Insieme all’altro per servire il mondo

Dal 18 al 25  gennaio si celebra la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: impegna a mettere in discussione la logica – paradossale e scandalosa – che utilizza il nome di Cristo per sancire reciproche esclusioni.
Il Sussidio di quest’anno muove dall’affermazione dell’apostolo Paolo, “Cristo non può essere diviso” (1Cor 1, 13), per riproporre l’essenziale della fede e richiamare la necessità di “riconoscere i doni degli altri, anche di coloro con i quali si è in conflitto”; doni oggi portati pure dall’arrivo di “migranti da ogni parte del mondo e, soprattutto, da quel sud del mondo nel quale oggi vive la maggioranza dei cristiani”; doni che “edificano la Chiesa e la abilitano a servire il mondo”.

Prof in pensione tornano in cattedra: “Aiutiamo i ragazzi stranieri a integrarsi”

Alla scuola media Lavinia Fontana tre insegnanti danno una mano volontariamente. «Insegnante una volta, insegnante per sempre». Anche quando lo Stato ti dice ‘grazie, hai finito’ e tu invece «sai che puoi ancora essere utile a tanti ragazzini: e questa è la cosa più bella».

Grazia, Rita e Graziella sono i tre angeli custodi, senza registro, ma con quaderno e penna in mano, della scuola media Lavinia Fontana. In pensione dopo una vita tra i banchi di medie, licei ed elementari e dopo aver accompagnato centinaia di studenti alla scoperta di logaritmi, molecole e abc, Grazia Mattei, Rita D’Emidio e Graziella Cesari sono ritornate in cattedra. E lo hanno fatto in modo del tutto volontario e gratuito per aiutare gli alunni, per lo più stranieri, dell’istituto di via d’Azeglio a impossessarsi della nostra lingua e di materie come italiano e matematica. In due parole: alfabetizzazione e recupero. Due scogli enormi contro i quali il rischio di naufragio può diventare una certezza.

 

ALLA Fontana ci sono arrivate, l’anno scorso, nei modi più disparati. E ci vanno per almeno due mattine a settimana, aiutando gli studenti, ma anche i colleghi già oberati di lavoro. Grazia ha suonato alla porta a vetri di via d’Azeglio su chiamata della responsabile dei servizi educativi del Santo Stefano, Vania Rossi, che ha raccolto l’sos di una scuola che non vuole lasciare indietro nessuno. Graziella, invece, cercava una media per la nipotina: alla fine la piccola non ha cambiato scuola e lei è stata arruolata in un amen.
Uno, due, massimo tre i ragazzini seguiti ogni volta dalle tre prof. In tutto una decina, per ora. «Non è un grosso sacrifico», ammette Grazia: «E’ bellissimo poterli aiutare. Spero di essere utile a loro, ma anche alla nostra società». L’integrazione passa prima tra i banchi: là dove c’è un docente, c’è una scuola che li affianca nella nuova vita. E che la prof sia brava lo confermano le sue alunne: «Se non ci fosse stata lei, sarebbe stato tutto più faticoso».

 

DUE banchi più in là, c’è Graziella: «Fatica? Assolutamente no, la fatica è la loro», osserva indicando il suo studente. «Non è certo un grosso sacrificio essere qui. Lo spiego anche ai miei nipoti che sono tanti: non ve ne rendete conto, ma siete fortunati. Siete nati nell’emisfero giusto, nel paese giusto e nella famiglia giusta. Per la maggior parte dei vostri coetanei e non solo, non è così». E i suoi nuovi studenti «mi danno più di quanto non dia a loro: ti sono grati per ciò che fai».

Federica Gieri

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 49,3.5-6

       Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza –  e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

 

2 «Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).

     Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf. Is 49,4; 50,6). Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).

     Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti. Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf. Is 52,13-5).

 

Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3

Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! 

 

2 Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1). Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf. Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1). Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali. «Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire»,  dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf. PG 61,13-14).

     Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.

     Paolo augura «grazia e pace». È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere. Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf. Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19). Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).

     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf. Es 33,19; Sap 3,9). Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.

     In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf. Rm. 3,21-26).

     La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf. 1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).

 

Vangelo: Giovanni 1,29-34

      In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».  Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

Esegesi 

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).

     L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo. La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca airein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare. Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.

     Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio». Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.

     Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf. Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21). In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati… con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf. Es 12,4).

     Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf. Es 29,38).

Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf. Es 29,42).

     Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio». Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».

     Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista. Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.

     L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro. È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.

     La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio». Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito. Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf. Is 11,2; 61,1).

 

Meditazione 

Prima lettura e vangelo convergono verso un centro cristologico e sociologico. Isaia parla del Servo del Signore e della sua missione che ha ampiezza universale e consiste nell’essere «luce delle genti»; il vangelo applica a Gesù la tipologia del Servo-Agnello (il termine aramaico talja’ sembra significare tanto «agnello» quanto «servo»; in Is 53 il Servo è presentato come agnello afono) e il Battista ne annuncia la missione universale, «togliere il peccato del mondo».

Compito profetico è quello di preparare l’avvento del novum nella storia. La pagina di Isaia preannuncia l’inaudita estensione di orizzonte della missione del Servo (I lettura) e Giovanni introduce il novum nella storia indicando Gesù quale Messia, prima sconosciuto («In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete»: Gv 1,27). Il profeta sa creare speranza e orientarla, sa dare volto e nome a ciò che sta fiorendo nella storia e aiutarne la nascita. La profezia è la maieutica del futuro che da senso e luce all’oggi.

Il testo evangelico presenta discretamente uno squarcio sull’esperienza spirituale di Giovanni Battista in ordine alla conoscenza dell’identità profonda di Gesù. Giovanni «non conosceva» Gesù nella sua identità messianica e di rivelatore del Padre (Gv 1,31.33): ma l’ascolto della parola Dio (Gv 1,33) ha reso vigile il suo sguardo che ha saputo vedere lo Spirito posarsi su Gesù (Gv 1,32.34). L’ascolto della parola rende possibile la visione, ovvero, l’esperienza dello Spirito. La conoscenza che ne scaturisce non è affatto disincarnata o intellettuale, ma partecipe e coinvolta: è testimonianza (Gv 1,34). L’itinerario spirituale della conoscenza di Dio nella storia si può così delineare: ascoltodiscernimentotestimonianza. Anche il cristiano è chiamato al compito di vedere lo Spirito, cioè di discernere la sua presenza attiva nella storia e nelle vite degli uomini. E lo Spirito viene reso visibile dai suoi frutti (Gal 5,22), dalle sue manifestazioni e operazioni (1 Cor 2,4-11) negli uomini e nelle loro relazioni.

Gesù appare il luogo in cui lo Spirito trova riposo, dimora stabile. La sua obbedienza di inviato, di Servo, di Agnello, è arricchita e completata dalla creatività dello Spirito e dai suoi multiformi doni. Obbedienza e creatività sono elementi inscindibili anche della vita cristiana.

La conoscenza di Gesù a cui perviene Giovanni è anche un far conoscere (Gv 1,31), una conoscenza non chiusa su di sé, ma diffusiva e irraggiante. Tale conoscenza nasce dall’obbedienza di Giovanni a Colui che l’ha inviato: essa è dunque dono a cui Giovanni si è aperto e reso disponibile riconoscendo la propria ignoranza. Si tratta di un movimento pasquale che fa passare dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della conoscenza. Il testo suggerisce che la missione non può mai essere scissa dall’obbedienza personale alla parola del Signore e dal personale coinvolgimento con il Signore.

Noi non possiamo dire di conoscere Gesù una volta per tutte. C’è una non-conoscenza del Signore che è vitale per la sua retta conoscenza. Una conoscenza troppo certa del Signore rischia di falsarne i tratti rivelati dal vangelo. Il Gesù che Giovanni presenta e che i vangeli mostrano è il Gesù rivelato dallo Spirito di Dio, non la proiezione dei miraggi dell’uomo; è il Servo obbediente, non un dominatore tirannico; è l’Agnello inerme e innocente, non un Moloch distruttivo o una potenza che crea sofferenza; è il Figlio di Dio, non un idolo partorito dalla mente umana o fabbricato da mani d’uomo. La conoscenza del Signore va sempre rinnovata ed è solo per grazia, nella fede, che viene rinnovata. Essa abbisogna di essere sempre purificata e sottratta al rischio di divenire una stanca abitudine. Noi siamo tentati di rendere vecchia, stantia, ingessata, atrofizzata la nostra conoscenza del Signore e possiamo ritrovarci ad adorare un idolo invece che il Signore vivente. Sicché vale anche per noi credenti, sempre, l’umile riconoscimento che, pur confessandolo e conoscendolo, in verità noi anche non conosciamo il Signore. Solo questa non-conoscenza libera la conoscenza dal voler essere esaustiva del mistero del Signore.

 

Preghiere e racconti 

Tre angeli assistono al battesimo di Cristo mentre alle loro spalle l’uomo nuovo, il battezzando, si staglia seminudo sul fondo dei coloratissimi vestiti degli uomini vecchi. La composizione è monumentale. Pura è l’aria, pura è l’acqua e pura è la terra. Gli uomini e il mondo non sono intaccati dall’ombra/peccato, perché la stessa ombra è col ore intriso di luce, delicato come una carezza. Il paesaggio è quello aretino. Eppure sa di paradiso.

Il segreto pittorico di questo risultato è nella combinazione unica di realtà e astrazione, di vita e contemplazione, ottenuta mediante la prospettiva, la forma, il colore e soprattutto la luce che tutto investe compenetrandolo. Non si muove niente, perché tutto sa di sospeso. Sospeso è il braccio di Giovanni Battista, sospeso è il gesto del battezzando che li sta dietro. Non è per incertezza o fatica, ma per lo stupore che rende impercettibile anche il respiro: l’uomo è investito da una tale dignità che basta il suo «essersi» per riempire di dignità regale il suo corpo, la sua posa e il suo sguardo.

Il paesaggio stesso si umanizza e partecipa dell’eterna giovinezza dell’uomo. Di quale uomo? Di quello che sta al centro, dell’uomo-Dio. Il grande Giotto aveva dato figura al Dio-uomo; ora il Quattrocento rovescia il rapporto: è così umano questo Gesù che solo Dio poteva essere in Lui.

Questo uomo ha la dignità del re. Occupa il centro del mondo. Accanto a lui il terribile e selvatico Giovanni Battista si è trasformato in un dignitario di corte. Aveva tuonato contro Gerusalemme, il tempio, le menzogne, i furbi; aveva invocato la scure e il fuoco per distruggere il male. Invitava a preparare la strada al re che sarebbe arrivato. Ora un volto, uno dei mille nella folla alle acque del Giordano, lo ha fulminato. Che cosa ha visto in esso?

Ci facciamo aiutare da Piero della Francesca. Il pittore non è evangelista, ma è spontaneo che la Parola susciti negli occhi la voglia di vedere. Con tutti i limiti, ogni uomo e ogni epoca hanno diritto a un volto-Vangelo. E l’occasione più alta per cogliere il volto-Vangelo di Gesù è l’esperienza che il Nazareno ha fatto al Giordano. Forse è anche la più difficile da «immaginare». Ma Piero della Francesca è grande.

«Mentre pregava…», dice il Vangelo. E Gesù, nel quadro, sta pregando. «… il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 21-22). Nel quadro non si vedono i cieli aprirsi. È evidente che si tratta di un’esperienza spirituale, che avviene sulla punta più profonda dell’essere. La colomba è attentissima a non battere le ali: essa svolge il suo compito di tramite simbolico; il fremito vero sta salendo come linfa da dentro: tutto il Nazareno ne è invaso. L’umile falegname alla ricerca della sua vocazione, mentre prega il Padre, fa l’esperienza di essere figlio. Presto schizzerà via di lì a dire al mondo che il Regno è arrivato, che Dio abita questo mondo, questa carne, questa avventura. Sì, perché lui è il Figlio, è Dio. Non lo è diventato in quel momento, ma è in quel momento che la verità sta attraversando i suoi sensi, interiori ed esteriori. La verità è sulla sua pelle.

Nel Cristo splende la luce della coscienza filiale. L’infinita dolcezza, l’onnipotente tenerezza, la pazza voglia del Padre di far vivere, ora è anche nella sua psicologia, nel suo modo di guardare gli uomini, la donna che impasta, il papà che accende la lanterna alla sera… Tutti quelli che incontrerà, se lo vorranno, vedranno nei suoi occhi il Regno di Dio. «Non temete più niente – dirà a tutti – Dio si è fatto prossimo all’uomo. È Vangelo, è lieta notizia. Non c’è carne umana che non sia anche avventura divina. L’ho visto nei cieli aperti».

Giovanni è il primo ad accorgersi. Glielo ha letto in faccia. E ora compie su di Lui un gesto particolare che sa di incoronazione. La lieta notizia ora si fa luce del mondo. Tutto nel quadro diventa terso, puro e sacro. Tutto è evidente alla luce di un tempo senza tempo, in uno spazio che sa di trasfigurazione. «Mentre pregava…»: forse è bello immaginarlo così Gesù, quando, stanco e in preda alla delusione («Vanno capiti, poveretti: è una notizia troppo grande quella del Regno. Come arrabbiarmi se fanno fatica a credermi?»), si rifugiava nella preghiera. È bello immaginarlo che pregava così, come Piero della Francesca l’ha figurato in questo quadro.

Ancora e sempre sul monte di luce          

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino. 

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(David Maria Turoldo).

 

Uomo fra gli uomini

Gesù,

piccolo come uno di noi,

vulnerabile e nudo,

a metà fra nascita e morte,

fra silenzio e parola;

un uomo

venuto dalla polvere,

tessuto di fuoco,

di vento e d’acqua,

fra un ventre di donna

e quello della terra;

un figlio d’uomo,

per pochi istanti

in piedi, ritto

fra i sassi e le stelle;

che uomo

che va per la sua strada

fra una locanda chiusa

e quella di Emmaus;

un uomo

fra ieri e domani,

con la fatica addosso,

con lacrime di gioia negli occhi,

e talvolta un singhiozzo

che gli traversa la gola

– e per piangere

se ne va in disparte;

soltanto un uomo,

che ha paura di morire

come tutti,

e lo dice,

ed è morto infatti,

abbandonato da tutti,

abbandonato dal suo Dio,

lasciato a se stesso;

un uomo

senz’armi né armatura,

indifeso come il vento,

parola offerta,

seme nascosto,

sale della terra,

fiamma sul monte

piegata dalla tempesta

e mai spenta,

fonte viva

mille volte calpestata,

ancora chiara e fresca,

sempre pronta

per la nostra sete,

vino pronto

a essere servito,

pane spezzato

pronto sulla tavola;

un uomo,

carne e sangue

in mano ai fratelli,

sotto l’ala dello Spirito,

in mano a Dio:

uomo fra gli uomini,

nella sua solitudine

dove l’amore

improvvisamente

si accende come il fuoco

in un fascio di ginestre,

si attacca come la brina

ai rami di biancospino; 

un uomo

immenso,

che è nato da Dio,

che è tutto l’uomo

e che è Dio,

che è noi stessi,

tutti e ciascuno;

in lui noi siamo

e senza di lui

non saremmo nulla,

o ben poco;

in lui noi siamo,

coronati di gloria,

vestiti di forza,

appena di sopra degli angeli

e poco meno di Dio;

Gesù, l’uomo

Nel quale anche noi possiamo dire:

come un prodigio mi hai fatto

e prodigiose

sono le tue opere, o Dio!

(Didier Rimaud).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

PER L’APPROFONDIMENTO

II DOM TEMP ORDINARIO (A)

Umberto Eco: “Caro nipote, studia a memoria”

Il semiologo e scrittore scrive al nipotino. Con una riflessione sulla tecnologia e un consiglio per il futuro: mandare a mente ‘La vispa Teresa’, ma anche la formazione della Roma o i nomi dei domestici dei tre moschettieri. Perché Internet non può sostituirsi alla conoscenza né il computer al nostro cervello

di Umberto Eco
 
Caro nipotino mio,

non vorrei che questa lettera natalizia suonasse troppo deamicisiana, ed esibisse consigli circa l’amore per i nostri simili, per la patria, per il mondo, e cose del genere. Non vi daresti ascolto e, al momento di metterla in pratica (tu adulto e io trapassato) il sistema di valori sarà così cambiato che probabilmente le mie raccomandazioni risulterebbero datate.

Quindi vorrei soffermarmi su una sola raccomandazione, che sarai in grado di mettere in pratica anche ora, mentre navighi sul tuo iPad, né commetterò l’errore di sconsigliartelo, non tanto perché sembrerei un nonno barbogio ma perché lo faccio anch’io. Al massimo posso raccomandarti, se per caso capiti sulle centinaia di siti porno che mostrano il rapporto tra due esseri umani, o tra un essere umano e un animale, in mille modi, cerca di non credere che il sesso sia quello, tra l’altro abbastanza monotono, perché si tratta di una messa in scena per costringerti a non uscire di casa e guardare le vere ragazze. Parto dal principio che tu sia eterosessuale, altrimenti adatta le mie raccomandazioni al tuo caso: ma guarda le ragazze, a scuola o dove vai a giocare, perché sono meglio quelle vere che quelle televisive e un giorno ti daranno soddisfazioni maggiori di quelle on line. Credi a chi ha più esperienza di te (e se avessi guardato solo il sesso al computer tuo padre non sarebbe mai nato, e tu chissà dove saresti, anzi non saresti per nulla).

La copertina dell’Espresso in edicola dal 3 gennaio 2014

Ma non è di questo che volevo parlarti, bensì di una malattia che ha colpito la tua generazione e persino quella dei ragazzi più grandi di te, che magari vanno già all’università: la perdita della memoria.
È vero che se ti viene il desiderio di sapere chi fosse Carlo Magno o dove stia Kuala Lumpur non hai che da premere qualche tasto e Internet te lo dice subito. Fallo quando serve, ma dopo che lo hai fatto cerca di ricordare quanto ti è stato detto per non essere obbligato a cercarlo una seconda volta se per caso te ne venisse il bisogno impellente, magari per una ricerca a scuola. Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa. Sarebbe un poco come se, avendo imparato che per andare da via Tale a via Talaltra, ci sono l’autobus o il metro che ti permettono di spostarti senza fatica (il che è comodissimo e fallo pure ogni volta che hai fretta) tu pensi che così non hai più bisogno di camminare. Ma se non cammini abbastanza diventi poi “diversamente abile”, come si dice oggi per indicare chi è costretto a muoversi in carrozzella. Va bene, lo so che fai dello sport e quindi sai muovere il tuo corpo, ma torniamo al tuo cervello.

La memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria.

Quindi ecco la mia dieta. Ogni mattina impara qualche verso, una breve poesia, o come hanno fatto fare a noi, “La Cavallina Storna” o “Il sabato del villaggio”. E magari fai a gara con gli amici per sapere chi ricorda meglio. Se non piace la poesia fallo con le formazioni dei calciatori, ma attento che non devi solo sapere chi sono i giocatori della Roma di oggi, ma anche quelli di altre squadre, e magari di squadre del passato (figurati che io ricordo la formazione del Torino quando il loro aereo si era schiantato a Superga con tutti i giocatori a bordo: Bacigalupo, Ballarin, Maroso eccetera). Fai gare di memoria, magari sui libri che hai letto (chi era a bordo della Hispaniola alla ricerca dell’isola del tesoro? Lord Trelawney, il capitano Smollet, il dottor Livesey, Long John Silver, Jim…) Vedi se i tuoi amici ricorderanno chi erano i domestici dei tre moschettieri e di D’Artagnan (Grimaud, Bazin, Mousqueton e Planchet)… E se non vorrai leggere “I tre moschettieri” (e non sai che cosa avrai perso) fallo, che so, con una delle storie che hai letto.

Sembra un gioco (ed è un gioco) ma vedrai come la tua testa si popolerà di personaggi, storie, ricordi di ogni tipo. Ti sarai chiesto perché i computer si chiamavano un tempo cervelli elettronici: è perché sono stati concepiti sul modello del tuo (del nostro) cervello, ma il nostro cervello ha più connessioni di un computer, è una specie di computer che ti porti dietro e che cresce e s’irrobustisce con l’esercizio, mentre il computer che hai sul tavolo più lo usi e più perde velocità e dopo qualche anno lo devi cambiare. Invece il tuo cervello può oggi durare sino a novant’anni e a novant’anni (se lo avrai tenuto in esercizio) ricorderà più cose di quelle che ricordi adesso. E gratis.

C’è poi la memoria storica, quella che non riguarda i fatti della tua vita o le cose che hai letto, ma quello che è accaduto prima che tu nascessi.

Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene – a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove.

Ora la scuola (oltre alle tue letture personali) dovrebbe insegnarti a memorizzare quello che è accaduto prima della tua nascita, ma si vede che non lo fa bene, perché varie inchieste ci dicono che i ragazzi di oggi, anche quelli grandi che vanno già all’università, se sono nati per caso nel 1990 non sanno (e forse non vogliono sapere) che cosa era accaduto nel 1980 (e non parliamo di quello che è accaduto cinquant’anni fa). Ci dicono le statistiche che se chiedi ad alcuni chi era Aldo Moro rispondono che era il capo delle Brigate Rosse – e invece è stato ucciso dalle Brigate Rosse.

Non parliamo delle Brigate Rosse, rimangono qualcosa di misterioso per molti, eppure erano il presente poco più di trent’anni fa. Io sono nato nel 1932, dieci anni dopo l’ascesa al potere del fascismo ma sapevo persino chi era il primo ministro ai tempi dalla Marcia su Roma (che cos’è?). Forse la scuola fascista me lo aveva insegnato per spiegarmi come era stupido e cattivo quel ministro (“l’imbelle Facta”) che i fascisti avevano sostituito. Va bene, ma almeno lo sapevo. E poi, scuola a parte, un ragazzo d’oggi non sa chi erano le attrici del cinema di venti anni fa mentre io sapevo chi era Francesca Bertini, che recitava nei film muti venti anni prima della mia nascita. Forse perché sfogliavo vecchie riviste ammassate nello sgabuzzino di casa nostra, ma appunto ti invito a sfogliare anche vecchie riviste perché è un modo di imparare che cosa accadeva prima che tu nascessi.

Ma perché è così importante sapere che cosa è accaduto prima? Perché molte volte quello che è accaduto prima ti spiega perché certe cose accadono oggi e in ogni caso, come per le formazioni dei calciatori, è un modo di arricchire la nostra memoria.

Bada bene che questo non lo puoi fare solo su libri e riviste, lo si fa benissimo anche su Internet. Che è da usare non solo per chattare con i tuoi amici ma anche per chattare (per così dire) con la storia del mondo. Chi erano gli ittiti? E i camisardi? E come si chiamavano le tre caravelle di Colombo? Quando sono scomparsi i dinosauri? L’arca di Noè poteva avere un timone? Come si chiamava l’antenato del bue? Esistevano più tigri cent’anni fa di oggi? Cos’era l’impero del Mali? E chi invece parlava dell’Impero del Male? Chi è stato il secondo papa della storia? Quando è apparso Topolino?

Potrei continuare all’infinito, e sarebbero tutte belle avventure di ricerca. E tutto da ricordare. Verrà il giorno in cui sarai anziano e ti sentirai come se avessi vissuto mille vite, perché sarà come se tu fossi stato presente alla battaglia di Waterloo, avessi assistito all’assassinio di Giulio Cesare e fossi a poca distanza dal luogo in cui Bertoldo il Nero, mescolando sostanze in un mortaio per trovare il modo di fabbricare l’oro, ha scoperto per sbaglio la polvere da sparo, ed è saltato in aria (e ben gli stava). Altri tuoi amici, che non avranno coltivato la loro memoria, avranno vissuto invece una sola vita, la loro, che dovrebbe essere stata assai malinconica e povera di grandi emozioni.

Coltiva la memoria, dunque, e da domani impara a memoria “La Vispa Teresa”. 

LE QUATTORDICI LETTERE D’AUTORE PER IL 2014 SONO SULL’ESPRESSO IN EDICOLA DAL 3 GENNAIO 2014. ECCO CHI HA SCRITTO PER NOI

SALVATORE ACCARDO – “Quel violino da mille lire”

ANDRÉ ACHIMAN – “Vi vorrei sempre a casa con me”

MARCO BELPOLITI – “Piccole Utopie crescono”

TAHAR BEN JELLOUN – “Il razzismo non pensa”

DANIEL COHN-BENDIT – “Europa vuol dire dissenso”

URI DADUSH – “L’avventura è il vostro futuro”

DIEGO DE SILVA – “Napoli scuola di vita”

UMBERTO ECO – “Impara ‘La vispa Teresa” 

MARK HERTSGAARD – “Una sfida grande come l’amore”

MICHELA MARZANO – “Controcanto: Caro papà”

LUCA PARMITANO – “Cercate sfide, vi troverete”

RENZO ROSSO – “L’arte di saper sbagliare”

MARTIN SCORSESE – “Accendi la luce che è in te” 

ANDREW SOLOMON – “Sono gay e vi ho voluto”

 

 

“Evangelii Gaudium”: un testo che interroga

Come accostarsi alla prima Esortazione Apostolica di Papa Francesco? Quali i suoi temi portanti? Che criteri di lettura adottare? Se ne parlerà il prossimo 14 gennaio alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, alle ore 17.00 durante la tavola rotonda «Evangelii gaudium. Un testo che ci interroga»organizzata dal Dipartimento di Teologia Morale.
 
Raccogliendo l’invito a sviluppare la riflessione teologica «in modo interdisciplinare e integrato» (Evangelii Gaudium n. 134), l’incontro sarà condotto da un gruppo di docenti di diverse Facoltà della Gregoriana.
 
Tra i numerosi temi affrontati dal documento, verranno approfonditi in particolare la dimensione ecclesiologica, il dialogo e le strutture della Chiesa, la Chiesa “povera per i poveri”.
 
Interverranno Don Dario Vitali (Il “Sensus fidelium” e il Popolo di Dio), P. Joseph Xavier, S.I. (Verso una nuova immagine della chiesa), P. Paolo Benanti, T.O.R. (L’annuncio del Vangelo di fronte alle nuove sfide culturali: un dialogo con inedite antropologie e nuovi valori).
 
E ancora: Don Rocco D’Ambrosio (Parlare e comunicare alla gente), P. Felix Körner, S.I. (Dialogo interreligioso), P. Diego Alonso-Lasheras, S.I. (Evangelizzazione, economia e bene comune), P. René Micallef, S.I. (Il problema delle migrazioni) e P. Miguel Yáñez, S.I. (L’opzione preferenziale per i poveri).

Papa Francesco: l’amore cristiano è concreto e generoso, non è quello delle telenovele

L’amore cristiano ha sempre la caratteristica di essere “concreto”. Quindi, è un amore che “è più nelle opere che nelle parole”, è “più nel dare che nel ricevere”. Lo ha riaffermato questa mattina Papa Francesco, all’omelia della Messa presieduta in Casa Santa Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis:
Nessuna romanticheria: o è un amore altruista e sollecito, che si rimbocca le maniche e guarda ai poveri, che preferisce dare piuttosto che ricevere, o non ha niente a che vedere con l’amore cristiano. Papa Francesco è netto sulla questione e si lascia guidare, nella riflessione, anzitutto dalle parole della prima Lettera di Giovanni, in cui l’Apostolo insiste nel ripetere: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. L’esperienza della fede, osserva il Papa, sta proprio in questo “doppio rimanere”:
“Noi in Dio e Dio in noi: questa è la vita cristiana. Non rimanere nello spirito del mondo, non rimanere nella superficialità, non rimanere nella idolatria, non rimanere nella vanità. No, no: rimanere nel Signore. E Lui contraccambia questo: Lui rimane in noi. Ma, primo, rimane Lui in noi. Tante volte lo cacciamo via e noi non possiamo rimanere in Lui. E’ lo Spirito quello che rimane”.

Chiarita la dinamica dello spirito che muove l’amore cristiano, Papa Francesco passa a esaminare la carne. “Rimanere nell’amore” di Dio, afferma, non è tanto un’estasi del cuore, “una cosa bella da sentire”:
“Guardate che l’amore di cui parla Giovanni non è l’amore delle telenovele! No, è un’altra cosa. L’amore cristiano ha sempre una qualità: la concretezza. L’amore cristiano è concreto. Lo stesso Gesù, quando parla dell’amore, ci parla di cose concrete: dare da mangiare agli affamati, visitare gli ammalati e tante cose concrete. L’amore è concreto. La concretezza cristiana. E quando non c’è questa concretezza, si può vivere un cristianesimo di illusioni, perché non si capisce bene dove è il centro del messaggio di Gesù. Non arriva questo amore ad essere concreto: è un amore di illusioni, come queste illusioni che avevano i discepoli quando, guardando Gesù, credevano che fosse un fantasma”.
Il “fantasma” è quello che appunto – nell’episodio del Vangelo di oggi – i discepoli scorgono meravigliati e timorosi venire verso di loro camminando sul mare. Ma il loro stupore nasce da una durezza di cuore, perché – dice lo stesso il Vangelo – “non avevano compreso” la moltiplicazione dei pani avvenuta poco prima. “Se tu hai il cuore indurito – commenta Papa Francesco – tu non puoi amare e pensi che l’amore sia quello di figurarsi cose. No, l’amore è concreto”. E questa concretezza, soggiunge, si fonda su due criteri:
“Primo criterio: amare con le opere, non con le parole. Le parole le porta via il vento! Oggi sono, domani non sono. Secondo criterio di concretezza è: nell’amore è più importante dare che ricevere. Quello che ama dà, dà … Dà cose, dà vita, dà se stesso a Dio e agli altri. Invece chi non ama, chi è egoista, sempre cerca di ricevere, sempre cerca di avere cose, avere vantaggi. Rimanere col cuore aperto, non come era quello dei discepoli, che era chiuso, che non capivano niente: rimanere in Dio e Dio rimane in noi; rimanere nell’amore”.

2014-01-09 Radio Vaticana

Corso teorico-pratico: la terapia dell’imperfezione

L’Istituto di Psicologia e l’Istituto di Metodologia Pedagogica organizzano il Corso Teorico/Pratico con il Prof. Ricardo Peter su “Il concetto di limite: base antropologica e sue proiezioni pedagogiche e psicoterapeutiche”.
Una riflessione psicologica, educativa, antropologica ed etico-spirituale sull’essere umano dinanzi alle diverse problematiche della sua esistenza “limitata”.
Sono messi a disposizione 35 posti in tutto!Rimangono ancora soltanto 15 posti!
Le iscrizioni si effettuano entro e non oltre il 15 febbraio 2014 in Segreteria dell’Istituto di Psicologia. Per ulteriori informazioni e iscrizioni psicologia@unisal.it
 
Il prof. Ricardo Peter è Dottore in Filosofia, tra i titoli conseguiti: Training in Psicoanalisi, Diploma in Personal Counseling, India. Ha vissuto a Roma per 30 anni, durante i quali è stato ambasciatore presso la Santa Sede, dal 1979 al 1990. Professore di Antropologia del limite presso l’Università Gregoriana.
Attualmente risiede a Puebla (Messico), dove alterna la sua attività di psicoterapeuta con la ricerca e la docenza presso la Universidad Autónoma de Puebla. Tra i suoi libri pubblicati in italiano: Una terapia per la persona umana, Onora il tuo limite, Introduzione all’umano. Le sue opere sono state pubblicate in Spagna, Italia, Brasile, Argentina e Messico. Il Prof. Ricardo Peter è l’ideatore dellaTerapia dell’ Imperfezione. Questa è una teoria psicologica con una propria metodologia clinica e le relative tecniche terapeutiche specifiche, concepita come un trattamento del disturbo del perfezionismo. La Terapia dell’ Imperfezione fa parte di una struttura teorica che parte dal concetto del limite e si sviluppa su tre livelli: filosofico, psicologico ed etico-spirituale.
 
Il corso avrà luogo:
  • Venerdì 28 febbraio dalle 15.00 alle 18.00
  • Sabato 1 marzo dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00
  • Domenica 2 marzo dalle 9.00 alle 12.30 (con possibilità di partecipare alle Santa Messa alle ore 8.00)
Il costo di partecipazione riguarda la copertura delle spese organizzative ed è fissato a 25 Euro per i primi 10 iscrittti e a 30 Euro per gli altri partecipanti.
 

Dodici ceste piene … catechesi e formazione cristiana degli adulti

Il testo dell’Ufficio Catechistico Nazionale si propone l’obiettivo di sostenere l’azione pastorale formativa nei confronti degli adulti, una scelta prioritaria della Chiesa italiana che fatica però a trovare attuazione concreta nella pratica.

Curato da Guido Benzi (Biblista), Paola Dal Toso (Pedagogista) e Ubaldo Montisci (Catecheta), il volume si rivolge a tutti coloro che si dedicano all’incontro e all’animazione del mondo adulto nelle comunità cristiane (parroci, diaconi permanenti, accompagnatori di adulti, catechisti, evangelizzatori).

L’opera è divisa in tre parti: nella prima si fa sintesi di alcune questioni teoriche di fondamentale importanza per la catechesi degli adulti; nella seconda si offrono delle vere e proprie introduzioni sintetiche ai problemi pastorali con gli adulti e alle modalità di affrontarli; nella terza si presenta una serie di esemplificazioni in vari ambiti della vita dell’adulto, che rendono concreta la tematica sotto vari punti di vista.

Nell’insieme, si è di fronte a una serie di contributi agili, variegati per approcci e linguaggi, realizzati da esperti e offerti per un uso pastorale immediato ma anche per una riflessione più approfondita, resa possibile da un’ampia e aggiornata raccolta bibliografica.

Su Facebook sempre meno adolescenti: come cambierà il social network?

Facebook sta perdendo per strada gli utenti più giovani: gli adolescenti preferiscono i lidi di Snapchat e Twitter al social network di Mark Zuckerberg. Ma come influirà questo su Facebook?In questi ultimi tempi non si fa altro che parlare del fatto che i giovanissimi stanno abbandonando i lidi di Facebook per andare a sperimentare realtà più frizzanti come Snapchat o Twitter. Mentre ci si interroga sempre sul perché di questa diaspora e su come fare per prevenirla, un’altra domanda dovrebbe sorgere spontanea: come cambierà Facebook privo di questo bacino di utenza adolescenziale?

Non si tratta solamente di fare sterili ricerche demografiche, un recente studio ha dimostrato comeFacebook sia morto e sepolto per gli adolescenti i quali pare siano tutti emigrati su piattaforme come Instagram, Snapchat e Twitter. Dunque chi è rimasto su Facebook? I loro genitori, of course.

Il caso che viene portato ad esempio è quello della presenza di una madre settantenne su Facebook. Per sua scelta, sul suo profilo ha pochi amici, il concetto di inserire come amici anche sconosciuti e conoscenti è tipicamente giovanile, le persone più grandicelle selezionano attentamente i loro contatti, preferendone pochi, ma buoni.

Rispetto ad un giovane, questa madre avrà meno collegamenti sulla piattaforma, di sicuro sarà meno attiva rispetto ad un eventuale figlio. Questo significa avere anche meno dati a disposizione per Facebook, quindi una minor accuratezza delle informazioni a disposizione. Magari la madre in questione non ha volutamente inserito i dati del profilo che Facebook continuava a richiederle (casa, lavoro e via dicendo) o magari ha erroneamente confermato quelli che Facebook suggeriva, contribuendo così a generare informazioni errate. 

Se ciò dovesse succedere per un alto numero di utenti, ecco che l’allontanamento dei giovani da Facebook avrebbe un’inaspettata conseguenza: la qualità e l’accuratezza dei suoi dati diminuisce in maniera proporzionale. E questo significa una piattaforma meno interessante per gli inserzionisti. In più dobbiamo considerare che se dal punto di vista pubblicitario i giovani non sono molto redditizi, da quello delle attività sul social network lo sono, eccome. Sono più energici, postano, linkano, condividono, chattano di continuo, ne sono quasi ossessionati. E tutti questi contatti generano traffico, cosa che fa piacere a Facebook. Cosa che non succede con gli utenti più anziani, più diffidenti e restii a condividere tutto così su pubblica piazza. 

E il guaio è che se i giovani si spostano su altri lidi, ben presto anche i loro genitori faranno lo stesso, non fosse altro che per tenerli sotto controllo. Stiamo assistendo all’apocalisse di Facebook?

Strenna 2014 «DA MIHI ANIMAS, CETERA TOLLE»

Dopo aver dedicato il primo anno del triennio di preparazione al Bicentenario della Nascita di Don Bosco a conoscerne la soria e il secondo anno a cogliere in lui i tratti dell’educatore, in questo terzo e ultimo anno intendiamo andare alla sorgente del suo carisma, attingendo alla sua spiritualità. Attingiamo all’esperienza spirituale di Don Bosco, per camminare nella santità secondo la nostra specifica vocazione. «La gloria di Dio e la salvezza delle anime».

Carissimi fratelli e sorelle della Famiglia Salesiana,

dopo aver dedicato il primo anno del triennio di preparazione al Bicentenario della Nascita di Don Bosco a conoscere la sua figura storica e il secondo anno a cogliere in lui i tratti fisionomici dell’educatore e ad attualizzare la sua prassi educativa, in questo terzo e ultimo anno intendiamo andare alla sorgente del suo carisma, attingendo alla sua spiritualità.

La spiritualità cristiana ha come centro la carità, ossia la vita stessa di Dio, che nella sua realtà più profonda è Agape, Carità, Amore. La spiritualità salesiana non è diversa dalla spiritualità cristiana; anch’essa è centrata nella carità; in questo caso si tratta della “carità pastorale”, ossia quella carità che ci spinge a cercare “la gloria di Dio e la salvezza delle anime”: «caritas Christi urget nos».

Come tutti i grandi santi fondatori, Don Bosco ha vissuto la vita cristiana con una ardente carità e ha contemplato il Signore Gesù da una prospettiva particolare, quella del carisma che Dio gli ha affidato, ossia la missione giovanile. La “carità salesiana” è carità pastorale, perché cerca la salvezza delle anime, ed è carità educativa, perché trova nell’educazione la risorsa che permette di aiutare i giovani a sviluppare tutte le loro energie di bene; in questo modo i giovani possono crescere come onesti cittadini, buoni cristiani e futuri abitanti del cielo.

Vi invito, dunque, cari fratelli e sorelle, membri tutti della Famiglia Salesiana, ad attingere alle sorgenti della spiritualità di Don Bosco, ossia alla sua carità educativa pastorale; essa ha il suo modello in Cristo Buon Pastore e trova la sua preghiera e il suo programma di vita nel motto di Don Bosco «Da mihi animas, cetera tolle». Potremo così scoprire un “Don Bosco mistico”, la cui esperienza spirituale sta a fondamento del nostro modo di vivere oggi la spiritualità salesiana, nella diversità delle vocazioni che a lui si ispirano. 

* * *

Conoscere la vita di Don Bosco e la sua pedagogia non significa ancora comprendere il segreto più profondo e la ragione ultima della sua sorprendente attualità. La conoscenza degli aspetti della vita di Don Bosco, delle sue attività e anche del suo metodo educativo non basta. Alla base di tutto, quale sorgente della fecondità della sua azione e della sua attualità, c’è qualche cosa che spesso sfugge anche a noi, suoi figli e figlie: la profonda vita interiore, quella che si potrebbe chiamare la sua “familiarità” con Dio. Chissà che non sia proprio questo il meglio che di lui abbiamo per poterlo invocare, imitare, seguire per incontrare il Cristo e farlo incontrare ai giovani.

Oggi si potrebbe tracciare il profilo spirituale di Don Bosco, partendo dalle impressioni espresse dai suoi primi collaboratori, passando poi al libro scritto da Don Eugenio Ceria, il “Don Bosco con Dio”, che fu il primo tentativo di sintesi a livello divulgativo della sua spiritualità, confrontando quindi le varie riletture dell’esperienza spirituale di Don Bosco fatte dai suoi Successori, per giungere infine a quelle ricerche che segnarono una svolta nello studio del modo di vivere la fede e la religione da parte di Don Bosco stesso.

Questi ultimi studi risultano più fedelmente aderenti alle fonti, aperti alla considerazione delle varie visioni spirituali che hanno influito su Don Bosco o che con lui hanno avuto contatti (San Francesco di Sales, Sant’Ignazio, Sant’Alfonso Maria dei Liguori, San Vincenzo dÉ Paoli, San Filippo Neri, …), disponibili a riconoscere che la sua è stata comunque un’esperienza originale e geniale. Sarebbe interessante a questo punto avere un nuovo profilo spirituale di Don Bosco, ossia una nuova agiografia così come oggi la teologia spirituale la intende.

Il Don Bosco “uomo spirituale” ha interessato Walter Nigg, pastore luterano e professore di Storia della Chiesa all’Università di Zurigo, che così scriveva: “Presentare la sua figura sorvolando sul fatto che ci troviamo di fronte ad un santo sarebbe come presentare una mezza verità. La categoria del santo deve avere la precedenza rispetto a quella di educatore. Qualsiasi altra graduatoria falserebbe la gerarchia dei valori. D’altra parte il santo è l’uomo nel quale il naturale sconfina nel soprannaturale e il soprannaturale è presente in Don Bosco in misura notevole […] Per noi non ci sono dubbi: il vero santo dell’Italia moderna è Don Bosco”(1).

Negli stessi anni ottanta del secolo scorso l’opinione era condivisa dal teologo P. Dominique Chenu o.p.; alla domanda di un giornalista che gli chiedeva di indicargli alcuni santi portatori di un messaggio di attualità per i nuovi tempi, rispondeva: “Mi piace ricordare, anzitutto, colui che ha precorso il Concilio di un secolo, Don Bosco. Egli è già, profeticamente, un modello di santità per la sua opera che è rottura con un modo di pensare e di credere dei suoi contemporanei”.

In ogni stagione e contesto culturale si tratta di rispondere a queste domande:

– che cosa ha ricevuto Don Bosco dall’ambiente in cui è vissuto? in che misura è debitore al contesto, alla famiglia, alla scuola, alla chiesa, alla mentalità della sua epoca?

– come ha reagito e cosa ha dato al suo tempo e al suo ambiente?

– come ha influito sui tempi successivi?

– come lo hanno visto i suoi contemporanei: salesiani, popolo, chiesa, laici? come lo hanno compreso le successive generazioni?

– quali aspetti della sua santità oggi appaiono a noi più interessanti?

– come tradurre nell’oggi, senza ricopiare, il modo in cui Don Bosco al suo tempo ha interpretato il Vangelo di Cristo?

Queste sono domande a cui dovrebbe rispondere una nuova agiografia di Don Bosco. Non si tratta di pervenire alla identificazione di un profilo di Don Bosco definitivo e sempre valido, ma di evidenziarne uno adeguato alla nostra epoca. É evidente che di ogni santo si sottolineano gli aspetti che interessano per la loro attualità e si trascurano quelli che non si ritengono necessari nel proprio momento storico o si stimano irrilevanti per caratterizzarne la figura.

I santi infatti sono una risposta al bisogno spirituale di una generazione, l’illustrazione eminente di ciò che i cristiani di un’epoca intendono per santità. Evidentemente l’auspicata imitazione di un santo non può che essere “proporzionale” al riferimento assoluto che è Gesù di Nazareth; infatti ogni cristiano, nella concretezza della sua situazione, è chiamato a incarnare a modo proprio l’universale figura di Gesù, senza ovviamente esaurirla. I santi offrono un cammino concreto e valido verso questa identificazione con il Signore Gesù.

Nel commento alla Strenna che proporrò alla Famiglia Salesiana, questi saranno i tre contenuti fondamentali che svilupperò. Al termine di essi offrirò alcuni impegni concreti che qui già anticipo nella loro completezza.

1. Esperienza spirituale di Don Bosco

La spiritualità è un modo caratteristico di sentire la santità cristiana e di tendere ad essa; è un modo particolare di ordinare la propria vita all’acquisto della perfezione cristiana e alla partecipazione di uno speciale carisma. In altri termini è il vissuto cristiano, un’azione congiunta con Dio che presuppone la fede.

La spiritualità salesiana consiste di vari elementi: è uno stile di vita, preghiera, lavoro, rapporti interpersonali; una forma di vita comunitaria; una missione educativa pastorale sulla base di un patrimonio pedagogico; una metodologia formativa; un insieme di valori e atteggiamenti caratteristici; una peculiare attenzione alla Chiesa e alla società attraverso settori specifici di impegno; un’eredità storica di documentazione e scritti; un linguaggio caratteristico; una serie tipica di strutture e opere; un calendario con feste e ricorrenze proprie; …

Il punto di partenza dell’esperienza spirituale di Don Bosco è “la gloria di Dio e la salvezza delle anime”; ciò è stato da lui formulato nel suo programma di vita “da mihi animas, cetera tolle”. La radice profonda di tale esperienza è l’unione con Dio, come espressione della vita teologale che si sviluppa con la fede, la speranza e la carità, e dello spirito di autentica pietà. Questa esperienza si traduce in azioni visibili; senza le opere la fede è morta e senza la fede le opere sono vuote. Infine essa ha come punto di arrivo la santità: la santità è possibile a tutti, dipende dalla nostra cooperazione con la grazia; a tutti è data la grazia per essa.

La nostra spiritualità corre il rischio di vanificarsi perché i tempi sono cambiati e perché talvolta noi la viviamo superficialmente. Per attualizzarla dobbiamo ripartire da Don Bosco, dalla sua esperienza spirituale e dal sistema preventivo. I chierici del tempo di Don Bosco vedevano ciò che non andava e non volevano essere religiosi, ma erano incantati da lui. I giovani hanno bisogno di “testimoni”, come scrisse Paolo VI. Ci vogliono “uomini spirituali”, uomini di fede, sensibili alle cose di Dio e pronti alla obbedienza religiosa nella ricerca del meglio. Non è la novità che ci rende liberi, ma la verità; la verità non può essere moda, superficialità, improvvisazione: «veritas liberabit vos».

2. Centro e sintesi della spiritualità salesiana: la carità pastorale

Un’espressione di San Francesco di Sales dice: “La persona è la perfezione dell’universo; l’amore è la perfezione della persona; la carità è la perfezione dell’amore”.(2) É una visione universale che colloca in scala ascendente quattro modi di esistere: l’essere, l’essere persona, l’amore come forma superiore a qualsiasi altra espressione, la carità come espressione massima dell’amore.

La carità è il centro di ogni spiritualità cristiana: non è solo il primo comandamento, ma è anche la fonte di energia per progredire. L’accendersi della carità in noi è un mistero e una grazia; non proviene da iniziativa umana, ma è partecipazione alla vita divina ed effetto della presenza dello Spirito. Non potremmo amare Dio se Lui non ci avesse amato per primo, facendoci sentire e dandoci il gusto e il desiderio, l’intelligenza e la volontà, per corrispondervi. Non potremmo nemmeno amare il prossimo e vedere in esso l’immagine di Dio, se non avessimo l’esperienza personale dell’amore di Dio.

La carità pastorale è una espressione della carità, che ha molte manifestazioni: l’amore materno, l’amore coniugale, la compassione, la misericordia, il perdono, … Essa sta ad indicare una forma specifica di carità. Richiama la figura di Gesù Buon Pastore, non soltanto per le modalità del suo operare: bontà, ricerca di chi si è perso, dialogo, perdono; ma anche e soprattutto per la sostanza del suo ministero: rivelare Dio a ciascun uomo e a ciascuna donna. É più che evidente la differenza con altre forme di carità che rivolgono attenzione preferenziale a particolari bisogni delle persone: salute, cibo, lavoro. L’elemento tipico della carità pastorale è l’annuncio del Vangelo, l’educazione alla fede, la formazione della comunità cristiana, la lievitazione evangelica dell’ambiente.

La carità pastorale salesiana ha poi una sua caratteristica propria, documentata anche dagli inizi della nostra storia: “La sera del 26 gennaio 1854 ci siamo radunati nella camera di Don Bosco e ci venne proposto di fare con l’aiuto del Signore e di San Francesco di Sales una prova di esercizio pratico di carità verso il prossimo, … D’allora è stato dato il nome di salesiani a coloro che si proposero o si proporranno questo esercizio”.(3) La carità pastorale è centro e sintesi della nostra spiritualità, che ha il suo punto di partenza nell’esperienza spirituale di Don Bosco stesso e nella sua preoccupazione per le anime. Dopo Don Bosco, i suoi Successori hanno riaffermato la stessa convinzione; è interessante il fatto che tutti si siano premurati di ribadirlo con una convergenza che non lascia spazio al dubbio. Essa si esprime nel motto “da mihi animas, cetera tolle”.

3. Spiritualità salesiana per tutte le vocazioni

Se è vero che la spiritualità cristiana ha elementi comuni e validi per tutte le vocazioni, è pur vero che essa è vissuta con differenze peculiari e specificità a secondo del proprio stato di vita: il ministero presbiterale, la vita consacrata, i fedeli laici, la famiglia, i giovani, gli anziani, … hanno un loro modo tipico di vivere l’esperienza spirituale. Lo stesso vale per la spiritualità salesiana.

Nella “Carta di identità della Famiglia salesiana” sono stati individuati i tratti spirituali caratteristici di tutti i suoi gruppi; ciò viene rilevato soprattutto nella parte terza di questo documento. D’altra parte i vari gruppi legittimamente, per la loro origine e per il loro sviluppo, hanno storie e caratteristiche spirituali proprie, che sono da conoscere e costituiscono una ricchezza per tutta la Famiglia stessa.

Nel tempo si è sviluppata pure una spiritualità giovanile salesiana. Pensiamo, oltre alle tre biografie dei giovani Michele Magone, Domenico Savio e Francesco Besucco, scritte da Don Bosco, alle pagine che gli indirizza attraverso il “Giovane provveduto” ai giovani stessi, alle Compagnie, … Sarebbe interessante conoscere gli sviluppi della spiritualità giovanile salesiana nel tempo, fino ad arrivare agli anni novanta, quando è stata data anche una formulazione autorevole di questa spiritualità anche attraverso il Movimento Giovanile Salesiano. É da approfondire cosa e come proporre ai giovani non credenti, indifferenti o appartenenti ad altre religioni, elementi di spiritualità salesiana giovanile.

I gruppi della Famiglia salesiana coinvolgono numerosi laici nella loro missione. Siamo consapevoli che non vi può essere un coinvolgimento pieno, se non c’è anche una condivisione dello stesso spirito. Comunicare la spiritualità salesiana ai laici corresponsabili con noi dell’azione educativa pastorale diventa un impegno fondamentale. I salesiani, come anche altri gruppi della Famiglia salesiana, hanno fatto un lavoro esplicito di formulazione di una spiritualità laicale salesiana nel Capitolo generale XXIV (4). Certamente i gruppi laicali della famiglia salesiana costituiscono una fonte di ispirazione per tale spiritualità.

Dopo che siamo diventati maggiormente consapevoli che non vi può essere pastorale giovanile senza pastorale famigliare, ci stiamo interrogando su quale spiritualità familiare salesiana elaborare e proporre. Ci sono esperienza di famiglie che si ispirano a Don Bosco. Qui il cammino è ancora agli inizi, ma è una strada che ci aiuta a sviluppare la nostra missione popolare, oltre che giovanile. 

4. Impegni per la Famiglia salesiana

4.1. Impegniamoci ad approfondire quale è stata l’esperienza spirituale di Don Bosco, il suo profilo spirituale, per scoprire il “Don Bosco mistico”; potremo così imitarlo, vivendo un’esperienza spirituale con identità carismatica. Senza appropriarci della esperienza spirituale vissuta da Don Bosco, non potremo essere consapevoli della nostra identità spirituale salesiana; solo così saremo discepoli e apostoli del Signore Gesù, avendo Don Bosco come modello e maestro di vita spirituale. La spiritualità salesiana, reinterpretata e arricchita con l’esperienza spirituale della Chiesa del dopo Concilio e con la riflessione della teologia spirituale di oggi, ci propone un cammino spirituale che conduce alla santità. Riconosciamo che la spiritualità salesiana è una vera e completa spiritualità: essa ha attinto alla storia della spiritualità cristiana, soprattutto a San Francesco di Sales; ha la sua sorgente nella peculiarità e originalità dell’esperienza di Don Bosco, si è arricchita con l’esperienza ecclesiale ed è giunta alla rilettura e alla sintesi matura di oggi.

4.2. Viviamo il centro e la sintesi della spiritualità salesiana, che è la carità pastorale. Essa è stata vissuta da Don Bosco come ricerca della “gloria di Dio e salvezza delle anime” e si è fatta per lui preghiera e programma di vita nel “da mihi animas, cetera tolle”. É una carità che ha bisogno di alimentarsi con la preghiera e fondarsi su di essa, guardando al Cuore di Cristo, imitando il Buon Pastore, meditando la Sacra Scrittura, vivendo l’Eucaristia, dando spazio alla preghiera personale, assumendo la mentalità del servizio ai giovani. É una carità che si traduce e si rende visibile in gesti concreti di vicinanza, affetto, lavoro, dedizione. Assumiamo il sistema preventivo come esperienza spirituale e non solo come proposta di evangelizzazione e metodologia pedagogica; esso trova la sua sorgente nella carità di Dio che previene ogni creatura con la sua Provvidenza, l’accompagna con la sua presenza e la salva donando la vita; esso ci dispone ad accogliere Dio nei giovani e ci chiama a servirlo in loro, riconoscendone la dignità, rinnovando la fiducia nelle loro risorse di bene ed educandoli alla pienezza di vita.

4.3. Comunichiamo la proposta della spiritualità salesiana secondo la diversità delle vocazioni specialmente ai giovani, ai laici coinvolti nella missione di Don Bosco, alle famiglie. La spiritualità salesiana ha bisogno di essere vissuta secondo la vocazione che ognuno ha ricevuto da Dio. Riconosciamo i tratti spirituali comuni dei vari gruppi della Famiglia salesiana, indicati nella “Carta di identità”; facciamo conoscere i testimoni della santità salesiana; invochiamo l’intercessione dei nostri Beati, Venerabili e Servi di Dio e chiediamo la grazia della loro canonizzazione. Offriamo ai giovani che accompagniamo la spiritualità giovanile salesiana. Proponiamo la spiritualità salesiana ai laici impegnati a condividere la missione di Don Bosco. Con attenzione alla pastorale famigliare, indichiamo alle famiglie una spiritualità adatta alla loro condizione. Infine invitiamo a fare esperienza spirituale anche giovani, laici e famiglie delle nostre comunità educative pastorali o dei nostri gruppi e associazioni che appartengono ad altre religioni o che si trovano in situazione di indifferenza di fronte a Dio; anche per loro è possibile l’esperienza spirituale come spazio per l’interiorità, il silenzio, il dialogo con la propria coscienza, l’apertura al trascendente.

4.4. Leggiamo alcuni testi di Don Bosco, che possiamo considerare come fonti della spiritualità salesiana. Vi propongo una raccolta di scritti spirituali di Don Bosco, in cui egli appare come un vero maestro di vita spirituale (5). Potremo così attingere a pagine che ci parlano con immediatezza del vissuto spirituale salesiano e dell’esperienza che ognuno di noi può assumere.

 

Don Pascual Chávez V., SDB

Rettor Maggiore

  

(1) W. NIGG, Don Bosco. Un santo per il nostro tempo, Torino, LDC, 1980, 75.103.

(2) Cfr. FRANCESCO DI SALES, Trattato dell’amore di Dio, Vol II, libro X, c. 1

(3) MB V, 9.

(4) CG24, Salesiani e laici: comunione e condivisione nello spirito e nella missione di Don Bosco, Roma 1996, nn.89-100.

(5) A. GIRAUDO (a cura), Insegnamenti di vita spirituale, LAS 2013.

 

(Rettor Maggiore) 2013 – autore: Don Pascual Chávez