» di Giacobbe (30,1-22), in 31,1-6 viene espressa la somma gioia del Padre d’Israele e del suo portavoce nel contemplare il viaggio del ritorno in patria degli Israeliti: è l’aver trovato grazia agli occhi del Signore, aver esperimentato l’immensa pietà («amore eterno… e compassione», 31,3) del Dio dei padri. Segue la descrizione festosa del rientro in Palestina sulle labbra dello stesso Signore:

     v. 7: dice il Signore: «innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate». È un invito a tutta l’assemblea dei credenti a godere per le meraviglie operate dall’Altissimo (Sal 96.97), e precisamente per la salvezza del «resto» d’Israele, il prediletto tra i popoli («la prima delle nazioni»): l’intera ricostituzione di quella stirpe, a cui è stata fatta una promessa eterna; di questa Dio si è ricordato nel tempo della loro sventura, quando erano ormai ridotti a un piccolo numero (Is 41,13-20).

     v. 8: «Ecco, li riconduco… dalle estremità della terra». L’onnipotenza divina non conosce limiti di spazio, né difficoltà di itinerari: li raggiungerà dovunque si trovino e guiderà verso il loro paese, compresi zoppi e infermi, esattamente come ha già fatto con i loro antenati attraverso il deserto del Sinai (Is 40,10), «portando gli agnellini sul petto e conducendo pian piano le pecore madri» (Is 40,11).

     v. 9: «li riporterò tra le consolazioni… io sono un padre per Israele». Dopo il pianto, li attende ora una grande consolazione, dopo l’oppressione della schiavitù, l’abbondanza dei beni nella loro terra preparata da secoli da JHWH, «scorrente latte e miele (Es 3,8) e fiumi d’acqua». La motivazione: Dio è un vero Padre, pieno di tenerezza, che non potrà mai dimenticare il suo primogenito: «ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (31,3; Os 11,8).

     Viene così esaltata sia l’assoluta potenza del Dio d’Israele dinanzi a cui non c’è alcuna barriera, sia la sua fedeltà ai disegni d’amore manifestati ai patriarchi del popolo eletto. È un sovrano pietoso di cui tutte le creature si possono fidare, sempre pronto a intervenire a favore di chi riconosce la sua infinita benevolenza paterna. Lo confermerà splendidamente il Maestro divino Gesù (Mt 6,25-34).

 

Seconda lettura: Ebrei 5,1-6 

 

 Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek». 

 L’autore della lettera sta presentando Gesù nella sua missione di Salvatore dell’umanità, in quanto si è fatto partecipe e solidale della nostra natura (2,14-17). Da qui la designazione di nostro mediatore di pace, espiatore di tutte le nostre colpe e nostro sommo Sacerdote presso il trono dell’Altissimo (2,14-17). Si continua poi a elencare le sue prerogative di fedeltà, di misericordia, di efficacia (fino a tutto il c. 10).

     In 5,1-10 abbiamo la precisa definizione del sacerdozio di Cristo.

     v. 1: «Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini». Anzitutto una definizione basilare, applicabile a ogni tipo di mediatore sacro fra gli uomini e la Divinità: essere presi dal gruppo dei propri simili e designati nell’ambito delle realtà religiose, col compito di offrire doni graditi al Signore supremo e sacrifici di animali in riparazione delle offese fatte alla maestà divina. Proprio ciò che si era realizzato nell’ordinamento levitico del popolo ebreo: consacrazione dei figli di Levi al servizio del culto e per la presentazione delle offerte sull’altare di JHWH (Es 28.29; Lv 2.4).

     v. 2: «Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli…». In secondo luogo saranno dotati di compassione, cioè di comprensione e misericordia verso la debolezza dei propri fratelli, in quanto anch’essi partecipi dei loro limiti e delle loro manchevolezze, sia pure per mancanza di piena cognizione del male compiuto («ignoranza») e per cui saranno tenuti a offrire espiazione anche per se stessi (Lv 9,7).

     v. 4: «Nessuno attribuisce a se stesso questo onore». In terzo luogo occorre che la designazione a quell’ufficio provenga dall’alto. Nessuno può presumere di avere il singolare compito di accostarsi al trono del Dio tre volte santo per attirare sugli altri le divine compiacenze. Solo Lui può conferire questo onore a chi vuole: così è stato per Aronne (Es 28,1), così sarà per i primi rappresentanti di Cristo (Gv 3,27:15,16); chi se ne è arrogato il diritto è stato radiato dal suo cospetto (Nm 16;1 Re 13,1-5).

     v. 5: «Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote». Cristo è sommo sacerdote perché così l’ha solennemente dichiarato JHWH, conferendogli la sua somma compiacenza: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2,7), «in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Nato da donna (Gal 4,4) e insieme consostanziale al Padre, partecipe della natura umana e della divina, è già costituito supremo mediatore fra l’umanità e la Divinità per la sua perfetta solidarietà con l’uomo e la sua unione ipostatica col Verbo. Così è stato confermato con un altro oracolo divino: «tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek» (Sal 110,4). Al cap. 7 della nostra Lettera verrà spiegata la superiorità nel tempo e nel valore del sacerdozio di Mechisedek (che si presenta nella Genesi senza genealogia e ereditarietà umana) nei confronti del sacerdozio levitico (iniziato nel tempo e ereditario), e di conseguenza viene esaltata la sublimità e perennità del Sacerdozio di Cristo, evidentemente designato dall’Altissimo, indefettibile e efficacissimo.

     In conclusione in Cristo Gesù abbiamo un Mediatore sommo e universale: santissimo, che non ha avuto bisogno di offrire espiazione per sé, dotato di immensa pietà e solidarietà per i suoi fratelli, che ha lavato i peccati di tutti col suo sangue divino, che penetra i cieli fino al trono dell’Eterno e può ottenerci ogni benedizione e salvarci da ogni male.

 Vangelo: Marco 10,46-52 

 

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. 

 Esegesi

 L’episodio della guarigione del cieco di Gerico, nel II Vangelo, fa da cerniera tra la sezione dell’ultimo tratto di viaggio di Gesù verso Gerusalemme (10,34-45), e la sezione dell’ingresso trionfale del re davidico nella città santa. La prima si chiude con l’incomprensione dei discepoli dopo l’annunzio della passione; e la seconda inizia con l’aperta acclamazione messianica del figlio di David (11,1-11.27-33). Il racconto sembra orientato verso la piena adesione al Salvatore divino nella sua più alta manifestazione.

      v. 46: «mentre Gesù partiva da Gèrico». Gesù scendendo dalla Transgiordania è di passaggio a Gerico, diretto verso Gerusalemme (a circa 30 Km), per celebrarvi la sua ultima Pasqua e il suo supremo sacrificio. Con lui ci sono i suoi discepoli e una folla di persone, probabilmente suoi seguaci e pellegrini. All’uscita della città, sul ciglio della strada si trova un cieco mendicante. Parte del suo mantello pare gli stia disteso accanto per ricevervi le elemosine dei pii giudei, più abbondanti in quei giorni sacri; tale posizione del mendicante, ci sembra, risulti dalla duplice «lezione» del v. 50: apobalòn «gettando» (il mantello) e epibalòn «rimettendolo» (sulle spalle). Il nome di Bartimeo viene riportato in questo racconto solo da Mc (cf. Lc 18,35; Mt 20,30): quando si scriveva il II Vangelo, l’uomo doveva essere ben noto nella primitiva comunità di Gerusalemme.

 v. 47: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare». Dal brusio di tanta gente avrà percepito che lì in mezzo c’era proprio il famoso Gesù di Nazaret, di cui certamente aveva sentito meraviglie. Gli si desta una grande speranza, e con tutta la forza della sua voce comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Il titolo rivolto al Rabbì di Galilea, quanto al Vangelo di Mc, lo si trova soltanto qui: evocava le attese nazionalistico-messianiche del popolo ebreo; in Mc 12,35 viene riportato come affermazione degli scribi. Ma Bartimeo l’avrà inteso in un senso più ampio, come di colui che aveva grandi poteri e portava ogni liberazione e guarigione.

      v. 48: «Molti lo rimproveravano perché tacesse». La folla cerca di zittire l’importuno, come i discepoli avrebbero voluto fare con la donna cananea (Mt 15,23) e per i bambini che andavano incontro a Gesù (Mc 10,13). Quell’uomo però non desiste: ha nel cuore una ferma fiducia nella bontà del mite Rabbì nazareno e grida più forte che può… È l’insistenza nel pregare, che tanto raccomandava il Maestro divino (Lc 11,5-9; 18,1-8). Lui infatti, mentre in simili circostanze ha cercato di imporre il silenzio alle acclamazioni degli astanti (Mc 7,36), adesso interviene per dare ascolto a quella accorata implorazione.

      v. 49: «Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Vi ha incontrato qualcosa di speciale. La stessa folla cambia atteggiamento: tutti presentono che si è dinanzi a qualcosa di nuovo, se lui si è fermato per parlare al mendicante: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».

      v. 50: «gettato via il suo mantello, balzò in piedi». L’ha compreso anche lui e si alza, abbandonando mantello e eventuali offerte dei pellegrini, per correre ormai verso la sua salvezza: la sente già nell’intimo del suo cuore! Non ha bisogno di altro.

      v. 51: «Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Ai piedi del Maestro, non grida più. Lui gli da l’opportunità di esprimere chiaramente l’oggetto della sua richiesta. Non si tratta di ottenere un aiuto qualsiasi, ma di raggiungere quel che da nessun essere puramente umano era possibile avere: la luce dei suoi occhi spenti. «Rabbunì, che io veda di nuovo!» Rabbunì («mio buon Signore») ha qualcosa di più affettuoso e vivo del semplice Rabbì, come quello pronunziato dalla Maddalena, quando riconobbe all’improvviso il suo amato Maestro (Gv 20,16): un riferimento all’insondabile pietà del Figlio di David!

      v. 52: «Va’, la tua fede ti ha salvato… e lo seguiva lungo la strada». La fede di quel povero cieco ha raggiunto il più alto grado, richiesto e sollecitato spesso dal divin Maestro: un abbandono sincero nella trascendente bontà e potenza dell’Unto di JHWH. Il quale, commosso come in casi analoghi, semplicemente risponde con una sola parola: «la tua fede ti ha salvato», conferendogli il dono più grande, che egli stesso desiderava elargire a tutti (Lc 19,9s; Gv 3,17): non la semplice guarigione di un organo corporale, ma la completa restaurazione della persona: «venite a me, e io vi ristorerò» (Mt 11,28); un nuovo rapporto di shalom, pace e armonia, con Dio e con tutto ciò che ci circonda (Mc 5,34; Lc 7,50; 17,19). «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (v. 52b). Così Bartimeo non rimase più a Gerico, la lussuosa città degli Erodiadi, ad attendere l’elemosina, ma da quel giorno si mise a seguire la comunità del Maestro divino, conquistato dal suo immenso amore, verso Gerusalemme, la città della sua morte redentrice e della sua gloriosa risurrezione.

      Il cammino del cieco di Gerico verso la vera luce si presenta come un esemplare itinerario per chi dalla tristezza di un’esistenza opaca e senza avvenire vuole pervenire al traguardo della vera vita. Saper percepire la salutare presenza di chi ci passa accanto, il calore del Sole divino che ci illumina; lasciare salire verso di Lui l’anelito della propria anima, implorare incessantemente finché ci avvenga di essere toccati dall’esperienza viva del suo splendore e della sua infinita benevolenza. 

Meditazione 

Marco, che ci ha accompagnato nelle domeniche di questo anno, ci fa incontrare oggi il Signore nella sua ultima tappa prima di entrare in Gerusalemme. Abbiamo visto lungo il cammino il clima nuovo, quasi di festa, che Gesù creava tra la gente delle città e dei villaggi ove pas­sava. In tanti accorrevano a lui, soprattutto i deboli, i poveri, i lebbro­si, i malati. Tutti desideravano avvicinarlo, toccarlo, parlargli; volevano da lui pace e felicità per la loro vita. E Gesù li accoglieva tutti. Ad un mondo fatto di adulti che amano nascondere la propria debolezza a se stessi e agli altri, Gesù insegna il contrario. Per gli uomini è norma­le giudicare, pretendere, rivendicare piuttosto che chiedere e doman­dare aiuto; come pure è molto più normale condannare piuttosto che perdonare. Il Signore instaura un altro clima tra gli uomini, un clima di fiducia; anche i più lontani e i più disprezzati possono avvicinarsi a lui e invocare guarigione e salvezza. Anzi, con il suo comportamento di fatto li esortava a rivolgersi a lui con fede. La richiesta fatta con fede era l’unica cosa che pretendeva. E il motivo era profondo: la preghie­ra fatta con fede apre sempre il cuore ad un modo diverso di vivere. La si apprende però solo quando si è poveri o ci si accorge di essere tali. Lo aveva capito Bartimeo che mendicava alla porta di Gerico. Come tutti i ciechi, anche lui è rivestito di debolezza. Ai ciechi non restava altro che mendicare, aggiungendo così alla cecità la dipenden­za totale dagli altri. Nei Vangeli sono come l’immagine della povertà e della debolezza.

Bartimeo, come Lazzaro, come tanti altri vicini e lontani da noi, giacciono alle porte della vita in attesa di qualche conforto. Eppure Bartimeo è esempio per ognuno di noi, esempio del credente che chie­de e che prega. Attorno a lui tutto è buio; non vede chi passa, non riconosce chi gli sta vicino, non distingue né i volti né gli atteggiamen­ti. Ma quel giorno fu diverso. Sentì il rumore della folla che si avvicina­va. E nel buio della sua vita e delle sue percezioni, intuì una presenza: ha «sentito che era Gesù Nazareno…», nota l’evangelista. Ebbe la sensazione che quel giovane profeta non era come tanti altri che gli erano passati vicino sino a quel momento. E quanti ne aveva sentiti passare in anni e anni di mendicità! A quanti aveva teso la mano, a quanti aveva chiesto aiuto, quanti aveva sentito passare vicini e poi progressivamen­te allontanarsi! E l’esperienza del non vedere, ma è anche l’esperienza dell’elemosina, dell’incontro di un attimo e poi di tutta la distanza che viene posta tra chi è ricco e chi mendica, tra chi vede e chi è cieco. Bartimeo è un uomo costretto a chiedere per l’assenza di ogni altra risorsa. È un mendicante; e non può fare altro che chiedere. Alla noti­zia di quel passaggio comincia a gridare: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È una invocazione molto povera. Non è un parlare abile, come ad esempio fece l’uomo ricco che osservava i comandamenti sin dalla giovinezza e che si rivolse a Gesù chiamandolo «buono». Qui l’invocazione è semplice e assieme drammatica. Quel cieco non ha null’altro che il grido; è l’unico modo per superare il buio e le distan­ze che non riusciva a misurare. Nel Primo Testamento il grido è quello del povero che si rivolge a Dio per ottenere giustizia e salvezza, come Israele in Egitto (cfr. Es 2,23). Quel grido però non piaceva alla folla, tanto che tutti, «lo rimproveravano», sottolinea l’evangelista, cercando di farlo tacere. Era un urlo sconveniente, un grido scomposto e comunque esagerato, come spesso accade ai poveri; rischiava inoltre di disturbare anche quel felice incontro tra Gesù e la folla della città. In tutta la sua presunta ragionevolezza era una logica spietata; non solo lo sgridavano; volevano farlo tacere. Quel cieco non aveva nulla a che fare con la vita di quella città. Gli era permesso mendicare, ma senza scon­volgere i ritmi ordinari e abituali della città. E per quella folla compo­sta di uomini che si credevano sani e di non dover nulla a nessuno era facile incutere timore e terrore a un povero mendicante che dipende­va in tutto da loro. Ma la presenza di Gesù fece superare ogni timore. Bartimeo sentì che la sua vita poteva cambiare totalmente da quell’in­contro. E con voce ancora più forte gridò ancora: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È la preghiera dei piccoli, dei poveri che giorno e notte, senza sosta, perché continuo è il loro bisogno, si rivolgono al Signore; è l’invocazione dei deboli che hanno ricevuto la notizia del suo passaggio e ripongono in lui la loro speranza. Gesù non è sordo al grido dei deboli. Gesù, udito quell’urlo di aiuto, si fermò. È come il buon samaritano che non passa oltre, come fecero il sacerdote e il levita, e come la folla vorrebbe che Gesù facesse. Al contrario, Gesù si fermò e rispose al grido di Bartimeo.

La risposta inizia con una chiamata: «Gesù si fermò e disse: chiama­telo! Chiamarono il cieco dicendogli: coraggio! Alzati, ti chiama!». È sempre il Signore che chiama, ma si serve di altri uomini, della loro parola. Essi si avvicinano a noi e ci incoraggiano ad incontrare Gesù, anzi ci portano a lui. Ma poi l’incontro con il Signore è sempre perso­nale, richiede un colloquio diretto, familiare, come quello di un figlio che si rivolge fiducioso al padre. Bartimeo appena sentì che Gesù vole­va vederlo, gettò via il mantello e corse verso di lui. Gettò via quel mantello che da anni lo copriva, era forse l’unico riparo contro il freddo agghiacciante degli inverni e soprattutto dei cuori induriti della folla. Non serviva più coprire la sua povertà, non aveva più biso­gno di quel riparo, perché aveva sentito che il Signore lo chiamava. Balzò in piedi e andò di corsa da Gesù. Correva anche se non vedeva; in verità «vedeva» molto più profondamente di tutta quella folla. Sentì la voce di Gesù e andò verso quella voce. Era solo una voce, ma era l’unica che finalmente lo chiamava per accoglierlo. Era diversa dal mormorio e dalle parole grosse della folla che voleva farlo tacere. Quella voce, quella parola, era per lui un nuovo punto di riferimento, a tal punto saldo, da permettergli di correre, mentre era ancora cieco, senza alcun sostegno. Bartimeo seguì quella voce e incontrò il Signore. Così accade per chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. L’ascolto della Parola di Dio non conduce verso il vuoto, non porta verso un immaginario psicologico; l’ascolto conduce all’incontro per­sonale con il Signore. Così è avvenuto per Bartimeo. È Gesù che inizia a parlare, quasi a prolungare la chiamata che gli aveva fatto. È davvero diverso da tutti coloro che sino ad allora aveva incontrato. Gesù non getta nelle sue mani qualche spicciolo, pur necessario, per poi andare via. No, si ferma, gli parla, mostra interesse per lui e la sua condizione e gli chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Bartimeo, senza frapporre tempo e parole inutili, così come prima aveva pregato con semplicità, gli dice: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». Sa che è il momento dell’incontro, il momento del passaggio, quello che può trasformare radicalmente tutta la sua vita. Non divaga e tanto meno mente; gli chiede la cosa che più conta per lui, la vista. Potrebbe sem­brare una richiesta non nobile. Ma ciò che conta per il Signore è che il cieco si rivolga a lui con fede. Bartimeo ha riconosciuto la luce pur senza vederla. Per questo ha riavuto subito la vista. «Va’, la tua fede ti ha salvato!», gli dice Gesù. Da quel momento Bartimeo non mendica più lungo la via di Gerico, ma prende a seguire Gesù lungo le vie del mondo. Era diventato discepolo, subito, senza indugio, perché aveva cominciato a vedere.

Si conclude così il capitolo 10, questa sezione iniziata con la molti­plicazione dei pani al capitolo 6, in cui Gesù aveva rimproverato i disce­poli incapaci di riconoscerlo come il pane di vita: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? (8,18). Ci vollero due ciechi (8,22-26 e Bartimeo) e un sordomuto (7,31-37) perché i discepoli potessero almeno cominciare a porsi la domanda sull’ascoltare e sul vedere, percapire. Si dovrà forse ricostituire quel popolo, di cui fanno parte «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente», che il profeta Geremia ha annunciato, per poter anche noi vedere e riconoscere la salvezza che viene dal Signore. Lui, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, è venuto a salvarci perché tutti siamo mendicanti del suo amore, come Bartimeo. 

Preghiere e racconti

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

 

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro? 

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

 

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova? 

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata? 

 

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore

«Il comandamento del Signore è limpido, da luce agli occhi» (Sal 18 [19] ,9). Accogli Cristo, accogli la facoltà di vedere, accogli la tua luce perché tu conosca bene Dio e l’uomo. Il Verbo che ci ha illuminati è «più prezioso dell’oro e delle pietre preziose; desiderabile più del miele e del favo» (Sal 18 [19],11). Come può, infatti, non essere desiderabile colui che ha dato luce alla mente ottenebrata e ha aperto gli occhi dell’anima portatori di luce? […] Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore. Questo è ciò che egli ha promesso al Padre: «Racconterò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (Sal 21 [22] ,23). Loda e proclama tuo padre, Dio; le tue parole mi salveranno, il tuo canto mi istruirà. Fino a ora ho errato nella speranza di trovare Dio, ma poiché tu mi illumini, Signore, trovo Dio per mezzo di te, e ricevo il Padre da te, divengo tuo coerede, poiché non ti sei vergognato di avermi come fratello (cfr. Eb 2,11). Cancelliamo, dunque, cancelliamo l’oblio della verità, l’ignoranza e, rimuovendo le tenebre che ci impediscono la vista come nebbia per gli occhi, contempliamo il vero Dio, acclamandolo innanzitutto con queste parole: «Rallegrati, luce»; poiché una luce dal cielo brillò su di noi sepolti nelle tenebre e prigionieri nell’ombra di morte (cfr. Is 9,1; Mt 4,16; Lc 1,79), più pura del sole, più dolce della vita terrena. Questa luce è la vita eterna e tutto quanto partecipa di essa vive, ma la notte teme la luce e, nascondendosi per la paura, lascia il posto al giorno del Signore; l’universo è diventato luce insonne e l’occidente si è trasformato in oriente. Ecco che cosa significa la nuova creazione (cfr. Gal 6,15). Poiché il sole di giustizia (cfr. Ml 3,20), che cavalca l’universo, percorre tutto il genere umano imitando il Padre che fa sorgere il suo sole su tutti gli uomini (cfr. Mt 5,45) e su di essi sparge la rugiada della verità. Egli ha trasformato l’oriente in occidente crocifiggendo la morte e trasformandola in vita. Ha strappato l’uomo dalla rovina e l’ha stabilito nel cielo, tramutando la corruzione in incorruttibilità e trasformando la terra in cielo.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Esortazione ai greci 11,114-115, in Id., Protreptico ai greci, Torino 1940, pp. 231.233.235).

La fede ha un senso?

Spesso nella quotidianità sperimentiamo di non poter fare affidamento sugli altri. Uno ci ha giurato eterna fiducia, e tuttavia ci lascia. Un altro sembra essere solido e avere una posizione certa, ma poi si lascia coinvolgere in scandali. I politici si orientano secondo il vento che tira. Proprio in questa situazione è importante non reagire in modo cinico, ironico o addirittura con rassegnazione. Continuano a esserci persone sulle quali si può fare davvero affidamento, che non promettono troppo, che sono sincere e contem­poraneamente fedeli. E c’è un fondamento ultimo della mia vita, sul quale posso fare affidamento: persino quando ab­bandono me stesso, perché non riesco più a sopportarmi, Dio non mi abbandona.

Per i bambini è particolarmente importante l’affidabili­tà. Per loro è importante potersi fidare e credere che il loro angelo non li abbandona, anche se i genitori li abbandona­no; che il loro angelo è con loro e li sostiene, anche là dove non riescono più a farlo loro stessi. Una fiducia così pro­fonda fa in modo che loro tengano fede a se stessi e che possano sviluppare la propria personalità. Solo una fiducia del genere dà loro solidità in mezzo a un mondo insicuro.[…]

L’esperienza mostra che nessuno può vivere senza fiducia. Persino chi è stato continuamente deluso dagli altri, desidera intensamente avere persone di cui ci si può fidare. Ha dentro di sé la sensazione di aver bisogno di questa fiducia per avere un punto fermo in questo mondo. E se gli altri lo deludono continuamente, allora cerca un altro soste­gno. Anche la fiducia in Dio normalmente ha bisogno del­l’esperienza della fiducia umana. Ma si fa anche esperien­za che la mancanza di fiducia umana ci porta a porre la nostra fiducia in Dio. Ciascuno ha in sé il desiderio inten­so di potersi fidare. E nel desiderio intenso di fiducia si pre­senta già l’inizio della fiducia in noi.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 80-81).

 

Quale sicurezza offre la fede?

Un aspetto ulteriore della fede non punta al sapere e all’interpretazione, ma all’atteggiamento. Credo a qualcuno. Fede è fiducia in una persona. Anche se questa fiducia, in ultima analisi, ritiene che Dio sia il sostegno vero e proprio della nostra vita, per molti non è possibile confidare in Dio, che appare così lontano. E tuttavia, si sentono in qualche modo sostenuti. Dietrich Bonhoeffer, nella famosa poesia composta prima di venire ucciso in campo di concentramento, ha parlato delle forze amiche che ci sostengono: “Da forze amiche meravigliosamente avvolti, attendiamo consolati quello che verrà. Dio è con noi di sera e di mattina, sarà con noi in ogni nuovo giorno”. A queste parole possono ricorrere anche coloro che hanno difficoltà a riconoscere Dio come il fondamento della loro fiducia.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 84).

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce. 

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole).

 

Preghiera

 Io sono venuto

in questo mondo

perché coloro

che non vedono

vedano e quelli

che vedono

diventino ciechi. 

Apri i miei occhi, Signore,

alle meraviglie del tuo amore.

Io sono cieco sulla strada.

Guariscimi: voglio vederti.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

“Camminare verso la 47ª Settimana Sociale”

Il Seminario nazionale sul tema “Camminare verso la 47ª Settimana Sociale” si svolgerà a Bari il 27 ottobre 2012 nel contesto del Convegno nazionale dei direttori degli Uffici di pastorale sociale sul tema “Educare gli adulti alla fede… per la famiglia, il lavoro e la festa” (Bari dal 25-28 ottobre 2012).

Siamo chiamati a vivere le relazioni nella famiglia, abitare il mondo nel lavoro, umanizzare il tempo nella festa, per incamminarci più speditamente verso la 47ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che approfondirà il tema della famiglia come speranza e futuro per il Paese e si svolgerà a Torino (12-15 settembre 2013).    

Programma  

Scheda iscrizione

Educare gli adulti alla fede… per la famiglia, il lavoro e la festa

Si svolge dal pomeriggio del 25 fino a domenica 28 ottobre a Bari, presso l’Hotel Parco dei Principi (prol.to viale Europa, 6), il Convegno nazionale dei direttori degli Uffici di pastorale sociale sul tema “Educare gli adulti alla fede… per la famiglia, il lavoro e la festa”.

L’appuntamento si colloca nel solco del VII Incontro mondiale delle famiglie (La famiglia, il lavoro e la festa – Milano 30 maggio – 3 giugno 2012) ed in preparazione alla 47ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che approfondirà il tema della famiglia e si svolgerà a Torino (12-15 settembre 2013). I lavori saranno aperti da mons. Angelo Casile, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro. «Siamo chiamati – ricorda mons. Casile – a vivere le relazioni nella famiglia, abitare il mondo nel lavoro, umanizzare il tempo nella festa, per incamminarci più speditamente verso la 47ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che approfondirà proprio il tema della famiglia». Sarà poi il vescovo Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, a dare il via alle relazioni con l’intervento dal titolo “Educare alla fede”.

Dopo di lui mons. Francesco Cacucci, arcivescovo di Bari e presidente della Conferenza episcopale pugliese, prenderà la parola su “Educare alla fede per la famiglia, il lavoro e la festa”, ed Enrico Giovannini, presidente dell’Istat, interverrà su “La famiglia, i giovani e il lavoro in Italia”.

Il mattino seguente a partire dalle ore 10.00 sono previsti gli interventi di mons. Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso – Boiano e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace (“Famiglia, lavoro, festa: tre doni di Dio, un armonico equilibrio”) e di Vera Negri, professore di Storia economica all’università di Bologna (“Armonizzare i tempi della famiglia e del lavoro”).

Nel pomeriggio, dopo la relazione di Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari, su “Riforma del lavoro: opportunità per la famiglia?”, alle ore 18.00 è in programma una tavola rotonda sulla riforma del lavoro, cui contribuiranno Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica (“La distribuzione del reddito e la famiglia”), Barbara Imperatori, professore associato di Economia aziendale alla Cattolica (“La maternità tra lavoro e festa”), Carlo Dell’Aringa, professore di Economia politica alla Cattolica (“I giovani e fiducia nel futuro”). Sabato 27 a partire dalle ore 10.00 mons. Arrigo Miglio, arcivescovo di Cagliari e presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali, farà il punto sulla preparazione alla 47ª Settimana Sociale, lasciando poi spazio ad una serie di laboratori tematici coordinati dal Comitato: “Famiglia e libertà educativa”, “Città e famiglia: l’abitare”, “Famiglia e welfare”, “Famiglia e fisco”, “Famiglia e impresa-lavoro”.

I laboratori si protrarranno anche nel corso del pomeriggio, finché alle ore 18.00 i frutti del lavoro per gruppi verranno condivisi in assemblea. Interverranno poi Edoardo Patriarca, Segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali e, in conclusione, ancora mons. Casile. Domenica alle ore 8.00 nella Cattedrale di San Sabino S.E. Mons. Francesco Cacucci presiederà la S. Messa conclusiva, cui seguirà una visita guidata della città di Bari.

“Generare la vita vince la crisi”

Messaggio per la 35° Giornata della Vita del 3/02/13

«Non è né giusto né sufficiente richiedere ulteriori sacrifici alle famiglie che, al contrario, necessitano di politiche di sostegno, anche nella direzione di un deciso alleggerimento fiscale».

Lo afferma il Consiglio Episcopale Permanente nel Messaggio per la 35ª Giornata Nazionale per la vita (13 febbraio 2013). I vescovi italiani, riaffermando che «il primato della persona non è stato avvilito dalla crisi» ricordano a tutti che «donare e generare la vita significa scegliere la via di un futuro sostenibile per un’Italia che si rinnova».
«Non si esce da questa fase critica generando meno figli o peggio ancora soffocando la vita con l’aborto – si legge ancora nel Messaggio -, bensì facendo forza sulla verità della persona umana, sulla logica della gratuità e sul dono grande e unico del trasmettere la vita, proprio in un una situazione di crisi».

“Generare la vita vince la crisi”

 «Al sopravvenire dell’attuale gravissima crisi economica, i clienti della nostra piccola azienda sono drasticamente diminuiti e quelli rimasti dilazionano sempre più i pagamenti. Ci sono giorni e notti nei quali viene da chiedersi come fare a non perdere la speranza».

In molti, nell’ascoltare la drammatica testimonianza presentata da due coniugi al Papa in occasione del VII Incontro Mondiale delle famiglie (Milano, 1-3 giugno 2012), non abbiamo faticato a riconoscervi la situazione di tante persone conosciute e a noi care, provate dall’assenza di prospettive sicure di lavoro e dal persistere di un forte senso di incertezza.

«In città la gente gira a testa bassa – confidavano ancora i due –; nessuno ha più fiducia di nessuno, manca la speranza».

Non ne è forse segno la grave difficoltà nel “fare famiglia”, a causa di condizioni di precarietà che influenzano la visione della vita e i rapporti interpersonali, suscitano inquietudine e portano a rimandare le scelte definitive e, quindi, la trasmissione della vita all’interno della coppia coniugale e della famiglia?

La crisi del lavoro aggrava così la crisi della natalità e accresce il preoccupante squilibrio demografico che sta toccando il nostro Paese: il progressivo invecchiamento della popolazione priva la società dell’insostituibile patrimonio che i figli rappresentano, crea difficoltà relative al mantenimento di attività lavorative e imprenditoriali importanti per il territorio e paralizza il sorgere di nuove iniziative.

A fronte di questa difficile situazione, avvertiamo che non è né giusto né sufficiente richiedere ulteriori sacrifici alle famiglie che, al contrario, necessitano di politiche di sostegno, anche nella direzione di un deciso alleggerimento fiscale.

Il momento che stiamo vivendo pone domande serie sullo stile di vita e sulla gerarchia di valori che emerge nella cultura diffusa. Abbiamo bisogno di riconfermare il valore fondamentale della vita, di riscoprire e tutelare le primarie relazioni tra le persone, in particolare quelle familiari, che hanno nella dinamica del dono il loro carattere peculiare e insostituibile per la crescita della persona e lo sviluppo della società: «Solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se stesso» (Benedetto XVI, Discorso alla 61a Assemblea Generale della CEI, 27 maggio 2010).

Quest’esperienza è alla radice della vita e porta a “essere prossimo”, a vivere la gratuità, a far festa insieme, educandosi a offrire qualcosa di noi stessi, il nostro tempo, la nostra compagnia e il nostro aiuto. Non per nulla San Giovanni può affermare che «noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14).

Troviamo traccia di tale amore vivificante sia nel contesto quotidiano che nelle situazioni straordinarie di bisogno, come è accaduto anche in occasione del terremoto che ha colpito le regioni del Nord Italia. Accanto al dispiegamento di sostegni e soccorsi, ha riscosso stupore e gratitudine la grande generosità e il cuore degli italiani che hanno saputo farsi vicini a chi soffriva. Molte persone sono state capaci di dare se stesse testimoniando, in forme diverse, «un Dio che non troneggia a distanza, ma entra nella nostra vita e nella nostra sofferenza» (Benedetto XVI, Discorso nel Teatro alla Scala di Milano, 1° giugno 2012).

In questa, come in tante altre circostanze, si riconferma il valore della persona e della vita umana, intangibile fin dal concepimento; il primato della persona, infatti, non è stato avvilito dalla crisi e dalla stretta economica. Al contrario, la fattiva solidarietà manifestata da tanti volontari ha mostrato una forza inimmaginabile.

Tutto questo ci sprona a promuovere una cultura della vita accogliente e solidale. Al riguardo, ci sono rimaste nel cuore le puntuali indicazioni con cui Benedetto XVI rispondeva alla coppia provata dalla crisi economica: «Le parole sono insufficienti… Che cosa possiamo fare noi? Io penso che forse gemellaggi tra città, tra famiglie, tra parrocchie potrebbero aiutare. Che realmente una famiglia assuma la responsabilità di aiutare un’altra famiglia» (Intervento alla Festa delle testimonianze al Parco di Bresso, 2 giugno 2012).

La logica del dono è la strada sulla quale si innesta il desiderio di generare la vita, l’anelito a fare famiglia in una prospettiva feconda, capace di andare all’origine – in contrasto con tendenze fuorvianti e demagogiche – della verità dell’esistere, dell’amare e del generare. La disponibilità a generare, ancora ben presente nella nostra cultura e nei giovani, è tutt’uno con la possibilità di crescita e di sviluppo: non si esce da questa fase critica generando meno figli o peggio ancora soffocando la vita con l’aborto, bensì facendo forza sulla verità della persona umana, sulla logica della gratuità e sul dono grande e unico del trasmettere la vita, proprio in un una situazione di crisi.

            Donare e generare la vita significa scegliere la via di un futuro sostenibile per un’Italia che si rinnova: è questa una scelta impegnativa ma possibile, che richiede alla politica una gerarchia di interventi e la decisione chiara di investire risorse sulla persona e sulla famiglia, credendo ancora che la vita vince, anche la crisi.

Roma, 7 ottobre 2012

Memoria della Beata Vergine del Rosario

 

                                                                                 Il Consiglio Permanente

                                                                     della Conferenza Episcopale Italiana

Una pastorale giovanile per la vita e la speranza dei giovani

di Riccardo Tonelli

Chi si interessa di pastorale giovanile con un poco di esperienza alle spalle, conosce certamente quello che è capitato, a livello mondiale, nell’ambito della educazione dei giovani alla fede.

Venivamo da stagioni sicure, ben strutturate, fortemente propositive. In fondo, il problema di cosa dire e di cosa fare… non c’era. Sapevamo bene quasi tutto e le difficoltà erano sempre scaricate sui destinatari. Era colpa dei giovani e della loro costitutiva fragilità o era colpa dei tempi, particolarmente difficili, o di qualche soggetto poco impegnato… se le cose non andavano per il verso giusto. Noi “responsabili” avevamo fatto tutto il possibile. E ci sentivamo abbastanza apposto.

Poi tutto è entrato in crisi, come per una folata improvvisa di vento che scombussola i fogli depositati in bell’ordine sul tavolo di lavoro.

Ne abbiamo provate tante, sotto tutti i profili. Spesso avevamo la benedi­zione dei nostri responsabili ufficiali. Qualche volta erano più le preoccupa­zioni che i sostegni.

Un poco alla volta, molte scelte fondamentali si sono consolidate. Sono diventate una specie di riferimento obbligato per coloro che riconoscevano come irrinunciabili determinate linee di azione, teologica ed educativa,. An­che i piccoli gesti e le intuizioni di un momento felice trovano ancoraggio e sostegno in queste motivazioni di fondo.

Alle prime generazioni, che avevano maturato un quadro rinnovato, nel­la fatica di una specie di rigenerazione culturale e prassica, sono subentrate generazioni nuove. Esse ignoravano il cammino precedente. Restavano facil­mente affascinate da modi di dire e di fare. Scavando un poco era facile ren­dersi conto quanto fosse fragile l’ancoraggio e la visione globale di certi modi di fare. Alla constatazione vanno aggiunte la diffusa soggettivizzazione anche culturale e il difficile riconoscimento del dono prezioso di altre esperienze… virtù tipiche di questa nostra stagione culturale.

Questa è una stagione fortunata. Ha però i suoi problemi, ci sono tensioni, ci sono modi assai diversi di affrontare la stessa questione. Ma innegabilmente l’attenzione attuale è alta e le realizzazioni preziose. Nessuno può guardare con nostalgia al passato, come se allora le cose andassero meglio di oggi. Siamo in una stagione felice e impegnativa per la pastorale giovanile. Tutto questo è bello e rende felice il compito di chi lavora nella pastorale giovanile.

Ci mettiamo a pensare e a progettare la pastorale giovanile in questo clima culturale. Lo dobbiamo conoscere e valutare per non restarne influenzati negativamente e soprattutto per progettare sapientemente. Lo so che sto raccontando l’esperienza dell’Italia, ma ho l’impressione che sia facilmente generalizzabile.

1.     Una prospettiva

Il primo compito, secondo il mio modo di pensare, consiste nella scelta di una prospettiva. Ogni istituzione, ogni gruppo, ogni operatore è chiamato a decidere la prospettiva in cui collocarsi: per la ricerca dei problemi da affrontare e per decidere quali risorse utilizzare e come intervenire per risolvere i problemi.

Un esempio può aiutare a spiegare meglio l’affermazione. Chi vuole fotografare un panorama molto ampio, prima di scattare la sua fotografia storica… deve decidere il punto in cui piazzare la sua macchina. La scelta è decisiva: la prospettiva influenza non poco il risultato dell’operazione.

In una stagione di pluralismo è importante mettere le mani avanti dichiarando la propria collocazione.

Questo primo compito sembra più teorico che pratico. Con le tante cose da fare può lasciare l’impressione del tempo perso. Lo considero però indispensabile e urgente (tutt’altro che tempo perso) e decisamente pratico (anche se per il momento sono… sospese tutte le azioni).

Faccio una proposta, suggerendo la prospettiva in cui mi riconosco e che, in questi lunghi anni di servizio alla pastorale giovanile, ho posto come riferimento fondamentale.

Con una battuta la chiamo quella di Pietro che risponde alle attese dello zoppo, incontrato alla Porta Bella del Tempio, raccontandogli la storia di Gesù, specialista nella guarigione degli zoppi e… lo zoppo guarisce e riconosce Gesù.

Mi spiego.

Gli “Atti degli Apostoli” (cap. 3 e 4) raccontano quello che ha combinato Pietro quando ha incontrato la mano tesa di un povero paralitico alla Porta Bella del Tempio e la sua difesa davanti al Sinedrio, quando gli è stato contestato quello che ha fatto, soprattutto a causa del disturbo dell’ordine pubblico, causato dal suo intervento. Dichiara, senza incertezze, che lo zoppo cammina perché tutti sappiano che Gesù è l’unico nome in cui è possibile avere la vita. Lo proclama davanti a coloro che l’avevo ucciso nel nome di Dio, ricordando che Dio l’ha resuscitato, per mostrare con i fatti dove si colloca il suo progetto.

Allo zoppo che chiede elemosina, Pietro parla di Gesù. E lo zoppo guarisce. Pietro non gli dà i pochi spiccioli che lo zoppo si attendeva per arrivare a sera. Gli dà molto di più: l’incontro con Gesù e la guarigione. Lo zoppo è rimasto felicissimo… di non essere stato esaudito. Nell’incontro con Gesù, annunciato da Pietro, ha cambiato la sua vita. Né lui né Pietro sono rimasti prigionieri della rete stretta di domanda e risposta.

Meditando l’esperienza di Pietro, rilancio una convinzione, che giustifica passione e impegno: l’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici, per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la causa del regno di Dio. Non può mai diventare un processo di proselitismo e nemmeno qualcosa che assomigli al bisogno di esternare i pregi della squadra per cui facciamo tifo. E’ sempre e solo un gesto di amore, totalmente gratuito e radicalmente decentrato verso gli altri.

Questo mi sembra oggi il punto di prospettiva, da riscoprire, approfondire, rilanciare.

2.     Tre compiti urgenti

La storia di Pietro fornisce la prospettiva in cui collocarsi per costruire un buon progetto di pastorale giovanile.

Non risolve nessun problema e non ci esime dalla fatica di pensare, progettare, lavorare. Se è presa sul serio, diventa però uno stimolo inquietante per un lavoro serio… da togliere il sonno e il respiro.

Da questa prospettiva io colgo tre compiti urgenti. Li consegno alla passione intelligente di chi mi ascolta.

Questi sono i tre compiti decisivi per un progetto di pastorale giovanile:

  1. individuare bene le sfide con cui siamo chiamati a misurarci. Con la battuta della prospettiva proposta: scoprire dove e come zoppicano i giovani, per non sbagliare terapia avendo sbagliato la diagnosi;
  2. selezionare le risorse di cui disponiamo (e sono ancora tante) per impegnarle in un preciso e concreto servizio educativo;
  3. riaffermare l’urgenza della evangelizzazione (nuova nell’ardore e nella qualità) per restituire al Vangelo il dono di essere ancora una “bella notizia” per la vita e la speranza di tutti, capace di far camminare gli zoppi.

Nello sviluppo di questi tre compiti urgenti nasce e si articola tutta la pastorale giovanile: il servizio della comunità ecclesiale verso i giovani per dare ad essi vita e speranza.

Li approfondisco suggerendo qualche interpretazione e qualche linea di azione… nel limite della mia sensibilità ed esperienza.

3.     Dove zoppicano i giovani

E’ indispensabile, prima di tutto, individuare i problemi “veri”.

Spesso i problemi che ci premono addosso sono problemi veri e reali.

Qualche volta, purtroppo, sono problemi falsi.

Possono essere falsi per differenti ragioni: o perché ce li siamo proprio inventati, forse per eccesso di zelo; o perché rappresentano qualcosa che non ha radici solide; o perché sono solo di una fetta di gente, alle prese con i propri problemi per non accorgersi di quelli gravissimi che attraversano l’esistenza dei più.

Ho ricordato che Pietro ha parlato di Gesù allo zoppo… raccontando certamente dei tanti interventi attraverso cui Gesù ha restituito vita alle gambe rattrappite degli zoppi che ha incontrato. Altre indicazioni… avrebbero lasciato indifferente lo zoppo e forse indispettito di questo bel tipo che invece di dargli l’elemosina richiesta, gli ruba i clienti con le sue chiacchiere, devote e inutili.

Partiamo quindi dalla identificazione, seria e motivata, di dove “zoppicano” i giovani: e cioè delle sfide con cui la nostra pastorale giovanile è chiamata a confrontarsi.

Qualcosa di prezioso l’avete fatto.

Invito a ripensarci proprio da questa prospettiva.

Partiamo dalle “sfide”

Per cogliere i problemi veri, la prima operazione da mettere in cantiere consiste nella decisione di individuare in modo riflesso e critico quali sono in concreto le preoccupazioni prioritarie e specifiche. Chiamo questa operazione la definizione delle “sfide”.

Parlare di “sfida” è una precisa scelta di campo. Ci colloca nella realtà quotidiana con un atteggiamento che non è rassegnato ma neppure solo critico e reattivo.

Sfida significa, infatti, un’interpretazione riflessa del vissuto culturale attuale per cogliere i segni di novità presenti e quei dati di fatto che provocano il progetto di esistenza diffuso e generalmente consolidato. La “sfida” è, di conseguenza, un contributo e soprattutto una provocazione che regala contributi preziosi, proprio mentre sollecita ad intervenire coraggiosamente.

La scelta di individuare le sfide per selezionare e organizzare le risorse disponibili è una condizione fondamentale – teologica e antropologica nello stesso tempo – per assicurare un servizio qualificato.

Non sono competente per entrare nel merito, indicando quali sono le sfide con cui confrontarsi. L’avete fatto. E ammiro le conclusioni.

Suggerisco qualche indicazione generale, su cui misurare anche le indicazioni concrete.

In un incontro con la comunità accademica dell’Università di Braga, qualche mese fa, proprio qui in Portogallo, io ho suggerito una mia interpretazione di sintesi dei problemi che attraversano l’essere giovane in questo tempo e che quindi investono violentemente la pastorale giovanile.

La domanda di senso e di speranza

Interpretando, con amore lucido, il vissuto giovanile attuale, affermo la presenza di una diffusa domanda di senso: quello che tutti i giovani cercano, anche nelle espressioni più disturbate, riguarda il senso e la speranza, ragioni di vita e di futuro e la rassicurazione che conforta ogni piccola quotidiana conquista. Constato però che questa ricerca di senso è affannosa e spesso disturbata. Significa che non corrisponde ai nostri parametri spontanei ed esige, almeno in molti casi, una coraggiosa scommessa educativa per definirla in questo modo.

Non mi convince l’affermazione che i giovani del nostro tempo sono in ricerca di esperienze religiose, di spiritualità, di proposte forti e coinvolgenti. Mi sembra una valutazione parziale, che privilegia alcune manifestazioni o tende a generalizzare su alcuni soggetti privilegiati. Forse pesa eccessivamente il mondo delle nostre attese o la nostalgia dei felici ritorni.

Certamente ci sono molti giovani impegnati coraggiosamente nella ricerca di una forte esperienza religiosa. Essi fanno parte di quei giovani fortunati che sono stati aiutati a superare le tensioni del tempo che stiamo vivendo. La constatazione rappresenta una preziosa indicazione di prospettiva pastorale. Spesso però è facile constatare che anche questi giovani sono segnati dalle logiche culturali del nostro tempo. Vivono la ricerca di esperienze religiose secondo le modalità tipiche dell’oggi: soggettivizzazione e disincanto, disponibilità e autonomia, separazione tra confessione di fede e scelte etiche.

La diffusa crisi attuale e la inquieta domanda giovanile interpellano noi adulti e soprattutto noi educatori della fede a quel livello di profondità competente ed esigente, in cui possiamo radicare veramente la riconquista di una relazione perduta.

Si tratta di un “grido”, forte, verso noi adulti: un dono che non ci lascia tranquilli e che ci carica violentemente delle responsabilità che non possiamo certamente scaricare su altri e che, nello stesso tempo, ci fa scoprire che è tempo di camminare coraggiosamente assieme, condividendo gioie e inquietudini.

I vecchi modelli non funzionano più. Ripercorrono le strade superate e aumentano il disagio dell’orfanità. Qualcuno stenta a capirlo. I giovani ci chiedono invece di essere adulti nuovi, capaci di camminare con loro e di condividere la ricerca e l’esperienza del senso e della speranza. In fondo… ci fanno un dono impensabile: ci chiamano a diventare sempre più padri e madri, sapendo generare al senso e alla speranza.

4.     Una proposta di organizzazione delle risorse

Sotto la preziosa provocazione delle sfide in atto (e della loro interpretazione in un’esplicita prospettiva di fede) la comunità ecclesiale, impegnata nella pastorale giovanile, organizza le risorse di cui dispone.

Organizzazione delle risorse comporta tre operazioni, urgenti e complementari:

  1. l’inventario delle risorse di cui può disporre
  2. la selezione per definire quali sono utili rispetto al controllo delle sfide e alla loro risoluzione
  3. una nuova organizzazione, per procedere dentro un progetto serio e ben elaborato.

Questi tre compiti sono evidentemente affidati alla vostra competenza e responsabilità organizzativa.

Realizzo il servizio che mi è stato chiesto sottolineando due linee prioritarie di azione. Rappresentano, da una parte, la constatazione felice di risorse che le comunità ecclesiali possiedono in abbondanza. Indicano, dall’altra, una prospettiva prioritaria in cui giocare concretamente e quotidianamente queste risorse.

Sogno una pastorale giovanile rinnovata, capace di selezionare e organizzare le risorse di cui le comunità ecclesiali sono ancora ricche, attorno a questi due compiti, da riconoscere, assumere, realizzare in modo integrato e complementare:

  1. la riscoperta del servizio educativo, in una stagione di emergenza educativa, per restituire senso e ricerca di senso (dove essa fosse spenta), passione per la vita e attenzione ad una matura qualità di vita (dove la qualità della vita fosse troppo lontana da una “vita buona secondo il Vangelo”);
  2. un modello di evangelizzazione, in cui formulare la sollecitazione diffusa verso una “nuova evangelizzazione”: per restituire al Vangelo la forza di bella notizia per la vita e la speranza.

5.     Il servizio educativo: per restituire senso e speranza

Abbiamo discusso molto, anche nell’ambito della pastorale giovanile, sul rapporto tra promozione umana e evangelizzazione. Ne siamo usciti innegabilmente arricchiti. Ma credo che sia tempo perso riprendere oggi la discussione.

Lo dico, ancora una volta, dalla prospettiva globale scelta: Pietro parla esplicitamente di Gesù allo zoppo. La sua proposta è sperimentata dallo zoppo come interessante e vera, quando si è accorto che la vita gli stava tornando nelle gambe rattrappite.

Come si vede, c’è un modo tutto originale di coniugare evangelizzazione e promozione umana: l’annuncio di Gesù, realizzato in un certo modo, rappresenta in concreto un fondamentale intervento di “promozione di vita”, se procede in un movimento tutto originale:

  • interpreta nel profondo la qualità della domanda. Non è di elemosina (come sembrava chiedere lo zoppo), ma ricerca di qualità di vita (come interpreta Pietro e come propone lui stesso);
  • la risposta consiste prima di tutto nella riaffermazione e rilancio dell’educazione, interpretata come ricostruzione della relazione interpersonale;
  • il servizio alla ricostruzione di una nuova e urgente qualità della vita: da cogliere e riaffermare in una stagione di pluralismo e di soggettivizzazione.

Faccio qualche cenno su ciascuno di questi tre temi.

La situazione di emergenza educativa

Da molte parti questo nostro tempo è indicato come caratterizzato da uno stato diffuso di “emergenza educativa”.

Va compreso bene il problema.

Noi accogliamo abitualmente le ragioni di senso e di speranza, le prospettive di futuro e gli inviti alla responsabilità nel presente, attraverso quella relazione che mette in accoglienza reciproca le persone, soprattutto assicura il dialogo dei giovani con le generazioni che li hanno preceduti (genitori, anziani, educatori). Siamo in emergenza quando si rompe questa relazione e non sappiamo più dove andare a ritrovare le ragioni per vivere e per sperare.

Cito alcune annotazioni interessanti da un documento dei Vescovi italiani proprio su questo tema: “Considerando le trasformazioni avvenute nella società, alcuni aspetti, rilevanti dal punto di vista antropologico, influiscono in modo particolare sul processo educativo: l’eclissi del senso di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione tra intelligenza e affettività. Si tratta di nodi critici che vanno compresi e affrontati senza paura, accettando la sfida di trasformarli in altrettante opportunità educative. Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza. Ne sono sintomi il disorientamento, il ripiegamento su se stessi e il narcisismo, il desiderio insaziabile di possesso e di consumo, la ricerca del sesso slegato dall’affettività e dall’impegno di vita, l’ansia e la paura, l’incapacità di sperare, il diffondersi dell’infelicità e della depressione. Ciò si riflette anche nello smarrimento del significato autentico dell’educare e della sua insopprimibile necessità. Il mito dell’uomo “che si fa da sé” finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita. […] Siamo così condotti alle radici dell’“emergenza educativa”, il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa io nella relazione con il tu e con il noi” (Educare alla vita buona del Vangelo, 9).

Questa situazione condiziona fortemente l’essere giovani. Esiste un atteggiamento comune che attraversa la giovinezza. Lo chiamo una profonda, diffusa situazione di “orfanità”. E’ orfano chi è privo del padre o della madre. In molte nazioni, devastate dalla guerra, sono davvero molti i giovani senza genitori. Da noi, per fortuna, non è così. Molti giovani sono orfani, sperduti nel deserto della vita quotidiana, perché c’è un’orfanità per eccesso di genitori. Cambia persino il numero fisico dei padri e delle madri. Ma soprattutto siamo circondati da proposte che fanno di tutto per prendere il posto dei nostri genitori nella pretesa di darci ragioni di futuro e di speranza. Persino per vendere le cose più banali o solo funzionali, è chiamata in causa la qualità e il senso della vita: qualcuno entra con violenza nella nostra esistenza e pretende di dirci chi siamo e come dobbiamo vivere.

Non possiamo però vivere senza padri e madri autorevoli e significativi. In questa situazione il futuro si fa incerto e la speranza va in profonda crisi. E così dall’orfanità molti cercano di uscire nella disperazione o nel disimpegno. Le esperienze forti funzionano da nuova proposta di paternità.

La risposta: rilancio dell’educazione

All’emergenza educativa poniamo rimedio riscoprendo la via dell’educazione… ma, nello stesso tempo, reinventandola, per una cultura com’è l’attuale, e recuperando dalla cultura attuale tutti i contributi positivi di cui essa è portatrice.

Ecco allora la mia proposta: educare è istituire una relazione tra soggetti diversi (felici… di essere differenti), attraverso cui essi si scambiano frammenti riflessi e motivati di vissuto, per restituirsi reciprocamente quella gioia di vivere, quella libertà di sperare, quella capacità e responsabilità di essere protagonisti della propria e altrui storia, di cui purtroppo siamo continuamente deprivati.

Verso una nuova qualità di vita

Al centro della questione educativa sta una scommessa antropologica: verso quale qualità di vita orientare impegni e responsabilità?

In una stagione com’è la nostra e in dialogo con i giovani del nostro tempo, ho ripensato il centro di un progetto di pastorale giovanile attorno alla categoria della “invocazione”. Essa aiuta ad aprire ogni possibile domanda verso il mistero e suggerisce l’urgenza di offrire proposte che sappiano spalancare ulteriormente la domanda stessa.

Prima di tutto, devo precisare il significato che attribuisco all’espressione “invocazione”. Lo dico con un’immagine: gli esercizi al trapezio, che abbiamo visto, tante volte, sulla pista dei circhi.

In questo esercizio l’atleta si stacca dalla funicella di sicurezza e si slancia nel vuoto. Ad un certo punto protende le sue braccia verso quelle sicure e robuste dell’amico che volteggia a ritmo con lui, pronto ad afferrarlo.

Il trapezio assomiglia moltissimo alla nostra esistenza quotidiana. L’esperienza dell’invocazione è il momento solenne dell’attesa: dopo il «salto mortale» le due braccia si alzano verso qualcuno capace di accoglierle. Nell’esercizio al trapezio nulla avviene per caso. Tutto è risolto in un’esperienza di rischio calcolato e programmato. Ma la sospensione tra morte e vita resta: la vita si protende alla ricerca, carica di speranza, di un sostegno capace di far uscire dalla morte. Questa è l’invocazione: un gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.

L’invocazione rappresenta, nella mia ipotesi antropologica, il livello più intenso di esperienza umana, quello in cui l’uomo si protende verso l’ulteriore da sé.

L’invocazione è un’esperienza di confine. Essa è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, alla ricerca delle buone ragioni di ogni decisione e scelta importante. Nello stesso tempo essa è già esperienza di trascendenza, spinta verso il mistero dell’esistenza.

Lo è ai primi livelli di maturazione. L’uomo invocante si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sull’esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita.

Lo è soprattutto nell’espressione più matura, quando ormai la ricerca personale si perde nel l’accoglienza del mistero della vita. Ci fidiamo tanto dell’imprevedibile, da affidarci ad un amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.

Il consolidamento e lo sviluppo della capacità di invocazione sono un tipico problema educativo. Riguardano, in altre parole, la qualità della vita e l’influsso dell’ambiente culturale e sociale in cui essa si svolge. Abbiamo bisogno di restituire all’uomo una qualità matura di vita; e lo facciamo entrando, con decisione e competenza, nel crogiolo dei molti progetti d’uomo sui quali si sta frantumando la nostra cultura.

Non tutto però può essere ridotto a interventi solo educativi. L’educatore credente sa che senza l’annuncio di Gesù Cristo e senza la celebrazione del suo incontro personale, l’uomo resta chiuso e intristito nella sua disperazione. Per restituirgli veramente felicità e speranza, siamo invitati ad assicurare l’incontro con il Signore Gesù, la ragione decisiva della nostra vita. Questo incontro è sempre espressione di un dialogo d’amore e di un confronto di libertà, misterioso e indecifrabile. Sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio.

Di qui la convinzione: l’invocazione è una esperienza di vita quotidiana, frutto di intelligenti processi educativi. Può essere educata. Viene educata però in due modalità che possono apparire all’opposto. Viene educata quando l’educatore opera sui germi iniziali di invocazione e attiva processi capaci di svilupparli, fino ad un esito soddisfacente. Viene però educata anche quando l’educatore che fa proposte, ponendo davanti alla persona il mistero in cui la nostra vita è avvolta e la sua personale esperienza di questo mistero, evangelizza, con decisione e coraggio, rispettando modalità comunicative capaci di suscitare libertà e responsabilità.

Sono consapevole che la vita quotidiana, nel suo ritmo normale, è carica di germi di invocazione. Per questo ogni domanda e ogni esperienza si porta dentro frammenti di invocazione. Va accolta, educata e restituita in autenticità al suo protagonista.

L’evangelizzazione, nello stesso tempo, quando risuona dentro la ricerca di senso che attraversa ogni esistenza, può scatenare questo processo di maturazione dell’invocazione; lo sa provocare in coloro che vivono ancora distratti e superficiali; lo satura in coloro che sanno ormai esprimere autenticamente la loro voglia di vita e di felicità.

Educhiamo all’invocazione per permettere alle persone di spalancarsi sul mistero annunciato. Evangelizziamo il Dio di Gesù per dare pane a chi lo cerca e sorgenti d’acqua fresca all’assetato; ma lo annunciamo con forza e coraggio per far crescere la fame e la sete di pienezza di vita.

6.     La qualità dell’annuncio: verso una “nuova evangelizzazione”

Nell’attuale comunità ecclesiale oggi siamo molto attenti ai temi e all’urgenza dell’evangelizzazione. L’abbiamo riscoperta come il dono prezioso che i discepoli di Gesù possono offrire per sostenere la vita e fondare la speranza di tutti.

Per dire tutto questo, parliamo di “nuova evangelizzazione”. Non possiamo dimenticare che la “novità” “richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana” (Benedetto XVI).

Nell’ambito della pastorale giovanile e con i giovani che ci lanciano la provocazione di una sfida di senso e di speranza (come ho appena ricordato), il servizio verso la “nuova evangelizzazione” può essere collocato su tre livelli:

  • evangelizzare come gesto d’amore
  • evangelizzare in un corretto modello comunicativo
  • la proposta della narrazione.

Evangelizzare come gesto d’amore

Ho già ricordato una convinzione importante: l’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici, per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la causa del regno di Dio.

Questo mi sembra oggi il punto di prospettiva, da riscoprire, approfondire, rilanciare.

L’annuncio di Gesù, come gesto d’amore, caldo e appassionato nei confronti delle persone, non nasce né dalla richiesta dell’interlocutore né dal nostro desiderio apostolico. Nasce dalle logiche del servizio pieno e totale, per ogni persona nel mistero della sua esistenza, e per la storia personale e collettiva di tutti, nella prospettiva di quel progetto che Gesù ha chiamato il “regno di Dio”.

Da questa visione globale, cambiano ritmi e tempi. Non ci può essere più un prima, che prepara, e un “finalmente” che realizza. L’amore ha logiche totalmente diverse. E’ decentrato verso l’altro. Ma misura la qualità del suo servizio sul bene oggettivo della persona amata. Non si ferma perché è rifiutato. Né tanto meno si ridimensiona, per farsi più accettabile. Travolge chi ama, per permettergli di crescere in pienezza e autenticità: come una mamma che toglie dalle mani del figlio che ama, un gioco pericoloso… anche se egli piange e grida, perché glielo impone l’amore concreto che gli porta.

Voler bene ad una persona significa volere profondamente il suo bene, permettere ad una persona di scoprire che la profonda attesa di speranza e di senso che percorre la sua esistenza, ha bisogno di trovare risposte. Non possiamo continuare a spostare il tempo dell’incontro con queste risposte e non possiamo, per nessuna ragione, mandare deluse queste attese. Per questo, proprio a partire dall’amore che ognuno di noi porta ai fratelli che ha la gioia di incontrare, scopriamo che non possiamo rassegnarci a non parlare di Gesù. Il silenzio, in questo caso, diventerebbe una scelta che tradisce l’amore.

L’amore chiede di aiutare ogni persona a diventare sempre di più signore della propria vita. Ma siamo signori della nostra vita, solo quando riusciamo a sperimentarne il suo senso anche nel momento in cui eventi tragici sembrano consegnarci al nonsenso. Siamo signori della nostra vita se siamo capaci di collocarla dentro un progetto più grande che riguarda anche il futuro della nostra esistenza: riusciamo a ritrovare una ragione gioiosa anche di fronte al dolore e alla morte, scopriamo che siamo pienamente noi stessi solo quando riusciamo a morire, come il chicco di grano, perché tutti abbiano la gioia di raccogliere il pane cresciuto nel terreno del mio piccolo servizio.

Parliamo di Gesù non solo perché lo consideriamo un amico importante di cui sentiamo la gioia di regalare a tutti la stessa amicizia… parliamo di Gesù e vorremmo che tutti lo potessero incontrare nel cuore della loro esistenza, perché solo in lui possiamo scoprire che, nonostante tutto, siamo e restiamo signori della nostra vita. Davvero il nome di Gesù è il regalo più grande che possiamo fare a tutti, per restituire a tutti la gioia di vivere e la libertà di sperare.

La comunità ecclesiale non si rassegna se alle persone con cui condividiamo la vita quotidiana il nome di Gesù non interessa. Non si rassegna se davanti all’annuncio esse restano indifferenti, preoccupate di molte altre cose. Sta ad esse vicina, l’inquieta e li interpella, perché solo quando esse hanno incontrato Gesù, possono veramente restare in quella gioia e in quella speranza che vanno cercando, purtroppo tante volte come l’assetato che cerca un sorso d’acqua tra le pietre e il fango dei pozzi aridi.

Dalla prospettiva dell’amore che si fa annuncio, possiamo ripensare veramente a tutto il processo. Sono convinto che un grosso e impegnativo compito ci sia consegnato, sul piano dei contenuti teologici e dei modelli comunicativi.

Evangelizzare in un corretto modello comunicativo

Suggerisco una specie di criteriologia, sottolineando tre condizioni determinanti, anche sul piano operativo, per qualificare il modello comunicativo attraverso cui realizzare l’evangelizzazione.

Prima condizione: comunicazione di una esperienza

La prima condizione consiste in una comunicazione capace di assicurare la condivisione dell’esperienza di colui che narra e di coloro cui si rivolge il racconto.

Tante volte ci siamo impressionati fortemente dal tono delle grandi catechesi apostoliche, come sono documentate dagli Atti e dalle Lettere. Giovanni, per esempio, apre la sua Lettera con una testimonianza solenne: «La vita si è manifestata e noi l’abbiamo veduta. Noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani» (1Gv 1,1-2). Anche Paolo ricorda l’esperienza personale quando sottolinea i temi centrali della sua predicazione (si veda, per esempio, 1Cor 15 e 2Cor 12).

Questa è una dimensione qualificante dell’annuncio cristiano: quello che è comunicato proviene da una esperienza personale diretta e si protende verso gli altri con l’intenzione esplicita di suscitare nuove esperienze. Esso non è prima di tutto un messaggio, ma un’esperienza di vita che si fa messaggio, in una catena ininterrotta che riporta all’esperienza fondante che alcuni credenti hanno avuto in Gesù.

Chi evangelizza sa di essere competente solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi un pezzo di vita vissuta, interpretata e trasformata in parole. La storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche l’evangelizzatore e coloro cui si rivolge l’annuncio. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi evangelizza, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza.

Seconda condizione: una comunicazione che spinge alla sequela

In secondo luogo, il modello di evangelizzazione che sto sottolineando si caratterizza per l’intenzione esplicita di coinvolgere anche gli interlocutori nell’esperienza narrata. L’evangelizzazione è, infatti, sempre il racconto di una storia che spinge alla sequela. La sua struttura linguistica non è finalizzata cioè a dare delle informazioni, ma sollecita ad una decisione di vita.

L’invito alla conversione non viene assicurato perché sono diffuse informazioni non ancora note, ma perché l’interlocutore viene chiamato in causa in prima persona. Non può restare indifferente di fronte alla provocazione: le due braccia spalancate del padre che aspetta con ansia il ritorno a casa del figlio perduto, costringono a decidere da che parte si vuole stare. Nasce formazione non sulla misura delle cose nuove apprese, ma nel riconoscimento dello stile di vita cui sono sollecitati coloro che desiderano far parte del movimento dei credenti.

Il significato di queste affermazioni e le ragioni che le giustificano si collegano all’esperienza dei discepoli di Gesù.

Un esempio importante è costituito dalle parabole. Esse non sono il resoconto di avvenimenti, consegnati all’analisi critica dello storico. Non sono preziosi e significativi perché riusciamo a ricostruire il tempo e il luogo in cui si svolge l’avvenimento narrato o perché possiamo verificare la congruenza dei particolari. Sono invece una chiamata personale a coinvolgersi nell’avvenimento per prendere posizione.

La scelta di privilegiare una prospettiva implicativa su quella descrittiva è importante anche per una ragione di competenza. Quando si è chiamati a trasmettere informazioni tecniche, il diritto alla parola è misurato sulla competenza posseduta: chi conosce le cose da dire, può parlare; chi non le conosce bene, deve tacere. Quando invece al centro della comunicazione c’è l’invito alla sequela e al coraggio della conversione, la scienza non basta più. Ci vuole la passione e il coinvolgimento personale. Il diritto alla parola non è riservato solo a coloro che sanno pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello cui ci si riferisce. Chi ha vissuto una esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo aiuta a vivere e precisa lo stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell’esperienza salvifica di Gesù di Nazareth.

Per questa ragione, l’evangelizzazione è sempre interpellante.

Terza condizione: una comunicazione che anticipa nel piccolo quello che si annuncia

In terzo luogo, l’evangelizzazione è una buona comunicazione quando possiede la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell’oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza.

Non si tratta di ricavare dalla memoria di un calcolatore delle informazioni fredde e impersonali, ma di liberare la forza critica racchiusa nel racconto.

I cristiani sono per vocazione gli annunciatori della speranza, perché testimoni della passione di Dio per la vita di tutti.

Per poter parlare in modo sensato della salvezza di Dio che è Gesù dobbiamo mostrare con i fatti che è possibile crescere come uomini e donne nella libertà e nella responsabilità, capaci di amare in modo oblativo, impegnati per la realizzazione della giustizia, testimoni del senso della sofferenza e della morte. Solo così, possiamo mostrare efficacemente «la forza dello Spirito, quella che può essere vista e udita» (At 2,33), quella che si traduce in gesti che non sono mai posti invano (Gal 3,4). Annunciare la fede significa dunque narrare di un Dio «che dona lo Spirito e opera meraviglie» (Gal 3,4), poggiando questa narrazione «non su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1Cor 2,4).

La comunità ecclesiale condivide la storia e la vita di tutti, per gridare, a parole e con i fatti, dal suo interno la grande promessa di Dio, che la riguarda direttamente: «Fra poco farò qualcosa di nuovo. Anzi ho già incominciato. Non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi. Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell’oggi.

Troppe volte le situazioni tragiche restano nella loro logica disperata ed oppressiva. Sembrano un grido di rivolta contro il Vangelo della vita e della speranza.

Il racconto della storia di Gesù, a differenza dell’argomentazione che tutto spiega e su ogni caso ha la parola sicura, parla con concretezza e con realismo della sofferenza dell’uomo. Non possiede la chiave dialettica per risolvere tutte le situazioni e non ha la pretesa di districare in modo lucido i meandri oscuri della storia. Condivide il cammino faticoso dell’uomo; cerca di superare le contraddizioni in compagnia con tutti; parla, con parole buone, rispettose, riconcilianti, concrete.

La parola evangelizzata mostra con i fatti il Dio della vita: libera e risana, rimettendo a testa alta chi procede distrutto sotto il peso degli avvenimenti, personali e collettivi; restituisce dignità a coloro cui è stata sottratta; dà a tutti la libertà di guardare al futuro, in una speranza operosa, verso quei cieli nuovi e nuove terre dove finalmente ogni lacrima sarà asciugata (Apoc 21).

La proposta della narrazione

In questi anni ho immaginato un modello concreto di comunicazione, capace di rispettare le tre condizioni appena ricordate. Lo chiamo il modello narrativo.

Propongo di realizzare l’evangelizzazione dei giovani “narrando storie che aiutino a vivere”.

E mi spiego con veloci battute, rimandando all’ampia letteratura sull’argomento[1].

Nello stesso evento evangelizzatore dovrebbero intrecciarsi sempre tre differenti storie: l’evento di Dio che si fa vicino a ciascuno di noi, per la nostra vita e la nostra speranza, le attese e le esperienze delle persone cui viene offerto il racconto, l’esperienza, vissuta e sofferta, di chi ritrova la gioia e il coraggio di condividere quello che ha sperimentato nell’incontro salvifico.

Questi tre dati, di peso e di significato tanto diverso, diventano una parola unica, perché l’autenticità e verità di ogni elemento richiede gli altri, in un gioco di rapporti reciproci.

Chi vuole servire la vita e consolidare la speranza non può ridurre la sua proposta a frammenti della propria esistenza. Nessuno può dare la vita piena: né a sé né agli altri. Dolore, incertezza e morte minacciano continuamente ogni pretesa di autosufficienza. Abbiamo bisogno di offrire un riferimento più alto e sicuro, quello dell’unico nome in cui possiamo avere tutti la vita.

L’evangelizzatore racconta quindi i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell’esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.

L’evangelizzatore non riesce però a parlare come se lui non c’entrasse e fosse ormai al di sopra della mischia. La vita è avventura di solidarietà profonda e continua, che neppure la morte fisica riesce ormai a spezzare. Questo coinvolgimento personale gli assicura l’autorevolezza di cui ha bisogno per pronunciare parole esigenti, che giudicano e inquietano con la forza di una esistenza riconquistata in modo riflesso. Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo dei principi per immergerla nella passione calda della salvezza.

I suoi interlocutori non sono i destinatari passivi della comunicazione. Essi diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l’unica storia. L’evangelizzatore parla di loro in prima persona, delle loro attese e dei loro progetti, anche quando racconta di uomini e donne sprofondati in tempi lontani o quando aiuta a decifrare il percorso della natura e della storia o quando ritesse la trama di una solidarietà che dà volto a gente mai vista.

Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l’evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro a cui il racconto si indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all’evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione.

In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui.

Per questo l’indifferenza tormenta sempre chi evangelizza narrando. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.

7.      Tra competenza e affidamento: la spiritualità dell’operatore di PG

Concludo la mia riflessione sulla proposta di un progetto di pastorale giovanile, sottolineando una esigenza che mi sta molto a cuore.

Non posso immaginare, infatti, linee di azione sulla pastorale giovanile senza collocare tutto questo all’interno di chiaro e forte progetto di spiritualità.

Questa indicazione riguarda, con la stessa intensità, gli operatori di pastorale giovanile e la qualità della loro proposta.

Il tema è impegnativo e richiederebbe uno sviluppo specifico. Non lo posso fare. Mi basta ricordare l’esigenza.

Faccio riferimento ancora all’esperienza degli apostoli, per trovare prospettive significative anche per l’oggi. Ci aiutano, come sempre, gli “Atti degli Apostoli”.

Gli apostoli sono sollecitati all’azione. E si organizzano per questa prospettiva. Dopo l’Ascensione di Gesù, scendono dal monte e fanno il punto della situazione. Non hanno messo fuori dalla loro vita l’incertezza e quel tanto di trepidazione che non guasta mai quando ci sono imprese solenni da realizzare. Ma ora sono abbastanza pronti.

Pietro, per esempio, riorganizza il gruppo, cercando il successore di Giuda. E lo fa con la sicurezza che gli proviene dal mandato di Gesù, che nessuno gli contesta, nonostante la triste parentesi del tradimento.

Poi, secondo la promessa di Gesù, arriva lo Spirito a completare l’esperienza e a trasformare il cuore, e l’avventura della Chiesa incomincia.

Tra il ritorno dal monte e lo slancio missionario, gli apostoli inseriscono una specie di intermezzo, strano per gente come noi, legata alla fretta e alla efficienza. Si ritirino nel cenacolo per una sosta di preghiera e di contemplazione: “si riunivano regolarmente per la preghiera con le donne, con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (Atti 1, 14). Hanno il compito di testimoniare il Vangelo fino ai confini del mondo… e si bloccano al piano superiore della casa, dedicando tanto tempo ad una attività che assomiglia poco all’attivismo verso cui erano stati sollecitati.

Considero questa esperienza apostolica un dono preziosissimo per aiutarci a cogliere le condizioni di una fedeltà all’incontro e all’affidamento a Gesù, capace di superare paure, incertezze, ritorni e tradimenti. Sembrano dirci: d’accordo… c’è fretta… ma nessuna fretta può far dimenticare quanto sia irrinunciabile contemplare il mistero di Dio nella preghiera.

Forse c’è una innegabile componente di paura. Lo Spirito non li aveva ancora trasformati. Ma di sicuro li aveva segnati profondamente l’esperienza di Gesù, che aveva l’abitudine di passare le notti in preghiera prima delle grandi imprese.

Mi sembra una dimensione fondamentale: una condizione di fedeltà.

Pensandoci, riusciamo persino a decifrare la ragione di questa scelta.

I discepoli sono al servizio della vita e della speranza nel Regno di Dio. Ma tutto questo non può mai essere considerato il frutto dello sforzo umano… anche se lo richiede intensamente. Il Regno promesso è dono. L’aveva detto con forza Gesù: “La causa della vita sta a cuore prima di tutto a Dio: è la sua passione e il suo impegno. Lui la realizza. Lui però l’ha affidata a me; io la consegno a voi, perché siete miei amici”. E subito aggiunge: “Quando abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci soltanto dei servi… senza eccessive pretese. Per la vita e la speranza… solo Dio è padrone. Noi siamo soltanto servi… preziosissimi perché la causa della vita è data in consegna a noi, ma soltanto servi, perché il progetto appartiene a Dio”.

E’ una questione impegnativa, su cui non pensiamo mai a sufficienza, premuti dalle mille cose da fare.

Il centro del progetto di pastorale giovanile può essere espresso come un progetto di spiritualità, capace di unificare tutta l’esistenza cristiana, riconciliando pienamente l’amore alla vita, la fedeltà alla Chiesa, la decisione di fare di Gesù il Signore della nostra esistenza.

Potrebbe sembrare inusuale raccogliere il progetto di pastorale giovanile attorno ad un progetto di spiritualità. Anch’io e gli amici con cui in quegli anni ho lavorato, avevamo all’inizio valutato cosa abbastanza strana concentrare le nostre attenzioni attorno ad una proposta di spiritualità. Di solito, quando si parla di spiritualità, si pensa a qualcosa che si aggiunge alla vita quotidiana, spesso riservato soltanto a coloro che hanno deciso di vivere la propria esistenza quotidiana in uno stile tutto speciale. Lo sapevamo e abbiamo fatto la scelta proprio per evitare che spiritualità si riducesse a questa visione parziale. Volevamo riconquistare  il termine “spiritualità” come qualità di tutta l’esistenza cristiana.

Spiritualità vuol dire, infatti, vita quotidiana vissuta, in modo progressivamente consapevole, nello Spirito di Gesù. Mettendo al centro la spiritualità volevamo mettere veramente al centro la nostra vita, accolta con amore e con responsabilità, e il progetto di Gesù su questa nostra vita. È possibile, infatti, risolvere gli inquietanti interrogativi che attraversano l’esistenza quotidiana, solo nel coraggio di confrontarci con la proposta del Vangelo in un incontro personale con Gesù.



[1] Ho appena pubblicato un piccolo libro che vuole documentare questo modo di evangelizzare, offrendo esempi concreti: TONELLI R., Narrare Gesù per aiutare a vivere e a sperare, ElleDiCi, Leumann 2012.

XXIX DOMENICA tempo ordinario

Prima lettura: Is 53, 2-3. 10-11           Salmo: Sal 32

Seconda lettura: Eb 4, 14-16               Vangelo: Mc 10, 35-45

 

Per riflettere…

Liberi di servire

Prima di questo vangelo c’è il terzo annuncio della passione. Già altre due volte Gesù aveva annunciato la sua passione e morte e in entrambe gli apostoli non avevano capito niente. Così Gesù per la terza volta deve ridire la cosa: “Guardate che rischio; guardate che non è come voi pensate; guardate che quelli là forse me la faranno pagare per ciò che dico, per ciò che faccio, per la libertà che io porto, per lo scombussolamento che io porto” (Mc 10,32-35).

Gli apostoli iniziano ad aver paura perché iniziano a capire (Mc 10,32: “Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore”) ma continuano a seguirlo imbevuti delle loro idee in cui ancora credono: Messia forte e potente.

Ed ecco il vangelo di oggi: due apostoli, Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, gli si avvicinano. Soffermiamoci un po’ su questi “figli di Zebedeo”: santi oggi ma non certo all’inizio.

Giovanni lo abbiamo incontrato qualche domenica fa. Vi ricordate? Gli apostoli non riuscivano a guarire dai demoni (9,18) e quando vedono uno che, invece, ci riesce, glielo impediscono. Giovanni è invidioso, geloso: “Ma come? Io che sono un “discepolo doc” non riesco e lui sì?”. E’ difficile accettare che altri sono più bravi di noi e riescono in molte cose. Ma è così!

Un’altra volta questi due fratelli, quando Gesù viene rifiutato dai samaritani, offesisi, gli dicono: “Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li distrugga?” (Lc 9,54). Sono vendicativi: la vendetta è l’incapacità di elaborare un dolore, un lutto, una ferita: “Mi fai fatto del male? Adesso la paghi (mi vendico) e ti infliggo il dolore che tu hai dato a me”.

Proprio per questo venivano chiamati i Boanerghes, i figli del tuono. Ed è Gesù stesso che li chiama così (Mc 3,17). Nel gergo popolare c’è rimasta l’espressione: “Non rompere gli zebedei!”. Come il forte rumore di un fulmine “rompe” il timpano, così erano per carattere Gc e Gv.

La rivista scientifica Science ha pubblicato questo esperimento di De Quervain dell’Università di Zurigo. Hanno studiato cosa fa il cervello (attraverso una PET) di fronte alla vendetta.

Ad un gruppo di persone viene detto che è possibile aumentare il proprio reddito fidandosi dell’altra persona. Alla persona A è data la possibilità di dare un determinato ammontare di denaro alla persona B. Se la persona A accetta, viene quadruplicato l’ammontare di soldi che B riceve. A B allora è data la possibilità di conservare tutti i soldi o dividerli con A. Quando B non condivide ma mantiene i soldi per sé, A ha 3 opzioni per vendicarsi: 1. punire B con un grande importo da versare; 2. punire B con una vendetta a pagamento (più è alta la vendetta e più A paga); 3. sostanzialmente corrisponde a nessuna vendetta (una semplice censura). In un’area del cervello chiamata “caudate nucleus” la soddisfazione è enorme nel primo caso, buona nel secondo e irrilevante nel terzo.

La vendetta, mostra l’esperimento, ci procura soddisfazione, dà un piacere terribile, ma ci rende uguali all’altro. Da feriti ci fa diventare degli altri punitori, castigatori. Così l’altro non solo ci ha feriti ma ci ha fatto diventare come lui.

Una donna è stata tradita dal marito e “per vendicarsi” ha fatto lo stesso: “Così adesso sai cosa vuol dire!”. Ma cos’hai cambiato? Cos’hai risolto? Pensi che questo ti tolga il tuo dolore interno? Non sei adesso come lui, proprio come lui che condanni? E se perdonassi?

La vendetta ci rende simili agli animali: ci dà soddisfazione ma non cambia minimamente la realtà.

In Mc 1,20 c’è scritto che quando Gesù passa sulle rive del lago di Galilea, dopo aver già chiamato Simone e Andrea, chiama anche Giacomo e Giovanni, i figli Zebedeo (Mc 1,19). E c’è scritto che questi due “lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono” (Mc 1,20).

Ma è proprio vero che hanno lasciato il loro padre? No, perché per tutto il vangelo vengono sempre chiamati i “figli di Zebedeo”. Cosa ci vuol dire Mc continuando a chiamarli così?

1. Si può lasciare la casa paterna e materna fisicamente ma si può rimanere attaccati a loro.

2. Si può diventare grandi ma non autonomi, indipendenti. Alcune persone invecchiano ma sono sempre “figli”, dipendenti, non sono mai passati a maggiore età dello spirito. Continuano a cercare il parere degli altri e il loro riconoscimento.

Gc e Gv hanno lasciato l’attività del padre ma continuano a pensare come lui. Non sono loro che pensano, ma è il loro padre, la loro famiglia, la loro tradizione che pensa in loro.

Le persone con orgoglio a volte dicono: “Sono come mio padre; io faccio come lui; quando mio padre…; quando io ero piccolo mia madre…”. Ma se tu hai come riferimento solo lui/lei e tu copi ciò che faceva, allora tu non stai vivendo la tua vita ma la loro. “Mio padre faceva, educava, ecc. così… mio nonno anche…”: ma allora non sei tu che vivi, sono loro che vivono in te.

Alla morte del rabbino gli succedette il figlio. La gente gli diceva: “Tu non sei come tuo padre: tu fai tutto diversamente da lui!”. E lui: “No, io sono esattamente come mio padre: lui non assomigliava a nessuno e io… neanche!”.

Se tu non ti sai formare un pensiero diverso, tuo, autonomo, indipendente da quello della tua famiglia di origine, dal tuo paese, dal tuo ambiente, non sei tu che vivi ma gli altri che vivono in te, gli altri che pensano per te, gli altri che scelgono in te. Pablo Neruda: “Talvolta ho vissuto la vita di altri”.

C’è una donna che è in depressione. E’ in depressione perché lei si continua a chiedere sempre: “Ma è giusto quello che faccio? Va bene quello che faccio? Gli altri cosa dicono, cosa fanno?”. Vive del giudizio degli altri; è terrorizzata da ciò che gli altri potrebbero dire e quindi non vive niente di suo. E a forza di tener dentro, tutto si è compresso.

Chi vive del giudizio degli altri è ancora nella casa paterna: “gli altri” di oggi sono il consenso dei genitori. Faccio, mi muovo, dico, se ho il parere di mamma e di papà (oggi sono gli altri, l’autorità, il giudizio sociale). “Ma sei grande: vivi la tua vita, fai le tue scelte e prenditi le tue responsabilità”.

Un giorno un famoso dottore di New York, unico nel suo campo, ricevette quattro telefonate: tutte e quattro le telefonate venivano dalla Francia ed erano i figli di donne anziane che lo consultavano per sapere se portare le loro madri lì da lui. Dopo il consulto ognuno fece delle scelte diverse.

I figli della prima donna portarono la madre da lui: ma il viaggio fu pesante per lei, le condizioni si aggravarono ed essa morì. Così i parenti dissero: “Se la lasciavano a casa almeno forse non sarebbe morta”.

I figli della seconda donna la lasciarono a casa, valutando troppo pesante il viaggio. La donna però morì. I parenti commentarono: “Se almeno i figli avessero provato a portarla a New York”.

I figli della terza donna la portarono da un famoso medico francese. La donna però morì. I parenti commentarono: “L’hanno fatto per risparmiare i soldi”.

I figli della quarta donna portarono la madre a New York. La donna però morì. I parenti commentarono: “Pensavano di salvarla con i loro soldi! Hai visto, invece!”.

Qualunque cosa fai può esser giudicata, quindi tanto vale fare ciò che si vuole. Questo è essere adulti e non più figli: “Vivo la mia vita, non chiedo il consenso, né l’autorizzazione e mi prendo le mie responsabilità senza accusare gli altri”.

Sentite l’ambizione di Gc e Gv: “Noi vogliamo che tu ci faccia” (Mc 10,36). Comandano a Gesù! Loro non chiedono: loro vogliono, esigono, pretendono. Non si discute su questa cosa.

Gesù cade dal mondo delle nuvole. Non ha neppure idea di cosa potrebbero chiedergli e infatti chiede: “Che cosa volete che io faccia per voi?”.

Un attimo prima ha detto: “Vado a Gerusalemme, forse mi prenderanno; forse me la faranno pagare; forse mi uccideranno; ho paura ma devo andare; statemi vicino, aiutatemi” e quando sente la loro richiesta, Gesù rimane sconcertato, allibito: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,37). Ma cos’hanno ascoltato questi qua? Ma quanto interessati a Gesù erano?

Quando uno è preso dai suoi problemi non ti può e non sa ascoltare. Due amiche, una dice: “Sai ho da dirti una cosa: sono preoccupata perché mio figlio lo vedo triste, si chiude speso in camera, non esce più con gli amici…”. Allora l’altra interviene: “Ah, sapessi il mio. Fa’ quello che vuole, non mi ascolta, non è mica come sua sorella che è studiosa…” e parla venti minuti. Ma dov’è l’ascolto qui?

Gesù risponde loro: “Voi non sapete ciò che domandate” (Mc 10,38). Voi siete fuori del tutto. Sì, Gesù un giorno avrà uno a destra e uno a sinistra, ma chi sono? Non sono i suoi ministri ma due ladroni: “Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra” (Mc 15,27).

Sono degli illusi: sono convinti che Gesù vada a Gerusalemme per governare, comandare, dirigere. E loro si vedono già ministri degli esteri e degli interni. Non hanno capito niente perché non lo hanno ascoltato veramente. Hanno sentito la sua voce ma non le sue parole.

E quando Gesù gli dice: “Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui sono stato battezzato” (Mc 10,38), cioè potete seguire il mio destino e la mia missione, questi poveri illusi gli dicono: “Sì, certo!, lo possiamo”. Illusi!

E l’illusione di questi due e degli altri continuò. Durante l’Ultima Cena, che loro non pensano minimamente sia l’ultima e che sia il saluto di Gesù, Pietro (e compagni) “con insistenza diceva: “Se anche dovessi morire, non ti rinnegherò”. Lo stesso dicevano tutti gli altri” (Mc 14,31). Solo che un attimo dopo, quando arrivano ad arrestare Gesù il vangelo dice: “Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono” (Mc 15,50). Ecco qua, tutta la loro presunzione.

Sembrano quelli che dicono: “Ah se ci fossimo noi… ah, io farei tutto diverso!”. Forse!

Poi Gesù dice: “Il calice mio lo berrete… e il battesimo lo riceverete…” (Mc 10,39) ma non come pensate voi. Loro pensano ad un Messia forte, potente, con armi ed esercito: per questo sono disposti a morire. Solo che Gesù non è questo.

Bere il calice era una tipica espressione ebraica che indicava la morte con il martirio. Loro sono disposti a morire per il Messia (potente) ma non per Gesù (debole e indifeso).

E cosa fanno gli altri dieci? Si sdegnarono con Giacomo e Giovanni (Mc 10,41).

E perché si sdegnano? Non per ciò che hanno detto ma perché anche loro volevano stare alla destra e alla sinistra di Gesù. Di che cosa avevano discusso un po’ prima (Mc 9,34)? “Di chi tra di loro fosse il più grande!”.

Ora uno si chiede: se due vanno da Gesù e gli apostoli sono dodici, è ovvio che gli altri sono dieci. Che bisogno c’era di sottolineare, di dire, “gli altri dieci”?

Dobbiamo tornare indietro (gli apostoli conoscevano bene la simbologia): Salomone era stato un re spietato, vanitoso e ambizioso e mise a lavori forzati l’intera popolazione per la sua vanità. Alla morte di Salomone gli anziani del popolo andarono dal figlio Roboamo e gli dissero: “Guarda, tuo padre ci ha succhiato il sangue dalle vene, tu cerca di comportarti meglio”. Lui disse: “Se mio padre vi schiacciava con un mignolo, io vi schiaccerò con un pugno”. E per questo ci fu lo scisma: dieci tribù abbandonarono il regno di Davide e formarono un altro regno; così rimasero solo due tribù.

Qui si ripete la cosa di secoli prima: dieci e due. Quindi si vuol dire che quando c’è l’ambizione, c’è la divisione.

Allora Gesù deve chiamarli a sé e di nuovo parlargli (Mc 10,42). Osserviamo due cose.

1. Gesù li chiama. Ma non li aveva già chiamati (Mc 1,20)? Sì. E non avevano già risposto? Sì. La chiamata è cambiare mentalità, lasciare le rigidità e le illusioni, entrare nella propria umanità e dare un nome, il loro vero nome, a ciò che abbiamo dentro.

Per loro questa chiamata è stata quella di dover riconoscere di essere ambiziosi. Per noi la chiamata è diventare prete o suora, ma per Gesù è prima di tutto cambiare vita e mente.

2. Gesù, e ne aveva ben motivo, non li rimprovera, ma li porta al senso profondo delle cose.

Un bambino di quattro anni picchia un amichetto. Arriva la sua mamma e lo picchia per ciò che ha fatto. Ma cos’ha fatto? Niente! Gli ha solo rinforzato l’idea che il più forte picchia il più debole (lui l’amichetto; la mamma lui). Ma se la mamma gli spiegasse che se fa così, succede colà… che gli amichetti sono fatti per giocare… allora lui un giorno potrà capire.

E’ inutile rimproverare la gente perché non viene in chiesa. Intanto bisognerebbe chiedersi perché non viene. Forse non ci viene perché non trova niente che meriti per venire. Ma detto questo è meglio spiegare loro che fermarsi, ascoltare il vangelo, nutrirsi di silenzio, di comunità, di Dio, ci fa bene, ci rende più umani, più veri, placa le nostre inquietudini e dà stabilità alla nostra vita. Se uno questo lo sente, lo vive, ne è toccato, viene in chiesa perché sa che gli fa bene.

Non condannate: spiegate sempre il senso delle cose e le conseguenze di ciò che si fa o non si fa.

E Gesù spiega: “Chi vuol essere grande sia servitore e chi primo, ultimo” (Mc 10,41-44). Qui si utilizzano due parole che vanno spiegate.

Servitore=diakonos (Mc 10,43). Il diacono (minister in latino) è colui che volontariamente serve a tavola. Non è costretto, ma è colui che si mette a disposizione volontariamente. E perché lo fa? Per amore, per passione, per la gioia che ha dentro.

Perché un ragazzo fa l’animatore o un adulto il catechista? Perché vede i “suoi” ragazzi crescere, essere felici, cambiare, sviluppare le loro potenzialità, ecc.: che c’è di più grande di questo? Perché lo fa? “Per passione, per gioia”. Servire è fare gratuitamente ciò che dà gioia ad altri. Cioè: mi metto a tuo servizio perché tu possa essere il meglio di te.

Un animatore è a servizio della vita dei suoi ragazzi: vuole che essi tirino fuori tutta la loro vitalità. Un animatore è servo perché non ha un piano su di loro ma sviluppa ciò che loro sono.

Ultimo=dulos (Mc 10,44). Il dulos (servus in latino) era lo schiavo: sopra di lui non c’era nessuno. Gesù ci invita non ad essere schiavi nel senso di sottomessi, di insignificanti, ma a metterci all’ultimo posto non perché si è indegni o non si vale niente ma perché se sei ultimo tutti gli altri sono prima di te e quindi tutti meritano onore e rispetto. I capi delle nazioni non fanno così: loro sono primi e mettono tutti gli altri sotto. Ma se tu sei ultimo allora tutti hanno valore, tutti sono importanti, tutti meritano rispetto, amore, attenzione, onore.

Poi Gesù chiude con questa frase: “Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).

Cosa vuol dire “in riscatto”? Riscatto è lytron. Il lytron era ciò che bisognava pagare per togliere una persona dalla schiavitù. In caso di debiti o se prigionieri di guerra, il lytron era la cifra che la famiglia doveva pagare (se poteva) per avere la libertà.

Cosa fa Gesù allora? Mette la sua vita (e si usa il termine psyché), cioè la sua vitalità, la sua energia, la sua forza, la sua fiducia in Dio, la sua conoscenza del Padre, tutto quello che lui ha, a servizio per liberarci, per toglierci dalle nostre prigioni e dalle nostre schiavitù. Lui è venuto e ha messo la sua vita a servizio nostro: perché noi possiamo essere liberi. Questo è l’amore.

Tu hai un bagaglio di soldi, di conoscenze, di generosità, di compassione, di ascolto, di empatia, di abilità manuali, musicali, artistiche, sportive, di passione, di giustizia, di mediazione, di organizzazione, ecc.: che te ne fai? Tanto ciò che hai non te lo porterai di là!

Vuoi tenertelo tutto per te? Amore, servire, è mettere ciò che si ha e ciò che si è a disposizione per il mondo. Allora succedono due cose:

1. Si è utili a questo mondo. Allora la nostra vita fa del bene agli altri. Ciò che siamo crea vita. Allora ci si sente uniti: qualcosa di te vive negli altri.

2. Ci si sente utili e così la nostra vita acquisisce senso: che ci siamo o che non ci siamo non è la stressa cosa. Perché quando sei utile, importante per qualcuno, esserci o non esserci fa la differenza.

E’ famoso l’esperimento di Northfield. In quest’ospedale, dove lavoravano i due psichiatri Bion e Foulkes, erano in cura i soldati malati da nevrosi di guerra. Vi erano cioè i soldati il cui morale era a terra per l’orrore e le difficoltà della guerra e il compito dei psichiatri era quello di convincerli a lottare senza arrendersi alla malattia o ai problemi. Come risollevare il morale di queste gente svogliata, impaurita, restia e diffidente? Iniziarono a chiedere: “C’è bisogno di qualcuno che sappia aggiustare le jeep, chi sa farlo? C’è bisogno di qualcuno che guidi l’attività motoria, chi sa farlo? ecc.”. Riuscirono nell’incredibile, perché? Perché le persone si sentirono utili, importanti, necessarie.

Il peggior dramma è sentirsi inutili: allora non ha senso nulla di ciò che si fa e neanche vivere.

Un famoso filosofo aveva trascorso tutta la sua vita per cercare il significato ultimo dell’esistenza. Aveva consultato i più grandi saggi ma non aveva trovato alcuna risposta soddisfacente. Una sera, nel giardino della sua casa, mettendo da parte i suoi pensieri, prese in braccio la sua bambina di cinque anni che stava giocando allegramente e le chiese: “Bambina mia, perché sei qui sulla terra?”. La bambina rispose sorridendo: “Per volerti bene, papà!”.

Siamo qui tutti per amare, per servire il mondo con la nostra modalità unica e irripetibile di amore che prende la forma di tenerezza, conoscenza, gioco, festa, unione, silenzio, preghiera, ecc.

Pensiero della Settimana

L’anima che può parlare con gli occhi

può anche baciare con lo sguardo.

COMUNICARE CON ARTE LA BELLEZZA DELLA FEDE

Dal 23 ottobre, nel Palazzo apostolico lateranense, un corso di formazione per animatori della comunicazione e della cultura

di Salvatore Cernuzio

Chissà quante meravigliose iniziative vengono proposte ogni giorno nelle parrocchie… E chissà di quante non si conosce nemmeno l’esistenza, semplicemente perché non sono state comunicate in modo efficace….

Eppure, nel continuo susseguirsi di eventi e situazioni, non è facile per una parrocchia stabilire una comunicazione valida che le permetta di uscire dai confini della propria comunità, e rivolgersi ad un maggior numero di persone.

Come muoversi dunque? Come avventurarsi nei migliaia di blog e social network esistenti? Come promuovere un concerto, un convegno o un evento di fede e di cultura? Sarebbe davvero necessaria una “Arte del Comunicare”.

È proprio questo il titolo del corso di formazione proposto dalla Diocesi di Roma per rispondere alle esigenze di coloro che nelle parrocchie si interessano degli aspetti relativi alla comunicazione.

Organizzato dall’Ufficio comunicazioni sociali del Vicariato di Roma, L’arte del comunicare si svolgerà nel Palazzo apostolico lateranense di piazza san Giovanni in Laterano, dal 23 ottobre fino al 4 dicembre.

Ogni martedì, alle ore 19.00 si succederanno, quindi, degli incontri per aiutare gli animatori della comunicazione e della cultura a dare, in modo professionale, il proprio contributo in parrocchia. Fine dell’iniziativa è “fornire un aiuto per far nascere, all’interno della comunità cristiana, laici che attraverso la cultura e l’arte promuovano l’annuncio della fede e la provocazione del messaggio cristiano” come afferma a ZENIT don Walter Insero, responsabile dell’Ufficio del Vicariato promotore dell’evento.

“Spesso – prosegue – nel nostro modo ‘grigio’ di comunicare non c’è lo spazio necessario per far risplendere la bellezza e la verità. È significativo perciò il titolo del corso – aggiunge – perché la comunicazione è una vera arte, dal momento che non si limita a trasmettere dati e informazioni, ma crea una solida rete di comunione. Ogni realtà ecclesiale comunicando esce infatti dal suo isolamento e dialoga col mondo, aprendo anche un confronto con i non credenti, in una prospettiva puramente culturale”.

L’incontro che inaugurerà il corso vedrà come protagonista, insieme a don Insero, monsignor Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, e si occuperà di delineare l’identità e la missione dell’animatore.

Una scelta ben precisa che crea così un sottile filo rosso tra il corso e il direttorio della CEI “Comunicazione e missione” – pubblicato circa otto anni fa – che definiva appunto il ruolo dell’animatore della comunicazione e della cultura.

I due incontri successivi si concentreranno, invece, su quelli che oggi sono gli ambiti di competenza dell’animatore, in particolare per ciò che concerne la stampa e le nuove tecnologie. Quindi: i blog, i social network e gli strumenti editoriali. A parlarne saranno, Andrea Tornielli, vaticanista de La Stampa e don Francesco Indelicato, dell’Ufficio comunicazioni sociali del Vicariato di Roma; insieme a don Ivan Maffeis, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni Sociali, e Valeria Valsecchi, direttore Hochfeiler.

Ampio spazio verrà riservato poi all’arte e alla cultura, con due eventi che daranno le “istruzioni per l’uso” per realizzare convegni, concerti, mostre in parrocchia. Le serate vedranno la partecipazione di Vittorio Sozzi, direttore Servizio nazionale per il Progetto culturale – Cei; Massimiliano Padula, direttore Ufficio Comunicazione e Stampa Pontificia Università Lateranense; Francesco d’Alfonso dell’Ufficio Comunicazioni Sociali – Vicariato di Roma e Micol Forti, curatrice della Collezione d’Arte Contemporanea  dei Musei Vaticani.

Si passa poi ai consigli per realizzare un cineforum o una rassegna teatrale con l’incontro dal titolo “Dal palcoscenico al grande schermo”, dove in cattedra saliranno mons. Franco Perazzolo, del Pontificio Consiglio della Cultura, e don Andrea Verdecchia,  docente di Teologia pastorale.

Infine, concluderà la serie di incontri la serata dedicata al tema della comunicazione attraverso le immagini. Relatori saranno don Antonio Ammirati, dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, e il fotografo Cristian Gennari.

 

Per iscriversi è necessario inviare i propri dati (nome, cognome, numero di telefono, mail e parrocchia di residenza) entro il 15 ottobre all’indirizzoinfo@ucsroma.it.

La quota di partecipazione di 50 euro si potrà versare il giorno del primo incontro.

Per ulteriori informazioni si può contattare l’ufficio al numero 0669886427.