
Quali “alleanze” per uscire dalla crisi?

L’evento di apertura della “Settimana dell’università” della FUCI si terrà lunedì 18 novembre 2013 (ore 11-13.30) presso l’Aula Magna della Facoltà di Economia (Piazza Scaravilli 2, Bologna). Il tema sarà “Internazionalizzazione degli studi, universalità del sapere. L’Università italiana a quindici anni dal Processo di Bologna”. L’evento si aprirà con il saluto delle Autorità Accademiche, dei Presidenti Nazionali della FUCI e di don Maurizio Viviani, Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Cei.
“Internazionalizzazione degli studi, universalità del sapere”. Questo vuole essere un modo per riflettere all’interno dei nostri gruppi e dei nostri Atenei da un lato sul processo di internazionalizzazione dell’università, in particolare sulle riforme che hanno coinvolto e coinvolgeranno i Paesi europei nell’intento di creare un progetto comune di formazione, che garantisca anche maggiori collegamento e comunicabilità tra i diversi sistemi universitari. A che punto è questo processo? In cosa deve ancora realizzarsi e quali sono le difficoltà? Quali conseguenze ha portato, sia in termini positivi che problematici? Dall’altro lato vorremmo interrogarci su come questo processo si rapporta all’esigenza di un sapere che non sia troppo tecnico e parcellizzato, che mantenga un’elevata qualità e sia in grado di insegnare un metodo e di dialogare con saperi e competenze differenti.
Prima lettura: Malachia 3,19-20
Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia. |
Il libretto di Malachia pare si concluda con l’annunzio del giorno del Signore, quale risposta al lamento di alcuni israeliti (3,19-21). Questi si rammaricano di fronte al problema del male in questo mondo: «che vantaggio ne abbiamo dall’aver osservato i comandamenti, se i superbi, pur provocando Dio, restano impuniti?» (3,14s). Il Signore mostra loro «il suo Libro delle memorie», secondo cui coloro che temono Dio saranno «sua proprietà nel giorno che Lui prepara», giorno di luce per i giusti, di fuoco e di cenere per gli empi (3,19-21). L’opera di Ml impostata sopra una serie di 6 dialoghi tra Dio e varie categorie di fedeli
sembra termini qui con quest’ultima dichiarazione del Signore. I versi che seguono (3,22-24) sul ritorno del profeta Elia probabilmente sono dovuti a un redattore finale con l’intento di chiudere più serenamente i vaticini del messaggero di JHWH (3,1).
Note esegetiche. – «Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno» (v. 19). Si tratta del giorno escatologico: l’era già preannunziata da antecedenti profeti (Am 5,18-20; Gl 2,1-3; Sof 1,7-18…), in cui si attendeva un intervento decisivo e grandioso del Dio d’Israele, descritto con termini immaginari delle teofanie e dei grandi sconvolgimenti della natura e della storia. L’immagine del fuoco ardente di una fornace (Is 31,9), che brucerà la paglia e ridurrà in cenere radici e rami da l’idea esatta dell’ineluttabile giudizio divino; esso abbatterà gli orgogliosi (zedîm, nel senso di arroganti: 3,15), coloro cioè che osano provocare l’Altissimo (v. 15) e gli operatori di iniquità, in opposizione ai giusti che hanno osservato i comandi del Signore (3,14); di essi non resterà nulla, come viene efficacemente confermato dalla doppia metafora: bruciatura della paglia e incenerimento di rami e radici (cf. Gb 18,16s), vale a dire scomparsa di eredi, di genitori e di loro aderenti.
— «Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (v. 20). Lett. «voi, che avete timore del mio nome», cioè che venerate il supremo Signore (il nome, nel concetto ebraico, sta in vece della persona), e quindi ne adempite di voleri (cf. Dt 3,14; 10,12…). L’immagine del sole alato, radioso, era molto diffusa nella simbolica orientale: la si trova nelle stele egiziane, nei sigilli e monumenti di Siria: rappresentava il fulgore della Divinità (come il dio Râ per l’Egitto), difensore del diritto e apportatore di benessere. Il profeta la utilizza per descrivere l’intervento del Dio giusto e Salvatore a favore dei suoi eletti, in sintonia con precedenti espressioni bibliche. Il sorgere del sole era indice del nuovo giorno, e di una vita rinnovata, come in Is 30,26: la luce del sole apparirà, quando Dio verrà a risanare il suo popolo. La giustizia solare non sarà solo il ristabilimento dell’ordine e dell’equità, ma la sedaqah isaiana, cioè l’attuazione dell’alleanza divina, la restaurazione della pace, la salvezza piena (Is 41,2; 46,13; Sal 22,32). Ma più espressamente viene detto che il sole sarà apportatore di guarigione. La frase della trad. CEI «con raggi benedici», a parola può essere resa con «recante guarigione nelle sue ali»: la radice rafa’ ebraica ha il senso fondamentale di «risanare da un’infermità». Il sole divino in quel giorno avrebbe conferito ai cultori dell’Onnipotente la liberazione da tutte le loro piaghe (cf. Ger 33,6; Is 57,18s): non solamente quindi pace e salvezza nella mente e nel cuore, ma una restaurazione integrale in tutto l’essere umano, anche corporale; con tenue accenno, forse, alla riabilitazione dal sepolcro secondo il Salmo 16,10.
Il portavoce del Dio vivente ha offerto così ai suoi uditori, e in loro anche a noi, la più confortante rassicurazione per quanto riguarda il ricorrente problema dell’arroganza dei malvagi in questo nostro mondo: una parola indefettibile, «dice il Signore degli eserciti» (v. 19), confermata dal Salvatore divino: «cielo e terra passeranno, le mie parole mai» (Lc 21,33); nel «Libro delle memorie» è già indelebilmente segnato il giorno di fuoco e il sorgere del sole sfolgorante, il giudizio cioè del Signore supremo, che farà tacere per sempre la provocazione e la prepotenza, mentre il fulgore del suo volto ricoprirà di gloria imperitura chi lo ha servito fedelmente.
Seconda lettura: 2Tessalonicesi 3,7-12
Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità. |
Al termine della 2a lettera ai tessalonicesi S. Paolo sta dando le raccomandazioni finali, ribadendo quel che aveva già detto nella prima (1Ts 4,7-12: vivere nella santità e nella carità fraterna, procurandosi con l’onesto lavoro il proprio sostentamento). Forse gli era arrivata qualche specifica notizia su quest’ultimo argomento: vi erano in comunità individui che si comportavano disordinatamente contro le direttive già date (v. 6), andavano in giro, diffondendo pettegolezzi e pretendendo di assidersi alla mensa degli altri. L’apostolo ha l’occasione di esporre più distintamente il suo pensiero in proposito.
Note esegetiche. – «sapete in che modo dovete prenderci a modello» (v. 7).
Propone anzitutto il suo esempio, quale apostolo inviato da Cristo. Egli avrebbe avuto certamente il diritto a ricevere dai fratelli la sua ricompensa, come ha disposto lo stesso Maestro divino: «chi annunzia il Vangelo, viva del Vangelo» (1Cor 9,14; Mt 10,9; Lc 10,7). Tuttavia non se ne è avvalso (cf. però Fil 4,15), vi ha rinunziato liberamente (1Cor 9,15) e non è stato mai in ozio tra i fratelli che evangelizzava, ma si è dato da fare esercitando il suo mestiere manuale durante il giorno e, se occorreva, anche di notte (probabilmente si trattava dell’arte di tessitore di tende). Per i greci il lavoro fisico era un disonore: l’uomo libero lo riservava agli schiavi. I rabbini invece lo apprezzavano molto. L’apostolo di Cristo, pur non essendo obbligato, lo esercita con una speciale motivazione: non poteva essere disprezzato dai credenti di origine greca, perché egli assumeva quelle fatiche per sua libera scelta; e allo stesso tempo era di esempio e di incitamento a tutti coloro ai quali inculcava di vivere decorosamente con il proprio lavoro.
— «A questi tali… ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (v. 12).
Non si contenta di dimostrare il suo comportamento, ma aggiunge un preciso comando; impegna la sua autorità di rappresentante di Cristo, «nel nome del Signore Gesù». Egli non obbliga nessuno a esercitare l’apostolato del tutto gratuitamente; ma adesso si tratta di veri abusi: di gente che invece di evangelizzare, va suscitando malintesi e contrasti e pretende di farsi mantenere dalle stesse comunità che sta disgregando! Paolo si sente in dovere di intervenire energicamente: costoro la finiscano di andare in giro a danno degli altri e imparino a trovar di che vivere dalla propria fatica (vv. 11 s); e diversamente, siano tenuti lontani dei comuni rapporti, pur guardandoli sempre come fratelli (vv. 14s).
In conclusione, il pensiero dell’apostolo è chiaro. L’operaio evangelico è «degno della sua mercede» (Lc 10,7). Egli tuttavia, se vuole, può rinunziarvi nei limiti consentiti dalle sue attività apostoliche, per rendersi indipendente col proprio lavoro dalla comunità che evangelizza. A nessuno però che ha accettato di impegnarsi nel ministero del culto e della parola, è lecito vivere in ozio, senza attendere ai compiti assunti, o peggio seminando discordie e liti, e pretendere di essere sostentato dai fratelli nella fede; si trovi, in tal caso, un’onesta occupazione e si comporti con dignità e in pace con tutti! Una saggia esortazione che è valida e opportuna anche per i nostri tempi!
Vangelo: Luca 21,5-19
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». |
Esegesi
Il nostro brano fa parte del discorso escatologico con cui Luca conclude il suo Vangelo prima del racconto della Passione, (21,5-36). Ha molte somiglianze con l’analogo discorso di Marco (Mc 13,1-34); ma se ne allontana in tratti significativi. Ne possiamo dedurre una visione più chiara degli eventi cui ci si riferisce, e delle raccomandazioni date dal divin Maestro in quelle circostanze. L’occasione dell’intero discorso (divisibile in due parti: a- vv. 5-19; b- vv. 20-36) è offerta dalla richiesta di alcuni sull’epoca precisa della distruzione del Santuario ebraico: «quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno» (v. 7).
Note esegetiche. – La risposta di Gesù, in Lc, 1a parte, viene presentata con immagini apocalittiche e insieme con indicazioni molto concrete. L’evento preannunziato sarà così terribile che lo stesso Gesù nel richiamarlo in Lc 19,41-44 non poté frenare il pianto; e per descriverlo adeguatamente ha fatto ricorso agli scenari sconvolgenti con cui i profeti predicevano i grandi disastri collettivi del loro tempo: «vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo» (Lc 21,11); cf. Is 24,18 «le cateratte dell’alto si aprono, si scuotono le fondamenta della terra»; Ez 32,7s: «quando cadrai, oscurerò il sole e gli astri…»; per la caduta dell’Egitto e di Babilonia.
Mentre però Mc (con Mt) pone al primo posto come segni precursori l’apparire dei falsi messia, le guerre, le pestilenze, le catastrofi naturali, e poi in secondo luogo le persecuzioni dei discepoli del Cristo, (Mc 13,9; Mt 24,9), Luca capovolge la situazione: «Ma prima di tutto questo (fenomeni terrificanti) metteranno le mani su di voi » (Lc 21,13): si verificheranno cioè le violenze e le calunnie contro i predicatori del Vangelo, « traditi perfino dai genitori…. sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (vv. 16s). Ma subito Gesù si premura di rassicurare i suoi amici: nulla varrà a turbare la loro pace, «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (v. 18); nessuno potrà fare loro alcun male, contro il volere del Padre; si fidino totalmente di Lui, e conseguiranno sicuramente la vera salvezza nel suo Regno: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (v. 19). L’asprezza delle persecuzioni dei discepoli e il desiderio di premunirli contro ogni paura e scoraggiamento sembra predominare nell’attenzione del divino Maestro sul punto di lasciare quaggiù il suo piccolo gregge.
Nella 2a parte, poi, del discorso (vv. 20-36) il Maestro dà un’indicazione molto concreta del segno rivelatore richiesto: l’assedio della città santa, nominata qui 2 volte (vv. 20-24), da parte di eserciti nemici. In Mc e Mt si parla solo di «presenza dell’abominazione sul luogo sacro, dove non deve» (Mc 13,14; Mt 24,15), senza che mai si nomini Gerusalemme.
Simultaneamente Gesù ha aggiunto nuovi avvertimenti per i suoi amici: fuggano sui monti, si allontanino dai dintorni della città, poiché Gerusalemme sarà calpestata dai pagani e il suo popolo sarà disperso tra le genti… vedranno allora il Figlio dell’uomo venire sulle nubi… e avvicinarsi il regno di Dio, il suo giudizio e la liberazione dei suoi fedeli e testimoni… (vv. 21-24.31.36).
Si delinea così in Lc 21, nei riguardi degli eventi preannunziati da Gesù nel suo ultimo discorso, una prospettiva più chiara, che negli altri due sinottici (Mt 24; Mc 13). Primo fatto premonitore sarà l’accanita persecuzione contro gli evangelizzatori del Cristo risorto (vv. 12-17; cir. At 4-12); seguiranno grandi calamità e rivolgimenti tra i popoli, designati già con termini escatologici (vv. 9-11 «con grandi segni dal cielo»); e infine l’assedio di Gerusalemme a opera delle legioni romane, che segnerà l’inizio della più tragica catastrofe del popolo ebreo, l’incenerimento del Tempio e la dispersione tra le genti: come si è esattamente verificato nel 70 d.C. Fu come lo sfacelo del cosmo e il ricadere nel buio primordiale: «vi saranno segni nella luna e nelle stelle… le potenze dei cieli saranno sconvolte» (vv. 25s).
Molto probabilmente il Signore Gesù ha inteso parlare direttamente solo della completa rovina del Santuario e, in più, della diaspora del popolo ebreo per il mondo; e ovviamente l’ha fatto con lo stile ben noto dei vaticini biblici; in modo da consegnare ai suoi discepoli le più opportune direttive per le difficili prove che li attendevano. Ne abbiamo un parallelo anche nel discorso di addio nel Vangelo di Giovanni: «hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi… tutto questo vi faranno a causa del mio nome (Gv 15,20s); vi scacceranno dalle sinagoghe… chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio… vi ho detto queste cose perché, quando verrà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,2.4). E in Lc 21 vien detto: «vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza… (vv. 12s); quando vedrete accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina… (v. 28); vegliate e pregate, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere» (vv. 28.36).
Era una pressante esortazione agli uditori a non farsi travolgere dalle vicissitudini e dalle opposizioni del mondo, a perseverare nella fede in Lui, nella coraggiosa proclamazione del suo Vangelo d’amore tra le genti, e nella ferma speranza di raggiungerLo nella gloria imperitura della sua risurrezione.
Poiché però nel piano del Rabbì di Nazaret il Vangelo del regno doveva essere predicato a tutti i popoli della terra fino alla consumazione dei secoli (Mc 16,5; Mt 28,19s), quel che egli diceva a quei primi suoi seguaci intendeva certamente raccomandarlo a coloro che avrebbero creduto in Lui per la loro testimonianza (Gv 17,20), nelle situazioni di disagio e di persecuzione che si sarebbero riprodotte nelle successive generazioni.
Meditazione
Il messaggio escatologico di questa domenica comprende l’annuncio della venuta del giorno del Signore che sarà di giudizio per gli uni e di salvezza e guarigione per altri (I lettura) e un’esortazione alla perseveranza e alla vigilanza rivolta da Gesù ai suoi discepoli e, attraverso di loro, ai futuri credenti, affinché non si lascino prendere dalla paura e dall’angoscia della fine di fronte a eventi catastrofici e a persecuzioni (vangelo). Lungi dall’essere segno di una pretesa imminente fine del mondo, questi eventi vanno accolti come occasione di martyría (Lc 21,13), di testimonianza. Nel testo evangelico odierno non si tratta della fine del mondo, ma di ciò che avviene «prima» (Lc 21,9.12), nella storia, che appare così il tempo della faticosa perseveranza.
Luca sottolinea la diversità di sguardo che Gesù da una parte e «alcuni» dall’altra portano sul tempio. Se questi sconosciuti e innominati ammirano la dimensione estetica delle «belle pietre» (Lc 21,5) del tempio e i doni votivi che lo adornano, Gesù ne vede con sguardo disincantato e lucido la fine prossima. Come il tempio (e il suo sistema di offerte e di santificazione), anche tutte le costruzioni e realizzazioni più sante e spirituali dell’uomo sono caduche, finite. Non sono esse a dover trattenere lo sguardo e l’attenzione, ma il Signore che viene e di cui esse vogliono essere solo un segno.
Nei tempi della storia il cristiano deve allenarsi al discernimento.
Anzitutto il discernimento come opposizione all’inganno. Occorre infatti riconoscere i «molti» che si presenteranno come detentori della verità e portatori della rivelazione, che usurperanno il titolo solo d’istologico «Io sono» (Lc 21,8) per indurre qualcuno a seguirli. Lo spazio religioso ed ecclesiale è anche scenario di inganni e di imposture che si manifestano anzitutto con la loro pretesa di verità assoluta e non discutibile. Il cristiano è chiamato a discernere e a saper dire dei no: il comando «non seguiteli» è altrettanto forte del comando dato altre volte da Gesù: «seguitemi». Occorre sempre diffidare di chi pretende di sapere quale sia la volontà di Dio sulle persone e imporla loro.
Inoltre si tratta di discernere guerre e sommovimenti storici, così come catastrofi e disastri naturali, senza pensarli come eventi annunciatori della fine del mondo (Lc 21,9-11). Il discernimento qui è attiva lotta contro la paura e la potenza inibente del terrore ( «Non vi terrorizzate»: Lc 21,9). E conduce all’umiltà di chi riconosce che il proprio tempo non è la totalità del tempo, che la propria vicenda non è la totalità della storia e che la propria fine non coincide con la fine di un tempo e di una storia che superano ciascun uomo.
La storia diviene così per il credente il luogo di esercizio della perseveranza e della pazienza. Persecuzioni e tradimenti, ostilità anche da parte degli amici e dei famigliari potranno segnare la vita di coloro che aderiscono al Messia Gesù, ma grazie alla sofferta perseveranza essi potranno custodire la loro anima (Lc 21,19). Mentre esperimentano la fine di relazioni e fedeltà, mentre intravedono la loro stessa fine, essi possono conoscere la salvezza delle proprie vite e trarre come bottino, dalla battaglia che la vita e la storia impongono loro, la loro anima (cfr. Ger 45,5).
Ci sono tempi difficili e bui in cui al credente è chiesto semplicemente di resistere, di rimanere saldo, di custodire l’interiorità di mantenere la fede, di salvaguardare la propria umanità, di preservare la propria anima dal caos e dalla confusione. E questo sarà come chicco di grano caduto a terra che darà frutto. Scrisse Dietrich Bonhoeffer in tempi particolarmente duri e difficili dal carcere di Tegel nel 1944: «Noi dovremo salvare, più che plasmare la nostra vita, sperare più che progettare, resistere più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovrete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore». La perseveranza che salva l’anima non è dunque nulla di intimistico, ma atto della responsabilità storica di chi osa pensare il futuro oltre e dopo di lui.
Preghiere e racconti
Forse a voi non verrà chiesto il sangue, ma la fedeltà a Cristo certamente sì! Una fedeltà da vivere nelle situazioni di ogni giorno: penso ai fidanzati ed alla difficoltà di vivere, entro il mondo di oggi, la purezza nell’attesa del matrimonio. Penso alle giovani coppie e alle prove a cui è esposto il loro impegno di reciproca fedeltà. Penso ai rapporti tra amici e alla tentazione della slealtà che può insinuarsi tra loro. Penso anche a chi ha intrapreso un cammino di speciale consacrazione ed alla fatica che deve a volte affrontare per perseverare nella dedizione a Dio e ai fratelli. Penso ancora a chi vuol vivere rapporti di solidarietà e di amore in un mondo dove sembra valere soltanto la logica del profitto e dell’interesse personale o di gruppo. Penso altresì a chi opera per la pace e vede nascere e svilupparsi in varie parti del mondo nuovi focolai di guerra; penso a chi opera per la libertà dell’uomo e lo vede ancora schiavo di se stesso e degli altri; penso a chi lotta per far amare e rispettare la vita umana e deve assistere a frequenti attentati contro di essa, contro il rispetto ad essa dovuto.
(Giovanni Paolo II – GMG di Roma).
E veniamo a quell’energia dello Spirito costituita dalla lotta, alla quale ci si dedica impugnando la spada dello Spirito e la forza della gloria di Dio. All’interno di questa lotta si colloca la più importante virtù cristiana, che è la pazienza. La mirabile hypomone evangelica non ha nulla a che vedere con analoghe virtù stoiche o con particolari atteggiamenti o forme di resistenza propri del paganesimo. «Anche noi non cessiamo di pregare per voi… perché possiate piacere in tutto al Signore, rafforzandovi con ogni energia secondo la potenza della sua gloria, per poter essere forti e pazienti in tutto» (Col 1,9-11), dice Paolo ai cristiani di Colossi. Questa forza di Dio, che è la forza dello Spirito, è il tratto peculiare dei cristiani. Chi dipende totalmente dalla Parola porterà il frutto della Parola nell’hypomone, «nella pazienza», come ricorda Luca. Un tale uomo trattiene e (nel senso più forte del termine) custodisce la Parola. Egli si stringe a essa contro ogni speranza e al di là di ogni speranza, tutto proteso in avanti nell’attesa, lacerato dal desiderio e tuttavia sempre sostenuto da un grande senso di fiducia. Tutte queste cose sono contenute in un detto che, con ogni probabilità, fa parte degli ipsissima verba Iesu: «In patientia vestra possidebitis animas vestras», «Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime» (Lc 21,19). In greco e in latino è una frase che risuona in modo abbastanza enigmatico. Se però cerchiamo di farne la retroversione aramaica, penso che il significato che ne emerge sia il seguente: «Nella pazienza voi assumerete i vostri veri volti», cioè»sarete pienamente voi stessi». La vera personalità cristiana di ciascuno di noi si realizza attraverso la pazienza, la perseveranza nella lotta.
(Tatto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella), 2001, pp. 9-20).
Due boscaioli lavoravano nella stessa foresta ad abbattere alberi. Usavano le loro asce con identica bravura, ma con una diversa tecnica.
Il primo colpiva il suo albero con incredibile costanza, un colpo dietro l’altro, senza fermarsi se non per prender fiato rari secondi. Il secondo boscaiolo faceva una discreta sosta ogni ora di lavoro. Al tramonto il primo boscaiolo era a metà del suo albero, il secondo era incredibilmente al termine del suo tronco.
Avevano cominciato insieme e i due alberi erano uguali. Il primo boscaiolo non credeva ai suoi occhi: “Come hai fatto ad andare così veloce se ti fermavi ogni ora?”
L’altro sorrise: “hai visto che mi fermavo ogni ora. Ma non hai visto che approfittavo della sosta per affilare la mia ascia”.
«E tutti coloro che faranno tali cose e persevereranno fino alla fine, riposerà su di essi lo Spirito del Signore ed egli ne farà la sua dimora, e saranno figli del Padre celeste di cui fanno le opere, e sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo sposi, quando per lo Spirito Santo l’anima fedele si unisce a Gesù Cristo. Siamo fratelli suoi, quando facciamo la volontà del Padre suo che è in cielo. Siamo madri sue quando lo portiamo nel cuore e nel nostro corpo con l’amore e con la pura e sincera coscienza e lo generiamo attraverso sante opere che devono splendere agli altri in esempio».
Nel tempo della prova è di grande aiuto la perseveranza secondo il volere di Dio. Dice infatti il Signore: Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime (Lc 21,19). Non ha detto: «con il vostro digiuno», ne «con la vostra quiete in solitudine», ne «con la recita dei salmi». Tutto questo vi è certamente utile, ma ha detto: «con la vostra perseveranza». Con la perseveranza, vuole dire, in ogni prova che vi giungerà, in ogni afflizione, che si tratti di un’offesa, del disprezzo, del disonore arrecato da un uomo importante o da uno qualsiasi, di una malattia, dell’assalto di guerre scatenate dal demonio, di una prova di qualunque genere provocata dagli uomini o dai demoni. Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime; non soltanto con la vostra perseveranza, ma anche con l’azione di grazie, la preghiera, l’umiltà in modo da benedire, innalzare inni a Dio, Salvatore di tutti, al benefattore, a colui che tutto volge e guida al vostro bene, sia che si tratti di qualcosa di buono o di meno buono. E l’Apostolo scrive: Corriamo con perseveranza la corsa della fede che ci sta innanzi (Eb 12,1 ). Che vi è di meglio di questa virtù? Che vi è di più solido e di più utile della perseveranza, della perseveranza secondo Dio, voglio dire, la regina delle virtù, il fondamento delle opere buone, il porto al riparo dai flutti? Essa, infatti, dona pace nei conflitti, tranquillità in mezzo alla tempesta, sicurezza nelle insidie e nei pericoli. Essa rende colui che la vive più resistente dell’acciaio. Ne le armi, ne archi da guerra, ne eserciti schierati […] ne l’esercito dei demoni, ne le truppe tenebrose delle potenze avverse, ne il diavolo stesso con tutto il suo esercito e i suoi stratagemmi non potrà fare alcun male a chi ha acquistato la perseveranza in Cristo.
(NILO DI ANCIRA, Lettere III, 35, PG 79, 403D-404C).
«Chi non risponde alla Parola diventa sordo» (Martin Buber). L’accompagnamento non può che portare alla consapevolezza che, come ci ricorda NVNE, «tutta la vita è una risposta» (26/e) e, quindi, a saper scorgere le continue chiamate di Dio in ogni stagione della propria esistenza. È il faticoso passaggio dal cavallo al cammello.
Un cavallo va bene per la bellezza, la forza, la velocità e la razza, per godersi una cavalcata, gareggiare e vincere un premio. Tutto molto bello. Ma poi nella vita ci sono anche i deserti, e là il migliore dei cavalli è inutile e la velocità non serve. Il cavallo si spazientirà, diverrà irrequieto, gli zoccoli affonderanno nella sabbia. Il suo respiro brucerà nel calore e la bestia s’imbizzarrirà, cadrà e morirà nelle sabbie spietate. I cavalli non sono per il deserto.
I cammelli sì! Il cammello s’incamminerà e andrà avanti. Anche senza cibo, senz’acqua, senza redini, senza direzione, andrà avanti costantemente, fedelmente, sicuramente, manterrà la rotta, attraverserà il deserto, raggiungerà l’acqua e salverà se stesso e il suo cavaliere. La tenace perseveranza di mantenere fermamente la rotta nelle circostanze peggiori è una dote preziosa per sopravvivere in questo mondo. Noi tutti abbiamo bisogno di un cammello nelle nostre stalle.
(Antonio LADISA, La direzione spirituale oggi: perché?, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 30).
Signore Gesù, fammi conoscere chi sei.
Fa sentire al mio cuore la santità che è in te.
Fa’ che io veda la gloria del tuo volto.
Dal tuo essere e dalla tua parola, dal tuo agire e dal tuo disegno,
fammi derivare la certezza che la verità e l’amore
sono a mia portata per salvarmi.
Tu sei la via, la verità e la vita.
Tu sei il principio della nuova creazione.
Dammi il coraggio di osare.
Fammi consapevole del mio bisogno di conversazione,
e permetti che con serietà lo compia, nella realtà della vita quotidiana.
E se mi riconosco, indegno e peccatore, dammi la tua misericordia.
Donami la fedeltà che persevera e la fiducia che comincia sempre,
ogni volta che tutto sembra fallire.
(Romano Guardini).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
PER L’APPROFONDIMENTO:
Ad un anno di distanza dal I convegno nazionale degli insegnanti promosso dall’Azione Cattolica Italiana, la riflessione e l’impegno per una elaborazione condivisa continuano.
I numerosi aderenti di Azione Cattolica che vivono e lavorano quotidianamente nella scuola non si rassegnano di fronte agli scenari con cui solitamente viene descritto il mondo della scuola: mancanza di un orizzonte ampio e profondo entro cui disegnare insieme la scuola del terzo millennio; incapacità a cogliere in una scuola davvero rinnovata la vera possibilità di crescita di un Paese; perdita di senso e di capacità attrattiva del mestiere dell’insegnante. E’ necessario condividere con tutti il patrimonio di esperienze, riflessioni, buone prassi formative e didattiche che, pur tra mille difficoltà e limiti, la nostra scuola in ogni angolo del Paese vive e costruisce ogni giorno. E’ necessario inoltre immaginare insieme un nuovo modo di “essere e fare scuola” che, partendo dall’esperienza concreta dell’aula e della sala insegnanti, giunga a delineare percorsi formativi rigenerati ed una ri-motivata professionalità docente.
“Stanno emergendo nuovi modelli di insegnamento pensati per trasformare l’educazione scolastica da contesto competitivo a esperienza collaborativa ed empatica, mentre le scuole e le università cercano di attrarre una generazione che è cresciuta in internet ed è abituata ad interagire nelle reti sociali aperte, nelle quali l’informazione è scambiata, non accumulata. L’approccio tradizionale, che considera il sapere un potere da utilizzare per il guadagno personale, viene progressivamente sostituito dall’idea che la conoscenza sia un’espressione della responsabilità condivisa, tesa al benessere dell’umanità” (1).
Ci chiediamo: in questo tempo di crisi non solo economica e finanziaria, quale valore aggiuntorappresenta la scuola in Italia? Quali sfide culturali e sociali è chiamata ogni giorno a raccogliere, nonostante le poche risorse a disposizione, le scarse e fragili alleanze, una politica di corto respiro che oltre “lavoro di cacciavite” e ai “tagli lineari” poco altro ha saputo offrire alla scuola negli ultimi anni? Quali risposte di senso sono chiamati a dare oggi gli insegnanti? Con quali strumenti e strategie?
Vogliamo ripartire dall’idea di crescita, costantemente citata in ambito politico, economico e finanziario quale autentica leva da cui ripartire per risollevare il Paese, l’Europa, l’Occidente dalla crisi generale e globale che investe tutti. Ci chiediamo innanzitutto se è corretto parlare di crisi: chi lavora in ambito formativo sa che “crisi” può essere inteso anche il momento di transizione, non necessariamente negativo, nello sviluppo della persona o nel percorso storico di una civiltà. Un momento di passaggio dunque che può condurre anche alla crescita. Pare invece che il tempo presente – proprio dai disagi e dalle domande di vita che emergono sui banchi di scuola – rappresenti l’esito inevitabile del fallimento di un determinato modello di civiltà, che ha creduto più nel potere del denaro che in quello dell’educazione e della formazione; che ha investito nel potere del mercato e non in quello dell’aula scolastica, come luogo in cui promuovere e realizzare la vera crescita e l’autentico benessere di una persona, di una comunità, di una civiltà.
Ci chiediamo: in quali luoghi e attraverso quali relazioni avviene oggi il necessario dialogo formativo che consente alle giovani generazioni di capire se stessi, gli altri, la società in cui sentirsi accolti, ascoltati, valorizzati, aiutati a comprendere, a crescere e a partecipare in un contesto in continuo cambiamento? E’ davvero possibile ipotizzare una nuova crescita sociale, culturale ed economica senza la valorizzazione della famiglia e della scuola e di una loro effettiva alleanza educativa? In che modo gli insegnanti possono costruire percorsi di apprendimento in cui bambini e ragazzi sappiano trovare le risposte alle loro importanti domande di vita e di crescita?
Dove è possibile trovare un luogo in cui i più piccoli e più giovani possano imparare quella“grammatica della convivenza” che diventa sempre più cifra connotativa di questo nostro tempo? Naturalmente nella scuola, ma in una scuola rinnovata. “La vita etica e l’incontro tra le differenze si sviluppano con la crescita umana della persona e della comunità, che è il compito specifico e la vocazione della scuola. Per questo non c’è scuola senza sapienza antropologica. La scuola richiede una visione dell’umanità. Una visione non più monoculturale, non solo interculturale, ma corale. (…) Allora educare è risvegliare e nutrire l’umanità di ciascuno, perché possa svilupparsi nel modo più originale. Educare è liberare le persone e la loro capacità di amare. Educare è mettere le nuove generazioni nella condizione migliore per rinnovare il mondo. In una scuola capace di educare, la conoscenza viene coltivata come bene comune fondamentale e la didattica si sviluppa come cammino di ricerca. In una scuola simile anche l’affinamento di tutte le competenze che un domani saranno preziose per il lavoro non sarà effettuato per preparare individui competitivi e auto-interessati, ma per formare persone che avranno piacere nel contribuire al bene comune” (2).
Una nuova prospettiva per rinnovati percorsi formativi può partire dall’idea che l’apprendimento è sempre un’esperienza profondamente sociale. Impariamo per partecipazione. Cresciamo davvero solo grazie al percorso di crescita di ciascuno, soprattutto di chi è più debole e in difficoltà.
Compito e responsabilità dei docenti è mantenere vivo l’orizzonte ampio e profondo, senza il quale la scuola è destinata a ricadere nella routine più grigia e deludente. Attraverso una formazione qualificata e motivante, il confronto professionale aperto e costruttivo, la condivisione di uno stile esigente e contagioso, gli insegnanti di Azione Cattolica rinnovano la scelta e il dono di essere educatori, capaci di cogliere in questo nostro tempo le reali possibilità di crescita della scuola e di chi nella scuola crede, vive e lavora.
Il Corso che l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana propone tende a mettere a fuoco le nuove dinamiche educative che si impongono nel rinnovamento della Scuola, nell’accentuazione delle competenze, secondo le Indicazioni Nazionali.
Una progettazione in grado di integrare correttamente le molteplici sollecitazioni educative che attraversano la scuola è la condizione dell’efficacia e della legittimazione dell’IRC attuale.
Il Corso, vuole garantire consapevolezza e padronanza al Docente di Religione nell’eser- cizio sereno della sua professionalità.
L’Incontro è organizzato ai sensi delle Direttive Ministeriali n. 305 (art. 2 comma 7) del 1 luglio 1996, n. 156 (art. 1 comma 2) del 26 marzo 1998.
Ai sensi dell’art. 14 comma 1, 2 e 7 del CCNL, rientra nelle iniziative di formazione e aggiornamento progettate e realizzate dalle Agenzie di Formazione riconosciute dal MIUR.
Ai partecipanti sarà rilasciato un attestato di partecipazione.
Il Corso è finanziato dal MIUR.
Programma
Lunedì 16 dicembre
Pomeriggio
Martedì 17 dicembre
Pomeriggio
Mercoledì 18 dicembre
Pomeriggio
Dopo Cena
Giovedì 19 dicembre
Pomeriggio
Venerdì 20 dicembre
Pomeriggio
Sabato 21 dicembre
Note
Cf. www.rivistadipedagogiareligiosa.unisal.it
Vice-Direttore: Prof. Miroslaw Wierzbicki
SCARICA: SCHEDA DI ISCRIZIONE
Informazioni
Segreteria Istituto di Catechetica
Università Pontificia Salesiana
Piazza Ateneo Salesiano, 1
00139 ROMA
Tel 06 87290.651; 06 87290408
Fax 06 87290.354
Cell. 3898805612.
e-mail: catechetica@unisal.it
orario di ufficio:
9.00 -12.30 da Lunedì a Venerdì
Sede del Corso
Casa Domus Urbis
Opera don Guanella
Via della Buffalotta, 550
00139 Roma
Per giungere a Domus Urbis
1. Dalla Stazione Termini linea 90 – scendere fermata Adriatico/Lampedusa . Alla stessa fermata prendere la linea 86 (7 fermate) e scendere alla fermata Castellani/Bufalotta (Centro Commerciale Carrefour). A piedi 50 metri fino a Domus Urbis.
2. Dalla Stazione Termini prendere la Metro B1 e scendere a Piazza Conca d’Oro (fine corsa), uscire dalla parte di Via Martana. Prendere la linea 86 (Marmorale) per 13 fermate e scendere alla fermata Castellani/Bufalotta (Centro commerciale Carrefour).
Arrivo a Domus Urbis
Coloro che arrivano da fuori Roma possono giungere alla Sede del Corso domenica 15 dicembre nel pomeriggio.
Prima lettura: 2Maccabei 7,1-2.9-14
In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». |
L’episodio raccontato s’inserisce nel contesto della persecuzione d’Antioco IV Epifane che voleva imporre la cultura greca al popolo ebraico (167-164 a.C.). Viene ricordato il martirio dei sette fratelli, esortati dalla loro madre a testimoniare la fede. Non solo essa ha passato loro la fede, ma li sostiene nel momento del pericolo. Di fronte a loro il re in persona assiste al supplizio. Egli rappresenta la luce della cultura ellenica, verso la quale molti ebrei sono attirati e per questo sono disposti al compromesso. Quello che divide la madre dei sette fratelli e il re è una concezione opposta della vita. Per il re la vita viene dalla cultura e dalla ragione, per la madre ebrea è un dono di Dio, perciò nessuna forza umana la può veramente togliere. Come la madre anche i figli, ricchi di questa fede, si sentono liberi di perdere questa vita, per riceverla dalle mani di Dio: È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati (v. 14). Anche per gli empi ci sarà una risurrezione, ma non per la vita (v. 14b). Vivranno eternamente la morte. Cf. Gv 5,29: «quelli che fecero il bene per una risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna».
Seconda lettura: 2Tessalonicesi 2,16-3,5
Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo. |
Paolo aveva in pochissimo tempo evangelizzato a Tessalonica, ma era stato sufficiente perché nascesse una comunità fervorosa, che si mantiene fedele al suo Signore Gesù anche nella diaspora e attaccata dalla mentalità greca e dalle gelosie ebraiche. L’apostolo tuttavia non chiude gli occhi su alcuni problemi esistenti nella comunità e interviene a rettificare i malintesi riguardanti alcuni temi della fede tramandata: la Parusia che alcuni ritenevano imminente determinando atteggiamenti di pigrizia e di disordine.
Nel nostro brano Paolo esprime gli auguri e chiede preghiere alla comunità. Non sono delle pure espressioni formali, ma sintetizzano la fede che lui stesso aveva loro insegnato. lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro… conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene (v. 17). Con questo augurio viene ricordato ai cristiani che il presente è importante. È proprio esso che fa germogliare il futuro di gloria. La vita quotidiana deve essere vissuta nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo (3,5): due qualità teologiche irraggiungibili dalle sole forze umane.
La prima non è che la partecipazione alla vita divina, la seconda è l’accettazione delle croci seguendo le orme di Cristo.
Il cristiano sa che il Signore gli ha dato una consolazione eterna e una buona speranza (2,16). Pur non alienandosi dalla storia concreta, adempiendo tutti i doveri di cittadini, la sua vera patria è il cielo e già qui sulla terra vive da celeste.
Vangelo: Luca 20,27-38
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». |
Esegesi
Gesù si trova a Gerusalemme nel momento culminante della sua missione. Proprio a Gerusalemme era orientato tutto il suo cammino.
Qui insegna pubblicamente presso il tempio e tutti pendono dalle sue labbra. In questo clima s’inseriscono le controversie con gli scribi e con il gruppo loro avversario, che non credeva nella risurrezione dei corpi, i Sadducei. Gesù per loro è un rabbi, un maestro, al quale possono fare delle domande su questioni di fede. E gli pongono un caso curioso d’applicazione della legge del levirato (cf. Gn 38,8; Dt 25,5-10). Sette fratelli, scrupolosi osservanti della legge mosaica, presero uno dopo l’altro come moglie la stessa donna; questa donna, dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? (v. 33).
Gesù risponde innanzi tutto che il mondo futuro non è simile al presente. I figli di questo mondo, quelli che appartengono a questo mondo in cui vivono, sono legati da legami che caratterizzano la vita materiale: rapporti sessuali, vincoli coniugali, procreazione (v. 34).
Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione (v. 35) sono coloro che hanno ricevuto la grazia di partecipare alla risurrezione. Lo sguardo di Luca è rivolto in particolare agli eletti alla vita eterna. Essi vivono una vita da figli della risurrezione, cioè da risorti, in quanto sono figli di Dio. Questo fatto fonda la risurrezione: la vita che essi possiedono mediante la risurrezione è una vita che non viene da generazione carnale. Sono uguali agli angeli (v. 36), perché il loro corpo è spiritualizzato.
Gesù quindi si richiama alla Scrittura per confermare il fatto della risurrezione di tutti gli uomini. Dio si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (Es 3,2) come Dio d’Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe, cioè come Dio dei vivi (v. 37). La loro vita viene da Dio, perché tutti vivono per lui (v. 38b), quindi non può finire con la morte. Abramo, Isacco e Giacobbe non sono vivi nel ricordo dei figli da loro generati, ma perché essi sono generati da Dio. Qui si pensa a tutti coloro che sono destinati alla vita eterna, ma in v. 37 si parla in generale della risurrezione dei morti (cf. anche Mc 12,26).
Meditazione
La morte per martirio di sette fratelli in epoca maccabaica attesta la fede nel Dio capace di far risorgere i morti (I lettura); il caso (una finzione costruita ad arte) dei sette fratelli che sono morti senza lasciare figli dopo avere sposato in successione la stessa donna, viene giocato dai Sadducei per mettere in ridicolo la credenza nella resurrezione dei morti (vangelo). Al centro delle letture odierne vi è dunque la fede nella resurrezione dei morti.
Se il caso presentato dai Sadducei a Gesù appare evidentemente grottesco e incredibile, tuttavia la posizione espressa da tale episodio fittizio raggiunge l’uomo d’oggi e anche i credenti. I Sadducei «dicono che non c’è risurrezione» (Lc 20,27) e la storiella dei sette fratelli ha il fine di volgere in ridicolo tale credenza, di dimostrarne l’assurdità. Oggi alla posizione ‘colta’ che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’al di là, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che a volte abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei! Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo.
Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede» (1Cor 15,17); «Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!» (1Cor 15,13).
La risposta che Gesù da ai Sadducei indica certamente che la resurrezione è già attestata nella Torah perché Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio. I patriarchi che hanno vissuto per Dio ora vivono in lui e grazie a lui («tutti vivono per lui»: Lc 20,38). Il discorso sulla resurrezione viene così riportato all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. E dal testo emerge una domanda: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda certamente il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che abbiamo speso oggi. E la risposta di Gesù, oltre a contestare una visione della vita futura come prosecuzione di questa, come proiezione e prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere.
L’argomentazione studiata dei Sadducei induce anche un’altra riflessione. Il caso dei sette fratelli che, uno dopo l’altro, lasciano vedova la stessa donna che alla fine muore lei pure, è sì un caso artefatto, ma la vita è piena di casi tragici che spesso sono molto più dolorosi di quanto la fantasia possa immaginare. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, a argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza della parola quando si riduce la realtà a casistica, oppure quando si scinde dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?
Preghiere e racconti
La fede dà “vita”
Abbiamo tutti il diritto di conoscere la ragione, la prospettiva, l’esito delle nostre quotidiane avventure. Su molte abbiamo risposte certe e abbastanza sicure. Su altre – su troppe – ci sentiamo sprofondati in una trama misteriosa di eventi, che ci sfuggono.
Non è bello e ci riempie la vita di tristezza. Ci sentiamo derubati dei nostri diritti, costretti a consegnarli nelle mani di altri. Ci consoliamo, rassegnandoci. Ma serve solo a peggiorare le cose. Il diritto al “perché”, che è proprio il diritto al senso, posseduto e governato, non è un bene alienabile né scambiabile. […]
È inutile cercare responsabilità. Ce ne possono essere tante. Alla radice sta però la vita stessa: siamo davanti alla morte per l’unica grande ragione che siamo vivi. Il mistero che la fede ci consegna, nelle parole vissute di tanti fratelli, ci restituisce una risposta: non spiega ma travolge.
Penso a Gesù, ormai condannato a morte dopo un processo ingiusto. Reagisce alla schiaffo del soldato che sperava di guadagnarci in stima colpendo ingiustamente il povero Gesù, già distrutto dai primi passaggi della sua passione.
Gesù mostra di essere lui il più forte, non perché chiama a sua difesa un esercito di angeli, cosa che poteva tranquillamente fare, ma perché riafferma di dare, lui stesso e solo lui, la sua vita per la vita di tutti.
Diventa così signore della morte, lui, il signore della vita, perché sottrae al tiranno il diritto all’ultima parola, pronunciandola lui, forte e decisa, come gesto d’amore.
Come lui, affascinati da grandi prospettive di senso o sconfitti nell’esperienza del vuoto, con le mani alzate ci sentiamo afferrati e ci ritroviamo pienamente signori della nostra vita: deboli nella nostra crisi e i più forti nella potenza di chi ci ha afferrato e restituito alla gioia di vivere e alla libertà di sperare.
(Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 39-40)
Col tempo imparai a conoscere la Bibbia, e oggi mi considero una cristiana. […] In linea con san Paolo, credo che dopo la nostra morte corporea risorgeremo con un “corpo spirituale” in un’altra dimensione rispetto a quella fisica in cui viviamo adesso. […] O, per dirla con san Paolo: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è resuscitato. Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la vostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”.
Io che ero entrata in crisi e avevo pianto amaramente pensando che ci fosse solo questa terrena. Io che per alleviare questa sofferenza mi infilai nel maggiolone per andare a sciare sul ghiaccio di Jostedal. Io che avevo sempre sofferto così tanto perché mai e poi mai mi sarei saziata di vita. Io, improvvisamente, avevo trovato la strada verso una rassicurante fede nella vita oltre la morte.
(Jostein GAARDER, Il castello dei Pirenei, Longanesi, Milano, 2009, 215-216).
II nostro Signore e maestro nella risposta ai sadducei, i quali affermavano che non vi è resurrezione e per questo disonoravano Dio e sminuivano la Legge, dimostrò la resurrezione e fece conoscere Dio. Disse infatti: A proposito della resurrezione dei morti non avete letto ciò che è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? (Mt 22,31-32), e aggiunse: Non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui (Lc 20,38). Con queste parole rese assolutamente manifesto che colui che parlò a Mosè dal roveto e dichiarò di essere il Dio dei padri è il Dio dei viventi. Ora, chi è il Dio dei vivi se non colui che è Dio e al di sopra del quale non vi è altro Dio? […] Colui che è adorato dai profeti è il Dio vivente, è il Dio dei viventi, e il suo Verbo ha parlato a Mosè, ha rimproverato i sadducei, ha donato la resurrezione, mostrando a quei ciechi due cose: la resurrezione e Dio. Se infatti Dio non è il Dio dei morti ma dei vivi e se è detto Dio dei padri che si sono addormentati, certamente vivono per Dio e non sono morti essendo figli della resurrezione (Lc 20,36).
Proprio per insegnare questa stessa cosa diceva ai giudei: Il vostro padre Abramo esultò per vedere il mio giorno, lo vide e si rallegrò ( Gv 8,56). Che cosa significa questo? Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia (Rm 4,3). Innanzitutto credette che egli è il creatore del cielo e della terra, il solo Dio; poi, che avrebbe reso la sua posterità come le stelle del cielo (cfr. Gen 15,5) e questo è ciò che è detto da Paolo [quando scrive: dovete risplendere] come astri nel mondo (Fil 2,15). Giustamente, dunque, Abramo, dopo aver lasciato la sua parentela terrena, seguiva il Verbo di Dio, facendosi straniero con il Verbo per dimorare con il Verbo. Giustamente anche gli apostoli che discendevano da Abramo, lasciata la barca e il padre, seguivano il Verbo. Giustamente anche noi, che abbiamo la stessa fede di Abramo, presa la croce come Isacco prese la legna, seguiamo lui. In Abramo l’uomo aveva imparato già da prima a seguire il Verbo di Dio.
(IRENEO DI LIONE, Contro le eresie 4, 5,2-5, SC 100, pp. 428-434).
La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’ che i discepoli di Gesù volevano annunciare al mondo. Gesù è il Signore che ha patito, è morto, fu sepolto e il terzo giorno è risorto. Era un annuncio che tutti dovevano conoscere: era la ‘lieta notizia’, e lo è ancor oggi. Si può dire che tutto ciò che i vangeli dicono di Gesù mira a far risaltare il pieno significato della sua passione, morte e risurrezione.
Il vangelo è, prima e più di tutto, il racconto della morte e risurrezione di Gesù, che costituisce il cuore della vita spirituale.
Passione, morte e risurrezione di Gesù rappresenta l’avvenimento fondamentale e più importante di tutta la storia umana. Se non riesci a sentirlo e a vederlo, allora il vangelo, nel migliore dei casi, potrà sembrarti interessante, ma non potrà rinnovarti il cuore e farti rinascere a vita nuova. E il vangelo mira appunto a questa rinascita – a una liberazione radicale che ci sottrae al potere della morte e ci permette di amare senza paura.
Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?
La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?
Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.
Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.
Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.
Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.
(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).
Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello)
Infine, vi è un luogo dello Spirito del quale vi dirò molto poco, perché non ne abbiamo alcuna esperienza diretta. Eppure è importante: forse è il più importante di tutti. È la morte, in cui ogni cosa ci è consegnata all’improvviso, come un frutto maturo che ci attende al termine di una lunga iniziazione, un lungo esercizio. Riguardo a questo luogo, se è vero che noi non siamo ora in condizione di rendere testimonianza all’attività dello Spirito che in quel momento ha luogo, sarebbe forse interessante studiare e analizzare le preziose testimonianze dei morenti. Forse è grazie a loro che ci sarà dato di scoprire i veri criteri dell’esperienza spirituale.
(Tratto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp. 9-20).
C’è un’altra storia non troppo simpatica, che ha per protagonista un tale di nome Omar. Sembra proprio si tratti del nostro vecchio amico Datu Omar che abbiamo lasciato qualche pagina fa mentre piangeva per la scomparsa della sua moglie e domandava ad Allah di salvargli la bambina che stava morendo. Ebbene lo ritroviamo qualche tempo dopo, solo e ancora più disperato di prima. Anche la ricchezza lo aveva abbandonato e con la ricchezza, si sa, se ne vanno via subito anche gli amici. Decise allora che era preferibile per lui lasciarsi ghermire dalla morte. Perciò si avvicinò alla riva di un largo fiume, pieno zeppo di coccodrilli che lo aspettavano a fauci spalancate. Omar lanciò un grido per attirare l’attenzione su di sé e si tuffò proprio in mezzo al fiume. Ma i coccodrilli invece di sbranarlo, si allontanarono subito da lui che cercava in tutti i modi, anche tirandoli per la coda, di farsi divorare. In breve nel fiume rimase solo lui mentre i coccodrilli si erano tutti ritirati sulla terra ferma, dentro una caverna.
Ritornò inzuppato e deluso in paese e prima di entrare nella sua capanna, diede uno sguardo al cielo. Esso si stava ammantando di grosse nuvole nere ed il vento stava annunciando l’arrivo di un disastroso tifone. “Bene, bene! Il tifone getterà a terra chissà quanti alberi della foresta, pensò Omar, è meglio che mi addentri e aspetti che qualche albero mi cada addosso e così potrò morire”. Detto, fatto. Scelse l’albero dal tronco più grosso ma con le radici ormai a fior di terra. Bastava un soffio per gettarlo giù. Si scatenò il temporale, caddero fulmini e saette e quasi tutti gli alberi accanto ad Omar furono abbattuti, eccetto proprio l’albero vicino al quale si era preparato a morire. “Non mi vuole nessuno, neanche la morte!” pensò rassegnato Omar.
Quand’ecco accanto a lui apparve uno straniero vestito di una lunga tunica gialla e con il capo coperto da un turbante giallo con le frange orlate di nero. “Perché ti trovi così, in mezzo alla foresta, tutto bagnato e con i vestiti a brandelli? Chiese il nuovo arrivato”. “Sto aspettando la morte, rispose Omar, perché la morte è per me più dolce della vita”. “Non è ancora arrivato per te il momento di morire replicò lo straniero alzati e va a lavorare e cerca di essere felice della tua vita”. Omar si alzò e seguì il nuovo amico che lo condusse fuori dalla foresta. Quale fu la sua sorpresa quando vide aprirsi davanti al suo sguardo una bellissima campagna.
Vicino al sentiero erano allineate molte capanne leggiadre ed ordinate e davanti ad esse erano sedute tante ragazze che chiacchieravano in fraterna conversazione e cantavano e sorridevano. I bambini stavano giocando sui prati trapuntati di fiori, mentre gli uomini lavoravano la terra e molte donne stavano preparando succulenti pranzetti.
Ritrovò la sua capanna: era diversa, più bella, più ariosa. Mentre egli salutava tutta quella gente, provò una gioia ed una serenità del tutto nuove, e così, dopo tanti anni, finalmente il sorriso gli rifiorì sulle labbra. Tutti gli volevano bene e lo stimavano molto per la bravura nel saper catturare gli animali selvatici della vicina foresta.
Anzi lo vollero eleggere loro capo e vollero donargli come futura sposa la più bella ragazza del villaggio. Come era bello vivere, adesso. Alcuni mesi più tardi però, mentre stava dormendo sentì qualcuno bussare alla porta della sua capanna. Si alzò, accese la lampada e prese anche un coltello per maggior sicurezza. Poi aprì la porta e con grande sorpresa si vide davanti lo strano personaggio vestito di giallo, con il turbante dorato con le frange nere. “Omar, adesso sì che è arrivata la tua ora. Vieni con me!” “La mia ora? Di quale ora stai parlando”. “La tua ora è arrivata, vieni con me!” la voce dello straniero ora aveva un suono lugubre come il rumore di una pietra che cade in fondo al pozzo. Omar chiuse subito la porta gridando: “Vattene via, io non ti conosco”. Ma insistente, l’altro continuò: “L’ora della tua morte è arrivata”. “No, no, è bello vivere, lasciami in pace” gridò tutto sudato il nostro Omar dall’interno della buia capanna. La lampada infatti gli era caduta a terra e la fiamma si era spenta. Tutto attorno a lui parlava di tenebre e di terrore. “Lasciami un altro mese, per piacere!” supplicò.
“E va bene, tornerò tra un mese”. Si sentirono distintamente ora i pesanti passi dello straniero allontanarsi da Omar avvertiva più distintamente nel suo petto palpiti veloci del cuore. Aveva ancora solo un mese di tempo, e dopo?
Bisognava fare qualcosa, ma che cosa? Avrebbe fatto costruire una torre alta a difesa della sua casa, oppure sarebbe scappato lontano e sarebbe vissuto nel profondo della più nascosta foresta dell’isola più distante. Oppure si sarebbe travestito da vecchio mendicante e così la morte non lo avrebbe riconosciuto così facilmente. Ma come poteva fare in quell’ultimo mese, accidenti? L’ultima idea gli sembrò quella più giusta. Il giorno dopo si allontanò dal villaggio e, dopo dieci giorni di cammino, giunse ai margini di una grande foresta. Aldilà si ergevano alcune montagne e si poteva intravedere anche la cima fumante di un vulcano. Ci mise altri dieci giorni ad arrivare alle pendici del vulcano. La terra gli scottava sotto i piedi e ci vollero ancora altri dieci giorni per trovare finalmente una caverna adatta al suo nascondiglio.
Lo trovò e prima di entrare si travestì da vecchio. Con una fiaccola in mano Omar si addentrò nella grotta accolto da una nuvola di pipistrelli che lo avvolse in segno di triste presagio. In fondo alla caverna gli sembrò di vedere qualcuno tra le pareti umide e tappezzate di muschio. “Omar, sono qui, il mese è passato, sono venuta a prenderti!” Omar capì che non c’era più nulla da fare, aprì le braccia in segno di accoglienza, mentre la morte copriva con il suo giallo mantello il più famoso cacciatore di quelle isole sperdute.
(Illustrazioni di Federica Trivellin).
Vieni tu da me, Signore,
e allora io potrò venire da te.
Portami a te
e solo allora potrò seguirti.
Donami il tuo cuore
e solo così potrò amarti.
Dammi la tua vita
e allora potrò morire per te.
Prendi nella tua risurrezione
tutta la mia morte
e sii mio, Signore, sii mio
affinché io sia tua in eterno.
(Silja Walter)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.
– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
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