I Vescovi invitano all’incontro con il Papa

L’annuncio del Vangelo è una proposta intrinsecamente educativa che tende a formare e trasformare le persone parlando alla loro coscienza.  Per questo la Chiesa italiana ha voluto dedicare il decennio 2010-2020 all’educazione.
La scuola si trova oggi ad affrontare numerose sfide. La presenza sempre più numerosa di alunni provenienti da paesi lontani, lo sviluppo rapidissimo delle nuove tecnologie della comunicazione, l’integrazione degli alunni con disabilità stanno suggerendo alla scuola di ripensare il proprio ambiente di apprendimento e di aggiornare la propria strumentazione didattica.

Queste e tante altre sfide spesso viste come difficoltà da affrontare più che come stimoli alla crescita e al rinnovamento. Certo occorrono maggiori risorse materiali per affrontare tanti problemi e cogliere queste opportunità. La crisi economica degli ultimi anni ha impedito che si potesse intervenire come si sarebbe voluto e dovuto fare. Ma la crisi della scuola non dipende da fattori soltanto economici. È una crisi più profonda che chiama in causa la responsabilità di ogni cittadino che si sente convocato e obbligato a contribuire al bene comune, tanto più urgente quanto meno avvertito.

Per questo motivo è stato avviato un progetto  – La Chiesa per la scuola – con cui la Chiesa italiana vuole testimoniare la propria attenzione al mondo della scuola, guardando ad esso nella sua interezza, scuola pubblica statale e scuola pubblica paritaria, perché tutti i bambini, i ragazzi e i giovani impegnati nel faticoso ma appassionante percorso della propria crescita meritano la medesima considerazione.

L’incontro del 10 maggio in piazza San Pietro con Papa Francesco – al quale esprimiamo sin da ora sincera gratitudine – rappresenta  un’occasione privilegiata di mobilitazione popolare nella forma di una festa insieme. Essa manifesterà a tutti, una volta di più, l’interesse e l’azione della Chiesa per il mondo della scuola, che da Roma ripartirà con rinnovate motivazioni ed energie.
La scuola, infatti, è un bene di tutti.
Come credenti e come cittadini non possiamo disinteressarcene.
 
Roma, 28 gennaio 2014, memoria di S. Tommaso d’Aquino
 
Il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana
 

Due settimane sull’educazione: un itinerario di riflessione, confronto e preghiera

L’incontro del card. Angelo Scola con la comunità educante di Carate Brianza ha dato avvio alle iniziative della Settimana dell’educazione 2014. Tradizionalmente collocata fra la memoria della giovane martire Agnese (21 gennaio) e la memoria di San Giovanni Bosco (31 gennaio), quest’anno la Settimana dell’educazione si estende sino alla celebrazione eucaristica delle «comunità educanti» nella Basilica di Sant’Ambrogio, alle 21 di martedì 4 febbraio, davanti alle reliquie di san Giovanni Bosco.
Nell’ambito della Settimana quest’anno vengono sostanzialmente inserite anche la Festa della Famiglia e la Giornata della vita, che metteranno al centro anch’esse l’educazione: il tema unitario che collega tutte le iniziative è “Educare in spirito di famiglia”.
Particolarmente importante è l’incontro dell’Arcivescovo con il mondo della scuola, che si è tenuto mercoledì 22 gennaio nel Duomo di Milano, al quale hanno preso parte dirigenti e docenti della scuola pubblica statale e paritaria, personale tecnico-amministrativo ed esponenti delle associazioni dei genitori.
 

La scuola di oggi, tra gioie e difficoltà. Perché una pastorale della scuola?

L’Ufficio Scuola della Conferenza Episcopale Campana promuove per martedì 4 febbraio 2014 un seminario di studio, rivolto ai responsabili del servizio IRC e della pastorale scolastica nelle diocesi campane. Il tema scelto è “La scuola di oggi, tra gioie e difficoltà. Perché una pastorale della scuola ?”: interverranno don Maurizio Viviani, direttore dell’UNESU (CEI), e il dott. Michele Montella, Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo “D’Aosta” di Ottaviano. L’iniziativa si inserisce nel cammino di preparazione all’incontro del 10 maggio 2014 con Papa Francesco.

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 58,7-10

Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio»  

 

La pratica del digiuno è conosciuta presso tutti i popoli. Fin dai tempi più remoti si digiunava quando ci si trovava in situazioni di pericolo o si era colpiti da sventure, quando la grandine o le cavallette distruggevano i raccolti, quando le piogge tardavano. Questo sacrificio volontario aveva lo scopo di commuovere Dio, placarlo, convincerlo a porre fine ai suoi castighi. Durante i giorni di digiuno si indossavano abiti sdruciti, ci si cospargeva il capo di polvere e cenere, si rinunciava ai rapporti sessuali, non si faceva il bagno, si andava scalzi, si dormiva per terra.

     La lettura di oggi va collocata nel contesto di uno di questi momenti di digiuno. Siamo nel V secolo a. C., il tempo del post-esilio. Il popolo è tornato da Babilonia, ma le promesse

fatte dai profeti tardano a realizzarsi. Invece della sospirata comunità pacifica si è instaurata una società dominata da arrivisti e profittatori. Ovunque ci sono violenze, angherie, di-scordie. Per convincere Dio a intervenire e porre rimedio alla situazione, si indice un digiuno nazionale, rigoroso, severo.

     Nulla cambia, tutto continua come prima e in molti si insinua il sospetto che la pratica del digiuno sia inefficace.

     Ci si chiede: perché digiunare se il Signore non ascolta ed è come se non ci fossimo sottoposti a mortificazioni e rinunce? (Is 58.3).

     La lettura di oggi dà una risposta a questo interrogativo. La colpa del mancato cambiamento – spiega il profeta – non è del Signore, ma del modo errato di praticare il digiuno, ridotto a una sterile autopunizione, a una dolorosa penitenza. Questo digiuno non ottiene alcun risultato perché sottopone, sì, il corpo a privazioni, ma non cambia il cuore.

     Il vero digiuno, quello che produce effetti prodigiosi, consiste nel condividere il proprio pane con chi ha fame, nell’ospitare in casa i miseri senza tetto, nel dare un vestito a chi è nudo, nel non distogliere gli occhi da chi, uomo come noi – nostra stessa carne, anche se diverso è il colore della sua pelle e sono differenti la cultura e la religione – vive al nostro fianco in condizioni disumane (v. 7).

     Questo comportamento nuovo ottiene miracoli: in breve tempo cura le ferite della società, risolve le situazioni di disagio, crea rapporti fraterni e fa nascere una comunità in cui splendono la giustizia e la gloria di Dio (v. 8).

     Nella seconda parte della lettura (vv. 9-10) viene indicata un’altra caratteristica del vero digiuno: l’impegno a togliere di mezzo ogni forma di oppressione, il puntare il dito e il parlare arrogante. Non basta fare la carità e l’elemosina, è necessario porre fine a tutti gli atteggiamenti di ambiziosa superiorità che causano umiliazioni, ingiustizie, discrimina-zioni.

     Dopo questo nuovo chiarimento, il profeta riprende, con insistenza quasi eccessiva, il tema della condivisione del pane. Vuole che il popolo assimili l’interesse, la premura, la sollecitudine di Dio nei confronti di chi ha fame.

     La conclusione della lettura introduce il tema della luce che verrà ripreso nel vangelo: se praticherai questa nuova giustizia «brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».

     Gli israeliti si ritenevano luce del mondo per la loro devozione a Dio, per la pratica religiosa impeccabile: solenni liturgie, canti e preghiere, sacrifici e olocausti. Non era questo il culto gradito al Signore; non erano queste le opere che avrebbero fatto diventare Israele luce del mondo, ma la pratica della giustizia e dell’amore all’uomo.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 2,1-5

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. 

 

I cristiani di Corinto – lo abbiamo sottolineato domenica scorsa – non appartenevano alle classi sociali elevate, erano tutti di umili origini, gente che non contava nella società (1Cor 1,26). Questo fatto è interpretato da Paolo come un segno della preferenza di Dio per le persone disprezzate e senza meriti.

     La sua scelta non va però intesa come un rovesciamento classista (sarebbe una nuova discriminazione), ma come logica conseguenza dell’amore di Dio: egli non ama chi può vantare dei meriti, ma chi ha bisogno del suo amore.

     Nel brano di oggi l’Apostolo riprende e sviluppa questo tema ponendo a confronto la sapienza umana e la potenza di Dio e porta l’esempio concreto della sua persona.

     Comincia con un richiamo alla sua predicazione (vv. 1-2). Non si è presentato a Corinto per insegnare una nuova dottrina. Se lo avesse fatto, avrebbe avuto bisogno di possedere la «eccellenza della parola o della sapienza». In Grecia era apprezzata la sapienza, la capacità – come diceva Platone – di «indagare il vero in quanto vero; sollecitudine dell’anima sostenuta dalla retta ragione». Ogni discorso privo del supporto della dimostrazione razionale e delle risorse prestigiose del pensiero dei filosofi era deriso e ritenuto frutto di ignoranza, di creduloneria, di religiosità ingenua.

     In questo contesto culturale Paolo ha annunciato un messaggio umanamente assurdo: ha chiesto di credere alla proposta di vita fatta da un uomo giustiziato. Non fu solo il contenuto della sua predicazione a essere scandaloso. Era la sua stessa persona — debole, timorosa, incapace di parlare – a essere la meno indicata a portare avanti con successo una così grande missione (vv. 3-5). Al riguardo circolava fra i corinzi una battuta che aveva provocato la reazione risentita dell’Apostolo: «Le sue lettere – si diceva – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua capacità di fare discorsi è modesta» (2Cor 10,10).

Della sua scarsa abilità oratoria, Paolo era cosciente; ne aveva avuto una dimostrazione ad Atene quando aveva tentato, senza successo, di convincere gli ascoltatori ricorrendo al linguaggio sublime dei filosofi (At 17,16-34) e un anno dopo, a Troade, ne ebbe la riconferma: durante la sua predica un giovane si era addormentato ed era caduto dalla finestra (At 20,9).

     Malgrado questa mancanza di supporti umani, il vangelo aveva avuto una notevole diffusione a Corinto. Come mai?, viene da chiedersi. Perché – spiega Paolo – la parola di Dio è forte per se stessa e la sua penetrazione nel cuore degli uomini non dipende dai mezzi umani, ma dalla «manifestazione dello spirito e della sua potenza». L’Apostolo non si riferisce ai prodigi, ai miracoli che avrebbero convinto i corinzi ad accogliere il vangelo, ma al frutto dello spirito: la forma di vita nuova che, pur in mezzo a miserie e debolezze umane, era stata adottata da molti membri della comunità.

 

Vangelo: Matteo 5,13-16 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». 

 

Esegesi 

     Per definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo di oggi Gesù impiega una serie di immagini. Li indica anzitutto come il sale della terra (v. 13).

     I rabbini d’Israele erano soliti ripetere: «La Toràh – la Legge santa data da Dio al suo popolo – è come il sale e il mondo non può stare senza sale». Facendo propria questa immagine e applicandola ai discepoli, Gesù sa di usare un’espressione che può suonare provocatoria. Non smentisce la convinzione del suo popolo che ritiene le sacre Scritture «sale della terra», ma afferma che anche i suoi discepoli lo sono, se assimilano la sua parola e si lasciano guidare dalla sapienza delle sue beatitudini.                                

     Sono molte le funzioni del sale e probabilmente Gesù intende riferirsi a tutte. La prima e più immediata è quella di dare sapore ai cibi. Fin dai tempi antichi il sale è diventato per questo il simbolo della «sapienza». Anche oggi si dice che una persona ha «sale in testa» quando parla in modo saggio oppure che una conversazione è «senza sale», quando e noiosa, priva di contenuto. Paolo conosce questo simbolismo, infatti, ai colossesi raccomanda: «La vostra conversazione sia sempre gradevole, condita con sale» (Col 4,6).

     Intesa così, l’immagine indica che i discepoli devono diffondere nel mondo una saggezza capace di dare sapore e significato alla vita Senza la sapienza del vangelo che senso avrebbero la vita, e gioie e i dolori, i sorrisi e le lacrime, le teste e i lutti? Quali sogni e quali speranze potrebbe alimentare l’uomo su questa terra? Difficilmente andrebbe oltre quelli suggeriti dal Qoelet: «È meglio mangiare, bere e godere dei beni nei pochi giorni di vita che Dio dà: è questa la sorte dell’uomo» (Qo 5,17).                    

     Chi è imbevuto del pensiero di Cristo assapora invece altre gioie, introduce nel mondo esperienze di felicità nuove e ineffabile, offre agli uomini la possibilità di sperimentare la stessa beatitudine di Dio.

     Il sale non serve solo per dare sapore ai cibi. È usato anche per conservare gli alimenti, per impedire che divengano avariati.

     Questo fatto richiama la corruzione morale e, per associazione d’idee, le forze negative, gli spiriti maligni. Contro di loro gli antichi orientali si premunivano usando il sale. È a questa convinzione atavica che si collega, ancor oggi, il rito di spargere il sale per immunizzare da malefici e iettature.

     Il cristiano è sale della terra: con la sua presenza è chiamato a impedire la corruzione, a non permettere che la società, guidata da principi malvagi, si decomponga e vada in disfacimento. Non è difficile constatare, ad esempio, che, dove non c’è chi richiama, chi rende presenti i valori evangelici, si diffondono più facilmente la dissolutezza, l’odio, la violenza, la sopraffazione. In un mondo dove è messa in dubbio l’intangibilità della vita umana, dal suo sorgere al suo spegnersi naturale, il cristiano è sale che ne ricorda la sacralità. Dove si banalizza la sessualità e le convivenze e gli adulteri non sono più chiamati con il loro nome, il cristiano richiama la santità del rapporto uomo-donna e il progetto di Dio sull’amore coniugale. Dove si cerca il proprio tornaconto, il discepolo è sale che conserva, ricordando a tutti e sempre la proposta, eroica a volte, del dono di sé.

     Il sale era usato anche per confermare l’inviolabilità dei patti: i contraenti compivano il rito di consumare insieme pane e sale o sale soltanto. Questo accordo solenne era detto «alleanza di sale». È chiamata con questo nome l’alleanza eterna stipulata da Dio con la dinastia di Davide (2Cr 13,5).

     I cristiani sono sale della terra anche in questo senso. Testimoniano l’indefettibilità dell’amore di Dio: mostrano che nessun peccato potrà mai incrinare il patto di fedeltà che lo lega all’uomo e, con la loro vita, danno prova che anche all’uomo è possibile rispondere a questo amore, basta lasciarsi guidare dallo Spirito. 

     La «parabola» del sale si conclude con un richiamo ai discepoli a non divenire «insipidi». L’immagine assume una connotazione piuttosto sorprendente: i chimici assicurano che il sale non si corrompe, eppure Gesù mette in guardia i discepoli dal pericolo di perdere il proprio sapore. Per quanto possa apparire strano, Gesù li considera capaci di fare qualcosa di assurdo, di impossibile, come rovinare il sale: possono far perdere al vangelo il suo sapore.

     C’è un solo modo di combinare questo guaio: mischiare il sale con altro materiale che ne alteri la purezza e la genuinità. Il vangelo ha un suo gusto e bisogna lasciarglielo, non va snaturato, altrimenti non è più vangelo.

     La parabola del sale è raccontata subito dopo le «beatitudini». Il cristiano è sale se accoglie integralmente le proposte del Maestro, senza aggiunte, senza modifiche, senza i «ma», i «se» e i «però» con cui si tenta di ammorbidirle, di renderle meno esigenti, più praticabili.

     Per esempio, Gesù dice che bisogna condividere i propri beni, che si deve porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette… è questo il gusto caratteristico del sale evangelico. Ma incombe sempre la tentazione di aggiungerci un po’ di «buon senso»: non si deve esagerare, bisogna pensare anche a se stessi, se si perdona troppo gli altri se ne approfittano, non si deve ricorrere alla violenza, a meno che non sia necessario… È così che il vangelo viene «addolcito», che diventa «praticabile»… ma perde il suo sapore. È il fallimento della missione, indicato metaforicamente con l’immagine del sale gettato sulla strada: viene calpestato, come la polvere cui nessuno presta attenzione né attribuisce alcun valore.

     La seconda funzione assegnata ai discepoli è quella di essere città posta sul monte (v. 14).

     Ancor oggi, lo sguardo di chi percorre le strade dell’alta Galilea è attratto dai numerosi villaggi posti sulle cime delle montagne e lungo i clivi delle colline. È impossibile non notarli e, specialmente in primavera, quando i vermigli anemoni ricoprono le campagne che li circondano, appaiono deliziosi. Quasi sempre gli scavi archeologici comprovano che le sommità, sulle quali sorgono, erano abitate fin dai tempi più remoti.

     Gesù, cresciuto in uno di questi villaggi, li ha indicati ai discepoli come un’immagine della loro missione: con la loro vita fondata su principi nuovi, essi dovranno richiamare l’attenzione del mondo.     

     Non è l’invito a farsi notare, a mettersi in mostra. Un simile atteggiamento contraddirebbe la raccomandazione a non praticare le buone opere davanti agli uomini, per essere notati, a non suonare la tromba per richiamare l’attenzione quando si fa l’elemosina (Mt 6,1-2).

     Il richiamo di Gesù è a un famoso testo di Isaia, dove si annuncia che il monte del tempio del Signore «sarà eretto sulla cima dei monti, sarà più alto dei colli e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli… Poiché da Gerusalemme uscirà la parola del Signore» (Is 2,2-5).     

     D’ora in avanti — assicura Gesù — non sarà più a Gerusalemme che i popoli guarderanno, ma alle comunità dei suoi discepoli. Saranno loro ad attirare gli sguardi ammirati degli uomini… se avranno il coraggio di impostare la vita sulle sue beatitudini.

     Collegata all’immagine del monte c’è quella della luce (vv. 14-16).

     I rabbini dicevano: «Come l’olio porta luce al mondo, così Israele è luce per il mondo» e ancora: «Gerusalemme è luce per le nazioni della terra». Si riferivano al fatto che ritenevano Israele depositario della sapienza della legge che Dio, per bocca di Mosè, aveva rivelato al suo popolo.

     Qualche rabbino aveva però intuito che non solo la parola delle sacre Scritture, ma anche le opere di misericordia erano luce e sosteneva che il primo ordine dato da Dio all’inizio della creazione: «Sia la luce!» si riferiva non a una luce materiale, ma alle opere dei giusti.

     Chiamando i discepoli «luce del mondo», Gesù dichiara che la missione affidata da Dio a Israele era destinata a continuare attraverso di loro. Sarebbe apparsa in tutto il suo splendore nelle loro opere di amore concrete, verificabili. Sono queste opere che Gesù raccomanda di «far vedere». Non vuole che i suoi discepoli si limitino ad annunciare la sua parola senza impegnarsi, senza lasciarsi compromettere, senza giocarsi la vita su questa parola.

     La prova che gli uomini sono stati raggiunti da questa luce si avrà quando essi daranno gloria al Padre che sta nei cieli.

     La loro reazione potrebbe però essere anche opposta e inattesa. Potrebbero essere infastiditi dalle opere dei cristiani e reagire indispettiti.

     Non si deve subito presupporre che questo dipenda da una loro disposizione malevola. In genere non è il bene che disturba, ma la percezione di qualche ombra di esibizionismo, di qualche cedimento all’ambizione, alla vanità, all’autocompiacimento. Queste sbavature, nemmeno consapevoli, che accompagnano spesso anche i gesti più nobili, privano l’opera buona della sua caratteristica più squisita, più sublime, più «divina»: il soave profumo del disinteresse e totale gratuità.

     I discepoli sono chiamati a compiere il bene senza attendersi alcun plauso, alcuna ammirazione, «la loro destra deve sapere ciò che fa la sinistra» (Mt 6,3). Non è a loro dovranno essere rivolte le lodi, ma a Dio.

     L’ultima immagine è deliziosa: veniamo introdotti nell’umile dimora di un contadino dell’alta Galilea dove, alla sera, si accende una lampada di terracotta a olio, la si pone su un supporto di ferro e la si colloca in alto, in modo che possa illuminare anche gli angoli più reconditi dell’abitazione. A nessuno passerebbe per la mente di nasconderla sotto un vaso.

     L’invito è a non occultare, a non velare le parti più impegnative del messaggio evangelico. I discepoli non devono preoccuparsi di difendere o di giustificare le proposte di Gesù, devono solo annunciarle, senza paura, senza timore di venire derisi o perseguitati. Esse saranno per gli uomini come una lampada che «brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e si levi la stella del mattino» (2Pt 1,19).

 

Meditazione 

«Il giusto risplende come luce».

     Il ritornello del salmo responsoriale ci suggerisce in quale prospettiva accostare i testi della liturgia della Parola di questa domenica, al cui centro risuona l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli affinché riconoscano di essere sale della terra e luce del mondo.

     Il profeta Isaia annuncia che sorge come luce persino nelle tenebre chi pratica la giustizia e la misericordia, vive nella compassione verso i bisogni degli altri, lotta contro l’oppressione e sa consolare le afflizioni.

     L’apostolo Paolo evidenzia un altro aspetto della luminosità del discepolo: è colui che non solo pone al centro del suo annuncio «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2), ma assume nella sua testimonianza la logica della Croce, riconoscendo nella propria debolezza lo spazio in cui può manifestarsi la potenza di Dio e del suo Spirito. Non la sapienza umana abbandonata a se stessa, ma la sapienza trasfigurata dall’amore di Dio, pienamente manifestatesi nel mistero pasquale, diviene luce che può rischiarare il cammino degli uomini, orientando le loro scelte, sostenendo le loro fatiche.

     Dall’accostamento di queste due letture emerge così come l’essere sale e luce non dipende solamente dal contenuto delle proprie azioni o delle proprie parole, ma anche dallo stile che le accompagna e le sostiene. È decisivo, per essere davvero discepoli di Gesù Cristo, e Cristo crocifisso, non solo il che cosa si fa o si dice, ma il come, con quale sapienza e con quale stile.

     Accostiamo questo testo di Matteo dopo aver ascoltato, nella domenica precedente, la proclamazione delle beatitudini, con cui Gesù apre il cosiddetto Discorso della montagna, e occorre innanzitutto notare il nesso che collega queste due pagine. ‘Luce del mondo’ e ‘sale della terra’ sono proprio coloro la cui vita umile e povera, mite e disarmata, appare piccola, insignificante, marginale rispetto a un mondo che spesso si manifesta loro ostile. Eppure sono proprio loro ciò di cui il mondo non può fare a meno, così come la vita non può mancare di sapore e di luce. Le due immagini alludono a entrambi gli aspetti: un’assoluta necessità che si manifesta però in un’apparente debolezza.

     Assoluta necessità: non si può vivere senza luce, così come senza sale.

Il Siracide afferma: «Le cose di prima necessità per la vita dell’uomo sono: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, succo di uva, olio e vestito (Sir 39,26). Conosciamo del resto i molteplici usi del sale nell’antichità, come pure ai nostri giorni: non solo condisce, ma purifica, conserva; in molte culture è simbolo di sapienza, di amicizia, di condivisione della stessa mensa.

     Al pari della luce, dunque, il sale risulta necessario alla vita dell’uomo, al suo gusto e al suo sapore, così come sono indispensabili la relazione e l’amicizia; eppure rimane una realtà debole, poco appariscente, esposta al rischio di venire trascurata. E. Schweitzer, commentando questo testo, sottolinea che sua moglie, quando deve scrivere una ricetta di cucina per qualche amica, elenca tutti gli ingredienti, ma di certo non si preoccupa di precisare che occorre anche il sale. Va da sé che ci vuole, e proprio per questo non se ne esplicita la necessità. Rimane nascosto, come accade alle cose più preziose della vita, e alla luce stessa. Se devo descrivere un panorama, parlerò di ciò che vedo, del profilo dei monti e delle case, degli alberi e delle strade, ma non citerò la luce, che pure è ciò che consente di vedere ogni cosa. Nelle metafore del sale e della luce sono dunque presenti entrambi questi aspetti: si tratta di realtà essenziali, ma nello stesso tempo nascoste e deboli, e proprio per questo sottoposte a due possibili tentazioni. La prima è che vengano trascurate, senza che se ne colga l’importanza. È la tentazione del mondo, che non sa riconoscere il valore della testimonianza evangelica resa dal discepolo di Gesù. C’è però anche la tentazione opposta, quella del discepolo, che può trascurare il proprio valore, la propria dignità, senza metterla a servizio del mondo; oppure la può occultare in un anonimato che non annuncia e non comunica più nulla.

     Dobbiamo anche osservare l’indicativo presente che risuona in modo molto netto e forte nelle parole di Gesù. «Voi siete il sale della terra; voi siete la luce del mondo». Non un futuro, non un esortativo, tantomeno un imperativo, ma un indicativo presente: siete! Coloro ai quali Gesù si rivolge sono già ora sale e luce. Non possono né debbono fare qualcosa per diventarlo, e l’esserlo non dipende da una qualche loro virtù o qualità particolari; tanto meno da un loro merito. È l’azione gratuita di Dio, che regna su di loro, è la prossimità del Regno che Gesù dona alla loro vita a renderli tali. Devono tuttavia vigilare per non perdere, o meglio per non sprecare questo dono, poiché il sale può perdere sapore e la luce rimanere nascosta. Che il sale abbia sapore e che una lucerna faccia luce sono eventi che non hanno nulla di straordinario e di sorprendente. La vera sorpresa che sconcerta è che il sale sia senza sapore o che la lucerna, anziché collocata ben in vista sul lucerniere, venga nascosta sotto un moggio.

     I chimici ci spiegano che il sale non può perdere il sapore. Eppure, sembra dire Gesù, può accadere. Il paradosso ricorda una semplice realtà: il sale diventa insipido e inutile, tanto da essere gettato via, non perché perda il suo sapore, ma perché non viene utilizzato per dare sapore ad altro. L’immagine simmetrica della lucerna aiuta a comprendere meglio: a cosa serve una lampada che viene nascosta sotto un moggio? Non serve più a nulla. Non perde la sua luce, continua a risplendere, ma soltanto per se stessa, nascosta com’è sotto il moggio. Nessuno può rallegrarsi alla sua luce. Anche al sale può accadere la stessa sorte: non perderà il suo sapore, ma a che cosa serve se non condisce i cibi nei quali deve sciogliersi per far risaltare la loro bontà al palato? Il discepolo non è chiamato a vivere la beatitudine del Regno per se stesso, ma per donare sapore e luce al mondo intero. Se per paura di contaminarsi con il mondo, di perdersi in esso, rifiuta di sciogliersi come sale nei cibi; o se per paura dell’ostilità e del rifiuto, anziché collocarsi come lampada ben visibile su un lucerniere, si nasconde al sicuro, in un ambito circoscritto e protetto, a che cosa serve? Non serve più a nulla: può essere gettato via e calpestato dagli uomini.

     Occorre però vivere questa testimonianza vigilando sul ‘come’. Il sale non può perdere sapore, ma in se stesso ha un pessimo gusto. Nessuno di noi prende del sale e lo mangia da solo, e se lo fa ne prova disgusto. Qualcosa di simile accade alla luce: illumina e consente di vedere, ma se qualcuno fissasse a occhio nudo una fonte luminosa intensa, ne rimarrebbe abbagliato. Il sale da solo non nutre la vita, ma è indispensabile per dare sapore a tutti i cibi di cui ci nutriamo. Ne esalta le qualità donando loro un sapore più pieno che rallegra il palato. La luce in se stessa non si vede, ma senza luce non si vede nulla di ciò che esiste. Se entro in una stanza buia, i mobili già ci sono, anche se ancora non li scorgo; apro una finestra, penetra la luce ed ecco che tutto emerge dall’oscurità così da poterlo riconoscere e ammirare.

     Tale deve essere lo stile della testimonianza del discepolo. Nella storia è già presente il Signore con la sua azione, anche se in modo nascosto e misterioso. Il discepolo è colui che, con un po’ di sale e un po’ di luce, deve far emergere questa presenza così che gli uomini possano vederla, riconoscerla, assaporarla nella sua bellezza. Il Signore è già presente nella storia, anche nelle storie sbagliate, segnate dal peccato, dal fallimento, dal dolore, da tante altre ferite come quelle ricordate dal testo di Isaia. Occorre però che ci siano un po’ di sale e un po’ di luce perché tale presenza nascosta diventi manifesta. Non basta la luce, perché non è sufficiente vedere; occorre anche il sale, poiché è necessario gustare, assaporare, mangiare. La comunione con il Signore non è questione soltanto di ascolto e di visione; implica assimilazione, nutrimento, interiorizzazione, giungere a gustare un altro sapore della vita. Inoltre il sale, oltre a condire, preserva, purifica, conserva. Occorre anche purificare e conservare, preservandoli dalla corruzione, dalla dimenticanza, dall’indifferenza, i segni discreti e misteriosi della presenza di Dio.

Preghiere e racconti

«La vostra luce brilli»

Che cosa ci comandi quindi? Di vivere, facendo sfoggio delle nostre buone opere e cercandogli onori? Assolutamente no; io non dico nulla del genere. Infatti, non ho detto: «Cercate di mostrare le vostre opere buone». E non ho detto neppure: «Fatene sfoggio», ma ho detto «la vostra luce brilli», cioè: la vostra virtù sia eminente, la vostra fiamma calda, la vostra luce splendente. Infatti, quando raggiunge questo livello, la virtù non può restare nascosta, anche se colui che la possiede facesse di tutto per mantenerla in ombra. Tenete quindi davanti a loro una condotta irreprensibile ed essi non avranno alcun serio motivo di accusarvi; ma, anche se aveste migliaia di accusatori, nessuno potrà ricacciarvi nell’ombra. E il termine luce è ben scelto; infatti, nulla mette tanto in luce un uomo, anche se volesse passare del tutto inosservato, quanto lo splendore della virtù. Si direbbe che egli è rivestito dei raggi del sole, ma è ancor più splendente, poiché, invece di dirigere i suoi raggi verso la terra, egli attraversa persino il cielo.

(Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, 15,6-7).

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce.

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole)

La verità interiore

La vita interiore ci rivela i nostri limiti e le nostre negatività. È ricerca di luce ed esperienza di illuminazione, ma dove la luce splende nel fondo delle tenebre. È necessario toccare questo fondo buio di sé per conoscere la luce. Uno splendido racconto mistico musulmano (di Suhrawardî), in forma di dialogo, dice:

– O sapiente, dove si trova la fonte della vita?

– Nelle tenebre. Se vuoi partire alla ricerca di questa fonte, mettiti i sandali e avanza nel cammino dell’abbandono confidente, finché arriverai alla regione delle tenebre.

– Da che parte si trova il sentiero per questa regione?

– Da qualunque parte tu vada, se sei un vero pellegrino, tu compirai il viaggio.

– Che cosa segnala la regione delle tenebre?

– L’oscurità di cui si prende coscienza. Quando colui che intraprende questo cammino vede se stesso come uno che è nelle tenebre, allora comprende che egli era anche prima e fino allora nella Notte, e che la luce del Giorno non ha ancora raggiunto il suo sguardo. Eccolo, il primo passo dei veri pellegrini. Il cercatore della fonte della vita nelle tenebre passa attraverso ogni sorta di stupori e angosce. Ma se è degno di trovare questa fonte, finalmente dopo le tenebre contemplerà la luce. Allora non dovrà fuggire davanti alla luce, perché questa luce è uno splendore che, dall’alto dei cieli scende sulla fonte della luce (Cf. H. Corbin, «L’Archange empourpré: récit mystique de Sohrawardî», in Hermès 1 (1963), p. 21).

È la luce della notte, delle tenebre, è la vita trovata là dove muore qualcosa, è il cammino della vita interiore, il descensus ad cor che porta a vedere le proprie tenebre, ad accettare le proprie limitatezze e a integrarle in un’esperienza di pacificazione e di unificazione.

Chi vede la propria ignoranza e la conosce può entrare nella vera sapienza; chi vede i limiti della propria mortalità e temporalità può entrare nella vita; chi vede i propri limiti affettivi può entrare nell’autenticità dell’amore. Chi non accetta di vedere i propri limiti non potrà neppure iniziare a superarli o meglio, forse, a traversarli. Allora, questa illuminazione che viene dalla conoscenza delle proprie tenebre appare chiaramente come esperienza di resurrezione: se toccare il fondo del proprio cuore è esperienza di morte, la luce che si intravede è ingresso in una nuova vita. Allora si disvela l’uomo interiore (2Cor 4,16; Rm 7,22; Ef 3,16 e 1Pt 3,4 che parla dell’«uomo nascosto del cuore» là dove la Bibbia CEI traduce «l’interno del vostro cuore»), ovverosia una vita interiore che da forza, unificazione pace, serenità, anche nel declinare delle forze e nell’andare verso la morte. Si sia credenti o no, se questa vita interiore è presente, forse si potrà fare della morte un compimento, non una fine. E si potrà dare vita alla propria vita.

(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 25-26).

Preghiera

O Padre, non vogliamo possedere nessun vanto, nessuna gloria ma solo il nome del tuo Figlio crocifisso e risorto, un nome più prezioso e potente dell’oro e dell’argento per far alzare e camminare chi ha bisogno di speranza. È la sua Parola la luce che ci affidi perché si ravvivino i luoghi imprigionati dalle tenebre, è il vangelo la lampada che non si consuma, il sapore incorruttibile da dare all’esistenza. E sorgeranno le nostre opere buone, come un sole che non tramonta, perché acceso al tuo splendore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003. 

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

 

Cultura dell’incontro o cultura dello scarto?

I figli sono la pupilla dei nostri occhi… Che ne sarà di noi se non ci prendiamo cura dei nostri occhi? Come potremo andare avanti?”. Si apre con le domande di Papa Francesco il Messaggio del Consiglio Permanente per la 36ª Giornata Nazionale per la vita (2 febbraio 2014): un appello a quella “cultura dell’incontro” che “è indispensabile per coltivare il valore della vita in tutte le sue fasi: dal concepimento alla nascita, educando e rigenerando di giorno in giorno, accompagnando la crescita verso l’età adulta e anziana fino al suo naturale termine, e superare così la cultura dello scarto”.
“Ogni figlio è volto del ‘Signore amante della vita’ (Sap 11,26), dono per la famiglia e per la società”, scrivono i Vescovi, i quali ricordano che “generare la vita è generare il futuro anche e soprattutto oggi, nel tempo della crisi; da essa si può uscire mettendo i genitori nella condizione di realizzare le loro scelte e i loro progetti”.
Di qui, accanto alla sottolineatura che “la società tutta è chiamata a interrogarsi e a decidere quale modello di civiltà e quale cultura intende promuovere”, la scelta della vita, sempre: “Se lamentiamo l’emorragia di energie positive che vive il nostro Paese con l’emigrazione forzata di persone – spesso giovani – dotate di preparazione e professionalità eccellenti, dobbiamo ancor più deplorare il mancato contributo di coloro ai quali è stato impedito di nascere”.
Analoga considerazione il Messaggio lo dedica all’ “esclusione che tocca in particolare chi è ammalato e anziano, magari con il ricorso a forme mascherate di eutanasia”, per concludere riaffermando “il senso dell’umano e la capacità del farsi carico”, “fondamento della società”.
  

“Chi fa sport va meglio a scuola”

Il movimento quotidiano non è solo un antidoto contro l’obesità e l’ipertensione: serve anche a combattere il vizio del fumo. Lo sport aiuta il rendimento a scuola e aumenta la voglia di leggere. Il movimento non è soltanto un toccasana contro ipertensione e obesità, ma fa bene anche tra i banchi. I dati dell’Osservatorio della Società Italiana di pediatria riunita a convegno a Bologna sfatano anche il luogo comune secondo il quale sport e studio non vanno d’accordo. Sono infatti proprio gli «sportivi» ad avere un rendimento scolastico migliore rispetto ai «sedentari»: dichiara infatti di «andare bene a scuola» il 56,5 per cento dei primi contro il 40,3 per cento dei secondi. I ragazzi che praticano più di 2 ore di attività fisica in orario extrascolastico hanno stili di vita più sani, vanno meglio a scuola e leggono più libri. 

«Almeno un’ora al giorno»  

Praticare sport sembra innescare, nelle abitudini di vita degli adolescenti di 13-14 anni, un importante circolo virtuoso. «Un adolescente, in questa fascia d’età, dovrebbe praticare almeno un‘ora al giorno di attività fisico-sportiva, che non significa necessariamente attività agonistica, ma può essere anche solo correre in un parco – dice Giovanni Corsello, presidente della Società Italiana di Pediatria -. Un’esigenza connaturata alla specifica fase di sviluppo, ma che oggi diventa ancora più necessaria considerando sia lo stile di vita troppo sedentario dei nostri ragazzi, sia le abitudini alimentari spesso non corrette e sbilanciate in eccesso».  

Alimentazione sana e meno fumo  

Fare sport a 13-14 anni aiuta non solo nel rapporto con i libri. Il 50 per cento degli adolescenti sportivi – cioè chi pratica più di 2 ore alla settimana di sport, oltre quello fatto a scuola – dichiara anche di nutrirsi con un’alimentazione più ricca e varia. I sedentari mangiano invece in modo meno completo. Idem per la prima colazione: il 63 per cento degli sportivi afferma di fare sempre colazione, che è uno dei pasti fondamentali della giornata.Chi fa più sport segue di conseguenza meno diete: 24 per cento contro il 30). Diminuisce anche, tra chi fa sport, la percentuale sia di chi fuma sigarette (che passa dal 35,4% al 30,8%) sia di chi ha dichiarato di avere avuto almeno un’esperienza con fumo di droghe (dal 9,1% al 5,8%). 

Meno tempo davanti a uno schermo  

Più attività fisica significa ovviamente meno ore trascorse davanti alla tv. «Se c’è una area di attività alla quale lo sport sottrae tempo agli adolescenti – dice Maurizio Tucci, curatore delle indagini della Società italiana di Pediatria e presidente dell’Associazione Laboratorio Adolescenza – è quella di Internet e della televisione, il che rappresenta un ulteriore elemento positivo, considerando le conseguenze che, specie a quell’età, un utilizzo eccessivo di questi mezzi può provocare». Tra chi fa sport regolarmente diminuisce il numero di ragazzi e ragazze che trascorrono più di tre ore al giorno di fronte allo schermo: dal 19 al 16 per cento. Mentre crolla dal 21 al 14 per cento chi sta in rete. Mondo virtuale contro mondo reale. 

 

Scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2014-2015

Anche quest’anno, in vista del prossimo anno scolastico 2014-2015, la Presidenza della CEI si rivolge a studenti e genitori con un messaggio, invitandoli ad avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica.

L’impegno e la passione della Chiesa per la scuola si esprimerà anche in un incontro pubblico con il Papa il prossimo 10 maggio 2014 in Piazza San Pietro, a cui sono invitati studenti, insegnanti, famiglie ed educatori.
 

“Olio per il dolore, vino per l’allegria”

Le tecnologie di comunicazione hanno contribuito a farci vivere “in un mondo che sta diventando sempre più piccolo”, all’interno del quale, però, “permangono divisioni, a volte molto marcate” e, quindi, “molteplici forme di esclusione, emarginazione e povertà” e “conflitti in cui si mescolano cause economiche, politiche, ideologiche e, purtroppo, religiose”.
Così scrive Papa Francesco nel messaggio – reso pubblico in occasione della Festa di S. Francesco di Sales – per la 48ª Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali, che viene celebrata domenica 1 giugno con il tema “Comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro”.
Proprio i media, fa capire il Papa, possono aiutare a “farci sentire più prossimi”, a farci “percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana” e a favorire “la cultura dell’incontro”.
Il Messaggio non ignora gli aspetti problematici dell’odierna comunicazione: “la velocità dell’informazione”, che “supera la nostra capacità di riflessione e giudizio”; “la varietà delle opinioni”, che da ricchezza può risolversi in “una sfera di informazioni che corrispondono solo alle nostre attese e alle nostre idee”; un ambiente comunicativo che può disorientare, fino a “isolarci dal nostro prossimo”.
Rispetto a questi limiti, Papa Francesco ricorda che la comunicazione rimane “una conquista più umana che tecnologica”: in quanto tale, essa richiede un recupero di “lentezza” e di “calma”, di “tempo” e di “silenzio”, condizioni per imparare a “guardare il mondo con occhi diversi”. In tale contesto, spiega, la parabola evangelica del buon samaritano si rivela anche “una parabola del comunicatore”, di colui che, proprio perché comunica, si fa prossimo.
Il Papa addita alla Chiesa “le «strade» digitali”, a loro volta “affollate di umanità, spesso ferita”, che domanda di “sapersi inserire nel dialogo con gli uomini e le donne di oggi, per comprenderne le attese, i dubbi, le speranze, e offrire loro il Vangelo, cioè Gesù Cristo”. A queste condizioni la comunicazione si fa “olio profumato per il dolore e vino buono per l’allegria”.
  
 
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III DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 8,23b-9,3

In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.  Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Mádian.

 

Nel contesto storico della vittoriosa campagna militare di Tiglat Pileser, re assiro, si legge il presente annuncio di liberazione. Il brano vive di una luce di speranza. Si apre con uno stridente contrasto tra il passato di umiliazione e un futuro di gloria. «Zàbulon e Nèftali» (8,23) sono due tribù del Nord che hanno come frontiera il monte Tabor. Il loro territorio fu vinto da Tiglat Pileser nel 732. Costui ne deportò l’élite, causando la loro «umiliazione» (cfr. il Sal 136,23, dove ‘umiliazione’ rimanda a ‘esilio’) che ora viene riscattata con un annuncio di trionfo. La gloria si concretizza in due immagini: la luce che rischiara la strada al popolo in cammino e la gioia che si prova quando si partecipa alla mietitura e alla divisione del bottino (9,2).

     Alla fine si da il vero motivo della gloria futura: è un’esperienza di liberazione. È qui che la gioia trova un motivo preciso. Si allude alla liberazione dal gravoso peso degli Assiri, reso ancora più duro da un atteggiamento di persecuzione («bastone del suo aguzzino»: 9,3). La vittoria è fatta risalire direttamente a Dio («tu hai spezzato») che anche in questo caso è intervenuto in modo inaspettato e strepitoso, come altre volte; si riporta il caso di Gedeone che con l’aiuto di Dio vinse i Madianiti (cfr. Gdc 7,15-25). Fu un evento che fece storia (cfr. Sal 83,10; Is 10,26) e simboleggia i prodigiosi interventi di Dio a favore del suo popolo. La gloria di Dio si rivela diventando gloria per il suo popolo. Il profeta gioioso annuncia una primavera di vita che ha in Dio la sua origine. Il testo prepara la comprensione del vangelo, dove Gesù stesso annuncia l’irruzione della signoria di Dio (il suo regno) nella storia degli uomini.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 1,10-13.17

Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.  Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?  Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

 

Dopo il saluto d’apertura e il rendimento di grazie al Signore per la ricchezza spirituale di cui ha colmato la comunità di Corinto, Paolo affronta senza indugi il primo argomento della lettera, il problema su cui gli preme fare subito chiarezza: le fazioni che dividono la giovane chiesa e rischiano di vanificare l’annuncio del Vangelo di Cristo.

     v. 10 — Con la consueta immediatezza Paolo comincia per così dire dal fondo, dall’esortazione conclusiva, espressa con foga e passione: “Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”. Le motivazioni verranno solo dopo: l’essenziale è mantenere l’unità nella fede. Paolo la descrive con tre espressioni, due in positivo che si rafforzano a vicenda e ne racchiudono una terza, in negativo: siate unanimi nel parlare («diciate tutti la

stessa cosa» implica non solo identità di contenuti, ma concordia nell’operare), non vi siano divisioni («scismi»), siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.

     vv. 11-12 — Successivamente, Paolo spiega cosa ha provocato questo suo accorato intervento: qualcuno (non sappiamo chi siano i «familiari di Cloe») gli ha riferito l’esistenza di gruppi contrapposti nella comunità. Il fatto è sintetizzato da Paolo in un solo, incisivo versetto: non è il caso di soffermarsi sul merito delle divergenze, di analizzare le ragioni degli uni o degli altri. Ciò che Paolo respinge non è una deviazione dottrinale o un’eresia, ma il fatto stesso della divisione, l’esistenza di fazioni personalizzate che si richiamano a un nome, fosse pure quello di Cristo, per escludere altri fratelli dalla comunità. L’apostolo ricorda quattro di queste fazioni: di Paolo, di Apollo, di Cefa, di Cristo, e le respinge tutte, anche quella «di Paolo» e quella «di Cristo», come contrarie alla carità e al Vangelo.

   v. 13 — Il suo grido accorato è una duplice domanda retorica: È forse diviso il Cristo? Dividere la comunità significa infatti lacerare il corpo stesso di Cristo. Richiamarsi ad altri maestri, fossero pure gli apostoli, autentici testimoni dell’evangelo, significa sostituire al Cristo, mediatore unico della salvezza, uomini che sono soltanto suoi discepoli: Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?

     v. 17 — Paolo accenna brevemente al proprio ministero, nomina le poche persone che ha battezzato, per allontanare da sé qualsiasi sospetto di faziosità, sconfessando pienamente il «partito di Paolo». Il suo compito è l’annuncio del Vangelo, e questo unicamente nel nome di Gesù Cristo, nel segno della kenosi, della «stoltezza della croce», e non della «sapienza di questo mondo». L’apostolo non si vanta della propria capacità oratoria, al contrario, respinge da sé ogni «sapienza di parole» (sofia logou), per non svuotare della sua potenza la croce di Cristo.

 

Vangelo: Matteo 4,12-23   

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono. Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. 

 

Esegesi 

     Siamo all’inizio del Vangelo di Matteo. Dopo l’introduzione costituita dal «Vangelo dell’infanzia», la missione di Gesù — preparata dalla predicazione del Battista (3,1-12), dal battesimo al Giordano (3,13-17) e dalle tentazioni nel deserto (4,1-11) — ha finalmente inizio. Matteo la collega esplicitamente con il Battista: quando l’arresto interrompe la predicazione di Giovanni, Gesù inizia la propria, con le stesse parole: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (3,2 e 4,17).

     Tre brevi sezioni sono facilmente riconoscibili in questa pericope, contrassegnate tutte e tre dal riferimento alla Galilea contenuto nel primo versetto.

     1) Inizio della predicazione, sua ambientazione geografica e biblica (4,12-17).

     Secondo la tradizione, il luogo in cui Giovanni battezzava non era lontano dalla foce del Giordano nel Mar Morto, e Gesù si sarebbe poi ritirato sul «Monte della Quarantena», a ovest di Gerico, ai margini del deserto di Giuda.                                                      

     Dalla Giudea, saputo dell’arresto di Giovanni, Gesù si sposta in Galilea, non più a Nazaret (la sua città) ma a Cafarnao, sulla riva settentrionale del lago di Tiberiade. La precisazione geografica non basta però a Matteo, preoccupato ancor più di sottolineare ogni collegamento della storia di Gesù con le profezie dell’Antico Testamento, attraverso le cosiddette «citazioni di compimento»: «…perché si compisse ciò che era stato detto…». Eccolo quindi indicare che la Galilea, posta tra il Giordano e la «Via del Mare», corrisponde ai territori delle tribù di Zabulon e Neftali (a ovest e a nord del lago), con la citazione di Is 8,23-9,1. La Galilea è detta «dei pagani», o «dei Gentili», perché molto frequentata dai pagani provenienti dalle nazioni confinanti (la provincia romana di Siria a nord e a ovest, la Decapoli a est del lago). Qui ha inizio la predicazione di Gesù, in continuità ideale con il Battista: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

     2) Chiamata dei primi discepoli (4,18-22).

     Sulle rive del «mare di Galilea» (il lago) Gesù incontra e chiama i primi discepoli. Sono due coppie di fratelli, tutti pescatori (Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni). I due brevi racconti si corrispondono in parallelo; gli uni e gli altri interrompono senza indugio il lavoro in cui sono impegnati, abbandonano tutto (le reti e la barca; Giacomo e Giovanni anche il padre Zebedeo) e seguono Gesù.

     La singolarità di questo rabbi itinerante salta subito all’occhio da alcuni particolari: contrariamente alla prassi del tempo, secondo cui l’aspirante discepolo sceglieva il maestro cui affidarsi per la sua formazione, qui è Gesù che sceglie i suoi discepoli; non viene proposto loro lo studio della Torah né una particolare dottrina o prassi, ma semplicemente la sequela di Gesù. Gesù stesso quindi si offre come via, come dottrina, come legge; e la prospettiva indicata è farsi suoi imitatori nel chiamare altri a seguirlo: «pescatori di uomini».

     3) Sintesi dell’attività di Gesù (4,23-25).

     L’ultima sezione sintetizza l’attività di Gesù e ne indica l’efficacia: l’accorrere delle folle e l’aumento del numero dei seguaci.

     Nel v. 23, una serie di quattro verbi offre un quadro vivace e dinamico. Gesù percorreva (periēghen) la Galilea: è lui che si mette alla ricerca degli uomini per portare loro la salvezza. Insegnava (didaskōn) nelle sinagoghe: la sua parola parte dalla radice della Torah e dei profeti. Annunciava (kērussōn) il vangelo del regno: è il contenuto centrale del messaggio di Gesù e dei suoi. Guariva (therapeuōn) tutti i mali: l’annuncio del vangelo è inscindibile dai gesti di liberazione dal male compiuti da Gesù.

 

Meditazione

L’esperienza della salvezza espressa come irruzione della luce in un contesto di tenebra: questo il messaggio che unisce il testo di Isaia e il vangelo. La zona del nord d’Israele, dove erano stanziate le tribù di Zabulon e di Neftali, in passato umiliate sotto la mano del sovrano assiro che le assoggettò, smembrò in tre distretti (Is 8,23b) e ne deportò la popolazione, conosceranno una liberazione (I lettura): la salvezza è qui una liberazione sul piano storico; Gesù che si stanzia in quella medesima regione è la salvezza di Dio fatta persona: la salvezza si situa sul piano teologico (vangelo). Se la salvezza operata da Dio per le zone settentrionali d’Israele appare come una rinascita a popolo di zone ridotte precedentemente a non-popolo, la venuta di Gesù in Galilea provoca la rinascita di alcuni uomini galilei, dei pescatori, a pescatori di uomini, a discepoli di Gesù. La salvezza è qui colta nella sua dimensione esistenziale. La luce che Gesù è si irradia e suscita una chiamata alla sequela e un invio in missione: la salvezza è una nuova nascita, un venire alla luce.

L’arresto di Giovanni Battista segna la fine del suo ministero pubblico e l’inizio del ministero di Gesù. Il ritiro (Mt 4,12) è il luogo spirituale che consente a Gesù di assumere la fine di Giovanni e decidere l’inizio del proprio ministero. Il ritiro appare luogo di elaborazione della perdita, di confronto con la paura, di assunzione della solitudine, di lettura della realtà alla luce della parola di Dio (cf. la citazione del passo di Isaia: Mt 4,15-16), di accoglienza di un’eredità e infine di elaborazione della decisione nella piena assunzione della propria responsabilità. Responsabilità nei confronti di Dio, di Giovanni, ma anche delle persone che, senza Giovanni, abitavano in zone tenebrose, prive della luce che Giovanni irradiava. Persone che, per Matteo, non sono solamente dei figli d’Israele, ma anche dei pagani: la «Galilea delle genti» (Mt 4,15) comprendeva una popolazione mista di ebrei e pagani. La luce postpasquale della resurrezione si riflette sul Gesù che si stabilisce a Cafarnao, anticipando la manifestazione del Risorto in Galilea (Mt 28,16-20).

Gesù inizia il suo ministero situandosi in continuità con il suo predecessore. In effetti, le parole della sua predicazione sono le stesse di Giovanni: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17; cfr. Mt 3,2). In Gesù però la pregnanza delle parole sulla vicinanza del Regno è molto più forte: egli stesso, nella sua persona, narra il regnare di Dio. Gesù appare come successore di Giovanni che ne accoglie l’eredità e la vivifica innovandola con la sua presenza messianica. Sempre la trasmissione della fede e della vita spirituale è opera di testimonianza, di martyría: Giovanni è testimone di Dio nella sua vita e nella sua morte (a cui prelude il suo arresto: cfr. Mt 11,2-15; 14,3-12), così la sua vita diviene eloquenza, parola, messaggio di Dio stesso (Mt 21,25). E Gesù, sull’esempio di Giovanni e accogliendone il messaggio, consegna la propria vita al cammino che Dio gli dischiude indirizzandolo sulle orme di Giovanni.

La continuità con Giovanni diviene subito novità dell’agire di Gesù: egli chiama con estrema autorità alla sua personale sequela. E la chiamata chiede all’uomo di realizzare il proprio nome (Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni) nella sequela di Cristo; di ordinare la propria umanità alla luce di Cristo, del suo cammino e della sua promessa («Vi farò pescatori di uomini»: Mt 4,19); di lasciare tutto (il lavoro, la famiglia: Mt 4,20.22) con atto di libertà e di impegnare anche il futuro in un «sì» che viene detto in un momento preciso e di cui non si possono sapere le conseguenze («subito … lo seguirono»: Mt 4,20.22). Il «subito» della sequela immediata e senza condizioni deve divenire durata, perseveranza, definitività, e questo è possibile solo se si rinnova nel prosieguo del cammino il ringraziamento per la vocazione ascoltata e accolta un tempo, la fiducia nella misericordia del Signore, la docilità al suo Spirito, la preghiera umile al Signore.

 

Preghiere e racconti 

Metto nelle vostre mani il vangelo

Sapientemente il Signore diede inizio alla sua predicazione da quel messaggio che era solito predicare Giovanni: «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2), non per abolire l’insegnamento di Giovanni, ma per darle ulteriore conferma. Se infatti avesse predicato così mentre Giovanni ancora predicava, forse avrebbe dato l’impressione di disprezzarlo, ora invece, poiché ripete tali parole mentre Giovanni è in prigione, non da segno di disprezzarlo, bensì di confermarlo. Confermò l’insegnamento di Giovanni per testimoniare che gli era un uomo degno di fede. […]

«Mentre camminava lungo il mare, Gesù vide due fratelli, Simone e Andrea» (Mt 4,18). Prima di dire o fare qualcosa, Cristo chiama gli apostoli affinché nulla resti nascosto delle sue parole e delle sue opere e così, in seguito, possano dire con fiducia: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,20). Li vede non nel corpo, ma nello spirito, non guardando il loro aspetto esteriore, ma i loro cuori. E li sceglie non perché fossero apostoli, ma perché potevano diventare apostoli. Come l’artigiano, che ha visto delle pietre preziose, ma non tagliate, le sceglie non per quello che sono, ma per quello che possono diventare. […]

E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mt 4,19), cioè vi renderò maestri affinché con la rete della parola di Dio afferriate gli uomini da questo modo di vivere falso, incostante, tempestoso, instabile, insidioso, sempre pericoloso e mai sicuro per nessuno nel quale gli uomini non camminano di loro volontà, ma sono trascinati controvoglia, quasi a forza. La violenza dell’Avversario, facendo sorgere in loro molti cattivi desideri, dona loro l’illusione di fare la loro volontà. In realtà, li seduce e li spinge a operare il male affinché gli uomini si divorino a vicenda come i pesci più forti divorano sempre i più deboli. Con la rete afferrate gli uomini per trasportarli nella terra del corpo di Cristo, ricca di frutti; fatene delle membra del suo corpo, nella terra ricca di frutti, dolce, sempre tranquilla, dove se c’è tempesta non è per portare alla rovina, ma per mettere alla prova la fede e per far fruttare la pazienza. Affinché gli uomini camminino liberamente e non siano trascinati, affinché non si divorino a vicenda, ecco io metto tra le vostre mani un evangelo nuovo.

(ANONIMO, Commento incompleto a Matteo, om.6,17; 7,18-19, PG 56, 673-675).

Conversione

«Convertitevi e credete all’Evangelo!» (Marco I, 15 ); «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicinissimo!» (Matteo 4,17). La richiesta di conversione è al cuore delle due differenti redazioni del grido con cui Gesù ha dato inizio al suo ministero di predicazione. Collocandosi in continuità con le richieste di ritorno al Signore di Osea, di Geremia e di tutti i profeti fino a Giovanni Battista (cfr. Matteo 3,2), anche Gesù chiede conversione, cioè ritorno (in ebraico teshuvah) al Dio unico e vero. Questa predicazione è anche quella della chiesa primitiva e degli apostoli (cfr. Atti 2,38; 3,19) e non può che essere la richiesta e l’impegno della chiesa di ogni tempo.

Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. 1 Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,21), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso. Solo una chiesa sotto il primato della fede può dunque vivere la dimensione della conversione. E solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiate dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri. Ma se non c’è conversione, non si annuncia la salvezza e si è totalmente incapaci di richiedere agli uomini un cambiamento. Di fatto, dei cristiani mondani possono soltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di vedere l’efficacia della salvezza: così essi sono di ostacolo all’evangelizzazione e depotenziano la forza dell’Evangelo. Dice un bel testo omiletico di Giovanni Crisostomo: «Non puoi predicare? Non puoi dispensare la parola della dottrina? Ebbene, insegna con le tue azioni e con il tuo comportamento, o neobattezzato. Quando gli uomini che ti sapevano impudico o cattivo, corrotto o indifferente, ti vedranno cambiato, convertito, non diranno forse come i giudei dicevano dell’uomo cieco dalla nascita che era stato guarito: “È lui?”. “Sì, è lui!” “No, ma gli assomiglia”. “Non è forse lui?”». Possiamo insomma dire che la conversione non coincide semplicemente con il momento iniziale della fede in cui si perviene all’adesione a Dio a partire da una situazione «altra», ma è la forma della fede vissuta.

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, 67-70).

La conversione di Paolo

Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l’inventore di questo messaggio? Se esso fosse l’Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l’inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini e di parabole.

Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre “tornare indietro” (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all’alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. “Convertitevi a me […], tornate indietro dal vostro cammino perverso”, diceva Dio nei profeti (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5).

Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all’inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù.

Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. “Convertitevi e credete” non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! “Prima conversio fit per fidem“, dirà san Tommaso d’Aquino, la prima conversione consiste nel credere.

Dio ha preso l’iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l’uomo deve solo accogliere, nella fede, l’offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull’uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: “Venite, tutto è pronto!”. È l’appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l’ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l’occasione!

L’Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L’unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede “nel Vangelo” (“credete al Vangelo”), ora si configura come fede “in Gesù Cristo”, “nel suo sangue” (Rm 3, 25).

Quello che l’Apostolo esprime mediante l’avverbio “gratuitamente”(dorean) o “per grazia”, Gesù lo diceva con l’immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull’amore di Dio, come i bambini fanno leva sull’amore dei genitori.

Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di “chiamata”, anziché di conversione. C’è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio.

A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c’è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: “Convertitevi e credete al vangelo”? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l’Apostolo con le parole: “Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso” (2Cor 3,16).

La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell’accettare Cristo, nel “rivolgersi” a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto.

La metanoia: un’opera della grazia in noi

Credo che ci siano molti fattori critici di cui prendere coscienza riguardo a questa metanoia, questo radicale cambiamento di prospettiva. Tuttavia, ce n’è uno in particolare che mi sembra fondamentale, ed è il fatto che la metanoia è un’esperienza di fede e, quindi, un’opera della grazia. Solo Dio può fare di una persona un credente, e solo credendo in Gesù possiamo assumere la sua visione. La fede non è, e non è mai stata, una questione di intelligenza o di capacità logica, perché, se così fosse, tutti gli individui con un’intelligenza superiore e capacità logica diventerebbero dei credenti. La fede è, piuttosto, per le persone con la mentalità aperta e un cuore coraggioso: la fede è per i giocatori d’azzardo disposti a puntare tutto su Gesù.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 49).

La prima attività dello Spirito

La prima attività o energia dello Spirito in noi è la metànoia, la conversione o pentimento. Questo volgersi indietro del nostro nous (metanoia), questo cambiamento del cuore, è il nostro primo momento di verità davanti a Dio, a noi stessi e ai fratelli. Alcuni padri della chiesa ritenevano che essa comportasse normalmente il battesimo delle lacrime, a loro avviso il chiaro segno che lo Spirito si stava impossessando del corpo di un uomo: l’uomo capitola, la sua resistenza va in frantumi, ed egli piange. Si potrebbero vedere dei paralleli a quest’esperienza con esperienze analoghe riscontrate nella psicanalisi: ha luogo una sorta di catarsi. L’uomo piange e si arrende, si arrende allo Spirito santo, a quella nuova consapevolezza di se stesso che gli è possibile acquisire mediante il battesimo delle lacrime. Mi sembra di poter dire che la conversione, il pentimento, non è solo un tema del quale è difficile parlare ai nostri giorni, ma è anche  visti i complessi che attanagliano l’uomo moderno  uno dei più difficili da mettere a fuoco con precisione e da vivere autenticamente. E tuttavia rimane essenziale. Il pentimento è oggi qualcosa che suscita repulsione. Ci troviamo a vivere in un periodo di transizione tra la nevrosi ossessiva (se così si può chiamarla) che caratterizzava il periodo immediatamente precedente al nostro, e l’effervescenza e l’aggressività adolescenziali di un periodo che si sta liberando da tale nevrosi. A chi è già divorato dall’angoscia l’evidenza del peccato può creare soltanto un’angoscia ancor più insopportabile. Il peccato era del tutto intollerabile nell’epoca precedente alla nostra, e gli uomini cercavano di liberarsene ricorrendo a quella che i padri erano soliti chiamare dikaioma, la pretesa di esser giusti, l’autogiustificazione: non si era in grado di portare il peso del peccato? E allora ci si convinceva d’esser giusti mediante un’osservanza esteriore della legge, o piuttosto, di un certo numero di regole. In realtà, in questo modo non si fa che sfuggire alla conversione, alla metànoia. Oggi, invece, manifestiamo un’effervescenza e un’aggressività adolescenziali che sono altrettanto nevrotiche, e per le quali il peccato è altrettanto insostenibile; la soluzione odierna consiste tuttavia nel dire che non esiste il peccato.

(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, 9-20).

Conversione

«Quando sono diventato frate speravo di convertire il mondo intero. Sarò felice se riuscirò a salvare me stesso. E mi sono accorto che sono io che devo essere diverso e non l’altro».

(Davide Maria Turoldo)

Paraboletta tra il tenero ed il malizioso

In principio la Fede muoveva le montagne solo quando era assolutamente necessario, per cui il paesaggio rimaneva per millenni uguale a se stesso.

Ma quando la fede cominciò a propagarsi e alla gente sembrò divertente l’idea di smuovere le montagne, queste non facevano altro che cambiare di posto ed era sempre più difficile trovarle nel luogo dove le avevano lasciate la notte precedente.

Cosa che naturalmente creava più difficoltà di quante ne risolvesse.

La brava gente preferì allora abbandonare la fede e ora le montagne rimangono al loro posto.

Solo poche persone hanno di tanto in tanto qualche fremito.

Preghiera

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo,

continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione.

Giorno e notte spero soltanto una cosa:

che tu mi mostri la tua misericordia

e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore.

Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento,

a una preghiera sincera e umile e a una generosità libera e spontanea.

Vedo così chiaramente la strada da seguire!

Comprendo così bene che mi è necessario venire a te.

Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te;

ma il mio cuore esita,

il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro,

vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…».

O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami,

che tu mi aspetti a braccia aperte?

Come un padre con le lacrime agli occhi,

tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai dato.

Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a te.

Solo quando verrò liberamente a te,

quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli affanni

e confesserò liberamente le mie vie sbagliate

e chiederò liberamente misericordia,

solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.

Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa,

ascolta il mio desiderio di ritornare a te.

Non lasciarmi solo nella mia lotta.

Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto.

Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOM TEMP ORDINARIO (A)