XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Abacuc 1,2-3;2.2-4

Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese.  Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».

 

Un testo forte, vorrei dire drammatico, sulla fede, sulle sue difficoltà e, pur tuttavia, sulla necessità di rimanervi attaccati con tutto il nostro essere è il brano della prima lettura, ripresa dal profeta Abacuc, di cui sappiamo quasi nulla, salvo che dovrebbe aver vissuto ed operato verso il 600 a.C., più o meno contemporaneo di Geremia.

     Davanti allo scempio che avevano fatto i Babilonesi distruggendo la città santa (587-86), davanti alla loro tracotanza e violenza, sembra che Dio si sia dimenticato del suo popolo e non voglia più ascoltare le sue suppliche. È per questo che il profeta insorge e mette quasi sotto accusa Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti… Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (1,2-3).

     Non è un bestemmiatore, il profeta, ma molto arditamente domanda al Signore se c’è un senso in tutto questo e se il popolo può ancora continuare a sperare. Alla fine Dio risponde e garantisce che a un tempo «stabilito», che lui solo conosce, la salvezza verrà: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (2,3).

     Il testo si conclude con una riflessione del profeta stesso, che lapidariamente descrive l’esito diverso di chi conta solo sulle proprie forze, come i Caldei, e di chi invece è «fiducioso» nel Signore, come devono esserlo i Giudei ai quali egli si rivolge: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4).

     È risaputo che Paolo adopererà questo testo, secondo la versione greca dei LXX, per formulare la sua dottrina della «giustificazione» per la sola fede in Cristo (cf. Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38). Nel testo originale più che di fede si parla di «fedeltà» a Dio, al suo disegno di salvezza: chi avrà il coraggio di «fidarsi» di lui, di buttarsi nelle sue mani, soprattutto nei momenti bui dell’esistenza, propria o della comunità, non verrà deluso, mentre «colui che non ha l’animo retto», perché confida solo in se stesso, «soccomberà».

 

Seconda lettura:  2Timoteo 1,6-8.13-14 

Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato. 

 

Nel brano della seconda lettera a Timoteo abbiamo di nuovo il tema della fede, però considerata più nel suo contenuto (la fides quae creditur, come dicono i teologi) che come atteggiamento dell’anima, aperta a ricevere il messaggio (fides qua creditur).

     E si capisce il perché di questa prospettiva diversa: Paolo si rivolge al suo discepolo prediletto, forse scoraggiato e un po’ anche depresso per le difficoltà del suo apostolato, allo scopo di richiarmarlo al senso della sua missione pastorale: «ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Nella sua consacrazione egli non ha ricevuto uno «spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (1,7): perciò non deve «vergognarsi» di rendere testimonianza al Signore Gesù, né delle «catene» in cui per il momento è costretto l’apostolo, quasi che fosse un perdente. Piuttosto «soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (1,8), prendendo proprio come esempio il suo maestro (1,13).

     A conclusione troviamo il solenne richiamo a custodire integro il «bene prezioso», cioè la totalità del mistero cristiano, da annunciare con coraggio e fedeltà. L’immagine del «bene prezioso» è ripresa dalla prassi giuridica del tempo, secondo la quale il depositario di qualche oggetto prezioso, o di una determinata quota di denaro, era obbligato a restituire integri, in qualsiasi momento, al depositante gli oggetti a lui affidati, pena gravissime punizioni in caso di inadempienza. A Timoteo è stato affidato qualcosa di più prezioso che oro o argento; di qui la sua grave responsabilità: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi » (1,14).

 

Vangelo: Luca 17,5-10 

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». 

Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». 

 

Esegesi 

Signore: «Accresci in noi la fede!».                     .

     Eloquente al riguardo è il brano di Vangelo, che si articola in due sezioni: la prima (Lc 7,5-6) è rintracciabile, diversa, nella comune tradizione sinottica (cf. Mc 9 24; Mt 17,20, 21,22), la seconda (17,7-10) fa parte del tipico patrimonio lucano ed è coerente con le dinamiche del suo pensiero.                   

     Dunque gli Apostoli, un bel giorno, chiedono a Gesù: «Accresci in noi la fede!». Accanto a lui, quotidianamente, non potevano non avvertire che in lui c’era qualcosa che andava oltre il comune limite dell’umano: si dovevano perciò essere aperti a un rapporto di «fiducia» altissima di fronte a Gesù. Ma questa era davvero «fede», come pensavano gli Apostoli dal momento che lo pregano di «aumentargliela»?

     Sembra che Gesù non condividesse questa convinzione, per il fatto che in forma ipotetica, afferma che di fede ne basterebbe solo un pizzico per compiere addirittura miracoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v. 6). 

     Due testi paralleli di Matteo riportano l’immagine del «monte» che potrebbe essere spostato nel mare; Luca, più coerentemente con l’immagine del «granello di senapa», parla di un gelso, o di un sicomoro, che è una delle piante più fortemente radicate sul terreno. Comunque, a parte la diversità delle immagini, il pensiero è chiaro: basta un mimmo di fede che sia autentica, profonda, al di là di ogni dubbio o incertezza, perché il miracolo, l’umanamente impossibile, avvenga.

     Perciò praticamente Gesù, per un verso, invita i suoi discepoli a verificare la propria fede; per un altro verso, assicura loro che la preghiera fatta con fede ottiene tutto: anche «l’aumento» e la «crescita» stessa della fede, esattamente come scrive S. Paolo, «di fede m fede» (Rm 1,17).

     — «Siamo servi inutili»                                      

     E soprattutto di fede «adulta», tesa costantemente a crescere, c’è bisogno quando potrebbe sembrarci che il nostro servizio fosse di poco conto, o che non fosse sufficientemente remunerato. È quanto si afferma nella seconda sezione del brano evangelico (vv. 7-10) con la parabola del servo che, dopo aver fatto il suo lavoro, nei campi o dietro il gregge, e

pregato ancora di preparare da mangiare al padrone prima di assidersi  pure lui a mensa.

     È indubbiamente urtante per la sensibilità moderna assai mercantilizzata la conclusione che ne trae Gesù: «Forse che il padrone si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (vv. 9-10).

     Gesù si riferisce qui alle abitudini sociali del tempo (che certamente non prevedevano contratti sindacali), senza peraltro esprimere nessuna valutazione morale al riguardo. Il quadro gli serve semplicemente per dire che davanti a Dio nessuno può avanzare delle pretese: anche il massimo che potremmo aver fatto non crea nessuna posizione di privilegio, perché abbiamo fatto solamente «quanto dovevamo fare». Siamo tutti «servi inutili» davanti a lui: ci ha scelti per pura grazia a collaborare alla costruzione del regno e dobbiamo rispondergli con pienezza di impegno, grati solo perché ci ha chiamati ad essere «servi», e non «padroni»: lui soltanto è il «padrone»!

     Questo discorso è chiaro che vale per tutti, ma soprattutto per coloro che Dio ha chiamato all’apostolato, proprio come i Dodici. Ciò che alla luce della ragione potrebbe apparire evidente, alla luce della fede appare addirittura esaltante: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare», proprio perché egli ci ha dato la grazia di farlo.

 

Meditazione 

     La fede è il tema unificante la prima lettura e il vangelo. Nella prima lettura si tratta della fede messa alla prova dal silenzio e dall’inazione di Dio e chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio. Così, anche in tempi bui, il giusto troverà vita grazie alla fede. Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.

     Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (Lc 17,5). Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini. Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio. Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte.

     E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera. E ancora che anche per loro, «gli apostoli» (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata. Anzi la fede è sempre «poca» e i discepoli sono sempre «uomini di poca fede», ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.

     La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi «obbedire» (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle. Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.

       Nel detto parabolico dei vv. 7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili. L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio. Il passaggio dall’«avere un servo» (Lc 17,7) all’«essere servi» (Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cfr. Mt 23,8-10). L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: «Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato» dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).

     Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7). La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla parola del Signore (Lc 17,10). Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato ad esercitare il suo ministero: l’inutilità. Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica. Paolo, dopo aver ricordato di aver «servito il Signore con tutta umiltà» (At 20,19) dice: «La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi e stato affidato dal Signore Gesù» (At 20,24).

Preghiere e racconti

Fede e certezze

Francesco parla anche del «cercare e trovare Dio in tutte le cose» di San’Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti, e spiega: «Si, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mose, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili». Così «l’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre».

(Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013/III) 3918, 449-477).

La fede di papa Francesco

«La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità. Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme».

(Dalla Lettera di Papa Francesco a Eugenio Scalfari – 11  settembre 2013). 

La possibilità della fede

“Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard). Eppure, credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.

(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28)

L’inquietudine della notte della fede

Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).

Fede

La fede non è una sicurezza ma un cammino silenzioso.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 184).

La ricerca di Dio

Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia. E che anche la Fede è una Notte Buia. Di certo, non può dirsi una sorpresa. Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia. Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti. Perché ‘confidano’. Perché hanno Fede. […] Ogni momento della vita è un atto di fede.

(Paulo COELHO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31)

Dona a ogni istante il mio amore eterno

Mio Dio, sorgente senza fondo della dolcezza umana,

addormentandomi lascio scorrere il mio cuore in Te

come un recipiente caduto nell’acqua di una fontana

e che Tu riempi di Te stesso senza di noi.

In Te domattina ritornerò a prenderlo

pieno dell’amore che occorre per la giornata.

O Dio, ne tiene poco, ahimè! Per quanto Tu spanda

i Tuoi flutti su di esso, non ne trattiene mai più di un po’.

Ma rinnovami senza fine questo po’ di acqua viva,

donamelo fin dall’alba, ai piedi dell’arduo giorno

e ridonamelo ancora quando giunge la sera,

prima di sera, Signore, poiché l’avrò perduto.

O Tu dal quale il giorno riceve senza sosta il giorno

grazie al quale l’erba che cresce è cresciuta nella notte,

che continuamente aggiungi all’albero che cresce

l’invisibile altezza che lo conduce in aria,

dona al mio cuore debole e molto limitato,

al mio cuore con tanta fatica amante e fraterno.

Dio paziente delle opere lente e piccole,

dona a ogni istante il mio amore eterno.

(M. Noël, I canti della pietà).

La tentazione dell’impazienza

«Cercare subito il grande successo, i grandi numeri… non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr. Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. […] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

Il dubbio e la grazia

Ogni mattino,

Dio nomina il suo governo.

Un giorno è il sole a presiederlo,

con il marmo e la rugiada

come grandi funzionari,

e laggiù nei mondi molto evanescenti

un albero di virtù

porta la sua ambasciata.

L’indomani,

Dio capovolge l’ordine:

il nero oceano gode della sua fiducia,

ed esso delega i suoi poteri

alla dolce collina,

al ruscello che canticchia,

a qualche mezzofico

trovato nella polvere.

Ma Dio deve perfezionarsi: è la sua legge;

oggi si circonda

di un pangolino esperto in scienze occulte,

di un’isola che gli mostra

discretamente della tenerezza,

di una pioggia fine dalle favole edificanti,

di una lunetta un po’ gobba

che gli riferisce le voci che circolano.

Dio non ha mai trovato un buon ministro

degli affari divini.

(A. Bosquet, Il libro del dubbio e della grazia)

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

 

 

 

Preghiera

Signore, fa di me ciò che vuoi!

Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me,

voglio ciò che Tu vuoi per me.

Non dico: “Dovunque andrai, io ti seguirò!”,

perché sono debole,

ma mi dono a Te perché sia Tu a condurmi.

Voglio seguirTi nell’oscurità,

non Ti chiedo che la forza necessaria.

O Signore, fa’ ch’io porti ogni cosa davanti a Te,

e cerchi ciò che a Te piace in ogni mia decisione

e la benedizione su tutte le mie azioni.

Come una meridiana non indica l’ora se non con il sole,

così io voglio essere orientato da Te,

Tu vuoi guidarmi e servirTi di me.

Così sia, Signore Gesù!

(John Henry Newman)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVII DOM TEMP ORD (C)

Seminario gratuito: Raccontarsi e Riscoprirsi. Il potere terapeutico dell’Autobiografia

Torna per il quinto anno consecutivo il Mese del Benessere Psicologico, l’importante  campagna di sensibilizzazione e promozione della cultura psicologica organizzata da  cinque anni dalla S.i.p.a.p. Società Italiana Psicologi Area Professionale privata che ha lo scopo di offrire gratuitamente ai cittadini italiani uno spazio per essere ascoltati  da specialisti e cercare i percorsi possibili per migliorare la qualità della propria vita. Un’iniziativa che ha acquisito sempre più consensi da parte della popolazione e delle  stesse istituzioni, tanto da raggiungere anche quest’anno sette regioni italiane:  Lombardia, Trentino, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Marche.
Le consulenze e i seminari, come sempre gratuiti per tutto il mese di ottobre, saranno  diretti a promuovere la cultura psicologica e ad informare i cittadini su tematiche  d’interesse psicologico.
Sarà messo a disposizione dell’utenza un centralino unico nazionale che sarà attivo dal  23 settembre per tutta la durata del mese di ottobre e metterà in contatto l’utenza con gli specialisti psicologi associati alla Sipap che aderiscono al progetto aprendo i loro studi e 
offrendo gratuitamente le loro competenze nelle diverse località italiane suddette.
 
Ecco le modalità per prenotare una consulenza o un seminario: 
I cittadini potranno telefonare dalla rete fissa al numero verde 800.76.66.44, mentre 
dai telefoni cellulari potranno comporre il 333.40.271.40.
Il centralino opererà dal Lunedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00, per il suo  tramite gli utenti potranno prendere appuntamento per una consulenza psicologica con lo psicologo più vicino, prenotare la partecipazione ai moltissimi seminari in calendario. 
 
Per consultare il calendario, le sedi dei seminari e i recapiti dei professionisti basterà  visitare il sito internet www.sipap.org da cui si accederà al sito che la S.i.p.a.p. ha  costruito appositamente per questo progetto www.mesebenesserepsicologico.it. 
Il sito offre un motore di ricerca interno in cui si può selezionare la regione d’appartenenza  in cui individuare sia gli psicologi esperti più vicini, sia i seminari più adatti alla sfera d’interesse dei singoli utenti. 
I seminari sono volti ad affrontare i temi che maggiormente interessano la società  contemporanea, dai conflitti di coppia all’educazione dei figli, dalla depressione all’ansia,  dalle dipendenze da sostanze e da gioco d’azzardo ai disturbi dell’alimentazione, dalle problematiche collegate alla crisi sociale e lavorativa al mobbing.
L’iniziativa offre anche un vasto panorama di tematiche che affrontano i tanti disagi esistenziali, il difficile incontro tra maschile e femminile, l’integrazione e la realizzazione del singolo, la cura delle problematiche dell’infanzia e dell’età evolutiva, i disagi e le 
opportunità della terza età, le perversioni. Gli psicologi interessate che partecipano al progetto sono circa 500 distribuiti nelle sette 
regioni interessate. I seminari sono circa 550.
 
La Sipap – Società Italiana Psicologi Area Professionale 

L’Italia terra di emigranti giovani e laureati

Monsignor Francesco Montenegro, sottolinea che l’attenzione della Chiesa per i migranti si riferisce “non solo all’evangelizzazione e all’amministrazione dei sacramenti né si limita a sollevare le sofferenze e i disagi con l’assistenza caritativa, ma comprende la promozione dei diritti umani e della giustizia verso ogni persona, di cui la cittadinanza è uno strumento”
 
“Vittima di una grande recessione, l’Italia nell’ultimo anno non è più stata fortemente attrattiva nei riguardi degli immigrati e come non accadeva da più di un decennio, nel 2012 si è avuta una brusca frenata degli ingressi di migranti nel territorio tricolore”. È quanto affermano i ricercatori del Rapporto Migrantes 2013 “Italiani nel Mondo” che è stato presentato questa mattina a Roma. D’altra parte, però, si è assistito “a un forte movimento interno anche degli stessi immigrati dalle regioni del Sud Italia verso il Centro-Nord e a una serie di importanti partenze verso l’estero di disoccupati, laureati, giovani e meno giovani e degli stessi immigrati e delle loro famiglie che sono ritornate nei luoghi di origine o hanno preferito spostarsi in Europa, in Paesi cioè dove il momento di crisi ha avuto meno ripercussioni sul piano del lavoro”.
 
Chi parte? Al centro del Rapporto i migranti italiani di ieri e di oggi, coloro che possiedono la cittadinanza italiana e il passaporto italiano ma vivono fuori dai confini nazionali, coloro che votano all’estero, che nascono all’estero da cittadini italiani, che riacquistano la cittadinanza, che si spostano per studio o formazione, che vanno fuori dall’Italia per sfuggire alla disoccupazione o perché inseguono un sogno professionale. Sono tanti gli italiani che dalle regioni del Sud si spostano al Nord per lavoro, per studio o per esigenze familiari o di coppia. Dietro i numeri ci sono le storie, belle e meno felici, facili e difficili, di realizzazione o di perdita, di riuscita o con un triste epilogo. Al 1° gennaio 2013 gli italiani residenti all’estero sono 4.341.156, il 7,3% dei circa 60 milioni di italiani residenti nel Paese. L’aumento, in valore assoluto, rispetto al 2012 è di 132.179 iscrizioni, pari a +3,1% e +5,5% rispetto al 2011. Dall’Italia dunque non solo si emigra ancora, sottolineano alla Migrantes, ma si registra un aumento nelle partenze che impone nuovi interrogativi e nuove strade da percorrere. Ed è questo l’impegno culturale che la Fondazione Migrantes si è imposta soprattutto alla luce degli ultimi sviluppi e dell’incremento numerico degli spostamenti che riguardano oggi migliaia di giovani, mediamente preparati o altamente qualificati.
 
I Paesi di emigrazione. La maggioranza degli emigrati italiani vive in Europa (2.364.263, il 54,5% del totale); a seguire l’America (1.738.831, il 40,1% del totale) e, a larga distanza, l’Oceania (136.682, il 3,1%), l’Africa (56.583, l’1,3%) e l’Asia (44.797, l’1,0%). In questo continente, nell’ultimo anno, hanno stabilito la residenza 3.500 italiani. Le comunità di cittadini italiani all’estero numericamente più incisive continuano ad essere quella argentina (691.481), tedesca (651.852), svizzera (558.545), francese (373.145) e brasiliana (316.699) per restare alle nazioni che accolgono collettività al di sopra delle 300mila unità. A seguire, il Belgio (254.741), gli Stati Uniti d’America (223.429) e il Regno Unito (209.720). Il 52,8% (quasi 2 milioni e 300mila) proviene dal Meridione, il 32% (circa 1 milione 390mila) dal Nord e il 15,0% dal Centro Italia (poco più di 662mila). La Sicilia, con 687.394 residenti, è la prima Regione di origine degli italiani residenti fuori dal nostro Paese, seguita dalla Campania, dal Lazio, dalla Calabria, dalla Lombardia, dalla Puglia e dal Veneto. Nel Rapporto, oltre ai numeri, lo studio sullo sviluppo della lingua italiana nel mondo ed in particolare in Paesi come il Camerun; la presenza degli italiani in alcuni Paesi come la Cina, il Vietnam, la Crimea, i Paesi Bassi, l’Egitto, Haiti; i grandi architetti italiani nel mondo; l’emigrazione italiana nel mondo proveniente dal Trentino, dall’Emilia Romagna, dal Lazio, da Lucca o da Palermo con il suo porto.
 
Nuove mobilità. Il Rapporto si concentra anche su figure della Chiesa del passato, legate alla mobilità italiana, descrivendole e attualizzandole, dando modo così al lettore di sentirne la modernità e la vitalità. Nel 2013 l’attenzione è posta su santa Francesca Saveria Cabrini. E ancora la figura di padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, che ha iniziato il suo ministero negli anni ‘70 tra gli emigranti italiani in Germania. Attualmente sono 615 gli operatori in servizio per gli italiani in 375 Missioni cattoliche di lingua italiana distribuite in 41 nazioni nei 5 continenti. “Le nuove mobilità sono diventate una priorità per la Chiesa italiana”, ha detto il presidente della Commissione episcopale per le migrazioni (Cemi) e della Migrantes, monsignor Francesco Montenegro, sottolineando che l’attenzione della Chiesa per i migranti si riferisce “non solo all’evangelizzazione e all’amministrazione dei sacramenti né si limita a sollevare le sofferenze e i disagi con l’assistenza caritativa, ma comprende la promozione dei diritti umani e della giustizia verso ogni persona, di cui la cittadinanza è uno strumento”. Tra i propositi dell’VIII Rapporto, ha poi spiegato il direttore generale della Migrantes monsignorGiancarlo Perego, “l’attenzione ai giovani e alla loro mobilità; la riflessione costante sulla cittadinanza e il diritto di voto; una maggiore cura dell’immagine dell’Italia e della mobilità italiana nei mass media italiani e internazionali; il mantenere viva l’attenzione per gli emigrati in difficoltà e le loro famiglie”.
 
a cura di Raffaele Iaria

Mese del benessere psicologico 2013

Il Mese del Benessere Psicologico è una campagna di sensibilizzazione e promozione della cultura del benessere della persona che punta a migliorare la qualità della vita.

Il Mese del Benessere Psicologico è realizzato grazie alla disponibilità di psicologi, liberi professionisti, i quali offrono consulenze e seminari gratuiti.

L’iniziativa nasce con l’obiettivo di :

  • Promuovere il Benessere Psicologico come valore fondante e ideale della qualità di vita di ciascuna persona, come  fattore di crescita personale e di mantenimento dell’equilibrio  dell’esistenza personale e sociale;
  • Informare sul ruolo dello psicologo e sulle sue funzioni nonché sull’esistenza di centri e studi  sul territorio che erogano servizi clinici e di consulenza  affinché si abbia un’alternativa al servizio pubblico;
  • Far conoscere il panorama delle professionalità che ruotano attorno al mondo della psicologia per  sapere, a seconda dei casi, a chi sarebbe più opportuno rivolgersi (psichiatra, neurologo assistente sociale ecc).

Per informazioni contattare il call center dal 23 settembre al 31 ottobre 2013, dal lunedì al venerdì dalle ore 09,00 alle ore 18,30 al numero 800.766.644 (solo da rete fissa) oppure al numero
333/4027140

Il progetto prevede la possibilità richiedere una consulenza gratuita ad uno dei nostri psicologi oppure partecipare, sempre gratuitamente, ai seminari organizzati nell’ambito del Mese del Benessere Psicologico.

Per conoscere i titoli e gli argomenti dei seminari gratuiti condotti dai professionisti aderenti al MBP clicca qui CLICCA QUI. Visualizzerai una tabella con tutti i seminari organizzati nella tua regione. A quel punto sarà sufficiente inserire nel campo di ricerca una delle seguenti parole chiave (Cap, Comune, Provincia, Ambito attivita’, Relatori, ecc.), per selezionare i seminari organizzati nella tua zona o inerenti ai tuoi interessi.

L’UPS in lutto per l’improvviso trapasso del prof. Riccardo Tonelli

(Roma, 1 ottobre 2013) – Nelle prime ore di martedì 1° ottobre, il prof. don Riccardo Tonelli, SDB, già docente della Facoltà di Teologia, ha terminato il suo percorso terreno per iniziare quello eterno nell’abbraccio della misericordia infinita di Dio.

Don Tonelli era nato a Bologna, il 3 novembre 1936; era diventato salesiano nel 1953 ed era stato ordinato sacerdote l’8 aprile del 1963 a Monteortone. In questa dolorosa circostanza ci preme ricordare la generosa assiduità e ilsaggio e instancabile impegno che don Tonelli ha posto nell’assolvere il suo servizio di docenza e di ricerca. Numerosi gli incarichi accademici e religiosi che gli sono stati di volta in volta richiesti e affidati, sempre al servizio della missione salesiana, e ai quali don Tonelli ha risposto con vivace e creativa disponibilità.
Come ogni salesiano, don Riccardo ha seguito il percorso della formazione nella sua ispettoria di origine (Lombardo-Emiliana): il noviziato a Montodine, lo studentato filosofico a Nave, il tirocinio a Castel de’ Britti e a Ferrara, gli studi teologici nello studentato di Monteortone. Inviato alla Pontificia Università Lateranense, vi ha conseguito la licenza in teologia nel 1964. A partire da tale data fino al 1980 ha svolto dapprima il ministero presbiterale e l’incarico di direttore dell’oratorio di Sesto San Giovanni (1964-1967), poi quelli di membro del Centro Salesiano di Pastorale giovanile di Torino e di redattore della rivista Note di Pastorale Giovanile (1968-1980).
Negli anni 1974-1977, mentre stava elaborando il suo dottorato in Teologia pastorale, è stato invitato dalla Facoltà di Scienze dell’Educazione a tenere corsi e seminari di animazione culturale e di pastorale giovanile in qualità di assistente. Nel 1977 ha ottenuto il dottorato in Teologia pastorale con la difesa della dissertazione intitolata Per una pastorale giovanile oggi. Ricerca teologica e orientamenti metodologici, che meritò il prestigioso riconoscimento del premio Malipiero. Cooptato in quello stesso anno nella Facoltà di Teologia, vi ha tenuto ininterrottamente corsi, seminari e tirocini attinenti il vasto campo della pastorale giovanile, prima come docente aggiunto (1977-1981), poi come professore straordinario (1981-1986), quindi come ordinario (1986-2006) ed infine come emerito (2006-2013).
Assai apprezzato per la sua competenza in pastorale giovanile, don Tonelli ha diretto per due decenni la rivista Note di PG (prima citata) ed è stato invitato a tenere corsi di specializzazione in tale settore in vari centri di studio, sia accademici (Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium” di Roma, Facoltà teologica dell’Italia Meridionale, Molfetta-Bari) sia di seria divulgazione scientifica in numerose città italiane. Inoltre, ha partecipato con propri contributi scientifici a congressi, convegni, forum e seminari di studio a raggio regionale, nazionale e internazionale.
Negli oltre quarant’anni di docenza universitaria, don Tonelli ha prodotto un’ampia serie di studi: una ventina di libri elaborati personalmente e una decina redatti in collaborazione con altri; una mole considerevole di articoli di alto valore scientifico; numerosi contributi a libri, dizionari, riviste e giornali di seria divulgazione scientifica, che testimoniano un vasto e articolato impegno di ricerca su tematiche riguardanti la pastorale giovanile con particolare riferimento al sistema preventivo, preziosa eredità del nostro santo fondatore, Don Bosco.
Stimato dai suoi colleghi e apprezzato dalle autorità accademiche per la sua non comune capacità di dialogo, diretta a creare convergenza tra i colleghi nelle diverse istituzioni accademiche, don Tonelli ha ricoperto nella nostra Università numerosi incarichi di responsabilità: direttore dell’Istituto di teologia pastorale (1983-1998), vicedecano della Facoltà di Teologia (1987-2006), coordinatore del Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica (1998-2006), membro del Senato Accademico (1984-2006), vicerettore dell’UPS (2000-2006). Don Tonelli inoltre era anche il direttore responsabile di NotizieUps, la rivista con cui l’Università è in contatto con i suoi studenti, ex allievi, benefattori e amici. Prima come qualificato esperto del settore e poi come Coordinatore don Tonelli ha contribuito in modo lodevole e assai efficace alla progressiva e periodicamente rinnovata configurazione e realizzazione del Dipartimento di Pastorale Giovanile e Catechetica il quale, secondo il dettato degli Statuti (art. 1 § 2), «per la sua diretta corrispondenza con la missione specifica dei Salesiani di Don Bosco, riveste nell’UPS una particolare importanza».
A questo si aggiunge che don Tonelli, godendo della piena fiducia dei Superiori, è statoapprezzato esperto del nostro dicastero per la pastorale giovanile, direttore della comunità di san Domenico Savio della Visitatoria UPS (1989-1995), membro del consiglio della Visitatoria (1993-1995 e 2004-2006), regolatore dei Capitoli della Visitatoria del 1992 e del 1995, e moderatore delle Visite d’insieme del 1994 e del 2006. Partecipò inoltre al Capitolo Generale 26 come delegato della Visitatoria Santa Maria della Speranza. Dal 2009 don Riccardo rivestiva la responsabilità della direzione della comunità Gesù Maestro.
Lo scorso luglio la sua salute è precipitata al punto che si è dovuti intervenire con una operazione presso la vicina clinica Villa Salaria. Dopo una considerevole ripresa che faceva ben sperare, l’improvvisa ricaduta ha richiesto la sua degenza presso l’infermeria dell’UPS dove ha ricevuto le sollecite cure delle suore Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria.
Ringraziamo il Signore di avere donato don Tonelli all’Università e alla Congregazione Salesiana e lo affidiamo alla sua misericordia. I funerali si svolgeranno mercoledì 2 ottobre alle 11.00 nella Chiesa dell’Università Salesiana.

Papa Francesco a Scalfari: “Basta cortigiani, così cambierò la Curia. La Chiesa deve aprirsi alla modernità”

Aprirsi alla modernità è un dovere: così Papa Francesco in un colloquio con il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, pubblicato oggi sul quotidiano diretto da Ezio Mauro.

In un dialogo in Vaticano, Bergoglio ha parlato a Scalfari dei suoi piani per una riforma della Chiesa. Da oggi a giovedì Francesco si riunisce con il Consiglio degli otto cardinali, istituzionalizzato con un chirografo dello stesso pontefice.

“I più gravi dei mali che affliggono il mondo” sono “la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi”, dice il Papa al fondatore di Repubblica. E il “liberismo selvaggio” non fa che “rendere i forti più forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi”. “Ci vuole grande libertà – aggiunge – nessuna discriminazione, non demagogia e molto amore. Ci vogliono regole di comportamento e anche, se fosse necessario, interventi diretti allo Stato per correggere le diseguaglianze più intollerabili”.

Il Papa: “Quando incontro un clericale, divento anticlericale di botto”. Il colloquio/intervista si estende su 3 pagine del quotidiano e va dai cambiamenti che Francesco intende portare nella Chiesa all’idea stessa di fede. “È vero, non sono anticlericale, ma lo divento quando incontro un clericale”, spiega Scalfari. E il Papa gli risponde con una battuta che dice molto di lui: “Capita anche a me, quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto. Il clericalismo non dovrebbe avere niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo, che fu il primo a parlare ai Gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni, fu il primo ad insegnarcelo”.

“La corte è la lebbra del papato”. In alcuni passi dell’intervista Francesco usa toni molto duri verso la Chiesa e la sua organizzazione. “I Capi della Chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la lebbra del papato”. Cosa intende per corte? “Quella che negli eserciti chiamano l’intendenza, gestisce i servizi che servono alla Santa Sede. Però ha un difetto: è Vaticano-centrica. Vede e cura gli interessi del Vaticano, che sono ancora, in gran parte, interessi temporali. Questa visione Vaticano-centrica trascura il mondo che ci circonda. Non condivido questa visione e farò di tutto per cambiarla. La Chiesa è o deve tornare a essere una comunità del popolo di Dio e i presbiteri, i parroci, i vescovi con cura d’anime, sono al servizio del popolo di Dio”.

“Combattere la disoccupazione e ridare speranza ai giovani”. Papa Francesco parla a lungo anche di problemi dei giovani, della disoccupazione e della mancanza di speranza. “I giovani – dice – hanno bisogno di lavoro e di speranza, ma non hanno né l’uno né l’altra, e il guaio è che non li cercano più. Sono schiacciati sul presente. […] si può vivere schiacciati sul presente? Senza memoria del passato e senza il desiderio di proiettarsi nel futuro costruendo un progetto, un avvenire, una famiglia? È possibile continuare così? Questo, secondo me, è il problema più urgente della Chiesa”.

Per un’organizzazione della Chiesa più orizzontale. Riguardo al suo impegno per cambiare la Chiesa, Francesco si mostra determinato ad andare fino in fondo, pur non essendo “certo Francesco d’Assisi, non ho la sua forza e la sua santità”. “Sono il vescovo di Roma e il Papa della cattolicità e ho deciso come prima cosa di nominare un gruppo di 8 cardinali che siano il mio Consiglio, non cortigiani ma persone sagge ma animate dai miei stessi sentimenti. Questo è l’inizio di quella Chiesa con un’organizzazione non soltanto veritcistica ma anche orizzontale. Quando il cardinale Martini ne parlava mettendo l’accento sui Concili e sui Sinodi, sapeva benissimo come fosse lunga e difficile la strada da percorrere in quella direzione. Con prudenza ma fermezza e tenacia”.

Il Papa in versione intervistatore: “E lei, in che cosa crede?”. A un certo punto del colloquio, il dialogo quasi si ribalta e l’intervistatore diventa il Papa. “Ora lascia a me di farle una domanda: lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede? Lei è uno scrittore e un uomo di pensiero. Crederà dunque in qualcosa, avrà un valore dominante. […] Si domanderà certo, come tutti, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Se le pone anche un bambino queste domande. E lei?”.

La risposta di Scalfari è: “Io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti”. “E io – gli risponde il Papa – credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio. E credo in Gesù Cristo, sua incarnazione. Gesù è il mio maestro e il mio pastore, ma Dio, il padre, Abbà, è la luce e il Creatore. Questo è il mio Essere. Le sembra che siamo distanti?”.

Il Papa e il comunismo. “Ebbi un’insegnante verso la quale concepì rispetto e amicizia, era una comunista fervente”, racconta Francesco ricordando il tempo dei suoi studi. “Spesso mi leggeva e mi dava da leggere testi del Partito Comunista. Così conobbi anche quella concezione molto materialistica. Ricordo che mi fece avere anche il comunicato dei comunisti americani in difesa dei Rosenberg che erano stati condannati a morte. La donna di cui le sto parlando fu poi arrestata, torturata e uccisa dal regime dittatoriale allora governante in Argentina”. “Il comunismo la sedusse?”, gli domanda Scalfari. “Il suo materialismo non ebbe alcuna presa su di me. Ma conoscerlo attraverso una persona coraggiosa e onesta mi è stato utile, ho capito alcune cose, un aspetto sociale, che poi ritrovai nella dottrina sociale della Chiesa”.

29° Corso di Formazione permanente per formatori vocazionali

Sono aperte le iscrizioni al 29° Corso di Formazione permanente per formatori vocazionali di vita consacrata, del clero diocesano eanimatori di comunità. Il corso ha inizio lunedì 17 febbraio e si conclude venerdì 30 maggio 2014, per la durata di 14 settimane (corrispondente a un semestre accademico).

Le lezioni si svolgono dalle 8.30 fino alle 13.00 da lunedì a venerdì. Vi saranno anche lavori seminariali in qualche pomeriggio. È richiesta la frequenza regolare a tutte le iniziative del Corso e per tutta la durata delle attività accademiche. Le richieste di iscrizione devono essere fatte dal Superiore competente e devono pervenire alla direzione del Corso il più celermente possibile, per numero limitato di posti disponibili. A quanti saranno ammessi verranno successivamente indicate le modalità di iscrizione.
Il Corso, attivato per rispondere alla necessità di riqualificazione, intende offrire uno stimolo per riflettere sulla formazione delle vocazioni e per fare un serio “lavoro su se stessi” con lo scopo di un autentico rinnovamento spirituale e pedagogico per coloro che lavorano nella formazione. Si tratta soprattutto di rivedere il percorso metodologico del processo di formazione iniziale e seminaristico adeguandoli alla richiesta dell’Esortazione Apostolica “Vita Consecrata” e “Pastores dabo vobis“. Il Corso, perciò, è un prezioso aiuto pedagogico per quei formatori che hanno un’esperienza operativa già di qualche anno e sono tuttora: responsabili della formazione iniziale delle vocazioni consacrate e dei seminari diocesani; responsabili dei corsi di formazione permanente; animatori di comunità; membri di équipe provinciali diocesane o internazionali di animazione vocazionale. Non si tratta, quindi, di un Corso di Rinnovamento, di Formazione di base per Formatori o di semplice Formazione Permanente alla Vita Consacrata e Presbiterale, ma di un corso di formazione permanente di idoneità pedagogica per coloro che attualmente sono già formatori e vogliono aggiornare la loro preparazione di base.
Il Corso viene articolato in 5 dimensioni strettamente vincolate tra di loro: spirituale; biblico-teologica; antropologica (psico-sociologico-culturale); ecclesiale-carismatica; pedagogico-esperienziale. La metodologia di lavoro prevede il collegamento unitario e continuo dei contenuti, l’apertura interdisciplinare e l’attenzione agli aspetti pedagogici e metodologici della formazione vocazionale, collegati con i contenuti teologici, spirituali, antropologici e pedagogici dell’identità e del divenire vocazionale. A tale scopo il Corso integra lo studio sapienziale con l’esperienza e con la cura del rinnovamento personale dei partecipanti in un clima di forte vita formativa come singoli e come gruppo; lezioni sistematiche dettate da esperti nella materia, seminari, tavole rotonde, gruppi di studio e di ricerca; visite a istituzioni, parrocchie, e centri di interesse inerenti al Corso ed esperienze significative; tempi organizzati per il rinnovamento personale, spirituale, psicologico e per la preghiera comunitaria;settimana di convivenza residenziale.
Sede del Corso è l’Università Pontificia Salesiana. Responsabile è il prof. Giuseppe Roggia.

Depliant

Il catechista risveglia negli altri la memoria di Dio

Papa Francesco celebra la messa per i catechisti: «Se le cose, il denaro, la mondanità diventano centro della vita, ci perdiamo». E invita ancora a pregare per la pace in Siria e in Medio Oriente

«Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri, … distesi su letti d’avorio», mangiano, bevono, cantano, si divertono e non si curano dei problemi degli altri. Papa Francesco nell’omelia della messa per i catechisti  nell’Anno della Fede è partito da queste «dure parole» del profeta Amos nella prima Lettura per descrivere «un pericolo che tutti corriamo». Quello che «di adagiarsi, della comodità, della mondanità nella vita e nel cuore, di avere  come centro il nostro benessere». Finendo così per fa consistere la vita nell’avere, nelle cose, perdiamo il nostro stesso volto, come il ricco del Vangelo, che «non ha nome» perché «le cose, ciò che possiede sono il suo volto». Questo accade, ha spiegato il Papa, «quando perdiamo la memoria di Dio» e tutto  «si appiattisce sull’io, sul mio benessere… Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità».

«Guardandovi – ha continuato Francesco – mi chiedo: chi è il catechista? È colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri». Come ha fatto Maria, che dopo l’annunciazione non ha pensato «all’onore, al prestigio, alle ricchezze» ma è partita per andare ad aiutare l’anziana parente incinta, Elisabetta e quando è arrivata ha lodato l’iniziativa di Dio nel «magnificat».

«La fede – ha aggiunto Bergoglio – contiene proprio memoria della storia di Dio con noi, la memoria dell’incontro con Dio che si muove per primo, che crea e salva, che ci trasforma; la fede è memoria della sua Parola che scalda il cuore, delle sue azioni di salvezza con cui ci dona vita, ci purifica, ci cura, ci nutre. Il catechista è proprio un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà». Il catechista, ha aggiunto, «è un cristiano che porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri. È impegnativo questo! Impegna tutta la vita!». 

Il Papa ha quindi chiesto ai catechisti: «Vi domando: siamo memoria di Dio? Siamo veramente come sentinelle che risvegliano negli altri la memoria di Dio, che scalda il cuore?». E ha domandato ancora: «Quale strada percorrere per non essere persone “spensierate”, che pongono la loro sicurezza in se stessi e nelle cose, ma uomini e donne della memoria di Dio?». La risposta è contenuta nella lettera di san Paolo a Timoteo, proclamata nella seconda lettura, che diventa un programma anche per i catechisti: «tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza». Il catechista, spiega ancora Francesco «è uomo della memoria di Dio se ha un costante, vitale rapporto con Lui e con il prossimo; se è uomo di fede, che si fida veramente di Dio e pone in Lui la sua sicurezza; se è uomo di carità, di amore, che vede tutti come fratelli; se è uomo di pazienza e perseveranza, che sa affrontare le difficoltà, le prove, gli insuccessi, con serenità e speranza nel Signore; se è uomo mite, capace di comprensione e di misericordia».

Papa Francesco ha rivolto anche oggi un pensiero al conflitto in Siria, e lo fa, prima della recita dell’Angelus in piazza San Pietro, rivolgendo «un saluto particolare» al patriarca greco ortodosso di Antiochia Youhanna X”, che chiama «mio fratello». «La sua presenza – dice – ci invita a pregare ancora una volta per la pace in Siria e nel Medio Oriente». 

Al momento della scambio del segno di pace, durante la messa in Piazza San Pietro per la Giornata dei Catechisti, papa Francesco aveva scambiato un abbraccio, tra gli altri, proprio col patriarca greco ortodosso di Antiochia e tutto l’Oriente, Youhanna X, in questi giorni a Roma per partecipare al Meeting di Sant’Egidio.Il patriarca, che ha già avuto un incontro con il Papa in Vaticano nei giorni scorsi, è il fratello di uno dei due vescovi ortodossi rapiti in Siria.

ANDREA TORNIELLI
CITTÀ DEL VATICANO

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 6,1.4-7

Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.

 

La insipienza del ricco bollata nel Vangelo ha avuto, purtroppo, tanti modelli prima, e troverà ancora tanti imitatori.

     Il tempo di Amos (VIII secolo a.C.) conosce un boom di benessere che alcuni fortunati ritrovamenti archeologici hanno potuto documentare: letti d’avorio (cf. v. 4), case estive, (cf. 3,75), sfacciata ricchezza. A fronte di un florido benessere per pochi, sta la povertà o la miseria per molti. Non è ammissibile una simile sperequazione. Lo squilibrio sociale è indice di uno squilibrio morale.

     La parola del profeta, scarna e rude perché viene da un pastore avvezzo ad una vita essenziale, giunge chiara e forte, tagliente e impietosa. Se alcuni si danno alla ‘bella vita’, dilettandosi nel dolce far niente, nelle gozzoviglie e nei piaceri, altri sono abbandonati a se stessi. La descrizione del lusso e della irresponsabilità della classe dirigente non ha eguali in tutto l’A.T. Amos sferza coloro che non si rendono conto di andare verso il baratro, e non si curano della «rovina di Giuseppe», cioè della situazione disperata e tragica del paese, ormai allo sfascio politico, sociale e religioso.

     La rovina, imminente e ormai palpabile, prende il tragico nome di «esilio». Il quadretto iniziale, quasi ‘da Olimpo’ serve da capo d’accusa per la condanna finale. Anche qui, come già per il Vangelo, si assiste ad un catastrofico ribaltamento di situazione.

     Il messaggio diventa monito per non perdere tempo in cose fallaci e, in maniera positiva, un invito a scelte coraggiose, capaci di ripristinare un equilibrio. Finché siamo nel tempo, abbiamo l’opportunità per un rinnovamento, certi che il futuro roseo viene preparato dall’impegno di oggi.

 

Seconda lettura: 1Timoteo 6,11-16

Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen. 

 

Una lettera calda, ricca di paterna attenzione al giovane collaboratore Timoteo, che Paolo si premura di istruire e di indirizzare perché sia una corretta guida della comunità ecclesiale. Prima di concludere la lettera, l’Apostolo sente il dovere di incoraggiare il caro amico. Una solenne dossologia suggella il brano e, ormai, tutta la lettera.

     «Uomo di Dio» è l’onorevole titolo con il quale Paolo chiama Timoteo. Forse è da intendere nel senso che il suo collaboratore è un uomo al servizio di Dio, uno strumento nelle sue mani, così come lo furono gli uomini dell’Antica Alleanza. L’incoraggiamento dondola su due verbi all’imperativo: «evita», riferito, secondo la maggior parte degli esegeti al contenuto espresso nei vv. 2b-10, e «tendi» («insegui»), inteso nel senso di ricercare con l’intento di ottenere «la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza, la mitezza». Elencando alcune virtù, sempre a mo’ di esempio, viene affermata l’esigenza di una vita totalmente e radicalmente cristiana. Parlando di «giustizia» (greco dikaiosyne) non si intende il senso paolino di giustizia divina concessa gratuitamente (cf. soprattutto Rm e Gal), ma la vita retta che Dio indica. Con «pietà» si fa riferimento all’esistenza cristiana pratica. Pertanto, considerando la coppia giustizia-pietà, abbiamo la definizione dell’intera esistenza umana in rapporto a Dio e agli uomini. L’elenco prosegue poi con virtù che sono specifiche dell’ethos cristiano.

     Segue, al v. 12, una nuova immagine, quella del combattimento, che Paolo usa anche altrove (cf. 1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14). L’uomo di Dio deve affrontare la gara, come un campione e con decisione, per due motivi: per rispondere alla chiamata di Dio e per onorare l’ingaggio. Si insinua così il vero significato dell’immagine: Paolo richiama alla memoria di

Timoteo — e attraverso lui a tutti i cristiani — la conoscenza che la fede viene vissuta nel contrasto, e che la vita eterna va conquistata nella lotta. Lo sforzo, a cui va l’appello, è aperto alla speranza di conseguire lo scopo mediante la vocazione di Dio. Oziosi e neghittosi sono categoricamente esclusi dal conseguimento della vita. Nella chiamata è incluso l’impegno della professione di fede emessa un giorno «davanti a molti testimoni», la quale non può essere tradita.

     Grazie ad un fortunato parallelismo, la professione cristiana di Timoteo davanti a molti testimoni è posta in relazione con la testimonianza che Gesù Cristo ha reso davanti a Pilato. Cristo è stato il primo a dare una eccellente testimonianza, mediante la sua passione e morte. Ora spetta a Timoteo mantenersi fedele a quella professione di fede e adempiere i comandamenti di Dio con una condotta di vita irreprensibile.

     Poi il discorso si eleva. Sembra che Paolo utilizzi il materiale di una antica professione di fede. La giovane guida della comunità di Efeso deve custodire puro «il comandamento», fino al solenne ritorno di Cristo nella parusia. Il termine «manifestazione» (in greco epifáneia), secondo alcuni autori, richiama l’idea di una festosa comparsa, quando improvvisa e straordinaria; comunque, di essa non è dato sapere il momento. Nelle lettere pastorali il termine epifáneia indica la manifestazione di Cristo nel suo trionfo escatologico (cf. 2Tm 1,10; Tt 2,11).

     La sezione si chiude con una dossologia innica, che ricorda quella dell’inizio della lettera (cf. 1,17), e termina in bellezza l’incoraggiamento di Paolo a Timoteo. In questi versi, di mirabile fattura poetica, sono condensati alcuni attributi divini di derivazione sia biblica che ellenistica. La dossologia «a lui onore e potenza per sempre. Amen» pone il sigillo al nostro brano. Nel suo insieme, ricorre ancora 1Tm 1,17 e 2Tm 4,18. Qui la gloria è sostituita da forza e potenza. La cosa è dovuta alla forte sottolineatura del primato di Dio e della sua sovranità nei confronti di ogni presunta divinità imperiale. Il «per sempre» taglia corto, quasi a dire che «su questo argomento non si potrà mai più tornare, tanto esso è certo e sicuro. Per le comunità giudeocristiane, il contrario non può che essere blasfemo» (C. Marcheselli-Casale). Con la parola «Amen» si chiude il frammento innico. È una parola che suggella, in questo caso, il nostro impegno.

 

Vangelo: Luca 16,19-31 

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 

Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

 

Esegesi 

     Il lettore prova forse un po’ di disagio a leggere una parabola, così poco ‘cristiana’ e molto ‘giudaica’. Eppure il tema della retribuzione, anche se privo di tratti tipicamente cristiani, ricorda l’impegno a condurre la vita in proiezione dell’esistenza ultraterrena. È un invito a non lasciarsi ingabbiare da una mentalità ripiegata su se stessa, incapace di aprirsi al futuro e soprattutto ignara di quanto succede tutti i giorni  attorno a noi.

— Possiamo individuare due parti, reperibili rispettivamente nei vv. 19-21 e 23-31. La prima, più breve, fa salire sul palco due personaggi opposti, il ricco e Lazzaro. Il riflettore del narratore si accende solo per il ricco, presentato ‘in video e in voce’, perché di lui sono registrate azioni e parole. Lazzaro sembra essere la sua controfigura: nessuna parola e, se viene in parte raffigurato, è per creare il contrasto con l’altro. Alla seconda parte, più lunga, spetta il compito di reggere la logica dell’insieme. Tra le due, il v. 22 assume il ruolo di ‘trasformatore’ perché con la morte le due situazioni si cambiano fino ad invertirsi. Nella seconda parte domina il dialogo tra il ricco e Abramo, che permette al lettore di ‘sbirciare’, non nella realtà figurativa (il brano non e una diapositiva dell’aldilà) ma nella realtà teologica. Si comprende allora che è importante valorizzare l’oggi con l’attenzione caritatevole agli altri, soprattutto ai più bisognosi, per evitare di trovarsi in una situazione disastrosa e senza via di uscita.

— Tutto il cap. 16 e in particolare il v. 14 sono una catechesi sul retto uso del denaro. La catechesi aveva di mira in primo luogo i farisei e dopo di loro tutti coloro che sono presi al laccio della tentazione che porta a impiegare il denaro solo per i propri interessi. La ricchezza non viene demonizzata; semplicemente viene riportata al rango di mezzo per fare il bene, anziché ritenerla insipiente strumento di soddisfazione di tutti i capricci.

 

— Di un uomo si parla fin dall’inizio e con tale qualifica resterà fino alla fine. Essere ricco non è né un difetto né un disonore. È solamente il rilievo di un potenziale che si presta a molteplici impieghi. Sarà il buono o cattivo uso a determinare la qualifica morale e quindi il giudizio. Un primo dubbio insorge alla notizia che vestiva elegantemente, con tessuti costosi: «porpora e di lino finissimo» che noi oggi classificheremmo come capi da boutique. Inoltre. godeva quotidianamente i piaceri della buona tavola («lautamente» in greco lamprós – unica ricorrenza in tutto il NT – cioè «splendidamente», «sontuosamente»). 

     La voluta presentazione paradossale serve a creare il contrasto con l’altro, il mendicante Lazzaro, che attende qualcosa dalla tavola ben imbandita del ricco. La sua rimane un’attesa frustrata e frustrante. Il suo nome (unico personaggio delle parabole provvisto di nome) significa ‘Dio aiuta’: normalmente Dio interviene servendosi della sensibilità e del buon cuore delle persone. Invece no: nessuno interviene o si prende cura di Lazzaro. Se aggiungiamo il fatto che il povero era anche «coperto di piaghe», significa che era circondato dal più grande disinteresse.

     Il contrasto tra il ricco e Lazzaro, studiato appositamente per essere provocatorio, denuncia una situazione insostenibile. Il ricco non ha compiuto nulla di negativo, ha però omesso di intervenire a favore di Lazzaro. Poiché questi giaceva alla sua porta, non è ammissibile che non l’abbia visto, che non sapesse. Ora è chiaro il significato negativo di quella ricchezza che ha smorzato, fino ad azzerarla, la sensibilità per gli altri, soprattutto per i meno fortunati. Tra le righe, affiora anche il messaggio che non basta evitare il male, occorre compiere il bene. Esistono anche i peccati di omissione, tra cui la noncuranza o la poca sensibilità verso gli altri (cf. prima lettura). Fin qui la situazione durante la vita (terrena).

— La morte di entrambi ribalta la situazione. Viene applicata la legge del contrappasso: chi stava bene inizia a soffrire e viceversa. Non è vero, come sostenevano i sadducei, che tutto si esaurisce nella vita terrena. Il lettore è portato dal narratore a sapere, quasi a ‘vedere’ ciò che si svolge dietro le quinte della storia. Luca utilizza le immagini abituali del suo tempo, attinge al mondo giudaico che impregna notevolmente la presente parabola. Il messaggio sta nel ricordare agli uomini i parametri diversi utilizzati nell’altra vita, quella dopo la morte. Quello di Luca non è un cortometraggio sensazionale, un reportage da scoop, ma una catechesi di escatologia. Egli anticipa il domani servendosi di immagini, affinché i farisei del tempo di Gesù e i lettori di tutti i tempi valorizzino il loro presente.

— Lazzaro è portato «accanto ad Abramo», espressione semitica di intimità. In altre parole, egli partecipa alla beatitudine. Ancora una volta si nota l’assenza di una caratteristica propriamente cristiana (per esempio la comunione con Dio) e il prevalere della sensibilità giudaica. Gli «angeli» sono coloro che permettono la trasposizione senza fatica da una condizione all’altra. La menzione degli angeli e la vicinanza ad Abramo definiscono la condizione di beatitudine. Nel nostro linguaggio sarebbe il ‘paradiso’.

— La situazione del ricco occupa tanto interesse perché su di lui devono fissarsi gli occhi del lettore, per capire bene il messaggio. Egli sta all’«inferno», traduzione del greco Ade, che evoca un luogo di abbandono e di lontananza da Dio: si veda At 2,27.31 dove viene citato il Sal 16,10  («negli inferi»), secondo la versione dei Settanta che riporta «Ade», a differenza del testo ebraico che ha «Sheol» (tradotto con «sepolcro»). Ade e Sheol sono qui praticamente equivalenti. Per gli Ebrei lo Sheol era luogo di tenebre, di silenzio e di oblio (cf. Gb 10,21; Sal 94,17; 88,12). La ovvia ubicazione dell’Ade è in basso, esattamente il contrario

della ‘collocazione’ di Dio che per tutte le religioni sta in alto. La precisazione del ‘luogo’ lascia presagire il seguito.

     A questo punto prende il via un serrato dialogo tra il ricco e Abramo. È il ricco che prende l’iniziativa di rivolgersi ad Abramo, «gridando». Non direttamente una domanda di soccorso, bensì un’autorizzazione è il contenuto dell’invocazione. Chi di fatto dovrebbe portare il soccorso è Lazzaro, richiesto di un favore molto piccolo e, apparentemente, inutile.

     Qualche goccia di acqua sulla lingua del ricco non sortisce grandi risultati, ma ha l’effetto di dichiarare benvenuto anche il più piccolo sollievo. La pena è molto grande, perché espressa in greco con il verbo odynô tradotto con «torturare». La richiesta era modesta, ai limiti della nullità, eppure causa di sollievo in quella condizione di tormento.

— La risposta di Abramo, anche se gentile, è negativa. Egli ricorda il ribaltamento di situazione. Enunciato il principio che ha un largo sfondo nella cultura dei popoli, si ricorda la condizione di incomunicabilità tra le due situazioni. L’idea è espressa come una distanza insuperabile. Il termine greco chasma, reso con «abisso» e specificato come «grande», ricorre solo qui in tutto il NT, ed indica uno spazio incolmabile. Non è certo questione di chilometri, ma di situazioni irreversibili. L’immagine del v. 26 non si trova nelle raffigurazioni bibliche ed ebraiche dell’aldilà. Essa indica che, alla morte, la sorte degli uomini è stabilita irrevocabilmente. Il tempo («ora») e il luogo («qui») non ammettono cambiamenti.

Soggiace l’inesorabile idea del ‘per sempre’.

— Non potendo trovare giovamento per sé, il ricco pensa (stranamente!) agli altri, in questo caso ai suoi fratelli. Il particolare suonerebbe una forzatura, se non fosse l’espediente per far passare l’idea principale. All’ex ricco che vuole mandare messaggi dall’oltretomba per i suoi fratelli affinché si ravvedano ed evitino «questo luogo di tormenti», Abramo risponde che la Parola di Dio («Mosè e i Profeti») sono la via ordinaria della conversione e del corretto cammino verso Dio. È dichiarato apertamente il valore della Scrittura (cf. 24,27.44): essa, conosciuta e accolta, esige una vita coerente con il messaggio rivelato. Si tratta di ‘sapere’ e di ‘fare’. La Parola di Dio contiene sufficienti indicazioni, senza ricorrere

allo spettacolare e al miracolismo, del resto già denunciato come improduttivo (cf. 10,13). Ancora un messaggio: bisogna rispettare i tempi. C’è un tempo utile per una doverosa solidarietà, c’è un tempo in cui non è più consentito agire. In questo aspetto, troviamo una piena concordanza con un prezioso monito di Gesù, quello di vegliare per non essere sor-presi (cf. 21,34-36).

     I vv. 27-31 costituiscono la lezione principale e additano nelle Scritture il segno che conduce nel modo più convincente alla conversione. La lezione della parabola è chiara: urge convertirsi e quindi ascoltare Mosè e i profeti. Sono loro la strada maestra sulla quale bisogna restare; diffidare, perciò, dalle scorciatoie, perché illusorie e incapaci di condurre alla meta. Le Scritture sono qui, a disposizione, chiare ed essenziali. Esse sono la bussola con l’ago magnetico puntato verso Dio e verso il prossimo. La loro fedele osservanza, oggi, garantisce rincontro con Dio, nel tempo e per l’eternità.

 

Meditazione 

L’ingiustizia rappresentata da uno stile di vita preoccupato del proprio benessere e totalmente insensibile alle sofferenze e ai bisogni dei poveri: questa la denuncia del profeta Amos e il sottofondo della pagina evangelica. Dai testi emerge la domanda: chi è l’altro per me! E soprattutto, tra gli altri, il povero, l’ultimo, il reietto. Quale responsabilità accetto di assumere nei confronti di chi è povero, bisognoso, e con la sua miseria è grido che chiede aiuto e che mi interpella? Ma i testi annunciano anche il giudizio che colpirà chi, vivendo nel lusso e nell’esibizione sfacciata della propria ricchezza, finisce nell’incoscienza di chi dimentica l’umanità del fratello povero e obnubila anche la propria umanità. Giudizio storico in Amos («andranno in esilio in testa ai deportati»: Am 6,7), giudizio escatologico in Luca (il ricco si trovò «nell’inferno, tra i tormenti»: Lc 16,23), sempre viene affermato che Dio non è indifferente al male e all’ingiustizia, ma se ne fa vindice.

Se il nome del povero mendicante è Lazzaro (che significa «Dio aiuta»), il nome del ricco non è ricordato, anzi è espropriato dalla sua stessa ricchezza: egli è il «ricco» (vv. 19.22). La vertigine che può dare il possedere molto rischia di rendere il ricco spossessato di sé, dimentico dell’essenziale perché sedotto dal troppo delle cose che possiede e che illudono di sfuggire la morte. Banchettare tutti i giorni, significa sfuggire l’ordine dei giorni, l’economia della successione feria – festa, rendere festa anche la feria, entrare in un eccesso che si sottrae ai limiti della quotidianità. Il troppo del ricco gli impedisce di vedere il troppo poco di Lazzaro che dalla violenza della vita e dall’indifferenza degli uomini «è gettato» presso l’atrio della sua casa: segno di una contiguità dei poveri alla tavola dei ricchi da cui tuttavia sono sadicamente e consapevolmente esclusi, tanto nella parabola lucana come nella situazione storica attuale. La pagina evangelica ci mette in guardia da un rischio grave: che la presenza del povero diventi un’abitudine, e non susciti più scandalo né indignazione.

La morte è un protagonista importante della parabola. Preziosa memoria dei limiti che scandiscono l’avventura umana, essa è spesso rimossa dalla nostra coscienza grazie a comportamenti che ci illudono di immortalità. Possedere molti beni, uno stile di vita lussuoso che si manifesta nella qualità degli abiti e nel quotidiano banchettare lautamente senza mai condividere, è tentativo tanto seducente quanto illusorio di sfuggire all’angoscia della morte. Inoltre, l’ineluttabilità della morte dovrebbe insegnare qualcosa a ogni creatura umana. Viviamo pochi giorni su questa terra: perché non cercare l’essenziale, ciò che ve-ramente ha senso? Perché non cercare di praticare la giustizia e la condivisione, l’amore e la compassione? Perché non ricercare l’incontro e la relazione?                              .

La scena surreale del dialogo tra il ricco che dai tormenti si rivolge ad Abramo perché mandi Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli di cambiare vita istruendoli su ciò che li aspetta nell’al di la, presenta più di un motivo di interesse. La risposta di Abramo sottolinea il fatto che nella vita può esserci un troppo tardi. Occorre vivere il momento presente come l’oggi di Dio. Occorre entrare nella coscienza che il momento presente è l’occasione in cui posso vivere il tutto dell’amore, della fedeltà all’Evangelo, e il momento in cui mi gioco tutto. Aderire all’oggi, al momento presente, senza fughe in avanti e senza comportamenti che stordiscono e fanno evadere la realtà, è sapienza.

Ma tale risposta ricorda anche che la fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari: «Se qualcuno dai morti andrà dai viventi essi si convertiranno», dice il ricco. Abramo risponde abbattendo quest’ultima illusione: «Se non ascoltano Mose e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi» (Lc 16,31). Ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture e accoglienza del Signore che ci visita nel povero, sono le realtà da mettere in pratica qui e ora, oggi, sulla terra. Realtà ordinarie, ma su cui si gioca il giudizio finale. 

Preghiere e racconti

I poveri come tempio

Spoglia l’altare della Vergine e vendine i vari arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno. Credimi, le sarà più caro che sia osservato il Vangelo del Figlio suo e nudo il suo altare piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio. Il Signore manderà poi chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito.

(Vita seconda di Francesco d’Assisi- Tommaso da Celano).

Ricchezza e povertà

«Il denaro non è “disonesto” in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di “conversione” dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – “da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà” (2 Cor 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.

Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi” (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».

Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 23-IX-2007).

Come i gigli dei prati e gli uccelli del cielo

Uno dei confratelli chiese ad un anziano: Sarebbe giusto se io tenessi due monete per me, nel caso mi ammalassi ? L’anziano, leggendo nei suoi pensieri che egli voleva tenerle, disse: Tienile. Il fratello, ritornando alla sua cella, cominciò a lottare con i suoi pensieri, dicendo: Mi chiedo se il padre mi ha dato la sua benedizione oppure no. Alzandosi, tornò dal padre e gli rivolse queste parole: in nome di Dio, dimmi la verità, perché sono tutto ansioso per queste due monete. L’anziano gli disse: Dal momento che ho visto i tuoi pensieri e il tuo desiderio di tenere quelle monete, ti ho detto di tenerle. Ma non è bene tenere più di quello che ci serve per il corpo. Ora queste due monete sono la tua speranza. Ma se le perdessi, Dio non si prenderebbe forse cura di te ? Lasciate ogni preoccupazione a Dio, allora, perché egli si prenderà cura di voi.

( Thomas Merton, La saggezza del deserto)

Essere caritatevoli

Il movimento Emmaus, che non è confessionale, rappresenta un pugno nello stomaco per tante “brave persone” – praticanti impeccabili, si dice – che lasciano crepare quanti abitano alla porta accanto, senza neppure accorgersene, consentendo tranquillamente il permanere, sul piano politico, di un ordine ingiusto di cui esse profittano..

Dentro di me tutto questo esplode con la violenza di una bomba, poiché sono ferito della ferita del disoccupato, della ferita della giovane donna di strada.. come una madre è malata della malattia del suo bambino. Ecco che cos’è la carità, si dirà con un sorriso un po’ sprezzante, poiché il termine, disprezzato, evoca le “opere buone” delle belle e ricche dame di un tempo. Essere caritatevoli non è solo dare, è essere stati, essere feriti della ferita altrui. Ed è anche congiungere tutte le mie forze con le forze dell’altro per guarire insieme dal suo male diventato il mio.

(Abbé Pierre, Testamento)

Ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro

Sta scritto: C’era un tale, che era ricco, e subito dopo si aggiunge: e c’era un mendicante di nome Lazzaro (Lc 16,19). Di certo presso la gente sono più noti i nomi dei ricchi che quelli dei poveri. Perché dunque il Signore parlando di un povero e di un ricco dice il nome del povero e non dice quello del ricco, se non perché Dio conosce gli umili e li approva, e ignora invece i superbi? Per questo, nell’ultimo giorno, a certuni che si sono insuperbiti per il potere di fare miracoli dirà: Non so di dove siete; via da me, voi tutti, operatori di iniquità (Mt 7,23). A Mosè invece è detto: Ti ho conosciuto per nome (Es 33,12). Del ricco, dunque, il Signore dice: C’era un tale, e riguardo al povero: un mendicante, di nome Lazzaro; è come se dicesse: «Conosco il povero che è umile, non il ricco che è superbo. L’uno lo conosco e lo approvo, l’altro lo ignoro poiché lo condanno» […] Ecco, Lazzaro, il mendicante, giace tutto piagato davanti alla porta del ricco. Con quest’unico fatto il Signore esprime due giudizi. Il ricco, infatti, avrebbe forse avuto qualche giustificazione se Lazzaro non fosse rimasto a giacere davanti alla sua porta povero e piagato, se fosse stato lontano, se la sua povertà non avesse importunato il suo sguardo. Inoltre, se il ricco fosse stato lontano dallo sguardo del povero mendicante, questi avrebbe dovuto sopportare nel suo animo una tentazione meno forte. Ma poiché il Signore pone il povero e coperto di piaghe davanti alla porta del ricco che godeva di tanti piaceri, da un’unica e medesima situazione questo derivò: vi fu grave condanna per il ricco che vedeva il povero e non ne ebbe compassione; ma anche, vi fu una quotidiana tentazione per il povero che vedeva il ricco. Non credete che quest’uomo povero e piagato abbia dovuto sopportare gravi tentazioni al pensiero che lui mancava di pane ed era malato e davanti a sé vedeva un ricco in piena salute, immerso nei piaceri? […]

Ma voi, fratelli, conoscendo il riposo donato a Lazzaro e il castigo inflitto al ricco, datevi da fare, cercate degli intercessori per le vostre colpe, fate in modo di avere i poveri quali vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno davanti alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno dopo che vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono predisporre a praticare i precetti della carità. Ogni giorno possiamo trovare Lazzaro, se lo cerchiamo; ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro.

(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 40,3-4.10, Opere di Gregario Magno, Omelie sui vangeli, pp. 568-570.578-580).

La povertà del predicatore

Nella povertà del discepolo e dell’apostolo il destinatario del vangelo può cogliere il segno stesso del contenuto del messaggio. La povertà del predicatore è, per così dire, il sacramento, cioè la manifestazione visibile del vangelo e dell’uomo che dal vangelo si lascia coinvolgere. Il cuore della lieta novella, che il regno di Dio viene e la figura di questo mondo passa, che il Crocifisso è il Risorto e che morte significa vita, ma che la vita vera passa sempre attraverso la morte, tutto questo l’apostolo non può annunciarlo soltanto a parole, ma con il suo stesso modo di vivere. Lui stesso deve incarnare questo messaggio. La croce di Cristo e la speranza nella risurrezione si configurano nell’essere-crocifìssi-con-Cristo degli apostoli, che poi significa che «fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (cfr. 1 Cor 4,11ss.).

Nella povertà dell’apostolo è possibile cogliere il messaggio della croce e risurrezione. Il predicatore diventa così segno vivente del suo messaggio, il segno che la figura di questo mondo passa e il Signore viene a liberarci […].

Ma la povertà deve esprimere al tempo stesso una dedizione a favore del prossimo. Se si vuole seguire Gesù bisogna essere disposti a dare tutto ciò che si possiede ai poveri. Come la povertà di Gesù sta a esprimere il suo amore per gli uomini – «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9) – così anche la povertà dei discepoli serve ad amare tutti gli uomini, ma soprattutto i più poveri, come fratelli e sorelle di Gesù. La povertà porta alla solidarietà con i poveri, a una maggior solidarietà nell’amore. Soltanto chi è povero può essere davvero amico dei poveri, dei piccoli, degli emarginati […]. Dovremo allora porci una seria domanda: nella comunità i poveri sono anche i ‘prediletti’, come lo sono stati per Gesù, o, invece, lo sono i ricchi i ‘ben educati’, i ‘più validi’ e ‘distinti’, quelli con i quali è possibile ‘dialo-  gare’? Chi rappresenta il particolare oggetto del nostro interesse e del nostro amore?

(G. GRESHAKE, Essere preti. Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984,193s.).

Vendere il cuore al denaro

«Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile. Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più. Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi. Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…]

La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me».

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).

Preghiera

Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita. Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene. Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli. Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.

Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.

Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica. Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.

Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVI DOM TEMP ORD (C)

La rivoluzione comunicativa di papa Bergoglio

La rivoluzione comunicativa di papa Bergoglio

“Caro Papa, ti scrivo”. Da ogni angolo del pianeta arrivano in Vaticano duemila lettere al giorno. Come i messaggi in bottiglia dei naufraghi, le buste indirizzate a Francesco seguono percorsi avventurosi.

«Le vie del Signore sono infinite e poi si sa: tutte le strade portano a Roma», scherzano al servizio postale vaticano. Spesso mancano città, indirizzo o affrancatura. Oppure a recapitarle è direttamente chi le scrive. «Alcuni vengono qui da noi- spiega il vicedirettore della Sala Stampa, padre Ciro Benedettini-. Negli ultimi sei mesi la quantità di corrispondenza destinata al Pontefice è continuamente aumentata. A scrivere è ogni tipologia di persona: giovani e anziani, intellettuali e operai. C’è una forte crescita rispetto ai precedenti pontificati, la gente avverte la vicinanza del Papa alle proprie sofferenze e si rivolge a lui non solo per chiedere aiuto materiale nelle difficoltà provocate dalla crisi economica, ma soprattutto un conforto morale per andare avanti. Quasi tutti aggiungono il numero di telefono nella speranza di una chiamata».

Talvolta sono semplici biglietti augurali per ricorrenze personali o feste religiose. «È il risultato di un’attesa reale: prima della fumata bianca – dice lo storico del cristianesimo Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano – a San Pietro stava in ginocchio ogni giorno un uomo scalzo che esibiva un cartello con scritto “Francesco” e che è poi scomparso. Nel medioevo era diffuso il desiderio di un “Papa angelicus”, oggi cresce la ricerca di paternità e di accoglienza misericordiosa. Magari anche solo ‘un prete per chiacchierare’, come canta Celentano. E da sacerdote autentico Bergoglio ascolta e offre direzione spirituale. Un altro sintomo di questo bisogno è che arrivano pacchi di lettere anche a Benedetto XVI». In molti casi le speranze del mittente non restano deluse. Emblematica è la risposta di Francesco resa nota dalla madre di Gustavo Cerati, musicista rock argentino in coma da tre anni per un ictus cerebrale:

«L’assuefazione ci fa archiviare la vita ma la vita prosegue, scompare e torna ad apparire». Dalla Sardegna gli scrive Fortunato Ladu: «Dopo 2000 anni noi pastori aspettiamo il pagamento di quella cambiale che ci firmò l’Angelo di Dio. Difficile mestiere, non come quello di pastore di anime, ma impegnativo. Non servono soldi, ma il riconoscimento del nostro lavoro».

Cento e 20 lavoratori del distretto ceramico di Civita Castellana hanno messo nero su bianco il loro grido d’allarme: «Le chiediamo di tenderci la mano in un modo semplice, parli di noi, in modo che tutti sappiano e si possano adoperare in maniera fattiva a non farci licenziare». Marco Zanframundo, operaio reparto Mof dell’Ilva: «Io e i miei compagni ci sentiamo sconfitti in una guerra che non farà storia perché è già segnata dal silenzio assordante di chi può e deve intervenire per scongiurare anche il pericolo di gesti estremi dettati dalla disperazione».

Gli hanno rivolto un appello anche gli abitanti sgomberati ad agosto dall’ex scuola Belvedere a Napoli, di proprietà di una congregazione di suore. Messaggi tra cielo e terra.

GIACOMO GALEAZZI

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