Il Papa: «Il cristiano deve essere rivoluzionario»

Il Papa ha aperto ieri sera, in una sala Paolo VI stracolma di fedeli (almeno 15 mila a fronte di una previsione di 10 mila), tanto che è stato necessario allestire grandi schermi all’esterno, l’incontro con la sua Diocesi, quella di Roma. Il tema della catechesi del Papa è: “Io non mi vergogno del Vangelo“, da un brano della Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani.  

La catechesi del Papa

“Il Signore ci ha voluto bene e per questo noi siamo in cammino sotto la Grazia di Dio. Questo è per noi gioia: non siete più sotto la legge, ma sotto la Grazia. Siamo liberi per questo, non siamo più schiavi della legge perché Gesù Cristo ci ha liberato. Il cristiano deve essere rivoluzionario perché la Grazia che il Padre ci dà attraverso suo Figlio fa di noi dei rivoluzionari perché cambia il cuore. Tutti siamo peccatori, ma la Grazia ci fa sentire che il Signore ci perdona e ci dà un cuore nuovo. Un cuore che ama, che soffre con gli altri. L’amore è la più grande forza di trasformazione della società perché annulla le distanze tra noi, ci fa sentire vicini. Dove si vende la Grazia, dove la posso comprare? No, la Grazia non si vende e non si compra, Gesù Cristo che la dona. L’amore di Gesù è così: ci dà la Grazia gratuitamente e noi dobbiamo darla ai fratelli e alle sorelle gratuitamente. Anche qui a Roma c’è tanta gente che vive senza speranza, che crede di trovare la felicità nella droga, nell’alcol, nel gioco d’azzardo, nella sessualità senza regole, ma si trovano sempre delusi. Quante persone senza speranza!”.

“Pensate anche ai giovani, che spesso non trovano senso alla vita, hanno provato tante cose, e cercano il suicidio come soluzione ai problemi. La speranza è come la Grazia: non si può comprare, è un dono di Dio. Noi dobbiamo offrire la speranza cristiana con la nostra testimonianza, la nostra gioia. Noi che abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un padre, possiamo essere indifferenti a questa città che ci chiede una speranza per guardare al futuro con più fiducia?”.

 
Il Papa ha poi scherzato sulle lamentale: non dobbiamo cedere alle visioni negative. Come già altre volte nelle scorse settimane, ha quindi chiesto ai sacerdoti di andare fuori, ad incontrare la gente, per portare la speranza e la gioia intorno a sé. “Bisogna prepararsi alla lotta spirituale contro lo spirito del male che non vuole evangelizzatori”. 
Infine, un accenno alla gratuità della consolazione che “noi discepoli del Crocifisso” dobbiamo portare nei luoghi dove nessuno vuole andare, per portare gratuitamente la Grazia di Dio. 
Oltre 15 mila fedeli 

Oltre 15 mila fedeli sono arrivati in Vaticano per partecipare al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma. “Cristo, tu ci sei necessario. La responsabilità dei battezzati nell’annuncio di Gesù Cristo”, era il tema del convegno ecclesiale. Ad aprire i lavori è stato papa Francesco che terrà una catechesi intitolata “Io non mi vergogno del Vangelo” e ha presieduto un incontro di preghiera e di meditazione comunitaria animato dal Coro e dall’Orchestra della diocesi di Roma, diretti da monsignor Marco Frisi.
Il saluto del cardinale Vallini

Ecco il testo del saluto del cardinale vicario di Roma, Vallini. 
“Santo Padre! E’ grande la nostra gioia per questo incontro. La salutiamo con affetto e La ringraziamo di cuore di averci accolti. Sono qui i suoi Vescovi Ausiliari, i parroci, i vicari parrocchiali, i sacerdoti della pastorale universitaria, ospedaliera e del mondo del lavoro, i diaconi permanenti, i religiosi e le religiose e tanti fedeli laici, tutti impegnati nella pastorale delle nostre comunità. Come Chiesa di Roma siamo intorno a Lei, nostro Vescovo, e intendiamo rispondere con convinzione ed entusiasmo all’invito di Vostra Santità, espresso nelle Sue prime parole pronunciate la sera del 13 marzo, subito dopo la Sua elezione, alla Loggia di San Pietro. Quella sera ci ha detto: “Cominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. [Il] cammino della Chiesa di Roma, che presiede nella carità tutte le Chiese….Un cammino di fratellanza, di amore…[perché] sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella”. 

Sì, Padre Santo, noi vogliamo essere con Lei, seguirLa in questo cammino, accogliere il suo magistero, attuare gli orientamenti pastorali che vorrà indicarci e anche consolarLa con abbondanti frutti spirituali per la nostra città e i suoi abitanti. 

La diocesi di Roma, Padre Santo, in questi anni porta avanti un progetto pastorale che mira a riproporre il Vangelo e la bellezza di essere discepoli di Gesù agli abitanti della nostra città. Al pari delle altre grandi metropoli, Roma è attraversata da profondi cambiamenti che toccano le ragioni stesse della vita. Non possiamo più dare per scontato che tra noi e intorno a noi, in un crescente pluralismo culturale e religioso, sia conosciuto il Vangelo di Gesù. Si pone pertanto la necessità di riproporlo e di ripensare il modo di generare alla fede nell’ambito di una connotazione missionaria di tutta la pastorale. In questo compito imprescindibile ci stiamo impegnando con rinnovato ardore. 

Sappiamo che non è impresa facile, ma – per citare un’espressione a Lei cara del documento di Aparecida – “la fede ci insegna che Dio vive nella città, perché il nostro Dio ha piantato la sua tenda in mezzo a noi” e “ci chiama a dialogare con tutte le culture”. Nell’ambito di una rinnovata pastorale battesimale e post-battesimale, che accompagni i genitori nell’educazione cristiana dei loro figli, abbiamo ritenuto quest’anno di insistere sullo stesso tema, allargando l’impegno alla responsabilità di tutti i battezzati di annunciare Gesù Cristo. La Chiesa, che è “madre e non una baby sitter” – come ha affermato Vostra Santità alcune settimane or sono (cfr. omelia 17 aprile 2013) – deve risvegliare e far crescere la responsabilità in tutti. Di qui il tema del nostro Convegno che questa sera si apre: “Cristo, tu ci sei necessario!”- 

La responsabilità dei battezzati nell’annuncio di Gesù Cristo. Siamo convinti che una parrocchia missionaria ha bisogno di nuovi protagonisti: vale a dire una comunità che si senta tutta responsabile del Vangelo. Padre Santo, La ringraziamo di cuore per la catechesi che ci offrirà sul testo di San Paolo ai cristiani di Roma: “Io non mi vergogno del Vangelo”, che darà l’orientamento giusto al lavoro pastorale di questi giorni. Grazie, Padre Santo”.

Il convegno diocesano

Al termine della catechesi, il Papa ha presieduto un incontro di preghiera e di meditazione comunitaria animato dal Coro e dall’Orchestra della diocesi di Roma, diretti da monsignor Marco Frisina. Il convegno proseguirà martedì 18, sempre alle 19.30, come di consueto nella basilica di San Giovanni in Laterano.
In programma la relazione di monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, su “L’impegno della comunità ecclesiale per la responsabilità dei cristiani di annunciare Gesù Cristo”. Seguirà l’intervento del cardinale vicario Agostino Vallini sugli “Orientamenti pastorali”. La conclusione, mercoledì 19, nelle parrocchie o nelle prefetture della diocesi.

Avvenire del 17/06/2013

Responsabili regionali IRC

E’ previsto a Roma l’incontro dei responsabili regionali per l’Insegnamento della Religione Cattolica. Diversi i temi in agenda, alla luce della nuova Intesa firmata lo scorso anno e delle varie esigenze in rapporto alle attività delle Diocesi. L’incontro si svolge presso la sede della CEI di Via Aurelia 468, dalle ore 10.00 alle ore 17.00.

 
Qui il link per iscriversi.

XII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Zaccaria 12,10-11;13,1

Così dice il Signore: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo. In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».     

 

Chi abbia potuto suggerire a Pietro di rispondere in modo esatto, benché non del tutto consapevolmente, se non lo Spirito? Nel passo parallelo di Mt 16,17 Gesù afferma che Pietro ha parlato perché ispirato: «E Gesù: ‘Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli’».

     Lo Spirito fa recuperare all’uomo quelle disposizioni, grazia e consolazione, essenziali per mettersi in comunicazione con Dio. Inoltre, lo Spirito, aprendo gli occhi all’uomo, gli fa incontrare un Dio che si interessa a tal punto di lui da sentirsi trafitto, e lo induce così a trovare consolazione nel pianto della preghiera e dell’implorazione. Ma quando abbiamo visto Dio trafitto se non volgendo il nostro sguardo a Cristo crocifisso, figlio unico e primogenito di Dio morto per noi? Parlando delle Scritture adempiute da Gesù, il vangelo di Giovanni riprende proprio questo concetto: «E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (19,37). Luca inoltre ci descrive le donne che piangevano mentre Gesù si portava al luogo della sua crocifissione: «Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui» (23,27).

     Eppure, le cose non possono terminare con la morte: il riferimento ad Adad-Rimmon lo sottintende. Come nella pianura di Meghiddo i Cananei celebravano la morte di Baal (chiamato anche Adad-Rimmon) con il pianto e ne proclamavano la «rinascita», perché ricominciava con la primavera il cielo della natura, così il pianto effettuato a Gerusalemme

preluderà alla risurrezione del Messia, primavera di un’epoca nuova.

  

Seconda lettura: Galati 3,26-29 

Fratelli, tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.

 

 

Ma che cosa è in grado di produrre la fede? Soltanto il riconoscimento di Gesù in quanto Figlio di Dio e Messia? Quale impatto si verifica? San Paolo, nel piccolo brano che leggiamo in questa domenica, ci illustra in sintesi il grande mistero al quale apparteniamo.

     La prima affermazione riguarda la fede che ci rende figli di Dio, «poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (3,27). Infatti, come esseri umani, abbiamo addosso un vestito disadatto a presentarci al cospetto del Padre buono e misericordioso. Quanto sia importante il vestito nel linguaggio biblico lo si desume dal fatto che esso viene considerato espressione dell’identità della persona. Nella parabola del banchetto nuziale «il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: ‘Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale’» (Mt 22,11-12). D’altronde, Paolo invita i cristiani a rivestirsi di Cristo, perché ciò vuol dire rinnovamento della vita: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13,14).

     Una volta che ci siamo rivestiti di Cristo e apparteniamo a lui, non possono più sussistere quelle barriere che dividono l’umanità, rendendola infelice e nemica di se stessa. Avere tutti il medesimo «vestito», perciò, spinge l’umanità a riscoprirsi una nel nome di colui che l’ha salvata: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1Cor 12,13). Il battesimo si fa dunque strumento di questo processo di unità e di pace, perché si parte tutti dallo stesso punto: l’essere figli di un unico Padre. Infatti, «beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

     Infine, san Paolo collega l’appartenenza a Cristo con l’essere discendenza di Abramo e, quindi, eredi secondo la promessa fatta da Dio a lui. Gli Ebrei erano giustamente fieri di essere discendenza di Abramo: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno» (Gv 8,33). In verità, ad Abramo era stato promesso di diventare padre di una moltitudine di popoli: «Eccomi: la mia alleanza è con tè e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re» (Gn 17,4-6). A lui, come ci riferisce, ad esempio, Gn 15, fu detto che i suoi discendenti avrebbero avuto in eredità un paese, la terra d’Israele, immagine di quel regno che Dio instaurerà. In conclusione, con parole che lo stesso san Paolo usa in un altro contesto, «se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17).

 

Vangelo: Luca 9,18-24

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 

Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio».
Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

              

 

Esegesi

      Durante la sua vita pubblica, Gesù ha sempre cercato di riservarsi dei momenti che non consistessero di solo puro riposo, bensì anche di preghiera o di dialogo con i propri discepoli. Già in questo stesso capitolo Luca ci narra che, al ritorno degli apostoli dalla missione, Gesù li invitò a ritirarsi con lui in disparte. Ma la folla glielo impedì, «costringendo» proprio lui a predicare e a guarire (9,10-11) e, infine, a moltiplicare i pani e i pesci (9,12-17). Questa volta, invece, sembra finalmente che ci sia riuscito, perché il versetto 18 ci informa che egli si trovava solo a pregare e i discepoli gli erano accanto. Ad ogni modo, l’evangelista Luca ci fa notare spesso che Gesù era solito pregare, specialmente nei momenti fondamentali della sua missione: ad esempio, nel giorno del battesimo, egli riceve lo Spirito mentre si trova in preghiera (3,21), oppure alla fine di impegnative fatiche apostoliche (5,16).

     Il Maestro è però anche conscio che un numero sempre maggiore di persone si interrogano sulla sua identità. Giovanni il Battista mandò addirittura i suoi discepoli a chiedere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (7,20); dopo che la peccatrice fu perdonata in casa di Simone il fariseo, i commensali si domandarono: «Chi è costui che perdona anche i peccati?» (7,49). Persino Erode il tetrarca «sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risuscitato dai morti», altri: «È apparso Elia», e altri ancora: «È risorto uno degli antichi profeti». Ma Erode diceva: «Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose?». E cercava di vederlo» (9,7-9). Erode davvero vide Gesù, ma in una circostanza nella quale non potette ascoltare nessuna sua parola (23,6-12).

     Se altrove molti si erano chiesti chi fosse Gesù, ora è egli stesso che vuole sapere che cosa gli altri pensino di lui. Il «sondaggio» d’opinione viene eseguito interrogando i discepoli, che si dimostrano ben informati, ripetendo quello che era stato detto al tetrarca Erode: «Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto» (9,19). Il parametro è chiaro: per il suo modo di comportarsi e di parlare, Gesù assomiglia tanto a quei profeti che, nell’Antico Testamento, erano stati protagonisti di buona parte della vita religiosa, e non solo, d’Israele. Gesù non può meravigliarsi del fatto che lo si paragoni a un profeta. Nella sinagoga di Nazaret, leggendo Is 61,12, egli dice che è stato consacrato come profeta e spiega il rifiuto dei suoi concittadini verso di lui con esempi tratti dalla vita di Elia ed Eliseo (4,16-27); dopo aver risuscitato il figlio della vedova di Nain, «tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: ‘Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo’» (7,16). In chiave polemica, lo afferma pure il fariseo Simone: «A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: ‘Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice’» (7,39).

     Ma poi Gesù diventa curioso di sapere che cosa pensano i suoi discepoli, coloro che l’hanno seguito in giro per la Galilea assistendo a cose straordinarie compiute da lui. Pietro rispose per tutti: «Il Cristo di Dio» (9,20). Finora, nella sua vita pubblica, Gesù era stato chiamato «Cristo» soltanto da esseri non appartenenti al mondo umano, come gli angeli, che in 2,11 ne annunziarono ai pastori la nascita, e come i demoni, che lo riconoscono quale Cristo in 4,41. Ma nessun uomo lo aveva mai chiamato e riconosciuto come tale fin quando Pietro non dichiarò questa sua fede. L’espressione, usata nell’Antico Testamento per indicare il re (cf. 1Sam 24,7.11; 26,9.16.23) o una persona scelta da Dio per svolgere una

missione speciale (Is 45.1), esprime una visione di messia ancora parziale e soltanto legato al momento della gloria umanamente intesa, perciò Gesù sente il bisogno di impedire ai discepoli di affermare ciò in pubblico (la gente, ma neanche i discepoli, non era pronta per una rivelazione del genere), aggiungendovi l’annuncio della passione, morte e risurrezione, unitamente con le severe condizioni per la sequela. Annunciare il Cristo non significa annunciare con le sole parole una dottrina, bensì impegnare la propria psychè (vita) al punto da essere disposti a perderla, come la perse Gesù stesso, per ritrovarla poi nella risurrezione.

 

Meditazione

     Si potrebbe cogliere nella domanda che Gesù rivolge ai discepoli la prospettiva teologica a cui ci orienta la liturgia della Parola di questa domenica: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc 9,20). Chi è Gesù per il discepolo? Nella sequela quotidiana dietro questo maestro così discusso, così misterioso, il discepolo ha avuto il coraggio di fissare lo sguardo sul volto autentico di Gesù? E quali tratti di questo volto è riuscito a cogliere? L’interrogativo che Gesù pone ai discepoli incuriosisce anche la gente e inquieta lo stesso Erode (cfr. 9,7-8); le risposte a questa domanda si rincorrono e i modelli biblici sembrano offrire una qualche spiegazione sulla identità di Gesù: è Giovanni «risorto dai morti» (9,7), «altri dicono Elia; altri, uno degli antichi profeti che è risorto» (9,19). Ora però, è Gesù stesso a porre questa domanda e lo fa coinvolgendo i discepoli in una risposta personale: «Ma voi, chi dite che io sia?» (9,20). Pietro si fa portavoce dei suoi compagni e la sua risposta va ben oltre le varie opinioni raccolte tra la gente: per i discepoli Gesù è «il Cristo di Dio» (v. 20). Il discepolo, nella fede, intuisce il mistero che abita Gesù e proclama in lui l’uomo scelto da Dio per l’attuazione delle sue promesse di salvezza. Ma la via che il Messia sceglie per portare a compimento il progetto di Dio, «per riversare sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione» (Zc 12,10), è una via misteriosa che passa attraverso una umiliazione che lascia sconcertato l’uomo perché contrasta con le sue attese di gloria e di potere. Gesù è il Cristo di Dio perché è il Figlio obbediente, il servo umile che ascolta e realizza la Parola, rivelando la fedeltà di Dio al suo popolo, nonostante il suo rifiuto e la sua incredulità. Gesù è il Messia perché è «il Figlio dell’uomo (che) deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (v. 22). Tratteggiando questo volto del Messia così inaudito e scandaloso per l’uomo, Gesù rilegge l’oscura profezia di Zaccaria, portandola a compimento: quel re messianico coperto di ferite è lui stesso, il crocifisso, dal cui fianco aperto usciranno sangue e acqua (cfr. Gv 19,34), segno di quello spirito di grazia e di con-solazione riversato sull’umanità intera (cfr. Zc 12,10). Di fronte a questo volto, il discepolo deve compiere un movimento di conversione, un lungo cammino di purificazione perché siano cancellate quelle pretese dell’uomo che diventano pietra di inciampo e venga accolta la rivelazione del Messia crocifisso.

     Per comprendere il cammino di questo messia rifiutato è necessario attendere il momento in cui si attuerà la profezia: «…guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico» (Zc 12,10, testo citato in Gv 19,37). Tuttavia, dal momento in cui il discepolo ha accettato di rispondere alla domanda di Gesù e compromettersi con la sua via, è già iniziato questo cammino di conversione, perché incessantemente deve volgere lo sguardo verso colui che cammina decisamente verso Gerusalemme (cfr. Lc 9,51), lì dove il Figlio dell’uomo deve essere «ucciso e risorgere il terzo giorno» (9,22). Ora il discepolo deve porsi la domanda: chi è il discepolo che segue questo Messia? Ed è Gesù a rispondere a questo interrogativo nascosto nel cuore di tutti coloro che hanno ascoltato, disorientati e sconcertati, l’annuncio della passione del Messia: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (vv. 23-24). L’identità del discepolo si fonde con quella di Gesù e il cammino di Gesù motiva e da qualità al cammino di sequela del discepolo. Si tratta di andare dietro a Gesù, di seguire Gesù, di perdere la propria vita per causa sua. Ciò che costituisce l’identità del discepolo e rende autentica la sua sequela è anzitutto e soprattutto la scoperta del volto di Gesù, l’aver risposto personalmente e in modo irrepetibile a quella chiamata espressa nell’interrogativo: «Ma voi, chi dite che io sia?». Da questa risposta che coinvolge il discepolo nel cuore stesso della sua vita, quella vita che può essere persa o salvata in relazione a Gesù, dipende la serietà della sequela, e nello stesso tempo la sua fatica, la sua sofferenza. Gesù scandisce in tre momenti il cammino del discepolo, tre tappe che rendono autentica ogni sequela. Il punto di partenza è la libertà che nasce dall’incontro con Gesù ed è solo lui che deve essere seguito («se qualcuno vuol venire dietro a me», v. 23).

     Ma per seguire sono necessarie due condizioni: una reale libertà da se stessi e la scelta di affrontare il cammino stesso di Gesù verso Gerusalemme. Rinnegare se stessi in un contesto in cui si parla di realizzazione di sé, può suonare negativo. Gesù non vuole che il discepolo rinunci alla propria umanità, alla bellezza della propria vita. Ma vuole che questa vita sia veramente bella. Infatti proprio quel mondo interiore fatto di pretese di dominio, di violenza, di falsità, quell’amore smodato di sé che ci illude di salvare la propria vita per il solo fatto di tenerla stretta tra le mani, rende la nostra vita brutta, infelice. È questo che deve essere abbandonato per diventare liberi, per vivere da salvati.

     E poi è necessario prendere la propria croce. Anzi Luca aggiunge: ogni giorno (v. 23). Qual è la croce da prender su di sé? Sono le sofferenze che si incontrano nella vita (dolore, malattie, fallimenti ecc.)? Ma può Gesù invitarci a prender ciò che contraddice la dignità dell’uomo? La croce da prendere, la sofferenza da portare (ed è la propria, quella che solo ciascuno di noi può assumere liberamente) non è tanto la sofferenza che nasce dalla relazione con i limiti della natura umana (in qualche modo inevitabile, anche se attraverso di essa possiamo scoprire qualcosa di diverso in noi); è la sofferenza che nasce dalla nostra relazione con Cristo. È la sofferenza di chi lotta per essere fedele a Gesù, di chi ogni giorno fatica nella sua sequela, di chi si scontra con la apparente debolezza delle promesse di Dio,

di chi rischia tutto per obbedire alla logica del vangelo. È la fatica di esser cristiani. La croce non ha senso in sé. Solo in Cristo, nel suo amore sino alla fine, essa acquista un senso. E diventa il paradosso del chicco di grano che per portare frutto deve accettare di essere nascosto sotto terra e morire (cfr. Gv 12,24). Ma ciò che conta è il frutto. Si comprende la morte del seme dal frutto che porta. È il paradosso di una vita perduta perché donata e quindi vissuta in pienezza, cioè salvata (cfr. Lc 9,24 e Gv 12,25). Si comprende la croce dal dono della vita che da essa sgorga.

     La rinuncia e la croce (la fatica di esser discepoli) sono la qualità e l’autenticità della sequela. Ma la sequela non si riduce alla rinuncia e alla croce. Non solo perché la meta della sequela è la gioia, è l’evangelo, una vita salvata, ma soprattutto perché la sequela è camminare dietro a Gesù, è l’esperienza quotidiana della comunione con lui, comunione che è salvezza e perdono. Si rinuncia e si perde per trovare la vita. Ancora una volta siamo richiamati a guardare in avanti (solo così si può camminare), a tenere fisso il nostro sguardo sul volto di Gesù, perché è lui che ci precede ed è lui solo a conoscere la via.

 

Preghiere e racconti

 

«Di Dio oggi nulla posso dirvi»

Dice Angela da Foligno una mistica del secolo XIII al confessore che insisteva perché ella gli spiegasse meglio una sua esperienza mistica, a un certo punto, gli disse: Padre, se tu provassi ciò che ho provato io e poi salissi sul pulpito a predicare, non potresti far altro che dire, rivolto al popolo: “Fratelli, andatevene con la benedizione di Dio perché di Dio oggi nulla posso dirvi”.

Fede e roccia

L’uomo d’oggi, Signore Gesù, è sommerso

dall’appariscenza e dall’effimero,

si lascia incantare da frasi vuote e immagini colorite,

ha perso la capacità di riflettere,

si lascia trascinare da mode e miti

che durano una stagione.

Signore, tu hai scelto Pietro come roccia

non per le sue qualità umane,

ma per la fedeltà alla confessione di fede.

Donaci la fede di Pietro, solida e certa

su cui edificare la tua Chiesa.

Donaci la tua fiducia tale da meritare

in custodia le chiavi del Regno

e confermare nella fede i fratelli vacillanti.

Siamo chiamati a riconoscere il tuo primato

e servirti nell’umiltà.

La fede di Pietro è roccia incrollabile,

modello di chiunque voglia credere nella Verità.

Fa’ che anche noi, come Pietro, possiamo dire:

«Signore, tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Critica di se stessi

Fedeltà a se stessi? Questo minuscolo sé che cosa contiene di così grande per essergli fedele? Appare spesso così piccolo, altezzoso, supponente, meschinamente interessato … stupido. Affidarsi a questa instabile imbarcazione per attraversare il mare della vita non è certo una garanzia. Gesù lo insegnava a suo modo dicendo: “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà”, cioè chi si concentrerà unicamente su se stesso si smarrirà, chi imposterà la sua vita solo sul proprio interesse e sul proprio piacere non guadagnerà ciò che è veramente prezioso nella vita: “Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?”.

Siamo in presenza di un paradosso, c’è qualcosa che si può perdere o che si può guadagnare, e questo qualcosa è la psyché, l’anima spirituale, cioè (dinamicamente considerata) la libertà. Devo fare di tutto per guadagnare la mia anima spirituale, per salvaguardare la mia libertà, perché lo scopo della mia esistenza di uomo consiste esattamente in questo. Ma ecco il paradosso: proprio per guadagnare il centro di me stesso, devo diffidare di me stesso, mi devo superare. La versione della Cei traduce le parole di Gesù in Marco 8,34 in questo modo: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso”, mentre sarebbe meglio rendere il verbo greco aparnéomai con “negare” nel senso di “vincere”, “superare”; se qualcuno vuol venire dietro di me, si deve negare, si deve superare. Non si tratta di rinnegare se stessi quasi in odio a se stessi, ma si tratta di superare i propri interessi particolari per realizzarsi veramente nell’adesione a qualcosa di più grande. Solo uscendo dal mio orizzonte inevitabilmente limitato sarò infatti nella condizione di incontrare qualcosa di più grande e di più stabile del mio piccolo e instabile Io, affidandomi al quale il mio Io nella sua profondità (l’anima spirituale) non si perde, ma si guadagna, si fortifica, si compie. […] Il nostro essere-energia va coltivato, speso, investito: solo così si sviluppano tutte le nostre potenzialità e diventiamo veramente ciò che siamo, cioè liberta che vuole la verità, che vuole aderire alla realtà.

(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Ed., Milano, 2009, 107-109).

L’incontro con la croce

Nel 1917, allorché Edith Stein era assistente di Edmund Husserl, giunse a Friburgo una notizia dolorosa. Adolf Reinach, anche lui assistente di Husserl, era morto sul campo di battaglia delle Fiandre. Il dolore di Edith Stein fu grande; pensò alla moglie di Reinach. Da Gottinga, la pregarono di ordinare il lascito di Reinach. Edith Stein temeva di rivedere la vedova. Il suo animo era sconvolto: Reinach, che insieme con Husserl costituiva il fulcro del circolo di Gottinga, non viveva più. Attraverso la sua bontà, aveva potuto gettare uno sguardo in quel mondo che le sembrava sbarrato. Il ricordo non la aiutava. Che cosa avrebbe potuto dire alla moglie, certamente in preda alla disperazione? Edith Stein non poteva credere a una vita eterna.

L’atteggiamento rassegnato della signora Reinach la colpì come un raggio di luce che proveniva da quel regno nascosto. La vedova non era abbattuta dal dolore. Nonostante il lutto, era piena di una speranza che la consolava e le dava pace. Di fronte a questa esperienza, andarono in frantumi gli argomenti razionali di Edith Stein. Non la conoscenza chiara e distinta, ma il contatto con l’essenza della verità trasformò Edith Stein. La fede risplendette a lei nel mistero della croce. Era necessario ancora un lungo cammino prima che riuscisse a trarre tutte le conseguenze da questa esperienza. Per una pensatrice come Edith Stein, non era facile tagliare tutti i ponti e osare il salto nella nuova vita. Ma il colpo fu così forte che ancora poco prima della sua morte, parlava in questi termini della sua esperienza al gesuita padre Hirschmann: «Fu il mio primo incontro con la croce e con la forza divina che essa comunica a chi la porta. Vidi per la prima volta, tangibile davanti a me, la chiesa, nata dal dolore del Redentore, nella sua vittoria sul pungolo della morte. Fu il momento in cui andò in frantumi la mia incredulità e risplendette la luce di Cristo, Cristo nel mistero della croce»

(W. HERBSTRITH [ed.], Edith Stein, La Mistica della Croce. Scritti spirituali sul senso della vita, Roma 1987, 87).

Che cosa sei tu per me?

Signore,

che cosa sono io per te,

perché tu voglia essere amato da me

al punto che ti inquieti se non lo faccio,

e mi minacci severamente?

Come se non fosse già una grossa sventura il non amarti!

Dimmi, ti prego,

Signore Dio mio misericordioso,

che cosa sei tu per me?

Dì alla mia anima:

«Io sono la tua salvezza».

Dillo, che io lo senta.

Le orecchie del mio cuore, Signore,

sono davanti a te;

aprile e dì alla mia anima:

«Io sono la tua salvezza».

Rincorrerò questa voce

e così ti raggiungerò;

tu non nascondermi il tuo volto.

(AGOSTINO D’IPPONA, Confessioni I, 5).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XII DOM TEMP ORD (C)

La famiglia educa alla custodia del creato

«La donna saggia costruisce la sua casa, quella stolta la demolisce con le proprie mani» (Pr 14,1).
Questa antica massima della Scrittura vale per la casa come per il creato, che possiamo custodire e purtroppo anche demolire. Dipende da noi, dalla nostra sapienza scegliere la strada giusta.
Dove imparare tutto ciò? La prima scuola di custodia e di sapienza è la famiglia. Così ha fatto Maria di Nazaret che, con mani d’amore, sapeva impastare «tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (Mt 13,33). Così pure Giuseppe, nella sua bottega, insegnava a Gesù ad essere realmente «il figlio del falegname» (Mt 13,55). Da Maria e Giuseppe, Gesù imparò a guardare con stupore ai gigli del campo e agli uccelli del cielo, ad ammirare quel sole che il Padre fa sorgere sui buoni e sui cattivi o la pioggia che scende sui giusti e sugli ingiusti (cfr Mt 5,45).
 
Perché guardiamo alla famiglia come scuola di custodia del creato? Perché la 47ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si svolgerà dal 12 al 15 settembre 2013 a Torino, avrà come tema: La famiglia, speranza e futuro per la società italiana. Nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, poi, rileggiamo la costituzione pastorale Gaudium et spes, che alla famiglia, definita «una scuola di umanità più completa e più ricca», dedica una speciale attenzione: essa «è veramente il fondamento della società perché in essa le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa ed a comporre convenientemente i diritti della persona con le altre esigenze nella vita sociale» (n. 52).
 
In questo cammino ci guida il luminoso magistero di Papa Francesco, che ha esortato più volte, fin dall’inizio del suo pontificato, a «coltivare e custodire il creato: è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti… Il “coltivare e custodire” non comprende solo il rapporto tra noi e l’ambiente, tra l’uomo e il creato, riguarda anche i rapporti umani. I Papi hanno parlato di ecologia umana, strettamente legata all’ecologia ambientale. Noi stiamo vivendo un momento di crisi; lo vediamo nell’ambiente, ma soprattutto lo vediamo nell’uomo… Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti. La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve ancora – come il nascituro –, o non serve più – come l’anziano. Questa cultura dello scarto ci ha resi insensibili anche agli sprechi e agli scarti alimentari, che sono ancora più deprecabili quando in ogni parte del mondo, purtroppo, molte persone e famiglie soffrono fame e malnutrizione» (Udienza Generale, 5 giugno 2013).
 
«Come la famiglia può diventare una scuola per la custodia del creato e la pratica di questo valore?», chiede il Documento preparatorio per la 47ª Settimana Sociale. Come Vescovi che hanno a cuore la pastorale sociale e l’ecumenismo, indichiamo tre prospettive da sviluppare nelle nostre comunità: la cultura della custodia che si apprende in famiglia si fonda, infatti, sulla gratuità, sulla reciprocità, sulla riparazione del male.
 

Il matrimonio è in crisi.

Allo studio una pastorale familiare più efficace

L’impressione è che papa Francesco si avvicini ai problemi e ai temi scottanti – o controversi – con molta gradualità, per accenni; dando un’idea di come potrebbe pensarla, o la pensa, ma esprimendo problemi e questioni da porre sul tappeto, più che indirizzi o soluzioni precise. E così, mentre ci si avvicina ai fatidici cento giorni di regno (è stato eletto il 13 marzo 2013) oggi ha toccato il tema della famiglia. Sulla quale finora aveva parlato usandone come di un termine positivo: la Chiesa deve essere una famiglia, ha detto, e ha affermato di sentirsi in famiglia fra gli studenti delle scuole dei gesuiti; senza dimenticare di dire al presidente Napolitano che sono i legami familiari le vittime della crisi.

Oggi ha aperto il discorso sul matrimonio. La Chiesa Cattolica non può ignorare il “problema serio” delle convivenze prematrimoniali.  “Oggi tanti cattolici non si sposano, convivono, il matrimonio è provvisorio”, ha affermato, parlando a braccio al Consiglio ordinario della segreteria generale del Sinodo dei vescovi. E ha accennato all’incontro con gli otto cardinali suoi “consiglieri” che a ottobre dovrebbero discutere della riforma della Curia. Ma non solo, evidentemente.

“Nella riunione che avremo in ottobre – ha rivelato – è stata prevista la domanda: a chi dobbiamo affidare uno studio sulla pastorale familiare in genere: al Sinodo? A un Sinodo speciale o ordinario? Diranno loro, ma questo e’ un problema che in ottobre vedremo”.

Ancora una volta papa Francesco ha messo da parte il discorso previsto e ha preferito svolgere un dialogo libero con i presuli del Consiglio. Al termine è stato elogiativo: “Avete idee ricche!”. Poi ha elencato tre temi, partendo dalla questione della famiglia che, ha rivelato inoltre, è un problema “tirato fuori” spesso nel corso degli incontri con i vescovi italiani in visita ‘ad limina apostolorum’.

 Il secondo tema riguarda l'”ecologia umana”. Per Francesco è un problema serio perché le pratiche della medicina vanno contro l’ecologia umana, la distruggono”, e ciò mentre “sul piano dell’incontro con Dio viviamo un’epoca da una parte agnostica, e come contropartita pelagiana. E’ una mescolanza in questa cultura nuova come arriviamo a aiutare le persone, i cattolici in questa teologia che ci propone la secolarizzazione”.  Il Papa ha toccato il ”tema antropologico”, sottolineando che oggi ”noi viviamo in un’antropologia nuova, che fa uscire da sé ermeneutiche nuove, mentre a volte vediamo le cose con ermeneutiche che non sono appropriate”. ”La laicità è  diventata laicismo e adesso secolarizzazione – ha detto -. Il problema dell’antropologia secolarizzata e’ un problema grave nella Chiesa, è serio”.

L’impressione è che papa Francesco si sia dato tempi lunghi, su questo e altri problemi. Resta da vedere se vorrà mantenere questi ritmi anche di fronte a possibili stimoli esterni; per esempio dei gesti concreti, da parte del sindaco della città di cui è vescovo, in tema di matrimonio per persone dello stesso sesso. Papa Francesco, che sembra privilegiare il termine e il ruolo di vescovo di Roma, rispetto a quello di Papa, che cosa farà? Da arcivescovo di Buenos Aires prese posizione senza mezze misure.

vaticaninsider del 13/06/13

Fiuggi Family Festival 2013

“Tutti per Uno”  è il tema della sesta edizione del Fiuggi Family Festival, in programma dal 21 al 28 luglio. L’offerta ludico e culturale del FFF è quest’anno particolarmente ricca di novità interessanti e divertenti per tutte le età, tra proiezioni ed eventi dal primo pomeriggio alla mezzanotte,  festa in piazza per le famiglie, degustazioni gratuite ed esecuzioni  di musiche dal vivo.

CINEMA

Per quanto riguarda il cinema nel cartellone delle retrospettive figurano titoli come Bianca come il Latte Rossa come il Sangue, di Giacomo Campiotti, tratto dall’omonimo romanzo di Alessandro D’Avenia; Il Figlio dell’Altra, di Lorraine Lévy; L’Amore Inatteso, di Anne Giafferi;  Un Giorno devi Andare, di Giorgio Diritti; Il Sole Dentro, di Paolo Bianchini; L’Anima Attesa, di Edoardo Winspeare (il regista è tra gli invitati al festival).  Per i più piccini in programma una ricca selezione dei più recenti film d’animazione come, tra gli altri, l’acclamato Vita di P diretto da Ang Lee, basato sull’omonimo romanzo di Yann Martel; The Croods di Chris Sanders e Kirk De Micco (film d’animazione del 2013 con protagonisti del cast vocale Nicolas Cage, Ryan Reynolds, Emma Stone e Catherine Keener, primo film prodotto dalla DreamWorks Animation dopo l’accordo di distribuzione con la 20th Century Fox); Ribelle, The Brave, di Mark Andrews, Brenda Chapman (il nuovo film d’animazione siglato Disney-Pixar); Il Grande e Potente Oz, di Sam Raimi (prequel de “Il mago di Oz” di Victor Fleming). E poi ancora, tra gli altri titoli per ragazzi sono da confermare Hotel Transilvania, diretto da Genndy Tartakovsky , con le voci italiane di Stefania Capotondi e Claudio Bisio voce di Dracula; La collina dei papaveri, seconda regia del giapponese Gorō Miyazaki; Epic, favola ecologica di Chris Wedge (L’Era Glaciale) in coppia con Beyoncé Knowles (nel cast vocale italiano Maria Grazia Cucinotta e Lillo & Greg). In concorso, tra gli altri, la commedia Allez, Eddy!, di Gert Embrechts.

TEATRO

Il festival quest’anno viene inaugurato dallo spettacolo teatrale dal titolo C’era una volta, realizzato interamente da bambini disabili in collaborazione con l’Unitalsi (GranTeatro, ore 17,30), a seguire il musicalPinocchio realizzato dai giovani dello staff del festival, e si prosegue quindi con la proiezione de Il grande e potente Oz (ore 21).

SPORT

Un’ampia sezione sarà dedicata allo sport, con tornei e attività  di alto livello in partnership con il Csi(Centro Sportivo Italiano) che si svolgeranno al mattino nella zona bassa di Fiuggi.

MUSICA LIVE

Venerdì 26 luglio sarà caratterizzato dall’esibizione live dal titolo Da fratello a fratello di Franco Fasano(cantautore e autore, tra gli altri, di Mina e Drupi) accompagnato dal gruppo musicale White Nymphs. Ogni giorno la festa continua, con proiezioni ed eventi, ospiti e musica dalle ore 17,00 alla mezzanotte nella location principale del festival, la piazza del suggestivo borgo medievale di Fiuggi che ospiterà anche l’aperitivo delle 20,00’, iniziativa allietata dalla diffusione esterna di colonne sonore scelte ogni giorno secondo un genere cinematografico, un occasione di incontro per tutti dove ha promesso di non mancare lo stesso Franco Fasano prima e dopo il suo concerto.

CUCINA

Assieme ai  film e alle anteprime che caratterizzeranno ogni giorno il festival, tra il concorso internazionale, visioni a tema e retrospettive, troverà spazio nel FFF 2013 anche la… cucina nell’ambito del progetto ‘Sapori e Tradizioni’: con degustazioni gratuite per tutti i partecipanti, il festival varerà quest’anno la prima tappa dell’iniziativa – realizzata in accordo con l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Frosinone – che coinvolgerà ogni anno cinque Comuni della Provincia in favore della promozione  e diffusione delle loro peculiarità culturali, di tradizione e costume.

PASSEGGIATE

E per i cultori delle passeggiate? L’FFF ha pensato anche a loro: grazie al prezioso supporto del Club Alpino Italiano ogni mattina ci si potrà avventurare nei suggestivi itinerari del ‘Il Cammino delle Abbazie, da Subiaco a Montecassino, sulle orme di San Benedetto’; un percorso a piedi in nove tappe per ripercorrere il viaggio intrapreso dal Santo Patrono d’Europa tra l’anno 525 ed il 529: tra i ‘viandanti ospiti d’onore’, mercoledì 24, Sergio Valzania (vice direttore di radio Rai) e il cantautore Davide Riondino che, tra l’altro, incontreranno i giovani in Teatro alle 17.30.

Proprio in questi giorni si va via via confermando il programma ufficiale con tutti i titoli dell’offerta cinematografica – che resta il nucleo fondante della manifestazione ideata da Gianni Astrei – e le altre novità riguardanti gli interessi dei giovani, la televisione, il teatro, attività per i più piccini e i volti noti dello spettacolo e delle Istituzioni che incontreranno il pubblico. Riconfermata la fondamentale presenza di Mussi Bollini nel ruolo di direttore artistico. Presieduto da Antonella Bevere Astrei, il Fiuggi Family Festival si fregia del titolo di primo festival cinematografico esclusivamente dedicato alle famiglie italiane e gode del patrocinio, tra gli altri, del Forum Nazionale delle Associazioni Familiari e del MiBAC . “Il tema di quest’anno è molto bello – chiosa la presidente – ‘Tutti per uno’ come il grido dei moschettieri del re di Francia, come il desiderio più profondo di ogni comunità che vede sempre nel più debole l’oggetto di maggior tenerezza”. Ma un festival cinematografico anche diverso perché per tutti, dove sfilano sul ‘red carpet’  non solo i personaggi noti ma soprattutto le famiglie, le più importanti protagoniste dell’evento, come ricorda il significativo e divertente promo del FFF realizzato per l’occasione dal giovane Angelo Astrei e il suo staff della Comunicazione. Consolidatosi ormai come la vacanza-evento a target family più attesa dell’anno, sono già attese circa 8000 persone di nuclei familiari provenienti da tutt’Italia e non solo.

Ufficio Stampa – Direttore: Paolo Piersanti, mob. 333 2919592 –paolo.piersanti@fiuggifamilyfestival.org –
Addetti stampa: Alex Di Giulio – ufficiostampa@fiuggifamilyfestival.org   – www.fiuggifamilyfestival.org

SOLIDARIETA’

Tra i numerosi stand di gadget, promozione letteraria e intrattenimento per i più piccini, non mancherà un punto di raccolta firme per la petizione parlamentare “Uno di noi”, iniziativa promossa dal Movimento per la Vita volta a riconoscere la dignità di ‘persona’ ad ogni essere umano sin dal concepimento.

“Biblioteche ecclesiastiche e internet per una nuova evangelizzazione”

“Biblioteche ecclesiastiche e internet per una nuova evangelizzazione” è il tema del convegno di studi che si è aperto ieri, 11 giugno, a Roma presso Casa La Salle in via Aurelia (fino al 13 giugno), in occasione del 35° anniversario di fondazione dell’Associazione bibliotecari ecclesiastici italiani (Abei).

Il patrimonio di testi, libri, incunaboli, manoscritti, raccolti nelle oltre 5.000 biblioteche cattoliche in Italia è enorme. Nel sito www.abei.itl’associazione propone un elenco in continua evoluzione e aggiornamento nel quale compaiono biblioteche parrocchiali, diocesane, di associazioni, ordini, congregazioni, movimenti, centri culturali ecc., con l’indicazione del numero dei volumi presenti, i dati generali, l’accesso e così via.

L’Abei sta anche conducendo un censimento della storia e consistenza dei periodici di istituti religiosi che ha già permesso di censire oltre 6mila titoli, anche questo dato in continua evoluzione. L’associazione propone nel corso dell’anno varie iniziative culturali e formative, tra cui corsi di formazione per bibliotecari, la redazione di strumenti di lavoro (l’Annuario delle biblioteche ecclesiastiche italiane, liste di autorità in campo religioso riguardante le realtà della Chiesa cattolica quali Bibbia, Papi, Curia Romana, ordini religiosi…), il “Bollettino d’informazione” che pubblica notizie sulle attività e sulla storia delle biblioteche ecclesiastiche e si pone come strumento di collegamento nel mondo bibliotecario, in particolare condividendo liste di volumi e riviste per facilitare gli scambi tra i vari aderenti.

Per cogliere il significato del convegno su biblioteche e rete internet, il Sir ha posto alcune domande al presidente dell’Abei, monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale.

Mons. Pennisi, che potenziale vede nelle biblioteche ecclesiastiche dal punto di vista culturale e pastorale?
“Certamente il potenziale delle nostre biblioteche è enorme, sia per la cultura, sia per l’evangelizzazione. Oltre che per la disponibilità in sé di preziosi e rarissimi volumi, ad esempio con la presentazione di mostre che possono incuriosire soprattutto i giovani a rapportarsi al libro. E poi oggi anche attraverso la Rete, cui abbiamo deciso di dedicare questo convegno. Il fatto che ormai molte biblioteche sono in Rete, e che mettono a disposizione sia il catalogo come anche dei libri in versione informatica, può rappresentare una strada per l’accesso a questi libri fino a poco fa non percorribile se non da pochissime persone, in genere studiosi e cultori della materia. Senza contare che molti fedeli laici cristiani, grazie al potenziamento e arricchimento delle biblioteche ecclesiastiche, possono approfondire la propria fede ponendosi in dialogo con la cultura contemporanea. E questo, sia approfondendo la Sacra Scrittura e le più recenti elaborazioni della teologia, sia tramite occasioni in cui sviluppare nuove forme di dialogo con la cultura contemporanea”.

Qual è il livello di utilizzo delle biblioteche ecclesiastiche attualmente? Per lo più vi accedono religiosi, studiosi e specialisti o anche persone comuni?
“Ci sono alcune biblioteche specializzate, come quelle delle Facoltà ecclesiastiche, che in genere sono frequentate soprattutto dagli studenti delle stesse Facoltà come anche da studenti delle Università civili che compiono studi o approfondimenti di tipo religioso. Invece per quanto riguarda le biblioteche parrocchiali, che hanno caratteristiche più ‘popolari’, e anche alcune biblioteche diocesane, esse svolgono un servizio utilissimo per un pubblico molto più vasto. Per esempio posso citare quella di Trapani che è diocesana e che ha un reparto per i ragazzi. Molti vanno in biblioteca a fare le proprie ricerche. Così il fatto che la biblioteca diocesana o parrocchiale metta a disposizione non solo dei libri ma anche materiale che sia utile per queste ricerche serve per allargare a un pubblico molto più vasto la consultazione dei libri religiosi che vi sono conservati”.

Internet alla lunga danneggerà le biblioteche oppure ne potenzierà l’uso?
“La Rete, come ogni strumento, è ‘ambiguo’. Può essere usata bene, oppure male. Io sono ottimista, penso che potrà potenziare l’uso dei libri, anche se obiettivamente c’è il rischio che alcune persone pensino che con la Rete non ci sia più bisogno di consultare i libri, allontanandosi da essi. Invece, guardando alla Rete da un’altra prospettiva, un suo corretto impiego potrebbe e dovrebbe stimolare la conservazione informatica degli stessi volumi facilitandone quindi l’utilizzo allargato a un’utenza più vasta”.

SIR dell’11/06/2013

X DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 17,17-24

In quei giorni, il figlio della padrona di casa, [la vedova di Sarepta di Sidòne,] si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che egli cessò di respirare. Allora lei disse a Elìa: «Che cosa c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?». Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto. Quindi invocò il Signore: «Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo». Il Signore ascoltò la voce di Elìa; la vita del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Elìa prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elìa disse: «Guarda! Tuo figlio vive». La donna disse a Elìa: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità». 

La pericope che narra la rianimazione del figlio della vedova di Zarepta è parte del “Ciclo di Elia” (1Re 17 — 2Re 2), un insieme di capitoli poco unitario ma che ha l’intento di narrare la vita del profeta attraverso una serie di racconti, alcuni dei quali miracolosi. Il contesto storico nel quale si inserisce anche il nostro brano testimonia la forte polemica che la fede yahwista — e in modo speciale la teologia deuteronomista — devono intrat­tenere contro i culti naturalistici e particolarmente baa­lici che tentavano ancora gli israeliti.

     Elia è l’uomo di Dio che testimonia con la propria vita il giudizio di YHWH. Per questo motivo la vedova, alla quale è appena morto il figlio, reagisce con aggressività («Che c’è tra me e te, o uomo di Dio?»: v. 18) alla presen­za del profeta: questi le ‘rinnova il ricordo’ del suo pec­cato. Il profeta, infatti, come uomo di Dio, rende attuale la presenza di Dio che rivela l’iniquità e fa prendere co­scienza delle colpe commesse. Inoltre il rimprovero che la vedova muove a Elia di avergli fatto morire il figlio rivela quel ‘principio della retribuzione’ molto radicato nella mentalità israelita, secondo il quale non c’è pecca­to che non sia accompagnato da un castigo. A tale prin­cipio si opporranno in modo deciso Geremia ed Ezechie­le (cfr. Ez 14,12; 18; Ger 31,29s.: «In quei giorni non si dirà più: i padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati. Ma ognuno morirà per la propria iniquità»).

     Il miracolo della rianimazione compiuto da Elia con un’azione simbolica quasi magica e con la parola sarà il segno per la vedova della veracità della parola e dell’a­zione profetica di Elia, oltreché la dimostrazione che il Dio della vita è YHWH e non Baal, il Dio vero è YHWH e non Baal. Il brano termina non a caso con una confes­sione di fede della vedova: «Ora veramente so che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (v. 24). Nel discorso nella sinagoga (Lc 4,17-27), Gesù parlerà della vedova di Zarepta come esemplare nell’accoglienza della grazia offerta.

 

Seconda lettura:  Galati 1,11-19

 Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. 

Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.

Nel contesto del severo ammonimento ai Galati, che si sono lasciati traviare da annunciatori d’un falso vangelo, Paolo rivendica l’autorevolezza del proprio annuncio ricorrendo a un’appassionata e commossa rievocazione della propria storia. È la vita stessa di Paolo, in un certo senso, a garantire che il vangelo da lui annunziato non è di origine umana, ma gli è stato rivelato direttamente da Gesù Cristo. E Paolo non nasconde nulla 

della sua vita: non nasconde lo zelo con cui ha perseguitato la chiesa di Dio e, tanto più, non nasconde l’azione di Dio nella sua esistenza, dalla elezione fin dal grembo materno, alla chiamata per grazia, alla scelta che Dio fa di lui come evangelizzatore del suo Figlio tra i pagani.

Ovviamente quando Paolo parla di questa rivelazione ‘diretta’ non vuole necessariamente intendere di aver ricevuto, sulla via di Damasco, tutto in una volta il ‘deposito della fede’. In altri testi, infatti, riprende i termini del racconto eucaristico, per esempio, o del kérygma pasquale così come li ha ricevuti ad Antiochia o a Gerusalemme (cfr. 1 Cor 11,23ss.; 15,1ss.). È più probabile che Paolo in questo contesto si riferisca alla rivelazione d’un nucleo kerigmatico che riguarda la giustificazione di Dio in Gesù Cristo per la fede e non per le opere della Legge. È questa rivelazione la buona novella che gli ha sconvolto la vita.

Resta il fatto che, pur con l’assoluta certezza dell’ori­gine divina del suo vangelo, sale a Gerusalemme per vi­sitare Cefa, ritenendo la comunione nella fede con chi era stato apostolo prima di lui, e testimone della vita, morte e risurrezione di Cristo, una condizione indispen­sabile dell’evangelizzazione. Quattordici anni dopo, Pao­lo ritornerà a Gerusalemme per esporre a Pietro, Giaco­mo e Giovanni il vangelo che predicava ai pagani, per non trovarsi «nel rischio di correre o di aver corso inva­no» (Gal 2,2).

 

Vangelo: Luca 7,11-17

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

Esegesi

      Oggi è un piccolo villaggio l’antica città di Naim , ai piedi dell’Hermon, a sud-est di Nazaret. Quasi sulla strada che vi conduce, ancora oggi è possibile scorgere delle tombe scavate nella roccia. È facile pensare che lì era diretto il feretro di cui parla Luca nel brano evangelico di oggi.

1)  La porta della città

Un figlio unico di madre vedova viene condotto alla sepoltura accompagnato da molta folla.

Alla porta della città, questa folla si incontra con un’altra folla che segue Gesù e i suoi discepoli. Chi entra, chi esce. Chi segue il morto, chi l’«Autore della vita», come Pietro chiama Gesù. Tra la vita e la morte c’è una porta. Alla porta c’è Gesù, che attende. Egli è la risurrezione e la vita, chi crede in lui anche se muore, vive.

2) Molta gente

La moltitudine di gente che sta con Gesù e la moltitudine che sta col giovane morto simboleggiano i due schieramenti che appariranno alla destra e alla sinistra del Giudice, nel giudizio universale.

Una è formata dalla moltitudine dei morti, l’altra dalla moltitudine dei vivi in Cristo. Dopo il giudizio si chiuderà per sempre una porta che separerà i figli della perdizione dai figli della risurrezione.

La rivelazione dice che sono molti coloro che seguono la strada larga che conduce alla morte, ed è una «moltitudine immensa» quella che segue l’Agnello, che è Via, Verità e Vita.

3) Figlio unico

Tale era il giovane condotto alla sepoltura. Egli è un simbolo. Di fronte al giudizio di Dio, infatti, ciascuno di noi è »unico» e solo. E tuttavia siamo insieme con una «folla» di fratelli santi che possono accompagnarci all’incontro con Gesù.

Quando siamo »morti» solo spiritualmente, cioè durante la vita ter­rena, beati noi se siamo accompagnati all’incontro con Cristo, perché solo lui può farci rivivere e farci sfuggire alla «seconda morte», come si esprime san Francesco.

Ma purtroppo c’è anche una moltitudine di gente intorno a noi che può farci allontanare dall’Autore della vita.

4) La madre vedova

San Luca accenna alla «compassione» di Gesù per la «madre vedova», che accompagnava suo figlio alla tomba: «vedendola — scrive l’evangeli­sta — il Signore ne ebbe compassione».

Il pensiero di Gesù dovette andare a Maria, vedova di Giuseppe, quando seguirà il suo «unico Figlio» dal Calvario alla tomba scavata nella roccia.

Allora non ci sarà nessuno a fermare il feretro e a consolare sua Madre, dicendole «Non piangere».

5) «Non piangere!»

Come si può dire «non piangere» a una madre vedova che perde l’u­nico figlio?

Quante volte si dicono parole vuote a coloro che soffrono, non sa­pendo cosa fare per dar loro consolazione.

Ma Gesù non dice parole vane; egli sa cosa sta per fare. Solo lui può consolarci quando il nostro cuore langue!

6) Si avvicinò e toccò la bara

La donna che da anni soffriva per il flusso di sangue pensò: se riu­scirò a toccare il suo mantello, guarirò». Lo toccò e fu guarita.

Una forza di vita usciva sempre dalla persona del Figlio di Dio:

quando toccava i ciechi, quanto toccava i lebbrosi, quando toccava i morti.

Ora tocca solo la bara, per toccare poi il giovane morto.

Fortunato quel giovane, che i portatori si fermarono al tocco di Gesù: «accostatosi, toccò la bara, mentre i portatori si fermarono». Se non si fossero fermati, il giovane sarebbe rimasto morto.

Anche questo simboleggia il tocco di Gesù alla «bara» che ci circonda. Gesù tocca la nostra bara ogni volta che sentiamo con le orecchie una parola santa e un buon consiglio, ogni volta che siamo sfiorati da un sacerdote, ogni volta che i nostri occhi guardano una chiesa o una tomba: beati noi se ci fermiamo nella nostra corsa verso morte! Gesù sta per mostrarsi a noi!

7) «Ragazzo, dico a te, àlzati!»

Gesù non disse «rivivi», così come a Lazzaro disse solo: «Lazzaro, vieni fuori».

Ma per «alzarsi» e per «venire fuori», un morto deve essere già vivo.

Gli spettatori gridarono al miracolo quando videro Lazzaro «venire fuori», e il giovane «alzarsi». Ma Gesù, in ambedue i casi, aveva già fatto il suo intervento miracoloso e amoroso, perché Gesù precede sempre i nostri desideri.

Fa pensare che i tre miracoli di risurrezione dai morti — nel vangelo — riguardano dei giovani, ivi compresa una fanciulla.

Ciò fa riflettere sull’assurdità della morte, che stronca chi è nato per vivere; sull’imparzialità della morte, che miete come, dove e quando vuole; sulla fragilità della morte di fronte al Salvatore, che la vince come, dove e quando vuole.

Un giorno, anch’egli giovane Uomo-Dio, la vincerà dopo tre giorni di lotta, e la vincerà per sempre e per tutti quando egli stesso ha stabilito.

8) Il morto si mise seduto e cominciò a parlare

La fanciulla dodicenne fu presa per mano, e Gesù la fece alzare. Lazzaro e il giovane ascoltano la voce della Vita — quasi vento che passa su alberi inariditi e li copre di fiori — e riprendono a vivere!…

Il giovane si alza a sedere, quasi a voler insegnare qualcosa dal fondo della bara. Infatti «cominciò a parlare».

Ma un morto insegna anche senza parlare!

9) Lo restituì a sua madre

Oltrepassata la porta della città e la porta della vita, il giovane ap­parteneva ormai non più alla madre ma al Signore che gli era venuto incontro. E il Signore lo restituisce alla madre che l’aveva perduto.

Poi venne un giorno in cui il giovane morì di nuovo e anche Gesù era morto. Ma ambedue riaprirono gli occhi alla vita eterna.

Quando morì la seconda volta, il giovane, Lazzaro e la fanciulla, fu­rono consegnati da Gesù al Padre di tutti.

10) Timore e gloria

La folla non ebbe timore della morte ma del mistero della vita che distrugge la morte per il volere di un «grande profeta è sorto tra noi». Ma il timore si trasforma ma subito in gioia e in inno di gloria per Dio che «ha visitato il suo popolo».

La gente percepisce che Dio visita il suo popolo non quando arriva la morte che è stipendio del peccato, ma quando dona la vita.

Meditazione

      C’erano due cortei, quel giorno, alla porta di Naim: il corteo della vita e il corteo della morte. Il primo rappre­sentato da Gesù con i suoi discepoli, il secondo dalla po­vera vedova che piange il figlio morto «con molta gente»; ma è soprattutto questo secondo contesto che attira l’at­tenzione e avvolge d’amarezza l’intera scena.

Anche la nostra esistenza è spesso attraversata da questi due cortei: c’è la vita che si afferma in noi, come un istinto che sembra invincibile; ma facciamo ogni giorno esperienza anche di morte, in noi e attorno a noi, in molti modi. Anzi, come quel giorno a Naim è la morte, ancor oggi, che si pone al centro dell’attenzione, spesso togliendoci la pace e facendoci dimenticare tutto il resto, la vita che scorre al presente e quella che ci è promessa nel futuro.

La commozione di Gesù di fronte alle lacrime della vedova è per noi consolantissima speranza: ci dice che il Signore vede la nostra condizione e si commuove, che le sue «viscere di misericordia» non restano insensibili di fronte alla nostra miseria, che egli può trasformare i nostri cortei funebri in danze di lode a lui, autore della vita. Per questo egli può chiederci di «non piangere». E se restituisce la vita al giovane allora la speranza diviene certezza, la certezza che la sua tenerezza ci può restituire «il figlio morto», la gioia della vita, l’amore tradito, la speranza delusa, la fede smarrita.

Tutto questo, in realtà, non è forse già successo nel nostro passato? Quante volte Dio ci ha visitato! Perché continuiamo ancora con le nostre processioni funebri? È amaro e rivolto anche a noi il lamento di Gesù su Gerusalemme: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace… ma non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,42.44). Beati noi, invece, se sapremo lasciarci incontrare alla porta di Naim, per finirla una buona volta con i nostri lamenti e intonare il canto della vita…

Preghiere e racconti

Viscere delle sue viscere

Anche se c’è peccato grave, che non può essere lavato da voi stessi con le lacrime del vostro pentimento, pianga per voi questa madre, la Chiesa, che interviene per ciascuno dei suoi figli come una madre vedova per figli unici; essa infatti compatisce, con una sofferenza spirituale che le è connaturale, quando vede i suoi figli spinti verso la morte da vizi funesti. Noi siamo le viscere delle sue viscere, poiché esistono anche viscere spirituali. Paolo le aveva, lui che diceva: «Sì, fratello! Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; da’ questo sollievo al mio cuore in Cristo!» (Fm 20). Noi siamo le viscere della Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo, fatti con la sua carne e con le sue ossa. Pianga dunque, la tenera madre, e la assista la folla; non solo una folla, ma una folla numerosa compatisca la buona madre. Allora voi vi rialzerete dalla morte, sarete liberati dal sepolcro; i ministri della vostra morte si fermeranno, voi comincerete a dire parole di vita; tutti temeranno, poiché per l’esempio di uno solo molti saranno ristabiliti; e, inoltre, loderanno Dio per averci accordato simili rimedi per evitare la morte.

(Ambrogio, Trattato sul Vangelo di Luca, I,93)

 

La sofferenza di Dio

Alle porte di Naim, Gesù ha «le viscere scosse» dal dolore di una vedova che accompagna alla sepoltura il suo unico figlio. Dice: «Non piangere», e poi risuscita il giovane. Ma, alla tomba di Lazzaro, egli piange, vedendo piangere Maria e i giudei che l’accompagnavano. Perché queste lacrime?, si chiede Newman. Tenerezza spontanea dell’amico, orrore del «soffio della tomba», che in seguito dovrà inghiottire nuovamente Lazzaro: il miracolo che egli com­pie è «una tregua, non una risurrezione». Ma c’è di più: qui Dio stes­so si trova faccia a faccia con la sua propria morte.

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio)

O Madre dei dolori

O Madre dei dolori è il tuo figlio che muore così

e l’Ufficio della flagellazione comincia

e le tue piaghe sono i sacri ornamenti che tu indossi

per la celebrazione del tuo martirio…

Il freddo scivola dolcemente sulla tua croce,

il serpente del primo giorno, l’eternità che si dispiega.

Mia Madre è lì ai tuoi piedi, persa nel sogno del suo figlio

e il No le sale in gola, l’urlo della bestia che sanguina

nel suo figlio offerto, partorendo

di nuovo il corpo minuto della sua angoscia,

il suo figlio di tenebre,

questo viso affilato d’ombra che si nutre

al suo stesso Giardino

con il singhiozzo come un diamante nelle sue dita.

Madre tutta fiorita del tuo dolore

ecco la ghirlanda sgualcita dei suoi occhi attorno a te,

la corolla fremente dei suoi pianti che si apre,

le orde illuminate di tutti i nostri morti attorno ai suoi polsi

ecco le sue lacrime che inchiodano la sua carne sul Legno

ecco la spada del suo Grido sulla tua bocca chiusa

ecco il suo cuore già becchettato dagli uccelli neri

della Collera.

(J. Cayrol, Canto funebre in memoria di Jean Gruber)

Preghiera

Ti benedico, Signore, Dio d’Israele, perché hai visitato e redento il tuo popolo. Ti benedico, Signore, perché hai mutato il mio lamento in danza e la mia veste di sacco in abito di gioia. Ti benedico, Signore, perché non resti indifferente davanti alla mia vita, e mi doni quella misericordia che nasce dalle tue viscere di madre. Ti bene­dico, perché ripenso a ogni giorno della mia storia; ri­penso a ogni volta che mi hai detto «Non piangere!», e io non ho più pianto, e ho visto la vita, e ho visto te che mi ridonavi la vita. Grazie, mio Dio!

Ma ti chiedo anche perdono perché molte di più sono state le volte in cui non ti ho saputo riconoscere tra le misteriose pieghe della mia storia, quando in particola­re mi hai nutrito con pane di lacrime per rivelare in me i segni della tua gloria, o quando mi hai associato al mi­stero della tua morte perché la tua vita risplendesse nelle mie membra. Ti chiedo perdono se in quei momen­ti ho avuto timore della tua opera e ho dubitato della tua promessa di vita. Ora so che quello era il tempo in cui mi hai visitato…

Tu, Padre, che sei il consolatore degli afflitti, tu che il­lumini il mistero della vita e della morte, fammi dono ogni mattino della tua visita, fino al giorno in cui chie­derai anche a me, come chiedesti al tuo Figlio, il dono totale della vita. Allora, nella gioia dello Spirito, vivrò per sempre accanto a te.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

X DOM TEMP ORD (C)

Giornata Mondiale dell’Ambiente

Oggi, mercoledì 5 giugno 2013, è la Giornata Mondiale dell’Ambiente. La ricorrenza venne celebrata per la prima volta nel 1972, a seguito della sua proclamazione da parte della Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Durante tale occasione prese forma il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP). Essa è conosciuta nel mondo come World Environment Day. Il tema centrale dell’edizione 2013 della Giornata Mondiale dell’Ambiente è costituito dalla lotta agli sprechi alimentari.

Da essa si vorrebbe promuovere l’inizio di una vera e propria campagna a livello internazionale contro gli sprechi di cibo. La FAO invita dunque tutti noi ad un impegno in prima persona su tale fronte. Evitare gli sprechi alimentari significa infatti preservare le risorse naturali del nostro pianeta. L’impegno dovrebbe avvenire sia dal punto di vista personale che da parte delle aziende, le quali sono invitate a partecipare minimizzando le conseguenze sul pianeta date dai metodi industriali della produzione alimentare.

Ogni anno un terzo del cibo prodotto nel mondo viene purtroppo sprecato. Quando esso si trasforma in rifiuto, seppur ancora commestibile, tutte le risorse impiegate per la sua produzione, a partire dall’acqua e dall’energia, finiscono letteralmente in fumo. Scegliamo dunque a partire dalla giornata di oggi di porre maggiore attenzione agli eventuali sprechi alimentari che potrebbero avvenire, soprattutto per disattenzione, tra le mura domestica.

Oggi – ha detto il Papa all’udienza generale, davanti a oltre 70 mila persone in piazza San Pietro – vorrei soffermarmi sulla questione dell’ambiente, come ho avuto già modo di fare in diverse occasioni, me lo suggerisce anche la odierna Giornata mondiale dell’ambiente, promossa dalle Nazioni  Unite, che lancia un forte richiamo a eliminare gli sprechi e la distruzione degli alimenti”.

Il Papa ha denunciato la tirannia del denaro e dello scarto, contro la persona .”Quello che comanda è il denaro – ha detto a braccio all’udienza generale – i soldi comandano, e Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, a noi, gli uomini e le donne, noi abbiamo questo compito”. “Se muore una persona non è notizia, se tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia, sembra normale, non può essere cosi”. Non abituiamoci al superfluo e allo spreco di cibo, ha detto.

Papa Francesco ha quindi ricordato “le prime pagine della bibbia”, in cui si dice che Dio ha affidato la creazione all’uomo e alla donna ,” perchè la coltivassero e la custodissero, cosa vuole dire – ha chiesto – ‘coltivare e custodire’, stiamo veramente coltivando e custodendo il creato oppure lo stiamo sfruttando e trascurando?”.

L’agricoltore cura la terra, ha spiegato papa Bergoglio, “perché dia frutto e perché questo frutto sia condiviso: è una indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi, è parte del suo progetto, vuole dire far crescere il mondo con responsabilità, farlo crescere perchè sia un giardino abitabile per tutti”. 

Papa Francesco ha quindi osservato che “Benedetto XVI ha ricordato più volte che questo richiede cogliere il ritmo della creazione, invece, presi dalla logica del dominare, del manipolare, non rispettiamo la creazione, non la consideriamo come dono gratuito, stiamo perdendo  l’atteggiamento dello stupore, dell’ascolto, della contemplazione della creazione, così non reggiamo più il ritmo della storia d’amore di Dio con l’uomo”.

Il Pontefice si è quindi chiesto perchè accada questo. “Ci siamo allontanati da Dio, – ha osservato – non leggiamo il suo segno: il coltivare e custodire non comprende solo  l’ambiente, riguarda anche rapporti umani e  i papi hanno parlato di ecologia umana, strettamente legata a quella ambientale”.

“Stiamo vivendo un momento di crisi – ha detto il Pontefice – lo vediamo nell’ambiente, ma soprattutto nell’uomo: la persona umana oggi è in pericolo, ecco l’urgenza della ecologia umana”.

A giudizio di papa Bergoglio “il pericolo è grave perché non è solo questione di economia, ma di etica e antropologia, la chiesa – ha detto –  lo ha sottolineato più volte e molti  dicono ‘si è giusto è vero’, ma il sistema continua come prima, perchè ciò che domina sono le dinamiche” del mercato, “quello che comanda è il denaro, i soldi comandano, ma Dio nostro padre ha dato il compito  di custodire la terra non ai soldi, ma a noi, gli uomini e le donne, noi abbiamo questo compito”.

Dopo le sue critiche al fatto che fanno notizia gli indici di borsa e non le persone e i bambini che muoiono di fame, e dopo la condanna della cultura dello spreco, il Pontefice ha fatto riferimento al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Con il miracolo, ha spiegato avanzano 12 ceste, “non ci sono scarti, il 12 rappresenta simbolicamente le tribù di Israele, cioè tutto il popolo, e questo ci dice che quando il cibo viene condiviso, niente va perduto ecologia  umana e ecologia ambientale camminano insieme”. 

Papa Francesco ha concluso la catechesi chiedendo di prendere sul serio l’impegno contro lo spreco e per una ecologia anche della persona. Invito questo che ha ripreso nei saluti ai diversi gruppi linguistici. Al gruppo arabo ha ricordato anche la situazione dei senza tetto:  “Non abituiamoci alla tragedia della povertà, ai drammi di tante persone senza tetto che muoiono sulle strade, a vedere tanti bambini senza educazione e assistenza medica”.