TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.

     Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

     Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

     Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

 

La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

     I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

     Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».  

 

Esegesi

Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

     Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

     Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

     Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

     Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

     Che cosa possiamo rispondere?

     Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

     La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

     La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

 

Meditazione 

     Nella celebrazione di tutti i santi la Chiesa ascolta la promessa di Dio che la chiama a partecipare della sua stessa santità, e ricorda, che tale è la vocazione di ogni battezzato. Se la liturgia ci fa fare oggi memoria di tutti i santi nel loro insieme, non è tanto per la preoccupazione di dimenticarne qualcuno, o per integrare il numero di coloro che vengono ricordati nelle singole celebrazioni durante l’anno liturgico, quanto per affermare il carattere universale della chiamata alla santità. I santi sono come «primizie per Dio e per l’Agnello» (Ap 14,4): in essi è già santificato l’intero genere umano insieme a tutta la creazione. Il brano dell’Apocalisse che oggi viene proclamato, tratto dal capitolo settimo, afferma che il loro numero è sterminato: secondo la simbologia biblica centoquarantaquattromila non in-dica un limite, ma una pienezza e una totalità. Finché il sigillo di Dio non è impresso sulla loro fronte la terra e il mare non possono essere devastati, come a indicare che la loro vita diviene sacramento di salvezza e di redenzione per il cosmo intero.

     Se la liturgia ci offre di contemplare la loro vita e il loro destino, non è tanto per offrirci dei modelli da imitare, quanto per condurci a riconoscere la multiforme grazia con cui Dio visita e trasfigura la nostra storia. «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7,10), grida la moltitudine immensa. La santità dei redenti è testimonianza non delle loro virtù o delle loro qualità, ma dell’essere stati salvati dall’amore di Dio, che ci rende realmente suoi figli chiamandoci sin d’ora a quella somiglianza con il suo volto che si attuerà in modo pieno e definitivo quando «egli si sarà manifestato e noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (cfr. 1Gv 3,1-2). Nella loro esemplarità, i santi non esigono una memoria ripetitiva di ciò che hanno fatto e vissuto, che spesso

è inimitabile avendo il sapore dell’unicità, o comunque rimane legato a contesti storici ed ecclesiali che non sono più i nostri; piuttosto la loro testimonianza deve suscitare nei credenti lo stupore e la gratitudine per quanto il Signore ha compiuto nel passato, e l’attesa confidente che torni a operarlo nell’oggi della vita personale e della storia del mondo, per condurli a un futuro di compimento.

     Anche il brano evangelico mette in luce come sia l’agire di Dio a rivelarsi nel volto dei beati. Le beatitudini, prima ancora che essere descrizione di un modo di essere dell’uomo davanti a Dio, sono rivelazione di come Dio si rapporti con gli uomini e manifesti in loro la bellezza della sua opera. Il genere letterario della beatitudine non è esclusivo del Nuovo Testamento; è molto frequente nel Primo Testamento, in particolare la letteratura sapienziale è zeppa di beatitudini. Tuttavia, nella maggior parte dei casi le beatitudini che leggiamo nelle Scritture sante sono articolate in due parti; c’è dapprima l’annuncio della gioia, espressa con il termine «beato/beati», al quale segue una seconda parte che descrive la situazione o l’atteggiamento che vengono proclamati tali. Invece, le beatitudini che Gesù proclama dall’alto del monte non sono in due, ma in tre parti. Dopo l’annuncio della beatitudine, vengono descritti i suoi destinatari – i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia… -; infine c’è una terza parte, quella fondamentale, nella quale Gesù mostra su cosa si fonda la loro gioia. E questa terza parte, introdotta da un perché, fa sempre riferimento a un’azione di Dio, che viene promessa ed è certa, perché Dio sicuramente la compirà. Dietro tutti i passivi che ritmano il testo possiamo facilmente intravedere come sia Dio il soggetto di ogni azione: beati i poveri in spirito, perché a loro Dio donerà il suo regno; beati gli afflitti, perché Dio li consolerà; beati i miti, perché proprio a costoro Dio lascerà in eredità la terra; beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché Dio li sazierà… Appare evidente che la ragione della beatitudine non riposa nelle condizioni esistenziali che l’uomo vive, o nei possibili atteggiamenti che è invitato ad assumere. Anzi, queste situazioni sono tutt’altro che benedette; sono condizioni di povertà, di indigenza, addirittura di persecuzione. La motivazione della gioia sta nel fatto che Dio si colloca dalla loro parte, prende le loro difese, custodirà e riscatterà il loro diritto ingiustamente offeso; agirà, anzi già agisce in loro favore. Le beatitudini di Gesù sono quindi anzitutto una rivelazione di Dio, narrano il suo modo di agire nella storia, proclamano un amore che, per quanto universale, è comunque attraversato da una predilezione, che raggiunge tutti coloro che hanno bisogno di qualcuno che si curvi sul loro bisogno, prenda le loro difese, si faccia carico del loro diritto ingiustamente offeso, sazi il loro giusto desiderio di vita. Di costoro è il regno dei cieli, e il regno è questo curvarsi di Dio sul bisogno dell’uomo.

     La gioia si fonda dunque sul terzo elemento, che descrive ciò che Dio certamente farà. Si ancora a questa speranza, che è tale perché ha la forza di trasformare anche il nostro presente consentendoci di rileggerlo nella luce del futuro di Dio. Infatti, questo ‘beati’ proclamato da Gesù non è un semplice augurio, o una benedizione per il futuro, neppure semplicemente una promessa. È piuttosto una constatazione nel presente: siete beati ora, nell’oggi della vostra vita, anche se il fondamento di questa felicità riposa nel futuro, ma si tratta del futuro di Dio, non del futuro dell’uomo. Affermare che è il futuro di Dio non significa solo riconoscere che è un futuro certo, perché Dio è fedele alla sua parola e attua la sua promessa; significa anche riconoscere che è un futuro capace di dare un significato diverso a ciò che ora sto vivendo. È un futuro indisponibile per la mia libertà e per la mia possibilità, non sono io a poterlo progettare o costruire con le mie mani o con la mia fantasia, ma viene da Dio, mi è donato, ed è pertanto in grado di dare un senso diverso al mio presente. Benedetto XVI afferma nella sua enciclica Spes salvi che il messaggio cristiano non è solo ‘informativo’, ma ‘performativo’. Ciò significa – spiega il papa – che «il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (n. 3). I santi sono coloro che hanno saputo scommettere tutta la propria esistenza su questo futuro di Dio e nella speranza hanno ricevuto il dono di una vita nuova, che la loro libertà ha saputo accogliere e far fruttificare.

     Le beatitudini che proclama Gesù sono otto, ma esse non delineano otto figure diverse di uomini e di donne, ma disegnano un’unica figura, una sola personalità spirituale, un unico modo di essere e di agire. Potremmo dire che questa unica personalità è Gesù Cristo, al quale il discepolo del Regno deve diventare sempre più simile. Il vero uomo delle beatitudini è Gesù Cristo. Ciò significa anche che l’unica personalità o figura spirituale che le beatitudini ci descrivono è quella del povero in spirito, di cui ci parla la prima beatitudine. È la prima non perché all’inizio di una serie, ma perché è la beatitudine fondamentale, e tutte le altre che seguono esplicitano vari aspetti in cui l’essere poveri in spirito si manifesta più concretamente. I poveri in spirito sono poveri davanti a Dio, vivendo la loro povertà nella dipendenza da Dio, attendendo tutto dalle sue mani e dal suo dono. Non sperano solo qualcosa, ma sperano Lui. Povero in spirito è Gesù che nell’evangelo di Matteo può dire: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio» (11,27). Povero è chi sa di dover ricevere tutto dalle mani di Dio e riconosce che la propria vita dipende dalle relazione con il Padre. Il santo «è colui che ha misurato nella povertà sua la smisurata distanza che lo separa dalla santità di Dio. E di fronte ad essa sente la propria indigenza, il proprio limite e tende sempre la mano vuota affinché Dio, come cantiamo a proposito di Maria, la riempia dei suoi beni» (C. Massa).

 

Preghiere e racconti

La santità della Iglesia militante

Cari «Io vedo la santità — prosegue il Papa — nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio».

(Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013) 3918, 449-477).

La santità è sempre giovane

« Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.). 

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013) 3918, 449-477.

PER APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI (C)

Iniziazione cristiana dei bambini

I risultati del grande impegno ecclesiale per l’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi non sembrano essere all’altezza delle aspettative.

Si ricercano le cause del problema e, ovviamente, si sondano possibili vie di soluzione. Tra queste ce n’è una che pare dare risultati promettenti: l’attenzione al primo annuncio e alla catechesi con le famiglie che hanno bambini piccoli. E’ un’attenzione non di oggi, ma che riscuote al momento notevole interesse e stimola forme creative di sperimentazione pastorale.

Riportiamo qui le riflessioni sulla catechesi pre e post battesimale proposte dal prof. Ubaldo Montisci al recente Convegno pastorale della diocesi di Cagliari.

 

Papa Francesco alle famiglie

PAPA FRANCESCO ALLE FAMIGLIE

 

 

Oltre centomila persone alla Messa in Piazza San Pietro presieduta dal Papa nella Giornata della Famiglia in occasione dell’Anno della Fede. Papa Francesco nell’omelia ha sottolineato che le Letture di questa 30.ma domenica del tempo ordinario “ci invitano a meditare su alcune caratteristiche fondamentali della famiglia cristiana”.

La prima è la famiglia che prega. “Il brano del Vangelo – ha affermato – mette in evidenza due modi di pregare, uno falso – quello del fariseo – e l’altro autentico – quello del pubblicano. Il fariseo incarna un atteggiamento che non esprime il rendimento di grazie a Dio per i suoi benefici e la sua misericordia, ma piuttosto soddisfazione di sé. Il fariseo si sente giusto, si sente a posto, si pavoneggia di questo, e giudica gli altri dall’alto del suo piedestallo. Il pubblicano, al contrario, non moltiplica le parole. La sua preghiera è umile sobria, pervasa dalla consapevolezza della propria indegnità, delle proprie miserie: quest’uomo davvero si riconosce bisognoso del perdono di Dio, della misericordia di Dio. Quella del pubblicano è la preghiera del povero, è la preghiera gradita a Dio che, come dice la prima Lettura, «arriva fino alle nubi» (Sir 35,20), mentre quella del fariseo è appesantita dalla zavorra della vanità”.

Il Papa ha quindi proseguito: “Alla luce di questa Parola, vorrei chiedere a voi, care famiglie: pregate qualche volta in famiglia? Qualcuno sì, lo so. Ma tanti mi dicono: ma come si fa?, Ma si fa come il pubblicano, è chiaro, umilmente davanti a Dio.Ognuno con umiltà si lascia guardare dal Signore e chiede la sua bontà che venga a noi. Ma in famiglia come si fa? Perché semmbra che la preghiera è una cosa personale, e poi non c’è mai un momento adatto, tranquillo in famiglia… Sì, è vero, ma è anche questione di umiltà, di riconoscere che abbiamo bisogno di Dio, come il pubblicano! E tutte le famiglia hanno bisogno di Dio. Tutti, tutti. Bisogno del suo aiuto, della sua forza, della sua benedizione, della sua misericordia, del suo perdono. E ci vuole semplicità! Per pregare in famiglia ci vuole semplicità. Pregare insieme il “Padre nostro”, intorno alla tavola, non è una cosa straordinaria, è facile, dà tanta forza! E anche pregare l’uno per l’altro! Il marito per la moglie, la moglie per il marito, ambedue per i figli, i figli per i genitori, per i nonni … Pregare l’uno per l’altro. Questo è pregare in famiglia, e questo fa forte la famiglia: la preghiera.

“La seconda Lettura – ha aggiunto – ci suggerisce un altro spunto: la famiglia custodisce la fede
L’apostolo Paolo, al tramonto della sua vita, fa un bilancio fondamentale, e dice: «Ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). Ma come l’ha conservata? Non in una cassaforte! Non l’ha nascosta sottoterra, come quel servo un po’ pigro. San Paolo paragona la sua vita a una battaglia e a una corsa. Ha conservato la fede perché non si è limitato a difenderla, ma l’ha annunciata, irradiata, l’ha portata lontano. Si è opposto decisamente a quanti volevano conservare, “imbalsamare” il messaggio di Cristo nei confini della Palestina. Per questo ha fatto scelte coraggiose, è andato in territori ostili, si è lasciato provocare dai lontani, da culture diverse, ha parlato francamente senza paura. San Paolo ha conservato la fede perché, come l’aveva ricevuta, l’ha donata, spingendosi nelle periferie, senza arroccarsi su posizioni difensive”.

“Anche qui – ha sottolineato il Papa – ci possiamo chiedere: in che modo noi, in famiglia, custodiamo la nostra fede? La teniamo per noi, nella nostra famiglia, come un bene privato, come un conto in banca, o sappiamo condividerla con la testimonianza, con l’accoglienza, con l’apertura agli altri? Tutti sappiamo che le famiglie, specialmente quelle giovani, sono spesso “di corsa”, molto affaccendate; ma qualche volta ci pensate che questa “corsa” può essere anche la corsa della fede? Le famiglie cristiane sono famiglie missionarie. 

Ma, ieri abbiamo sentito, qui in piazza, la testimonianza di famiglie missionarie. Sono missionarie anche nella vita di ogni giorno, facendo le cose di tutti i giorni, mettendo in tutto il sale e il lievito della fede! Conservare la fede in famiglie e mettere il sale e il lievito della fede nelle cose di tutti i giorni”. Papa Francesco ha poi affrontato un ultimo aspetto che si ricava dalla Parola di Dio: “la famiglia che vive la gioia. Nel Salmo responsoriale si trova questa espressione: «i poveri ascoltino e si rallegrino» (33/34,3). Tutto questo Salmo è un inno al Signore, sorgente di gioia e di pace. E qual è il motivo di questo rallegrarsi? E’ questo: il Signore è vicino, ascolta il grido degli umili e li libera dal male. Lo scriveva ancora san Paolo: «Siate sempre lieti … il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Eh … a me piacerebbe fare una domanda, oggi. Ma, ognuno la porta nel suo cuore, a casa sua, eh?, come un compito da fare. E si risponde da solo. Come va la gioia, a casa tua? Come va la gioia nella tua famiglia? Eh, voi date la risposta”.

“Care famiglie – ha proseguito il Papa – voi lo sapete bene: la gioia vera che si gusta nella famiglia non è qualcosa di superficiale, non viene dalle cose, dalle circostanze favorevoli… La gioia vera viene da un’armonia profonda tra le persone, che tutti sentono nel cuore, e che ci fa sentire la bellezza di essere insieme, di sostenerci a vicenda nel cammino della vita. Ma alla base di questo sentimento di gioia profonda c’è la presenza di Dio, la presenza di Dio nella famiglia, c’è il suo amore accogliente, misericordioso, rispettoso verso tutti. E soprattutto, un amore paziente: la pazienza è una virtù di Dio e ci insegna, in famiglia, ad avere questo amore paziente, l’uno con l’altro. Avere pazienza tra di noi. Amore paziente”.

Solo Dio sa creare l’armonia delle differenze. Se manca l’amore di Dio, anche la famiglia perde l’armonia, prevalgono gli individualismi, e si spegne la gioia. Invece la famiglia che vive la gioia della fede la comunica spontaneamente, è sale della terra e luce del mondo, è lievito per tutta la società. Famiglie gioiose”.
Quindi ha concluso: “Care famiglie, vivete sempre con fede e semplicità, come la santa Famiglia di Nazaret. La gioia e la pace del Signore siano sempre con voi!”.

Il Papa all’Angelus ha salutato tutti i pellegrini, “specialmente voi, care famiglie, – ha detto – venute da tanti Paesi. Grazie di cuore! Rivolgo un cordiale saluto ai Vescovi e ai fedeli della Guinea Equatoriale, qui convenuti in occasione della ratifica dell’Accordo con la Santa Sede. La Vergine Immacolata protegga il vostro amato popolo e vi ottenga di progredire sulla via della concordia e della giustizia. Adesso pregheremo insieme l’Angelus. Con questa preghiera invochiamo la protezione materna di Maria, nostra Madre, per le famiglie del mondo intero, in modo particolare per quelle che vivono situazioni di maggiore difficoltà.

Il mestiere dello studente e la vocazione cristiana

Il senso, la passione, il domani: lungo queste tre coordinate Severino Dianich ci offre un percorso di riflessione intenso ed essenziale, intorno a una questione solitamente in bilico tra due approcci contrapposti: da un lato, una mentalità aridamente utilitarista – o comunque funzionalista – che tende a sottomettere lo studio al calcolo miope del risultato; dall’altro, un tentativo di contrastare questa deriva rampante con un debole appello moralistico, che il più delle volte finisce, sia pure involontariamente, per rafforzarla. Nel primo caso, conta solo il domani, come luogo di un’autoaffermazione a ogni costo;
nel secondo, più che il domani, conta solo il senso, per lo più il senso del dovere. In entrambi i casi, la passione non abita lo studio e lo studio non abita il tempo della vita come un’esperienza formativa qualificante e indimenticabile.
Nelle pagine che seguono, tenendo insieme queste tre coordinate, l’autore c’invita invece ad avvicinarsi alle radici di quell’esperienza elementare e affascinante, in cui la vocazione umana e la vocazione cristiana si scoprono originariamente affratellate; fino a culminare in un unico atto liturgico, in cui il cristiano, nel rispetto della legittima autonomia dei diversi ambiti di sapere, sostituisce alla logica della cattura strumentale l’impegno a camminare con il mondo verso il regno di Dio.
Il senso: “la vera curiosità che è all’origine di un vero sapere non si accontenta di sapere molte cose, ma vuol giungere a cogliere il senso delle cose che si sanno”; l’invito dell’autore ad “allargare gli orizzonti” si trasforma in un appello rivolto al cristiano ad accendere sul nostro sapere quella “luce decisiva” che può trasformarlo in sapienza.
La passione: “quando lavorare vuol dire studiare” non si può non appassionarsi, riscattando la fatica in una sintesi viva e coinvolgente, capace di far tesoro di tutte le energie che si sprigionano davanti a noi e in noi, componendo in modo armonico e trasformandole in un progetto.
Il domani: l’avventura esaltante della vita, con il suo carico esigente di sogni e di alte idealità, deve passare attraverso il tirocinio della formazione senza permettere che il cinismo spenga il desiderio; mettendo in conto anche la brusca esperienza dello scacco, oltre la quale la certezza dell’amore di Dio e la fiducia nella sua grazia ci consentono di ” affrontare con coraggio e con gioia il futuro con tutte le sue sorprese”.
 
Luigi ALICI

Come Prometeo. Studiare è un atto di speranza

Presentazione di S.E. Mons. Gianni AMBROSIO
 
Sono lieto di presentare il lavoro di don Bortolo Uberti, circa l’impegno nello studio di tanti nostri giovani. Si tratta di uno scritto sotto forma di lettera indirizzata a un giovane universitario per esprimere la stima circa il suo lavoro, per confidare la fiducia nelle sue capacità e nel suo impegno, per condividere alcuni pensieri che possono stimolare e aiutare a interpretare questa stagione della sua esistenza.
L’obiettivo è quello di collocare il tempo dello studio, nella sua fecondità ma anche nelle sue sfide e aridità, dentro la vita intera e dentro gli orizzonti e le attese di questa società.
Così lo studio diventa il filo che tesse la trama delle dinamiche dell’intera esistenza e ricompone in unità gli ambiti della persona. La scoperta della propria identità e della propria vocazione, la rete delle relazioni e degli affetti, la struttura personale e la responsabilità, la vita spirituale e il rapporto con il mondo non sono alieni alla vita dello studente, non sono “altro”, ma tutto questo si immerge nelle pagine dei libri, nelle tensioni degli esami, nel progetto del futuro.
L’autore aiuta il lettore nella comprensione dell’attività dello studio attraverso alcune fondamentali domande: Che senso ha studiare? Come vivere la stagione dello studio? Non si tratta, infatti, di considerare un ambito accanto ad altri, un frammento della quotidianità tra i molti che riempiono la vita; gli anni dell’università non sono una parentesi nella visione unitaria e integrale della propria esistenza. Un giovane non può separare i propri legami e affetti, i propri progetti, la vita spirituale, dallo studio che riempie le sue giornate e plasma la sua personalità.
Lo studio, per un universitario, è più della somma delle ore trascorse nelle aule degli atenei o nell’esercizio dell’apprendimento.  È molto di più dello sforzo di assimilazione di nozioni e competenze, di esami sostenuti e titoli accademici raggiunti. Gli anni dell’università sono una stagione fondamentale per la formazione di un giovane, per la scoperta della sua vocazione e per porre il fondamento del futuro. Studiare è un atto di speranza; un atto di fiducia in sé e in un domani promettente, una responsabilità di sé e degli altri, una scommessa su un “dopo” possibile e praticabile. L’attività dello studio riguarda un giovane “capace” di stare dentro l’università e non soltanto di attraversarla, un giovane <> di vivere lo studio come una benedizione e un compimento che,  pertanto, non si ripiegherà su se stesso come Narciso e non affogherà dentro di sé ma saprà portare qualcosa di grande e prezioso agli altri, all’umanità. Come prometeo saprà lottare per conquistare un segreto e una risorsa da condividere con gli altri per il bene di tutti.
Questa lettera, scritta con uno stile vicino alle dinamiche comunicative dei giovani e capace di spaziare tra i diversi linguaggi della comunicazione, vuole aiutare a pensare personalmente e vuole contribuire a un confronto schietto: accompagna la verifica, stimola la sintesi, genera la discussione, perché gli anni dello studio non siano una parentesi o un rinviare l’ingresso nell’età adulta ma una grazia che plasma la persona e feconda il mondo.
Considero questa fatica di don Bortolo un contributo prezioso per il cammino nello studio di tanti giovani universitari. Auspico davvero che la lettura di questo bel testo possa contribuire alla comprensione del ruolo insostituibile dello studio, delle energie investire, della fatica e delle soddisfazioni, orientando questi aspetti in una buona opportunità per la propria vita a servizio di tutta l’umanità.

Iniziative… La scuola che ami aiuta a crescere

Tre iniziative promosse dall’Azione Cattolica in sequenza a livello nazionale, di cui trovate in allegato i programmi con le relative note tecniche.
 
La prima è il Seminario di studi Per una cultura a servizio dell’uomo. Il contributo dell’Azione cattolica, promosso dal Centro studi dell’Azione cattolica, insieme alla rivista Dialoghi e agli istituti culturali, che si terrà venerdì 29 novembre. Il Seminario in uno stile di ricerca aperta vuole essere un’occasione per approfondire il valore della cultura nell’attuale contesto, per favorire una lettura sapienziale della storia, attraverso un confronto critico che sappia orientare le scelte dei credenti, a servizio dell’uomo, in tutte le periferie esistenziali, così come incessantemente sollecita papa Francesco.
 
La seconda iniziativa è il Convegno Pacem in terris 1963-2013. Attualità di un’enciclica e nuovi campi di impegno, promosso dall’Istituto Toniolo, in programma sabato mattina 30 novembre. Questo momento pubblico in occasione del 50° anniversario dell’enciclica di Giovanni XXIII, la prima in assoluto dedicata a questo specifico tema si propone di sviluppare una riflessione per cogliere nell’oggi le sfide portate alla pace dai cambiamenti che attraversano gli scenari internazionali, interpellando nuove forme di impegno.
 
La terza iniziativa è il Convegno degli insegnanti di Azione cattolica, programmato per il pomeriggio di sabato 30 novembre e la mattina di domenica 1° dicembre. A questa occasione di formazione e confronto sono particolarmente invitati gli insegnanti e i dirigenti scolastici iscritti all?associazione, ma anche quelli con sensibilità affine, che condividono scelte professionali significative. Come associazione che si occupa di educazione, si vuole offrire un contributo fattivo per creare una scuola che sappia trasmettere il patrimonio culturale del passato, ma anche rendere capaci di leggere il presente, facendo acquisire competenze per costruire il futuro, così da concorrere alla formazione del cittadino e alla promozione del senso del bene comune.
 
Programmi:
 
 

Più crisi, meno libertà educativa

Sono in prima fila nella «battaglia» per tenere in vita la scuola cattolica paritaria. Ma sono anche coloro su cui «cade una responsabilità educativa», perché sono «soggetto educativo a tutti gli effetti, in quanto garanti e custodi di un carisma o di un progetto educativo che si realizzano per il tramite degli insegnanti e della comunità educante in genere». Sergio Cicatelli, direttore del Centro studi scuola cattolica (Cssc) definisce così i «gestori» della scuola cattolica, alla cui figura è stato dedicato l’annuale Rapporto sulla scuola cattolica (giunto alla sua quindicesima edizione) elaborato dal Cssc. Una coincidenza (o forse no) quella di dedicare il documento proprio ai gestori in un momento (a dire il vero piuttosto prolungato) difficile per la paritaria, che anche quest’anno dovrà combattere per cercare di salvare i propri fondi stanziati dal governo nella Legge di Stabilità. Lo hanno sottolineato all’unisono i rappresentanti delle associazioni nazionali delle scuole cattoliche (Fism, Fidae, Forma) di ogni ordine e grado. «I gestori si sono fatti carico della difficile situazione e con il loro lavoro cercano di poter garantire la condizione di una libertà di scelta educativa delle famiglie, tenendo in vita le scuole paritarie» hanno sottolineato le associazioni.
 Parole che non nascondo l’amarezza per la conferma che anche per il 2014 si ripresenterà la corsa al recupero dei fondi tagliati attraverso un passaggio nella Conferenza Stato-Regioni. «Un recupero che purtroppo al momento non è neppure totale» sottolinea Luigi Morgano, segretario nazionale della Fism, ricordando che la proposta del governo parla di 200 milioni di euro contro i 223 tagliati. Una amarezza condivisa da don Francesco Macrì, presidente nazionale della Fidae (che, assente, ha mandato una relazione) e da don Mario Tonini vicepresidente nazionale di Forma, che riunisce i centri di formazione professionale. Insomma per la scuola paritaria le difficoltà sono tutt’altro che alle spalle, come è emerso dal dibattito svoltosi ieri a Roma per la presentazione del Rapporto, incontro presieduto dal vescovo di Anagni-Alatri e membro della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università e moderato da don Maurizio Viviani direttore dell’Ufficio nazionale educazione, scuola e università della Cei.

I dati del Rapporto «Una pluralità di gestori». Nel titolo del Rapporto c’è tutta la complessità, «una realtà estremamente varia e articolata» come sottolinea il direttore del Cssc, Cicatelli. Infatti vi sono gestori delle scuole cattoliche propriamente dette (cioè quelle appartenenti a Congregazioni, parrocchie o diocesi), e quelle di ispirazione cristiana, che a loro volta hanno una pluralità di tipologie: associazione, cooperativa, fondazione. Dalla fotografia scattata dal Cssc, due scuole dell’infanzia su tre (Fism) sono «cattoliche» secondo le norme canoniche: il 35,4% appartiene a Congregazioni, il 29% a parrocchie, per un totale del 64,6%. Il restante terzo si suddivide nel 17,5% con gestione affidata a una associazione, l’8% a cooperativa e il 7,4% a fondazione. Più alta la percentuale di scuole cattoliche, canonicamente dette, tra gli istituti della Fidae (elementari, medie e superiori): il 74,%. Il restante quarto si suddivide nel 14,9% di cooperative, il 7,5% di fondazioni e il 2% di associazioni. Per il mondo della formazione professionale il 56,8% sono centri di diretta emanazione di congregazioni, parrocchie o diocesi, mentre il 43,2% è distribuito tra le varie forme di impresa sociale.

Lo stato di salute delle paritarie Purtroppo non è buono. Lo dicono i freddi numeri del Rapporto: sensibile diminuzione degli iscritti nelle scuole dell’infanzia; quasi duemila alunni in meno nella scuola primaria; oltre il doppio (4.700) nella secondaria di primo grado; mentre nella secondaria il calo è più contenuto (1.800). «Cali – spiega Cicatelli – che si possono spiegare come effetto della crisi economica, che si ripercuote sulla capacità di spesa delle famiglie, costrette a tagliare sui consumi non indispensabili, e ne risente ovviamente la loro libertà di scelta educativa».

I numeri delle paritarie Secondo i dati relativi all’anno 2012/2013, escluse le scuole di Aosta, Bolzano e Trento, le paritarie censite sono quasi 14mila. Due terzi di esse sono cattoliche o di ispirazione cristiana (65,4%) mentre il restante 34,6% è di altro gestore.

 
Enrico Lenzi
www.avvenire.it

Più responsabilità ai fedeli laici nella scuola cattolica

Dal Quindicesimo rapporto sulla Scuola cattolica 2013 emerge un nuovo scenario: si ritraggono i gestori tradizionali (guidano tuttora circa il 70% delle scuole cattoliche), rappresentati da istituti religiosi maschili e femminili, da diocesi e parrocchie, spesso per la diminuzione delle vocazioni. Al contempo, avanzano le scuole gestite da cooperative, associazioni, fondazioni varie,promosse dai fedeli laici.
 
Su un totale di 7.878.661 scolari e studenti che frequentano le scuole statali, gli alunni delle scuole paritarie in Italia sono 1.036.312, cioè una percentuale del 13%. Di questi ultimi 702.997 sono alunni delle scuole cattoliche, vale a dire il 9% del corpo scolastico del nostro Paese. La scuola cattolica, quindi, pur rappresentando una minoranza del mondo scolastico, non è una cosa da poco, anzi – come ha spiegato il 19 ottobre a Roma, in occasione della VI Giornata pedagogica della scuola cattolica promossa dalla Cei,Sergio Cicatelli, direttore del Centro studi scuola cattolica – “è una minoranza qualificata e portatrice di un’importante e ricca tradizione educativa”. Dei problemi che sta vivendo la scuola cattolica oggi si è parlato in maniera approfondita in particolare durante la presentazione del volume “Una pluralità di gestori” – Quindicesimo rapporto sulla Scuola cattolica 2013. È emerso anzitutto un nuovo scenario in cui si ritraggono i gestori tradizionali (che guidano tuttora circa il 70% delle scuole cattoliche), rappresentati da istituti religiosi maschili e femminili, da diocesi e parrocchie, spesso per la diminuzione delle vocazioni. Al contempo avanzano le scuole gestite da cooperative, associazioni, fondazioni varie, promosse dai fedeli laici.
 
Forte aumento del carico economico. Un secondo scenario sul quale si è riflettuto riguarda tutti – sia le scuole di istituti religiosi sia quelle promosse da fedeli laici – ed è rappresentato dall’aumento del carico economico a fronte di una diminuzione del numero degli alunni. Fenomeno questo dovuto in parte al declino demografico, ma oggi anche per la crisi economica che distoglie le famiglie dall’iscrivere, anche se vorrebbero, i propri figli alle scuole cattoliche. Un terzo scenario, delineato dal vescovo monsignor Lorenzo Loppa, presidente della Commissione per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, e da don Maurizio Viviani, direttore dell’Ufficio nazionale presso la Cei, e sostenuto anche dalle riflessioni di don Francesco Macrì, presidente della Fidae, ha fatto emergere l’esigenza di una strategia di insieme da parte di tutti i protagonisti della scuola cattolica, piuttosto che limitarsi ad andare “da soli” rischiando un progressivo declino. In tutto questo le scuole cattoliche risultano così distribuite: 6.748 dell’infanzia, 1.126 primarie, 585 secondarie di 1° grado, 661 secondarie di 2° grado, per un totale di 9120. “Una realtà da difendere – ha sottolineato mons. Loppa – perché porta ancora oggi un grande impegno di servizio educativo e una grande qualità formativa e pedagogica”.
 
Esigenza di custodire i carismi originari. “I gestori delle scuole cattoliche e dei centri di formazione professionale di ispirazione cristiana sono i custodi del carisma educativo avviato dai fondatori delle rispettive congregazioni. Nei nostri tempi, in cui le forze di molte famiglie religiose sembrano ridursi, il testimone di questa impresa educativa è stato meritoriamente raccolto da tanti laici, che si impegnano a tenere vivo un carisma e a formare le nuove generazioni”: così il vescovo di Piacenza e presidente del Consiglio nazionale della scuola cattolica, monsignorGianni Ambrosio, sottolinea nel Rapporto 2013. “La scuola cattolica – prosegue – non può essere solo scuola e deve sforzarsi di dare prova con forza del suo essere espressione della comunità ecclesiale e strumento di diffusione di una cultura cristianamente ispirata”, aggiungendo che “nella gestione di una scuola non ci sono utili da realizzare ma persone da aiutare nella delicata fase della propria crescita umana e culturale”. Il vescovo nota anche che in quest’ultima fase sociale, “nascono autonomamente scuole cattoliche per iniziativa di genitori, insegnanti, associazioni laicali. È in atto una trasformazione che si può dire epocale per la novità che introduce e per la diversa vitalità delle modalità gestionali”. Se un tempo, infatti, erano gli istituti religiosi maschili e femminili a creare scuole e centri professionali, oggi sono anche i laici.
 

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Siracide 35,15-17.20-22 

Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.                                                      

 

Il libro del «Siracide» (detto così dal nome del suo autore Gesù Ben Sirach) fa parte non del canone ebraico, ma della bibbia greca. Fu scritto in ebraico (se ne sono trovati frammenti in una grotta di Qumran), ma è arrivato a noi nella traduzione greca, che risale agli inizi del II secolo avanti Cristo. Non siamo lontanissimi dall’epoca del N.T., ed il pensiero sapienziale di Israele si esprime in un’opera di grande maturità.

     Il cap. 35 rappresenta una profonda meditazione sapienziale sul senso del culto, ma anche una sua relativizzazione. Da una parte si esalta la bontà delle offerte e dei sacrifici (vv. 1-10), dall’altra parte si ribadisce che Dio non si lascia corrompere da vittime ingiuste e preferisce le preghiere povere ma sincere degli umili (vv. 11-24). È da questa seconda sezione del cap. 35 che sono attinti i versetti di cui si compone la nostra lettura.

     Annotazioni esegetiche

     — «Il Signore è giudice…» (v. 12). Alla pretesa, o illusione, di valersi delle offerte cultuali per «corrompere» Dio (si legga il v. 11), questo v. 12 costituisce una risposta chiara: il Signore è al di sopra dei doni che gli offriamo come giudice imparziale. Vana è l’illusione dell’uomo religioso di poter tirare Dio dalla propria parte semplicemente offrendo gli omaggi.

     — «Ascolta la preghiera dell’oppresso» (vv. 13-14). L’oppresso, la vedova e l’orfano sono — nell’ambito sociale — coloro che non hanno alcun peso, perché privi di sostegni e di possibilità economiche: è gente che non conta, alla quale nessuno dà importanza. A differenza delle autorità romane, è proprio a costoro che Dio rivolge la propria attenzione quando esprimono la loro infelicità («lamento»).

     — «La sua preghiera arriva fino alle nubi » (v. 17). L’efficacia della preghiera (penetrare le nubi significa giungere al cielo, ossia presso Dio, ottenendo ciò che chiede) è proprio nella debolezza di chi la fa, o meglio nella consapevolezza di tale debolezza («umiltà»). Qui si crea un importante legame col Vangelo di oggi.

     —«Abbia reso soddisfazione ai giusti» (v. 22). I «giusti» si identificano qui chiaramente con coloro che si riconoscono deboli e confidano unicamente nella protezione di Dio. Proprio perché fiduciosa, tale preghiera «non desiste» e finisce con l’ottenere da Dio il ristabilimento di un’equità che i criteri umani hanno ignorato o sovvertito cioè: i deboli e gli umili trovano davanti a Dio quel favore che gli uomini negano loro.

 

Seconda lettura:  2Timoteo 4,6-8.16-18

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.  Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen

 

La situazione in cui viene scritta questa seconda lettera a Timoteo è quella della prigionia romana. Paolo scrive alla vigilia della sua morte, per cui questa lettera al caro discepolo assume il tono del testamento spirituale. Nella parte finale di questo testamento (4,6-18) si aprono le prospettive future accompagnate dalle ultime istruzioni dell’Apostolo a Timoteo. La nostra lettura fa parte di questa sezione. Anche se (come tendono ad affermare molti critici) questa lettera è da attribuire non a Paolo, ma ad un suo discepolo o epigono, ritroviamo comunque le idee-madri e la testimonianza sostanziale dell’Apostolo, segno che la sua paternità spirituale ha profondamente segnato la tradizione paolina successiva.

     Appunti esegetici. – Proponiamo di concentrare la nostra attenzione sulle immagini che vengono usate per descrivere la realtà presente vissuta dall’Apostolo e applicabile alla realtà di ogni credente.

     a) La vita dell’Apostolo, che giunge verso la conclusione, è paragonata:                                                           

     — con immagini atletiche, a una corsa tesa ad un traguardo («ho terminato» v. 7), ma anche in attesa di un premio («corona», v. 8), non da fruire personalmente ma da condividere con quanti hanno preso parte alla corsa (v. 8);

     — con immagini strategiche: la vita del credente è battaglia buona e nobile, bella (kalos), per cui vale la pena combattere (v. 6);

     — con metafora sacrificale: la vita giunge alla morte non come a epilogo oscuro ma come vittima il cui sangue si spande in libagione, è momento prezioso, al cospetto di Dio ed in favore degli uomini (propiziazione) (v. 6);

     — con immagine marinara, la morte è come «sciogliere le vele», salpare per un lungo viaggio; non è fine, ma inizio.

     b) Il rapporto dell’Apostolo con il Signore si configura come rapporto tra imputato e avvocato difensore. Il ruolo di questo difensore assume però dimensioni più vaste di quelle di un difensore giuridico. Sottolineiamo tre dimensioni teologiche: la prima, di liberazione dal nemico («dalla bocca del leone», v. 17: cf. Dan 6,17); la seconda, di potenza evangelizzatrice, per cui la forza di Dio si traduce in proclamazione e annunzio del Vangelo a tutti i pagani; la terza è di liberazione e salvezza escatologica: «nel suo regno» (v. 18).

     Mediante queste ricche immagini, la vita, l’apostolato e la stessa morte di Paolo vengono trasfigurate alla luce di Dio, assumendo un valore molto più grande e teologico di quello che appare ad un semplice osservatore umano delle cose.

 

Vangelo: Luca 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:  «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.  Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

Esegesi 

     All’inizio del cap. 18 del Vangelo di Luca leggiamo due parabole riguardanti la preghiera. Ciascuna delle due parabole mette in luce le caratteristiche particolari della preghiera cristiana: la continuità incessante (parabola del giudice iniquo e della vedova, vv. 1-8; Vangelo letto la domenica scorsa) e l’umiltà (il fariseo e il pubblicano, vv. 9-14, Vangelo odierno). Il dittico delle due parabole va preso nel suo insieme: la preghiera incessante dev’essere caratterizzata da grande umiltà; la preghiera umile va continuata con perseveranza e insistenza.

     Annotazioni esegetico-teologiche

     Come ogni parabola, anche in questa abbiamo due storie o situazioni: l’una fittizia (due uomini salirono al tempio…), l’altra reale (alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri). La parabola raggiunge il suo scopo quando la situazione fittizia si «trasferisce» (para-ballo, in greco significa appunto «trasferire») a quella reale, sicché il superbo che disprezza gli altri si riconosce nel fariseo che si esalta e viene umiliato.

     — «L’intima presunzione di essere giusti» (v. 9), «giusto» è l’uomo che si mette in sintonia con la «giustizia» di Dio, ossia con la sua santità e volontà di salvezza. La «giustizia» dei farisei, pur basandosi essenzialmente su opere buone (elemosina, preghiera e digiuno, cf. Mt 6,2-18) era inficiata da due deviazioni di base: prima, la pretesa di essere giusti in base ai propri meriti, seconda, l’esibizionismo che mentre li portava a «ritenersi» giusti davanti agli uomini (Lc 16,15), suscitava in loro disprezzo per gli altri.

     Uno era fariseo e l’altro pubblicano (vv. 10-13). I due tipi di oranti sono scelti intenzionalmente, per preparare l’effetto della parabola. In comune essi hanno l’intenzione (pregare) e lo spazio (il tempio). La differenza è nell’atteggiamento e nel contenuto della preghiera:

     a) l’atteggiamento di ognuno esprime il rispettivo modo di porsi di fronte a Dio presente nel tempio:

     — il fariseo sta in piedi (così come si prega nel tempio) e inizia con un solenne atto di ringraziamento. In un certo senso egli rappresenta l’ideale della pietà giudaica;

— il pubblicano non osa avvicinarsi all’altro e levare lo sguardo al cielo, perché è consapevole della propria miseria e del proprio peccato.

Secondo la concezione comune dei giudei, per un pubblicano non c’era salvezza: sia perché si arricchiva col denaro che esigeva per le tasse, sia perché collaboratore delle forze romane, e quindi dei pagani, ponendosi contro il popolo. Il battersi il petto esprime non solo la coscienza che egli ha della propria situazione religiosamente disperata, ma anche e soprattutto il desiderio di cambiare la vita, e dunque di penitenza.

     b) Il contenuto della preghiera di ognuno corrisponde esattamente al senso dell’atteggiamento esterno:

     — il fariseo ringrazia Dio sostanzialmente per il fatto di essere un campione di pietà. Oggettivamente le opere in cui si impegna sono lodevoli ed eccellenti: nessuno era obbligato a digiunare se non nel giorno della grande espiazione, mentre egli generosamente lo fa due volte alla settimana, e chiaramente lo fa per espiare non i suoi, ma i peccati degli altri; inoltre, mentre era tenuto, a rigore, a pagare le decime solo dei principali frutti della terra (Dt 12,17ss), egli supera abbondantemente questo limite, pagando le decime di tutta la sua proprietà. Non si tratta di una caricatura, come spesso si dice: realmente il fariseo incarna l’ideale di colui che adempie le opere più fulgide della pietà giudaica. Ma a tale consapevolezza si accompagna il disprezzo degli altri (v. 11) e quindi manifesta la sua sufficienza davanti a Dio e l’orgoglio di fronte agli altri uomini, in particolare rispetto al pubblicano;

     — il pubblicano non ha nessun merito da esibire; ha solo la chiara consapevolezza del suo peccato, e la esprime con le parole del Sal 51,1: Abbi misericordia di me o Dio. Siamo agli antipodi della chiara coscienza che ha il fariseo della sua percezione spirituale.

     — «Io vi dico…» (v. 14). Il giudizio di Gesù interviene con pesante autorità («io vi dico») a capovolgere lo schema delineatosi con le due preghiere. Iniziando dal secondo, anziché dal primo, Gesù ha già introdotto il ribaltamento: costui ritorna a casa «giustificato», ovvero: Dio ha esaudito la sua preghiera e quindi ha perdonato il suo peccato; mentre l’altro (il fariseo) malgrado i grandi suoi meriti non lo è, cioè rimane col peso del suo peccato davanti a Dio. In questo modo Gesù infierisce un duro colpo alla presunzione di quel fariseo, e quindi alla concezione «ufficiale» che gli esponenti del giudaismo avevano della religiosità. La vera religiosità non è legata al peso delle opere, non stabilisce confronti con gli altri, ma si pone unicamente davanti al giudizio di Dio, dal quale implora misericordia. D’altra parte, Gesù mette in chiaro il perché del suo atteggiamento benevolo e accogliente rispetto a due grandi gruppi di peccatori pubblici: gli esattori delle tasse e le prostitute.

 

Meditazione

Preghiera e autenticità: questo il rapporto posto in luce dal brano dell’Antico Testamento e dal Vangelo. Il Signore gradisce la preghiera del bisognoso e dell’oppresso (I lettura) e accoglie la preghiera del pubblicano che si proclama peccatore davanti a lui (vangelo).

Vi e una fiducia in se stessi, un credersi giusti, che rende non accetta la preghiera del fariseo al tempio (Lc 18,14), così come vi è la possibilità di un culto che è solo una farsa, una burla, perché commisto a ingiustizia e empietà (cfr. Sir 34,18-19; 35,11). Nella preghiera si riflette e si svela l’autenticità o la falsità di ciò che si vive.

La preghiera dei due uomini al tempio, così vicini e così lontani al tempo stesso, ci pone la questione di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo, in una liturgia. È possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e dal disprezzo («non sono come gli altri uomini,….. e neppure come questo pubblicano»: Lc 18,11). L’autenticità della preghiera, dell’offerta fatta al Signore nel culto, passa attraverso la qualità buona delle relazioni con i fratelli che pregano con me e che formano con me il corpo di Cristo.

Nella preghiera emerge anche quale sia la nostra immagine di Dio e la nostra immagine di noi stessi. Il fariseo prega «rivolto a se stesso» (pròs heautòn: Lc 18,11 ) e la sua preghiera sembra dominata dal suo ego. Egli formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia non per ciò che Dio ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così completamente sconvolto: il suo «io» si sostituisce a «Dio». La sua preghiera è in realtà un elenco delle sue prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere «come gli altri uomini» (Lc 18,11 ). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio e gli impedisce di vedere come un fratello colui che prega accanto a lui. La sua è la preghiera di chi si sente a posto con Dio: Dio non può che confermarlo in ciò che è e fa. È un Dio che non gli chiede alcun cambiamento e conversione perché tutto ciò che egli fa, va bene. Il fatto che lo sguardo di Dio non gradisca la sua preghiera (Lc 18,14: «questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato») smentisce la sua presunzione, ma afferma anche che noi possiamo pregare con ipocrisia e continuare a pregare senza pervenire ad autenticità e verità.

La differenza di atteggiamento dei due uomini è visibile anche dalla postura del corpo da loro assunta: il fariseo esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro, stando in piedi, a fronte alta, mentre il pubblicano esprime la sua contrizione stando a distanza, quasi intimorito, a testa bassa, e battendosi il petto. Sempre noi preghiamo con il corpo e le posture del corpo rivelano la qualità della relazione con il Signore e il senso (o meno) del nostro stare alla sua presenza.

La preghiera richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Umiltà non è falsa modestia, non equivale a un io minimo, ma è autenticità, verità personale. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità; dove c’è orgoglio, c’è senso di superiorità e disprezzo degli altri.                                          

Nella preghiera noi facciamo riferimento a immagini di Dio, ma il cammino della preghiera altro non è che un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dal Cristo crocifisso, vera immagine rivelata di Dio che contesta tutte le immagini mano fatte del divino.

L’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili: egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo (la contabilità delle azioni meritorie) e che richiede il distacco dagli altri.

 

Preghiere e racconti 

L’elemosina della santità

«Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…”» (Lc 18, 9-14).

Mettendo in scena il primo personaggio, Gesù vuole denunciare due disposizioni sbagliate e opposte al comportamento evangelico: la presunzione di essere giusti di fronte a Dio e il sentirsi superiori agli altri tanto da disprezzarli. I due atteggiamenti sono legati e il secondo dipende dal primo.

Lc 18,11 andrebbe meglio reso in italiano così: «Il fariseo stando ritto presso se stesso, queste cose pregava…». Il fariseo, dunque, è tutto preso di sé, è rivolto non a Dio ma a se stesso, recita delle parole pensando di pregare ma in realtà fa un autoelogio.

Il fariseo presume di sé ed è sicuro della propria santità, si presenta così quale giudice zelante e spietato nei confronti del suo prossimo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini… e neppure come questo pubblicano» (Lc 18, 11).

Il pubblicano, invece, non si preoccupa di quello che gli altri sono e fanno; è lontano dalla sua mente il giudicare il fariseo o altri. Egli è consapevole dei suoi tradimenti e delle sue colpe e non tenta di mascherarli davanti a Dio: «Stando a molta distanza non voleva neppure alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto dicendo: “O Dio, fai elemosina a me peccatore”» (Lc 18, 13). Si presenta con quelle che dovrebbe essere la  «carta d’identità» di ogni cristiano: peccatore!

      La parabola presenta due atteggiamenti di preghiera, ma poi finisce con il descrivere due modi di vivere. La preghiera così rivela la vita dei due personaggi. Di conseguenza ciò che va corretto non è la preghiera ma l’idea che si ha di Dio, di se stessi e del prossimo. Il fariseo e il pubblicano incarnano un modo diverso di porsi di fronte a Dio e agli altri, un modo opposto di guardare a se stessi, un modo opposto di concepire la santità.

Parole senza preghiera… la perfezione del presuntuoso

II fariseo entra nel tempio e rimane «in piedi»: è sicuro e fiero di sé. Formula una preghiera di ringraziamento a Dio non per i doni ricevuti, non per la vita o la fede; ma perché non è come gli altri. Egli si «distingue» per il suo impegno e avanza dei meriti dinanzi a Dio: «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,12). È più che scrupoloso nell’osservare i suoi doveri religiosi. La sua «santità» sarebbe frutto unicamente del suo sforzo e del suo impegno. Ma in fondo il fariseo dice la verità, perché è vero che osserva fedelmente la legge e fa grandi sacrifici; è vero che il suo zelo lo spinge a fare più di quanto la legge richiede: non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come era prescritto, ma due. Che cosa allora non va nella sua vita? Perché la sua preghiera non è gradita a Dio?

 Tutto il suo impegno lo ha realmente portato all’autorealizzazione nella santità? Il «difetto» del fariseo non è l’ipocrisia, ma il riporre la fiducia unicamente in se stesso. La sua preghiera è un monologo: «Stando ritto presso se stesso queste cose pregava… » (Lc 18, 11). Egli sta «in piedi», non ha nulla da chiedere a Dio, anzi ritiene che Dio debba qualcosa a lui: nella sua preghiera non chiede misericordia, non aspetta il dono della salvezza, ma attende da Dio il premio che gli è dovuto per il bene fatto. Nel suo monologo orante esordisce dicendo: «O Dio, ti ringrazio… »: fa risalire in un certo modo la sua santità a Dio. Ma questa originaria consapevolezza di dipendenza da Dio per la sua autorealizzazione si perde lungo la strada, perché il suo sguardo è tutto ripiegato in se stesso. La sua santità non deriva da Dio e il suo modo di giudicare con disprezzo il prossimo non ha nulla a che vedere con la preghiera: è solo un autocompiacimento.

Uscirà come era entrato: con il suo orgoglio, il suo disprezzo, per gli altri, la sua presunta santità… Nella Casa di Dio era entrato da «santo», ne esce da fallito!

II coraggio di piegarsi… l’umiltà del peccatore

Il pubblicano, ebreo «rinnegato», è iscritto nell’elenco ufficiale dei «senza Dio» insieme ai ladri, alle prostitute e agli adulteri. Consapevole che la sua vita è in forte dissonanza con la fede e la santità, «stando a molta distanza, non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto…» (Lc 18, 13). Entra nel tempio con la coscienza di porre dinanzi a Dio tutta la sua vita, senza maschere e in tutta la sua nudità. Il suo atteggiamento di preghiera è esattamente opposto a quello del fariseo. La sua preghiera non è un monologo ma un dialogo; egli non parla a se stesso ma a Dio: «O Dio, fai elemosina a me peccatore». Dice la verità: è peccatore! A Dio presenta con coraggio la sua carta di identità e, cosciente della sua fragilità, piega le ginocchia, tiene abbassato lo sguardo perché si vergogna di se stesso, resta in fondo al tempio perché non osa avvicinarsi alla santità di Dio.

La sua umiltà, tuttavia, non consiste nell’abbassarsi perché egli è realmente ciò che dice di essere, ma nel coraggio di presentarsi con verità a Dio e a se stesso, così com’è. Al coraggio unisce il bisogno di cambiamento, consapevole di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla di cui vantarsi e non ha nulla da esigere. Può solo chiedere: «O Dio, fai elemosina a me», in greco: ilàstheti moi! Chiede l’elemosina di Dio, implora cioè il chinarsi misericordioso del Signore sulla sua fragilità, sul suo essere peccatore. E si rimette a Lui, si affida completamente allo sguardo compassionevole di Dio, non a se stesso. È questa l’umiltà, è questo l’atteggiamento che Gesù loda. Nella Casa di Dio era entrato da peccatore, ne esce da santo!

Cogliersi dallo sguardo di Dio

Gesù non elogia la vita del pubblicano e non disprezza le opere del fariseo; apprezza la verità con la quale il pubblicano si pone dinanzi a Dio e a se stesso; del fariseo condanna l’atteggiamento orgoglioso e arrogante e l’inutilità della sua vuota preghiera.

L’unico modo di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è essere se stessi nella coscienza della propria fragile creaturalità… liberata e redenta e perciò bella! Il fariseo considera la sua santità come frutto del suo impegno e non come dono di Dio; è lontana dalla sua mentalità di misericordia e la «prossimità» con chi è diverso da lui, con il pubblicano.

Gesù non rimprovera perciò il fariseo di ipocrisia, ma evidenzia che è sbagliato l’intero suo modo di rapportarsi a Dio: «Disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18, 9). Gesù smaschera nel fariseo la sua «radice inquinata», il sistema religioso del quale è intriso e non una semplice incoerenza. La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano: non sono le sue opere ad essere contestate ma egli stesso e il suo modo di essere.

L’errore sta nel guardare a Dio alla luce delle proprie opere. Per Gesù invece è importante e necessario che l’uomo guardi a se stesso a partire da Dio, che l’uomo impari a cogliersi dallo sguardo di Dio e ad essere «vero» di fronte a Lui. «Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18, 14); la «giustificazione» è permettere a Dio di farci dono del suo perdono, lasciare che Dio ci ami così come siamo, senza paura e senza infingimenti. E allora la fragilità umiliata si trasforma in forza e coraggio, ci rimette nuovamente in strada da santi verso la pienezza della vita, «perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).

Santi perché peccatori

La lezione della parabola è stata molto chiara. La santità è iscritta nella nostra creaturalità, ci restituisce al nostro essere uomini. La santità, però, inizia dove finisce l’umana presunzione perché è riconoscimento, accoglienza e offerta di ciò che si è: peccatori! È questa la nostra carta d’identità, questa la coscienza della nostra creaturalità esposta al bacio della graziosa tenerezza di Dio. Possiamo allora dire che noi siamo santi perché peccatori. Chi non ha la profonda consapevolezza di essere peccatore non potrà mai essere santo!

(M. RUSSOTTO, Santità come autorealizzazione? Spunti di riflessione in compagnia della Parola, in CISM, La relazione con Dio: fondamento dell’autorealizzazione del vivere con i fratelli, della passione apostolica. «Protesi verso il futuro» (Fil 3,12)… per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003, 55-59).

Preghiera e valutazione degli altri

La valutazione degli altri, ecco l’altro parametro che bisogna accettare per riscoprirsi. Specie se quest’altro è Dio e per lui Cristo.

Un giorno si presentano al tempio per pregare un fariseo ed un pubblicano. Il primo prega cosi: “Dio, ti ringrazio che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, oppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana, pago la decima di tutto ciò che acquisto”. L’altro invece: “Dio, sii clemente al peccatore che io sono”. Gesù sentenzia: “Vi dico, il pubblicano se ne tornò giustificato a casa sua, a differenza dell’altro” (Lc 18,11-14).

Evidentemente il primo si è valutato da sé e lo ha fatto paragonandosi agli altri. E chi è disposto a considerarsi peggiore degli altri? Non giudichiamo forse gli altri con estrema facilità e molto spesso con spietata severità? Il fariseo ha finito con il sopravvalutarsi, con l’essere ingiusto con sé e soprattutto con gli altri; perciò continua Gesù: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Il pubblicano s’è messo di fronte a Dio e ne ha visto l’immensa distanza, l’incolmabile differenza, ha chiesto aiuto ed è stato restituito al suo posto di uomo “giusto”.

Un giorno (scrive Francesco Alberoni) rabbi Jochanan ben Zaccai domandò ai suoi discepoli quale è la retta via da seguire. Elazar gli diede la risposta esatta: “un cuore buono”. Ottima risposta, eppure noi riusciamo a manipolare anche l’intenzione. A poco a poco, attraverso una sottile azione di propaganda su noi stessi, arriviamo a nasconderci i veri motivi della nostra azione: l’ambizione, l’interesse, l’odio, la vendetta. Ci convinciamo di essere mossi soltanto dal desiderio di fare del bene, dall’altruismo. Sartre la chiamava falsa coscienza. Anche il grande inquisitore Torquemada pensava di essere buono, in quanto cercava di salvare l’anima immortale di coloro che condannava al rogo. Qualsiasi virtù è automaticamente distrutta dal compiacimento di possederla.

O Dio, abbi pietà di me, peccatore

«Veglia su di te, dice la Scrittura (Dt 15,9). Credo che colui che ha dato la legge sia ricorso a tale ammonimento anche per sradicare un’altra passione; poiché ciascuno di noi è più facilmente incline a interessarsi delle cose altrui invece che meditare sulle proprie, affinché non abbiamo ad ammalarci di questa malattia, il Signore ci dice: «Smetti di interessarti della cattiveria del tale o del tal altro; non dar tempo ai tuoi pensieri di esaminare le debolezze altrui, ma veglia su di te, cioè volgi l’occhio dell’anima a scrutare tè stesso».

Molti, infatti, secondo la parola del Signore, osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vedono la trave che è nel proprio (cfr. Mt 7,3). Non cessare, dunque, di scrutare te stesso, se vuoi vivere secondo il comandamento. Non stare a guardare fuori di te se ti riesce di trovare qualcosa da rimproverare agli altri, come faceva quel fariseo presuntuoso e vanaglorioso che innalzava se stesso giustificandosi e disprezzava il pubblicano (cfr. Lc 18,10-14); non smettere di esaminare te stesso chiedendoti se hai peccato nei tuoi pensieri o se la tua lingua, più veloce del pensiero, non ha detto qualcosa di troppo, se con le opere delle tue mani non hai compiuto qualcosa al di là delle tue intenzioni. E se trovi nella tua vita un gran numero di peccati – sei uomo e dunque ne troverai di certo – ripeti le parole del pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13).

Veglia su di te. Se godi di grande pace, se i tuoi giorni scorrono felici, queste parole ti saranno utili come un buon consigliere che ti ricorda la realtà delle cose umane. Se invece sei oppresso da vicende avverse, le stesse parole cantate nel cuore ti riusciranno utili per non elevarti orgogliosamente a un’insolenza eccessiva o per non cadere per disperazione in un meschino scoraggiamento».

(BASILIO DI CESAREA, Veglia su di te 5, Bose, 1993, pp. 19-20).

L’umiltà

Un’ulteriore energia dello Spirito è l’abbassamento. Non uso volutamente la parola «umiltà» perché il significato abituale che attribuiamo a quest’ultima comporta una certa dose di autodeterminazione, il che in realtà è un’impressione a posteriori. L’umiltà è una condizione prima di essere un giudizio su noi stessi. È una situazione di abbassamento sulle tracce di Cristo: «Chi si umilia sarà esaltato». Un abbassamento che ha valore solo se è opera dello Spirito santo. È indubbiamente a questo punto che entra in gioco l’obbedienza religiosa, nella misura in cui tale obbedienza consiste nel rimanere sottomessi, soggetti ad altri uomini, per amore del Signore e seguendo il suo esempio.

(Tatto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp. 9-20).

Preghiera

Il fariseo si riteneva giusto perché non uccideva.

Gesù insegna ad amare i propri nemici.

E noi cristiani pensiamo di essere giusti

perché non abbiamo ucciso?

 

Il fariseo si riteneva giusto perché non commetteva adulterio.

Gesù ci chiede di non guardare la donna altrui con desiderio.

E noi cristiani ci riteniamo giusti

quando commettiamo adulterio di fatto o di desiderio?

 

Il fariseo si riteneva giusto pur praticando il divorzio.

Gesù insegna che chi ripudia sua moglie e ne sposa un’altra,

commette adulterio contro di lei.

E noi cristiani ci riteniamo giusti perché non abbiamo divorziato?

 

Il fariseo si riteneva giusto perché giurava e manteneva i giuramenti.

Gesù dice di non giurare affatto.

E noi cristiani ci riteniamo giusti pur giurando e giurando il falso?

 

Il fariseo si riteneva giusto perché digiunava e pagava le decime.

Gesù dice che quando abbiamo fatto tutto, siamo servi inutili.

E noi cristiani crediamo di essere giusti perché osserviamo le leggi?

 

La preghiera del fariseo

non fu accetta a Dio perché stimò e lodò se stesso,

non si ritenne peccatore,

non chiese perdono a Dio,

tornò a casa non giustificato.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOM TEMP ORD (C)

One Day after Peace

È “One Day after Peace” di Erez Laufer e Miri Lauferil film che ha vinto il Gran Premio “Nello Spirito della Fede” della XVI edizione delReligion Today Filmfestival. Il docufilm, coprodotto da Israele e Sudafrica, ha ricevuto anche il Premio Signis assegnato dalla World Catholic Association for Communication.

Si tratta di un documentario che parte dalla ipotetica possibilità di applicare i mezzi utilizzati per risolvere il conflitto in Sudafrica al conflitto israelo-palestinese. Narra di Robi, nata nella nazione africana all’epoca dell’apartheid. Suo figlio viene ucciso durante il servizio nell’esercito israeliano. Mentre cerca di avviare un dialogo con il palestinese che lo ha ucciso, Robi torna in Sudafrica per approfondire l’esperienza dellaCommissione per la Verità e la Riconciliazione. Un viaggio da un profondo dolore personale alla convinzione che un futuro migliore è possibile
La Giuria ha inoltre assegnato il premio di Miglior film a “Mar-Snake” di Caner Erzincan (Turchia). Menzione speciale all’iraniano “Queen” di Mohammad Ali Basheh Ahangar. Il Premio per il miglior cortometraggio è stato assegnato a “The Fall” diKristof Hoornaert (Belgio). Come miglior documentario è stato scelto “Numbered” diUriel Sinai e Dana Doron (Israele); menzione speciale per “Au nom du frère” di Youssef Ait Mansour (Marocco). La Giuria che ha assegnato i premi era composta da Sergio BottaAbeer HaddadOren Tirosh e Marian Tutui.
La cerimonia di premiazione si è svolta ieri, sabato 19, alle ore 20.30, presso il Teatro San Marco di Trento.
Il film vincitore sarà proiettato lunedì 21 aprile, alle ore 17.30, nell’Aula C1 dellaFacoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’UPS, di seguito al Seminario internazionale che si svolge in mattinata. Il prof. Sergio Botta, docente de La Sapienza di Roma e membro della Giuria del RTFf, ne farà l’introduzione.