Galantino: vincere l’analfabetismo religioso si può

Venerdì 2 maggio alle 17 presso la Sala Zuccari del Senato, a Roma (via della Dogana Vecchia, 29), sarà presentato il “Rapporto sull’analfabetismo religioso 2014” (Il Mulino). Anticipiamo in queste colonne ampi stralci dell’intervento che terrà Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio e segretario generale della Cei; interverranno anche Giuliano Amato, Massimo Campanini, Mariella Enoc, Alberto Melloni, Marco Morselli e Paolo Naso. Il progetto, finanziato dal Miur e dalla Fondazione Cariplo e diretto dalla fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII”, ambisce a incidere sui decisori e ad alimentare il dibattito; il volume, curato da Melloni, è il primo frutto del cantiere di ricerca interdisciplinare sul tema.
 
Nel libro dell’Apocalisse è riportato lo strano e contraddittorio effetto provocato dalla lettura di un piccolo libro. «Mi avvicinai all’angelo – si legge in Ap 10,9 – e lo pregai di darmi il piccolo libro. Egli mi disse: “[…] Ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”». Come persona mediamente attenta a quello che avviene sul nostro territorio, la lettura delRapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, di primo acchito, ha provocato in me una sorta di benessere; in genere, infatti, sono sempre contento quando posso essere aiutato da studi seri e non faziosi a leggere quello che avviene dentro e fuori dalle realtà con le quali ho a che fare. Man mano però che, leggendo, dai numeri e dalle percentuali passavo alla interpretazione di quei dati, l’amarezza di cui parla l’Apocalisse ha preso anche me. Indipendentemente dal ruolo che una persona occupa, certe constatazioni non fanno piacere, o comunque non lasciano indifferenti.

L’amarezza però, lo sappiamo, può essere attutita o neutralizzata del tutto con qualche zolletta di zucchero o – se quell’amarezza sia accompagna ad attenta consapevolezza – può anche essere inizio fecondo di percorsi davvero virtuosi. I numeri che vengono fuori dal Rapporto sono, per certi versi, abbastanza spietati – o almeno così possono apparire a chi non ha un contatto serio e coinvolgente con la realtà – e le “letture” che di quei dati vengono offerte sono davvero illuminanti.

Lette con animo sereno indicano esse stesse possibili percorsi, utili per abitare consapevolmente quei numeri/percentuali, e aiutano a prendere le distanze da atteggiamenti in fine dei conti sterili. “Sterile” ritengo infatti l’atteggiamento di chi si ferma ai numeri e alle analisi – condotte semmai con grande rigore e capaci di ricondurre alle cause certe delle situazioni analizzate – incapaci però di andare un poco più in là; incapaci di affacciarsi sul piano degli impegni richiesti per avviare risposte credibili agli interrogativi legittimi provocati da quei numeri e da quelle percentuali. Ritengo però anche “sterile”, anzi oltremodo dannoso, l’atteggiamento di chi, di fronte a dati e percentuali che mostrano il limite di certe prassi di evangelizzazione e di testimonianza – visto che stiamo parlando di vita e di esperienza religiosa – si arroccano su posizioni tipiche di chi è sopraffatto dalla “sindrome da accerchiamento”; una sindrome che porta ad attivare soltanto difese ad oltranza e diversivi di ogni genere.

Di fronte alla fotografia statistica che ci viene consegnata dal Rapporto, ho cercato di evitare questi due atteggiamenti, che sono il contrario di quello che Papa Francesco chiede nellaEvangelii gaudium (n. 24). A una Chiesa consapevole del mandato affidatole da Gesù, ma consapevole anche dei propri limiti e delle difficoltà che accompagnano l’assolvimento di questo mandato, Papa Francesco – ricorrendo a un neologismo spagnolo – chiede di primerear; chiede cioè di “prendere l’iniziativa”. Primerear perché l’esperienza religiosa non si riduca a uno sfondo anonimo a cui si presta un’attenzione interessata o peggio sospetta, fatta di “narrazioni” su Gesù e accompagnate da buoni sentimenti; tutti comunque assolutamente irrilevanti per la vita che conta.

In quali direzioni va presa questa iniziativa? Il Rapporto ne individua tre: l’ambito scolastico, quello della produzione legislativa sulla libertà religiosa e l’ambito della ricerca universitaria che attiene alle “scienze religiose”. A proposito del primo elemento, quello che connette l’analfabetismo religioso in Italia ad alcuni caratteri specifici della storia post-unitaria – tra cui la particolare dinamica dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica – credo che esso vada compreso come una componente di un processo più generale. Si può infatti convenire con quanto si afferma in uno dei contributi del Rapporto stesso, e cioè sul fatto che il contesto in cui la questione dell’analfabetismo religioso va inserita è «la dissociazione tra elementi culturali e [elementi] religiosi e la conseguente difficoltà ad apprendere e comprendere i secondi all’interno dell’orizzonte segnato dai primi» (p. 16). 

Una dinamica che, come altri contributi presenti nel Rapporto confermano, appartiene dunque ai processi secolarizzanti che hanno attraversato l’intero Occidente, e che, in una conferenza italiana di un paio di anni fa, Gilles Routhier definiva appunto come l’incapacità delle Chiese (delle religioni) di reagire con pertinenza all’emergere di nuove culture. Una prospettiva, questa, che, coerentemente con quella evocata dal Rapporto, indica nelle Chiese (nelle religioni) le attrici, e non solo le vittime, tanto del diffondersi dell’analfabetismo religioso, quanto del suo contrasto […].

La maggior parte dei contributi presenti nel Rapporto è sull’insegnamento della religione cattolica (Irc) nella scuola pubblica italiana, sul percorso storico attraverso il quale esso è passato lungo tutto il Novecento e sul suo attuale statuto […]. Certamente, è bene che le istituzioni che hanno voce in capitolo – lo Stato, da un lato, la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose (particolarmente quelle già titolari di un’Intesa con lo Stato), dall’altro lato – non smettano di interrogarsi sull’effettiva rispondenza delle attuali forme di alfabetizzazione religiosa presenti nella scuola italiana, e in primis dell’Irc, alle mutate circostanze storico-civili […]. Ma è altrettanto importante ricordare che non risultano per nulla superate, ma anzi appaiono particolarmente attuali le premesse a partire dalle quali la Conferenza episcopale italiana si incamminò per giungere al quadro attuale, e che il volume stesso richiama in un altro dei contributi che ospita: «La scuola fa parte propriamente delle strutture civili, in certa proporzione anche quando essa è organizzata dalle diocesi o da istituti religiosi […]. La formazione integrale dell’uomo e del cittadino, mediante l’accesso alla cultura, è la preoccupazione fondamentale. L’educazione della coscienza religiosa si inserisce in questo contesto, come dovere e diritto della persona umana che aspira alla piena libertà e come doveroso servizio che la società rende a tutti». 

Si tratta del n. 154 de Il rinnovamento della catechesi, il documento-base con il quale, nell’immediato post-concilio (siamo nel 1970), l’episcopato italiano metteva mano all’intero impianto della catechesi, e dove era già evidente la consapevolezza che l’insegnamento della religione nella scuola dovesse essere impartito, come in effetti avviene a partire dal 1985, al di fuori della catechesi, cioè «nel quadro delle finalità della scuola», pur «riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano» (Accordo di revisione del Concordato lateranense 9,2).

Da ultimo, vorrei fare riferimento a un altro ambito significativo sia per il consolidamento dell’analfabetismo religioso in Italia, sia per l’eventuale suo contrasto […]: il sistema della comunicazione di massa. Sia gli elementi empirici a disposizione di chiunque guardi la televisione, ascolti la radio, navighi sul web, frequenti i social network o legga, secondo l’uso antico, i quotidiani e le riviste, sia diversi dati e analisi un poco più strutturati messi in campo anche di recente (penso in particolare a un volume edito dalla LEV e a un numero monografico diDesk, la rivista dell’Ucsi), ci dicono che l’informazione religiosa risente, come e più degli altri giornalismi “specialistici”, di un processo di contaminazione con gli altri generi giornalistici che risulta, rispetto alla tradizione del genere che impropriamente chiamiamo “vaticanismo”, secolarizzante, e di conseguenza minaccia di accrescere l’analfabetismo religioso o perlomeno – in parallelo a quanto un altro autore del Rapporto afferma a proposito dei manuali scolastici – di produrre un’alfabetizzazione mediocre. 

Una questione abbastanza complessa, ma che possiamo essere aiutati a dipanare accogliendo le parole chiare rivolte da Papa Francesco, il 22 marzo scorso, all’associazione Corallo, che riunisce le radio e le televisioni “cattoliche”. «Per me – ha detto in quell’occasione – i peccati dei media, i più grossi, sono quelli che vanno sulla strada della bugia, della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Queste due ultime sono gravi!, ma non tanto pericolose come la prima». Perché, ha proseguito, «la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno». Il Papa non si rivolgeva, in quel frangente, a giornalisti specializzati nell’informazione religiosa. Ma a maggior ragione il suo monito vale, se applicato a questi ultimi, a contrastare l’analfabetismo religioso, anche perché ne traspare, come già un anno fa quando aveva ricevuto in udienza le migliaia di “vaticanisti” convenuti a Roma per il Conclave, l’idea che la professionalità, per un giornalista, venga prima di ogni appartenenza, fosse anche un’appartenenza religiosa.

Ho parlato all’inizio dell’amarezza che ha provocato dentro di me l’approfondimento di alcuni dati statistici. Accanto a quanto ho detto fin qui e che ho cercato – per quanto mi è stato possibile – di leggere in maniera critica, penso vada aggiunta un’altra considerazione trasversale ai tre ambiti dei quali ho parlato. Il preoccupante tasso di analfabetismo religioso registrato dal Rapportopenso che, almeno in parte, sia anche il frutto amaro ma evidente di un sentimento religioso che poggia su tracce cristiane infantilistiche, anche nel linguaggio e nelle immagini, che rivelano tutta la loro inadeguatezza e tutta la loro marginalità rispetto a ciò che nel conta nel “mondo adulto”; un mondo adulto che domanda sempre di più al credente di saper “dare ragione della speranza” che lo anima e che innerva le sue progettualità; un mondo adulto che, proprio per questo, domanda contenuti di fede da adulti. 

Quelli che chiamo “contenuti di fede da adulti” sono il contrario, o comunque sono “altro” rispetto al pacchetto di dogmi e comandamenti, semmai anche conosciuti “a memoria”, ma senza che abbiamo un impatto vero sulla capacità di giudizio e di scelta dell’uomo. I contenuti di fede da adulti sono quelli che, radicati nel dato rivelato, permettono di formarsi e di avere una coscienza critica e una sensibilità capace di capire e di apprezzare le differenze, senza demonizzarle né volerle necessariamente omologare.
Un’ultima considerazione, che vorrei offrire come conclusione. 

Un’attenta lettura dei dati presenti nel Rapporto conferma quanto altre ricerche sociologiche affermano, e cioè che i due terzi degli italiani sono immersi in una fede light; nel senso che non si dichiarano atei e agnostici, anzi dicono di credere, ma non hanno le idee chiare sul contenuto del loro credere e non mantengono nessun contatto con la Chiesa. Forse è il caso di spendere qualche parola su questa fascia per niente marginale di sedicenti credenti. Sullo sfondo di questa, che amo chiamare fede light – e che non so se può ricondursi tout court alla figura dell’analfabetismo religioso – vi è il rimando non troppo implicito alla filosofia nietzscheana, secondo la quale la verità, la ricerca della verità e la conoscenza dei contenuti della verità è distinta dalla fede, che appare invece come qualcosa che non consente all’uomo “di coltivare l’audacia del sapere”. Il passaggio successivo al quale si approda è quello di identificare la ragione con la luce e la fede col buio e, di conseguenza, col ritenere che oggetto di fede è tutto ciò che la ragione non riesce a intercettare e a dominare.

In alcuni passaggi, la Lumen fidei – enciclica scritta a quattro mani da Papa Benedetto e da Papa Francesco – contribuisce al superamento di questa polarizzazione alimentata e portata alle estreme conseguenze dall’Illuminismo recuperando, intanto, quello che la tradizione biblica afferma della fede, e poi, ripresentando quanto ci ha consegnato la riflessione critica sul dato rivelato, a partire dal contributo di sant’Agostino. Tutto può essere sintetizzato nell’affermazione che la fede, senza negare il valore che ha ogni conoscenza razionale, non può essere ridotta a questa. 

La fede infatti è “esperienza di relazione”, attraverso la quale il credente viene inserito in un dinamismo di comprensione e di condivisione responsabile. Mi piacerebbe, a questo proposito, che una prossima ricerca potesse prendere in seria considerazione non solo la conoscenza dei contenuti della fede, ma che tentasse anche una sortita seria e intelligente, come quella condotta nel Rapporto, anche sulla fede come “esperienza di relazione”, per verificare – ma onestamente la vedo dura! – quante delle considerazioni presenti nel Rapporto conservano tutta la loro forza.

 
Nunzio Galantino

Rete, luogo di regole

Non possiamo nasconderci dietro a un dito: sono tanti i rischi che le nuove tecnologie digitali comportano. Cyberbullismo, furto di dati personali, diffamazioni on line, violazione della privacy e reati ben più gravi commessi nel mondo digitale sono all’ordine del giorno tra le pagine di cronaca.
Non tutti, però, sanno che da questi mali è possibile difendersi efficacemente, sia con la prevenzione, sia con la difesa dei propri diritti nelle sedi opportune. Come prepararsi al mondo della rete anche quando lo si abita a nome di parrocchie, associazioni, enti religiosi e realtà formative?
Proprio per questo il 12 maggio, a partire dalle ore 21, in diretta su Youtube e sul sito WebCattolici www.weca.it, sarà trasmessa la sesta diretta del percorso “La Rete: come viverla?” dal titolo “La Rete: luogo di regole”.

Nel corso dell’incontro faranno chiarezza su questi e altri aspetti:
 

  • Mauro Berti, Sovrintendente della Polizia di Stato, Responsabile dell’Ufficio Indagini Pedofilia del Compartimento Polizia Postale e delle Comunicazioni per il Trentino Alto Adige di Trento.
  • Avv. Carlo Acquaviva, Collaboratore dell’Ufficio nazionale per i problemi giuridici della Conferenza Episcopale Italiana.
  • Gianluca Bentivegna, IDS&Unitelm, esperto di sicurezza e trattamento dei dati personali.
La diretta sarà disponibile all’interno del Canale Youtube di WebCattolici ma verrà ritrasmessa da numerosi social network, dal sito www.weca.it, dal sito di Peace Communication Network (www.pcn.net) e da tanti altri siti di realtà nazionali e locali.

Anche questo incontro vivrà delle domande e dei commenti del pubblico. Esistono tre modi per porre quesiti e fare considerazioni, anche prima dell’inizio della diretta: utilizzando il modulo di commento di Youtube sotto il video, su Twitter con l’hashtag #incontriweca, oppure inviando una mail a incontri@webcattolici.it.
Il meglio di tutti gli incontri viene riproposto ogni giorno sotto forma di “Pillola”.
WebCattolici è anche presente su Facebook alla pagina https://www.facebook.com/webcattolici e su Twitter con il profilo @WebCattolici.

Verso l’evento: come partecipare

Manca poco all’incontro tra Papa Francesco e il mondo della scuola.
La partecipazione all’evento è aperta a tutti e vi aspettiamo numerosi!!
Non è previsto nessun biglietto per l’accesso in piazza San Pietro. I posti a sedere sono in quantità limitata e saranno occupati man mano che le persone affluiranno in Piazza.

Nella sezione COME PARTECIPARE  troverete tutti gli aggiornamenti logistico-organizzativi, sempre più dettagliati man mano ci si avvicina all’evento.
 
Per eventuali richieste o informazioni, potete contattare la segreteria di riferimento ai numeri 06-66398 231/260 oppure scrivere all’indirizzo di posta elettronica:  info@lachiesaperlascuola.it
 

IV DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 2,14.36-41

[Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa!». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone. 

 

Questo è un brano del discorso che Pietro ha fatto il giorno di Pentecoste. Egli parlando agli Ebrei usa alcuni testi importanti dell’Antico Testamento per interpretarli alla luce di Gesù Cristo. Davanti alla folla Pietro annuncia il Vangelo, la Buona Notizia che può cambiare la loro vita: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (v. 36). L’annuncio di Pietro non era facile da accogliere dal popolo ebraico: il Messia promesso dai profeti e da loro atteso come un liberatore era in realtà un uomo crocifisso come un malfattore. Non solo: è lui il Signore, l’Adonai, il Dio del Sinai. Ma Pietro ha ricevuto in quel giorno lo stesso spirito di Cristo risorto e può annunciare con sicurezza, che Gesù è il Signore, e ora ha potere su qualsiasi debolezza dell’uomo.

     La Parola è ascoltata dalla folla, e dall’ascolto sboccia la fede che porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». La risposta è: «Convertitevi». Convertirsi significa cambiare mentalità, abbandonare le proprie sicurezze derivate dalla legge e rivolgersi a Cristo, l’autore della vita: «ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati» (v. 38). Essere battezzati significa essere immersi in Cristo, essere uniti strettamente a lui, partecipando alla sua sorte: alla sua morte e alla sua risurrezione.                                  

     Questo però avviene mediante il perdono dei peccati, i quali tengono l’uomo schiavo della propria autosufficienza, e con il dono dello Spirito Santo, che distingue il battesimo di Gesù da quello di Giovanni.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,20b-25

Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio,  perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia.

     Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.      

 

Anche in questa lettura risuona la Buona Notizia, il Vangelo di Pietro.

Qui egli presenta il cristiano, che ha ascoltato la parola, vi ha creduto, si è convertito al Signore, è stato battezzato, ma ora vive in una società che non sopporta la sua presenza. Il cristiano con il battesimo ha ricevuto la natura stessa di Cristo, e ora ne può seguire le orme (v. 2). La strada è già stata tracciata: è quella della croce, dell’amore al nemico, come quella di Gesù che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi» (v. 23). È lo spirito del

Servo sofferente profetizzato da Is 53, che «portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché non vivendo più per il peccato vivessimo per la giustizia» (v. 24).

     Versando il sangue sull’altare della croce, Cristo ha espiato i nostri peccati e li ha demoliti. Ora è possibile quindi vivere con rettitudine morale come è stabilito da Dio. Se prima gli uomini erano un gregge senza pastore, ora si realizza quanto anticipato profetizzato da Ez 34,16: «Io stesso, dice il Signore, andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata; avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia». La Chiesa perseguitata è invitata da Pietro a guardare con fiducia a Gesù Cristo come al vero pastore e al guardiano fedele (v. 25).

 

Vangelo: Giovanni 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».    

 

Esegesi 

   Gesù si trova ancora a Gerusalemme per la festa delle Capanne.

Nell’ultimo giorno della festa aveva svelato la sua identità nel luogo sacro, il tempio: «Prima che Abramo fosse Io sono» (8,58). Aveva poi guarito il cieco nato per manifestare le opere di Dio (c. 9). Ora si dichiara il «Buon Pastore», che accoglie nella sua Chiesa i vari ciechi che hanno ricuperato la vista credendo in lui e facendosi battezzare, e che per questo sono scacciati dalla sinagoga.

     Le due parole fondamentali di questa parabola sono «recinto» e «porta». I recinti delle pecore erano fatti di un muricciolo dotato di una porta stretta, che dava la possibilità ai pastori di contare le pecore, che di notte venivano da loro affidate al custode. Al mattino seguente il custode apriva loro la porta del recinto ed essi chiamavano le loro pecore. Queste conoscevano solo la voce del loro pastore e seguivano solo lui, non gli estranei. Mentre uscivano il pastore le contava perché poteva accadere che durante la notte i banditi avessero scavalcato il recinto facendo razzia delle pecore.

     Nella Bibbia, però, la parola «recinto» non viene usata mai per indicare un luogo destinato agli animali, ma lo spazio dove, durante l’Esodo, si trovava la Tenda del Convegno. Più tardi il termine indicava i cortili del tempio. Gesù quindi si sta riferendo alle istituzioni di Israele, che nella Legge hanno la loro massima espressione.

     Per i farisei la legge era un luogo dove si poteva entrare e basta: era un luogo chiuso. Le pecore, l’intero popolo d’Israele, dovevano entrare solo in questo recinto, sottostando alle loro interpretazioni della legge, che generalmente erano molto gravose. Questo recinto per Gesù ha una «porta», dalla quale egli chiama le sue pecore una per una facendole uscire. Altre pecore che si trovano in quel recinto non conoscono la sua voce o non la vogliono ascoltare. Le sue pecore invece lo seguono, Gesù rivela inoltre di essere la «porta» non del recinto, ma del tempio di Dio. Nessuno può entrare nella casa di Dio senza passare per Gesù. Lui è l’unico che può condurre alla salvezza le pecore. Chi sta in lui sperimenta la libertà: «entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Solo lui è in grado di donare la vita eterna. Nessun altro invece ha il potere di donare la vita.

 

Meditazione

     La quarta domenica di Pasqua contempla il Risorto quale pastore della chiesa. Il pastore indica al gregge la via da percorrere e il Cristo-Pastore indica alla chiesa la via che essa deve seguire. Via che, secondo la prima lettura, si chiama conversione.«Convertitevi» (Metanoésate: At 2,38), risponde Pietro alle folle di Gerusalemme che gli chiedevano: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). L’attività pastorale degli apostoli suscita un itinerario che, a partire dall’ascolto della parola predicata e dalla fede, si dipana in alcune tappe: conversione; battesimo; remissione dei peccati; effusione dello Spirito. Tutto questo conduce all’aggregazione alla comunità cristiana (At 2,41). La seconda lettura mostra il modello di questo cammino di salvezza: Cristo. Il Cristo che ha sofferto la passione e la morte lascia ai suoi seguaci un tracciato affinché seguano le sue orme (1 Pt 2,21). Così essi, come pecore prima smarrite, possono tornare al loro pastore e custode (1 Pt 2,25). Il vangelo ribadisce che Cristo è la porta attraverso cui deve passare il cammino del discepolo: si tratta di un cammino spirituale di ascolto, sequela e conoscenza del Signore.

    La rivelazione di Gesù quale pastore diviene anche giudizio di chi è ladro, brigante, estraneo. Se il pastore Gesù è venuto per dare la vita e perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza, ladri e briganti invece vengono per «rubare, sacrificare (CEI: uccidere) e far perire» (Gv 10,10). Di costoro Gesù dice che «sono venuti prima di me», ma questo non va inteso in senso cronologico, quasi che si riferisse ai personaggi della prima alleanza. Ignazio di Antiochia ha compreso bene: «Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale entrano Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa» (Ai Filadelfiesi IX, 1). Si tratta invece dei falsi messia che si presentano agli uomini avanzando la pretesa di essere dei salvatori: quand’anche venissero dopo (cronologicamente) rispetto a Gesù, essi rientrerebbero nel novero degli usurpatori qui intravisti. Il criterio discriminante che dice l’autenticità della missione è nel sottrarre per sé o nel donare, nel portare morte o nel portare vita. In particolare viene condannato il sacrificare: ovvero, il togliere vita in nome di Dio, il servirsi delle persone per fini religiosi fino ad annientarle, l’usare il nome di Dio e la religione per fare violenza, il togliere la libertà alle persone dando forma nuova agli antichi sacrifici umani.

Ladro e brigante è chi si erge a padrone del gregge considerando «sue» le persone che appartengono a Cristo. Il Sal 100 recita: «Riconoscete che il Signore è Dio, è lui che ci ha fatto e non noi, noi siamo suo popolo e gregge del suo pascolo» (Sal 100,3). Non noi, ma tu, Signore; non io, ma tu, Signore. Questa confessione della nostra radicale povertà – non io, ma tu -, è anche la condizione della preghiera, il movimento della fede e dell’amore che nasce dalla rivelazione che Gesù, il Cristo crocifisso e risorto, è il pastore delle pecore.          Gesù si autodefinisce porta delle pecore, cioè per le pecore, non porta del recinto. Il termine «recinto» è espresso in greco dal vocabolo aule che si riferisce normalmente non a un ovile, ma al vestibolo davanti al tabernacolo o al Tempio (Es 27,9; 2Cr 6,13; 11,16; Ap 11,12). Ovvero, la porta che immette nella comunione con Dio non è il tempio di Gerusalemme, ma il Cristo morto e risorto. Se Cristo è la porta che conduce alla salvezza (Gv 10,9) e se la porta fa parte dell’edificio a cui permette l’accesso, Gesù è al tempo stesso il mediatore della salvezza e la salvezza stessa. Gesù è la Via verso il Padre, ma è anche la Vita (Gv 14,6): in Gesù troviamo la vita del Padre. Il pastore «fa uscire» le sue pecore (10,3: Vulgata: educit). 

Il pastore immette in un cammino di esodo, dunque di liberazione. Compito del pastore è educare alla libertà. Egli chiama per nome ciascuna delle sue pecore e le educa conducendole a vivere in nome proprio. L’educazione è il luogo dell’assunzione della responsabilità nei confronti di chi viene dopo di noi; è uno degli aspetti del ministero.

 

Preghiere e racconti

L’arte paleocristiana che fiorisce nelle catacombe si radica nel mondo ebraico che rifiuta l’immagine, ma si sviluppa nell’ambiente romano fortemente figurativo. In questo clima l’esigenza espressiva del cristianesimo si risolve nell’uso dei simboli, immagini che esprimono le realtà spirituali, tratte sovente del mondo ellenistico romano, ma interpretate in senso cristiano. Tra questi il BUON PASTORE, immagine frequente nel repertorio mitologico artistico romano, auspicio di pace per i defunti. Entrato nel simbolismo cristiano venne molto utilizzato nella pittura dei cubicoli, nei sarcofagi e anche nelle epigrafi, segno dell’anima portata nella pace, da Cristo pastore puro. Divenne presto l’immagine del Buon Pastore (o “Bel Pastore” secondo l’originale greco) che va in cerca della pecorella smarrita, usata da Gesù stesso nella parabola (Lc 15,3-7; Gv 10,11-16) per esprimere il suo amore di Salvatore.

 (Catacomba di Priscilla – Buon Pastore sec.II-in.III).

Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni

Cari fratelli e sorelle,in questa quarta Domenica di Pasqua, detta “del Buon Pastore”, si celebra la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che quest’anno ha per tema: “La testimonianza suscita vocazioni”, tema “strettamente legato alla vita e alla missione dei sacerdoti e dei consacrati” (Messaggio per la XLVII G. M. di preghiera per le vocazioni, 13 novembre 2009). La prima forma di testimonianza che suscita vocazioni è la preghiera (cfr ibid.), come ci mostra l’esempio di santa Monica che, supplicando Dio con umiltà ed insistenza, ottenne la grazia di veder diventare cristiano suo figlio Agostino, il quale scrive: “Senza incertezze credo e affermo che per le sue preghiere Dio mi ha concesso l’intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità” (De Ordine II, 20, 52, CCL 29, 136). Invito, pertanto, i genitori a pregare, perché il cuore dei figli si apra all’ascolto del Buon Pastore, e “ogni più piccolo germe di vocazione … diventi albero rigoglioso, carico di frutti per il bene della Chiesa e dell’intera umanità” (Messaggio cit.). Come possiamo ascoltare la voce del Signore e riconoscerlo? Nella predicazione degli Apostoli e dei loro successori: in essa risuona la voce di Cristo, che chiama alla comunione con Dio e alla pienezza della vita, come leggiamo oggi nel Vangelo di san Giovanni: “Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (Gv 10,27-28).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana del tempo pasquale, REGINA CÆLI, 25-04-2010).

 

Preghiera per le vocazioni sacerdotali

Signore Gesù, guida e pastore del tuo popolo,

tu hai chiamato nella Chiesa

San Giovanni Maria Vianney,

curato d’Ars, come tuo servo.

Sii benedetto per la santità della sua vita

e l’ammirabile fecondità del suo ministero.

Con la sua perseveranza

egli ha superato tutti gli ostacoli

nel cammino del sacerdozio.

Prete autentico,

attingeva dalla Celebrazione Eucaristica

e dall’adorazione silenziosa

l’ardore della sua carità pastorale

e la vitalità del suo zelo apostolico.

Per sua intercessione:

Tocca il cuore dei giovani

perché trovino nel suo esempio di vita

lo slancio per seguirti con lo stesso coraggio,

senza guardare indietro.

Rinnova il cuore dei preti

perché si donino con fervore e profondità

e sappiano fondare l’unità delle loro comunità

sull’Eucaristia, il perdono e l’amore reciproco.

Fortifica le famiglie cristiane

perché sostengano quei figli che tu hai chiamato.

Anche oggi, Signore, manda operai alla tua messe,

perché sia accolta la sfida evangelica del nostro tempo.

Siano numerosi i giovani che sanno fare

della loro vita un «ti amo» a servizio dei fratelli,

proprio come San Giovanni Maria Vianney.

Ascoltaci, o Signore, Pastore per l’eternità. Amen.

(Mons. Guy Bagnard, vescovo di Belley-Ars).

La nostra incapacità di ascoltare la buona novella di Dio

Ritengo che uno dei motivi per cui molti di noi non assimilano realmente questo messaggio di incondizionato amore divino, sia che ci soffermiamo eccessivamente su noi e sui nostri errori. Ci domandiamo senza sosta: chi sono perché il Signore mi ami? E invece dovremmo chiederci: chi sei mio Dio, per amarmi così tanto? Il Signore sa ed accetta il fatto che gli uomini sbaglino, perché tale è la condizione umana, ma dentro di noi c’è qualcosa che, come Simon Pietro, continua a protestare: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore. Sono certo che non mi vuoi Vicino” (cfr. Lc 5,8).

La Parola di Dio ci ricorda che Dio ha inviato suo Figlio nel mondo non per condannare ma per amarci sottraendoci all’egoismo e dandoci la pienezza della vita (cfr. Gv 3,16-17). La Parola di Dio ci assicura che Gesù viene come ambasciatore del Padre, come Medico Divino, proprio perché siamo distrutti, contorti e malati. Gesù viene come Buon Pastore proprio perché gli esseri umani si perdono; viene a cercarci perché ci vuole con lui, perché vuole stringerci fra le sue braccia e festeggiare la gioia di averci trovato e di averci nuovamente accanto a lui.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 52-53).

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.

L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

Il Signore è il mio pastore

     La Chiesa parla a Cristo: «II Signore mi conduce al pascolo e nulla mi mancherà» [Sal 22 (23), 1 ss.], il Signore Gesù Cristo è il mio pastore e nulla mi mancherà. «Mi ha posto nel luogo del pascolo», nel luogo dove inizia il pascolo mi ha condotto alla fede, qui mi ha posto per darmi nutrimento. «Presso acque di refrigerio mi ha allevato». Mi ha allevato con l’acqua del battesimo, in cui sono ristorati quanti hanno perduto l’integrità e le forze. Ha convertito la mia anima. Mi ha guidato su sentieri di giustizia a motivo del suo nome». Mi ha guidato negli stretti sentieri della sua giustizia che pochi percorrono e non a motivo dei miei meriti, ma a motivo del suo nome. «Infatti anche se camminassi in mezzo all’ombra della morte», cioè anche quando cammino in mezzo a questa vita, che è ombra di morte, «non temerò il male, perché tu sei con me», non temerò il male perché tu, grazie alla fede, abiti nel mio cuore, e ora sei con me affinché, dopo l’ombra della morte, io sia con te. «La tua verga e il tuo bastone, proprio loro mi hanno consolato». I tuoi insegnamenti sono come verga per il gregge delle pecore e come bastone per i figli ormai grandi che da una vita animale crescono fino a quella spirituale; non mi hanno rattristato, anzi da essi sono stato consolato perché tu ti ricordi di me. «Hai preparato una tavola dinanzi a me, di fronte a coloro che mi perseguitano». Dopo la verga con la quale io, piccolo e ancora animale ero condotto ai pascoli con il gregge, dopo quella verga, quando ho cominciato ad essere sotto il bastone, hai preparato una tavola davanti a me affinché io non sia più nutrito come un bambino con il latte, ma prenda il cibo come un adulto, reso saldo dinanzi a quelli che mi fanno soffrire. «Hai effuso olio sul mio capo», hai allietato la mia mente con la gioia spirituale. «E il tuo calice inebriante quanto è eccellente!», e il tuo calice che da l’oblio delle vanità passate, quanto è eccellente! «E la tua misericordia mi accompagnerà tutti i giorni della mia vita», cioè per quanto a lungo vivrò in questa vita mortale non tua, ma mia. «E affinché abiti nella casa del Signore per la lunghezza dei giorni», mi accompagnerà non soltanto qui, ma fino a quando abiterò nella casa del Signore in eterno.

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 22, Opere di sant’Agostino XXV, pp. 312-314).

Il prete piccolo e grande

Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come di ceppo contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino,

teso verso l’alto,

i piedi sulla terra,

fatto per la gioia,

esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace,

un nemico dell’inerzia,

fedele per sempre…

Così differente da me!

     (Anonimo).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau),

Preghiera

Gesù, pastore e pascolo dei tuoi fedeli,

guida sicura e sentiero di vita,

tu che conosci tutti per nome e ci chiami ogni giorno a uno a uno,

rendici capaci di riconoscere la tua voce,

di sentire il calore della tua presenza che ci avvolge,

anche quando la strada è angusta, impraticabile,

e la notte profonda, interminabile.

Seguendoti senza resistenze e senza paure,

giungeremo ai prati verdeggianti,

alle fresche sorgenti della tua dimora,

dove tu ci farai bere e riposare.

 

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

   PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA IV DOMENICA DI PASQUA (A)

Elenco dei nuovi testi per l’IRC

Avvicinandosi il tempo per le adozioni dei Libri di testo, poiché son stati pubblicati molti nuovi libri per l’IRC, il Servizio propone una presentazione sintetica di tutti i Testi per l’IRC conformi alle nuove Indicazioni didattiche e Linee guida per tutti i diversi ordini di scuola (Dpr 11 febbraio 2010 e Dpr 20 agosto 2012).

È possibile leggere e stampare la scheda di ciascun libro oppure stampare un elenco che riporta tutti i testi approvati e che quindi possono essere scelti come nuove adozioni nel prossimo mese di maggio 2014.

Elenchi dei Libri di testo che hanno ricevuto il Nulla Osta CEI

PASQUA DI RISURREZIONE

Prima lettura: Atti 10,34a.37-43

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.  E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.

     E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».

 

Il discorso in casa di Cornelio è l’ultimo dei discorsi cristologici di Pietro nel libro degli Atti (cf. 2,12-36; 3.11-26; 4,8-22).

    La catechesi su Gesù è ancora sulle sue linee essenziali: «consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret», cioè investito dello Spirito di Dio (battesimo) e insignito di particolari poteri taumaturgici Gesù si era presentato a Israele. Partendo dalla Galilea aveva percorso «tutta la Giudea».

    L’opera di Gesù è riassunta da pochi verbi; qualcuno di meno di quelli di Mt 4,23: «passò» per le contrade della Palestina, «beneficando» e «risanando» gli uomini dalle possessioni diaboliche ovvero dalle loro malattie. Sono omessi i due verbi di Matteo «predicava» e «insegnava nelle loro sinagoghe».

    Ma il suo agire dimostrava che «Dio era con lui», in altre parole era l’«Emmanuele» predetto dal profeta Isaia (7,14), traduceva con i fatti la bontà di Dio in mezzo agli uomini.

     Gesù ha svolto la sua missione davanti a tutto il popolo poiché davanti a tutti ha parlato e compiuto i suoi prodigi, ma per quanto riguarda il prodigio conclusivo e dimostrativo della sua missione, la risurrezione dai morti, ha voluto un gruppo scelto di testimoni con i quali si è a lungo trattenuto, dando sufficienti prove della realtà del suo nuovo stato di vita.

     Gli apostoli sono quelli che possono attestare la sopravvivenza di Gesù dopo che i nemici l’avevano messo in croce. Essi l’hanno visto prima di morire e l’hanno rivisto vivo dopo la morte; possono perciò assicurare che è risorto, che non è rimasto nella tomba.

     La sorte di Gesù si è rovesciata; egli è stato giudicato e condannato, ma dalla risurrezione è diventato lui il giudice di tutti, di quanti sono attualmente vivi e di quelli che sono già morti. Tutti si sono confrontati o saranno chiamati a confrontarsi con lui per ricevere il premio o la condanna delle loro buone o cattive azioni. Se si vuole evitare un incontro spiacevole con lui occorre credere, cioè ripercorrere la strada che egli ha percorso.

     Pietro sta parlando in casa di Cornelio, un ufficiale romano, e ad ascoltarlo sono i suoi familiari, alcuni «congiunti e amici intimi» (10,14), tutta gente che non faceva parte del popolo della promessa, quindi della salvezza, ma si trattava di una discriminazione che con Gesù era destinata a cadere.

     L’apostolo l’aveva già intravisto nella visione avuta a Joppe (10,9-15) e compreso meglio dal racconto di Cornelio (10,30-35); ora ne ha una conferma dal cielo mentre gli è dato costatare che lo Spirito di Dio sta discendendo su coloro che l’ascoltavano, per la maggior parte incirconcisi.

     Era la Pentecoste dei gentili che richiamava quella sui rappresentanti d’Israele che era già avvenuta (At 2,1-12).

 

Seconda lettura: Colossesi 3,1-4

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.   

 

La comunità di Colossi è alle prese con i primi confronti o le prime contaminazioni con la cultura del mondo circostante, giudaico e greco.

     I giudei dell’Asia minore, alla pari dei greci, parlano di potenze cosmiche intermedie tra Dio e gli uomini, di signorie, potestà, dominazioni. Per l’autore esse possono rimanere solo che siano subordinate all’unico Signore, Cristo (1,15-20; 2,9-15).

     Gesù ha affrancato l’uomo da qualsiasi giogo, come lo ha reso libero da rituali inutili, da «feste, noviluni, sabati», «cibi e bevande» (2,8,16-17).

     Il cristiano è chiamato a ripercorrere il cammino di Cristo, un’esperienza di morte e di vita, di mortificazione e di risurrezione. Si tratta di morire agli «elementi di questo mondo», di finire con tutte quelle pratiche, astinenze imposte in nome di un’«affettata», falsa «religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo» (2,23).

     Il cristiano è un uomo nuovo e il suo mondo non è tanto di quaggiù, quanto del cielo, di lassù. Nel battesimo egli è disceso nel fonte e risalendo ha lasciato nell’acqua la sua vecchia appartenenza con tutte le sue inclinazioni peccaminose e ha assunto l’immagine del Cristo glorioso.

     Egli vive ancora sulla terra ma è un essere di un altro mondo, per questo deve assumere comportamenti degni della sua nuova condizione. Occorre «cercare» e «pensare alle cose di lassù», ciò che è consono con il mondo e il modo di vivere del Cristo risorto.

     L’autore non specifica quali sono le cose di lassù e quali quelle della terra, ma lo dice subito dopo quando chiede di «mortificare quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi» che designa con il termine «vizi». E aggiunge: «Voi deponeste tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene» (3,5-8). Tutte azioni che appartenevano, è detto sinteticamente, all’«uomo vecchio» in contrapposizione al l’«uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (3,9-10).

     I comportamenti dell’uomo nuovo che si avvicina a quello celeste sono invece caratterizzati da «sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Al di sopra di tutto vi è poi la carità che è il vincolo di perfezione» (3,12-14).

     La vita cristiana è sempre un preludio di quella celeste che è segnata dal Cristo glorificato. Allora verrà sublimata anche quella di coloro che credono in lui.

     La vita terrestre si spiega solo alla luce della sua apoteosi celeste.

 

Vangelo: Giovanni 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.  Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.  Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.  Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

Esegesi 

   Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala. Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.

     Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane. Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia. Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte. Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni. Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).

     «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8). Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore. Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche. Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa. Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto. Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).

 

Meditazione 

    L’annotazione temporale di Gv 20,1, con cui inizia il testo evangelico proclamato nel giorno di Pasqua, ci offre un simbolico aggancio con la veglia notturna in cui abbiamo ripercorso il cammino della storia della salvezza per giungere a contemplare il volto del Cristo risorto. L’annuncio pasquale è risuonato in tutta la sua straordinaria forza e ha squarciato le tenebre: «Cristo è risorto dai morti – così canta il tropario della liturgia bizantina – e con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a coloro che giacevano nei sepolcri». Ora siamo anche noi nel «primo giorno della settimana» e come credenti siamo chiamati ad entrare nel dinamismo di questo giorno che segna il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce: «la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo… – canta il salmo 117 – Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo».

     La liturgia della Parola di questo giorno richiama con forza la nostra realtà di testimoni del Risorto: la Pasqua di Cristo, quel giorno mirabile che solo il Signore ha potuto fare, diventa il ritmo del nostro tempo. Camminare così nella esistenza quotidiana è veramente passare dalla morte alla vita, è fare Pasqua ogni giorno e vivere sempre radicati sul terreno della nostra fede. Potremmo allora cogliere nelle tre letture altrettante modalità che caratterizzano la testimonianza del discepolo di Cristo in rapporto alla fede pasquale: una testimonianza che diventa annuncio (At 10,37-43), una testimonianza che si trasforma in attesa (Col 3,1-4) e una testimonianza che si nutre di fede (Gv 20,1-9).

     La testimonianza che Pietro offre nella casa del pagano Cornelio è mediata da una parola proclamata, gridata, da un annuncio: «questa è la Parola che egli ha inviato ai figli di Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti» (At 10,36). La parola inviata e l’evangelo della pace hanno un volto: Gesù. E Pietro concentra la sua attenzione sul racconto di Gesù, un vangelo in miniatura in cui vengono scandite le tappe essenziali della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, «il quale passò beneficando e risanando… perché Dio era con lui» (v. 38). Il nucleo centrale di questo evangelo è scandito da tre verbi che rivelano la dinamica del mistero pasquale (il centro del kerigma proclamato dalla comunità apostolica): «lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse… a testimoni prescelti da Dio, a noi…» (vv. 39-41). L’incontro personale con il Risorto (che Pietro caratterizza attraverso una comunione di mensa: «abbiamo mangiato e bevuto con lui», v. 41) dona autorevolezza alla testimonianza e questa diventa il fondamento dell’annuncio: «ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (v. 42). Si diventa annunciatori del Risorto e della sua signoria sulla storia, della vita nuova che egli comunica, solo perché si è testimoni di Lui.

     Ma nella vita quotidiana del credente, la testimonianza del Risorto acquista una paradossale profondità: si trasforma in quella luminosa promessa espressa con la parola di Paolo in Col 3,3-4: «…voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria». Commentando questo versetto, D. Bonhoeffer dice: «Vicinissimo a noi, là dove, nel suo maestoso nascondimento, Dio è tutto in tutto, dove il Figlio siede alla destra del Padre, là, il miracolo dei miracoli, si trova preparata la nostra vera vita. La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio: sì, noi viviamo già come a casa nostra, al cuore stesso del nostro esilio». Paolo indica così al credente in quale direzione deve orientare la propria esistenza, la propria ricerca, in quale luogo deve fissare lo sguardo del proprio cuore: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù… rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (vv. 1-2). Noi sappiamo che il nostro sguardo si lascia catturare e trascinare verso il basso: ed è proprio lì che noi incontriamo i tanti luoghi di morte che riempiono i nostri occhi e il nostro cuore di tristezza. E alla fine, procedere con gli occhi bassi vuol dire camminare senza

direzione. È necessaria una meta su cui fissare lo sguardo. E Paolo ci dice che questa meta è in alto, verso un luogo simbolico, lì «dove è Cristo seduto alla destra di Dio» (v. 1), lì dove il Signore Gesù ci ha preparato un posto, nella casa del Padre. Cercare le cose di lassù vuol dire desiderare questo luogo di comunione, sentirlo come la nostra vera casa, dove siamo figli liberi e amati.

     Il testo di Gv 20,1-9 ci presenta tre modi di reagire di fronte a un segno misterioso: la tomba vuota. In modi differenti ci offrono una testimonianza che precede l’incontro con il Risorto, una testimonianza che si radica sulla fede. Maria di Magdala è la prima che si avvicina al sepolcro «quando era ancora buio» (v. 1 ). È la prima che ha il coraggio di lasciarsi provocare da una realtà che conserva ancora tutta la dimensione dell’assurdo e dello scandalo. Maria è stata ai piedi della croce; ha resistito di fronte allo spettacolo della croce, ha sopportato il silenzio della morte (cfr. 19,25). È ancora buio attorno a lei: c’è ancora pau-ra e angoscia, fallimento e incomprensione. È ancora buio dentro di lei: c’è solitudine e smarrimento. Ma Maria ha un desiderio: cercare il suo Maestro (cfr. 20,13.16). E chi cerca ama. E anche se il suo amore deve maturare nell’incontro con un volto inatteso e nuovo, diverso da quello che lei vorrebbe vedere e trattenere, tuttavia è vero amore: si sente coinvolta completamente da esso, sente che la sua vita è vuota senza la presenza di Cristo. Pietro è il credente la cui fede è continuamente chiamata a compiere salti di qualità, a percorrere vie nuove; e per questo a volte fatica scontrandosi con la propria debolezza e la pro-pria presunzione. Nel suo cuore c’è la ferita bruciante del rinnegamento: non ha saputo vegliare un’ora sola con Gesù, non ha sopportato la vista dello scandalo della croce. Ma nel suo cuore c’è come una nostalgia: c’è il ricordo di quel giorno in cui, avendo avuto la possibilità di abbandonare il suo maestro, non l’ha fatto; anzi ha detto «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,69). Ma, soprattutto, nel cuore di Pietro c’è il ricordo della fiducia che Gesù ha posto in lui: lo ha fatto testimone in mezzo ai fratelli, nonostante tutto! E dopo il rinnegamento, con il suo sguardo di perdono, Gesù rinnoverà questa fiducia (cfr. 21,15-19). E ora Pietro corre con questi pensieri, con questa fede e questi dubbi, con queste paure ed esitazioni. E forse per questo non riesce a correre forte: la sua corsa non è incerta, sa dove andare e sa cosa vuole vedere; ma questa corsa è appesantita, affaticata. Ha bisogno di incontrare nuovamente quello sguardo dal quale aveva avuto inizio il suo cammino e con il quale verrà nuovamente confermato nella sua fede. Ed infine, il discepolo amato. È colui che sa vedere e per questo crede. La sua corsa è veloce; è la corsa di chi ha lo sguardo interiore penetrante, di chi intuisce una novità, di chi si lascia abitare dal mistero. Prima ancora di incontrare il Risorto, alla vista delle bende e del sudario, il suo sguardo va oltre: supera l’abisso dell’assenza, afferma, nel vuoto della tomba, che Cristo ha vinto ciò che appartiene al tempo, sa decifrare il linguaggio dei segni, scopre una misteriosa presenza. E per que-sto diventa il testimone nella lunga attesa perché, con il suo sguardo che va oltre, potrà indicare ai discepoli questa presenza finché il Cristo ritorni (cfr. 21,22).

     Maria, colei che ama; Pietro, il credente; il discepolo amato, colui che vede e vigila: tre modi diversi di camminare incontro al Risorto e di testimoniarlo nella fede. Ma tutti uniti da un unico desiderio: quello dell’incontro. E capaci di lasciarsi coinvolgere da questo incontro, capaci di essere testimoni della risurrezione; perché capaci di lasciare convertire la loro vita dal Risorto. Non ogni esistenza è liberata dalla morte, sottratta dalla vanità, ma soltanto quella che ripercorre il cammino tracciato dal Crocefisso e Risorto; solo una vita donata conduce alla risurrezione. Una vita gelosamente trattenuta non vince la morte, ma va incontro a una seconda morte. A Pasqua si celebra la vittoria di un preciso modo di vivere: di colui che ama il Risorto, di colui che crede nel Risorto, di colui che sa vedere oltre, nella luce del Risorto.

 

Preghiere e racconti

Per il mattino di Pasqua

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Andrò in giro per le strade

zuffolando, così,

fino a che gli altri dicano: è pazzo!

E mi fermerò soprattutto coi bambini

a giocare in periferia,

e poi lascerò un fiore                                    

ad ogni finestra dei poveri

e saluterò chiunque incontrerò per via

inchinandomi fino a terra.

E poi suonerò con le mie mani

le campane sulla torre

a più riprese

finché non sarò esausto.

E a chiunque venga

– anche al ricco – dirò:

siedi pure alla mia mensa

(anche il ricco è un povero uomo).

E dirò a tutti:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

II

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Tutto è suo dono

eccetto il nostro peccato.

Ecco, gli darò un’icona

dove lui – bambino – guarda

agli occhi di sua madre:

così dimenticherà ogni cosa.

Gli raccoglierò dal prato

una goccia di rugiada

– è già primavera

ancora primavera

una cosa insperata

non meritata

una cosa che non ha parole;

e poi gli dirò d’indovinare

se sia una lacrima

o una perla di sole

o una goccia di rugiada.

E dirò alla gente:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

III

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Non credo più neppure alle mie lacrime,

queste gioie sono tutte povere:

metterò un garofano rosso sul balcone

canterò una canzone

tutta per lui solo.

Andrò nel bosco questa notte

e abbraccerò gli alberi

e starò in ascolto dell’usignolo,

quell’usignolo che canta sempre solo

da mezzanotte all’alba.

E poi andrò a lavarmi nel fiume

e all’alba passerò sulle porte

di tutti i miei fratelli

e dirò a ogni casa: «pace!»

e poi cospargerò la terra

d’acqua benedetta in direzione

dei quattro punti dell’universo,

poi non lascerò mai morire

la lampada dell’altare

e ogni domenica mi vestirò di bianco.

IV

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

E non piangerò più

non piangerò più inutilmente;

dirò solo: avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso

poi non dirò più niente.

(D. M. TUROLDO, O sensi miei…, Milano, Rizzoli, 1993).

Il giorno di Pasqua

Restiamocene tranquilli, a occhi chiusi, un istante prima che si levi l’alba del giorno della Risurrezione. È ancora notte fonda, ma già in due o tre case di Gerusalemme c’è qualcuno in movimento. Lumi che si accendono, donne frettolose che si pettinano e vestono. Il Sabato è finito, ed una stella incomparabile, approfittando di tutto quel firmamento che sta abdicando attorno a lei, irradia il volto della nostra prima domenica. Il gallo del calzolaio si prepara ad accettare la sfida che gli è stata lanciata dal compagno dell’altra sponda del Cedron. Non è più la Pasqua degli Ebrei: è la Pasqua dei cristiani! Guardate, ascoltate! Nel silenzio ebraico, all’incrocio di tre strade, avviene un incontro di donne velate che si interrogano sottovoce: «Chi toglierà per noi la pietra dal sepolcro?». Chi la toglierà? Il profumo che esse portano con loro si incarica di rispondere! E così la speranza irresistibile che è nel loro cuore, e l’emanazione di ingredienti mistici nel cuor della notte, preparati dalle mani stesse dell’aurora. Secoli riuniti, santa composizione, la cui dilatazione progressiva come ha poco fa vinto il sonno, così ora si mette in marcia per trionfare della morte! Degli altri avvenimenti di quell’immensa mattina, l’eco smarrita e incoerente dei quattro Vangeli fa ancora risuonare, ad ogni nuova primavera, tutte le chiese della cristianità.

(P. CLAUDEL, Credo in Dio, Torino, SEI, 1964).

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

Cantiamo: Alleluia!

Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità. Allora s’avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Allora si avvererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Cantiamo: Alleluia! (cfr. 1Cor 15,53-55). […] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi. Dice l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze» (1Cor 10,13). Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia». L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele. E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere». Sei in balìa della tentazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione. […]

Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria. Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp. 816-818).

Pasqua è…

Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso. Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.

È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.

È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se  lo comprano è per distruggerlo.

È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri. La causa: troppa sicurezza nel reputarsi “veri”.

È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come compagno. C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.

È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.

È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.

È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.

È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e scoprirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescatori e …mangiare con Cristo.

È asciguarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nascere …le risurrezioni.

(Antonio Mazzi).

Andate presto, andate a dire…

Voi che l’avete intuito per grazia

correte su tutte le piazze

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che la notte è passata.

Andate a dire che per tutto c’è un senso.

Andate a dire che l’inverno è fecondo.

Andate a dire che il sangue è un lavacro.

Andate a dire che il pianto è rugiada.

Andate a dire che ogni stilla è una stella.

Andate a dire: le piaghe risanano.

Andate a dire: per aspera ad astra.

Andate a dire: per crucem ad lucem.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte di porta in porta

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che il deserto fiorisce.

Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.

Andate a dire che la gioia non è sogno.

Andate a dire che la festa è già pronta.

Andate a dire che il bello è anche vero.

Andate a dire che è a portata di mano.

Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.

Andate a dire che la storia ha uno sbocco.

Andate a dire: liberate, lottate.

Andate a dire che ogni impegno è un culto.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte, correte per tutta la terra

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che ogni croce è un trono.

Andate a dire che ogni tomba è una culla.

Andate a dire che il dolore è salvezza.

Andate a dire che il povero è in testa.

Andate a dire che il mondo ha un futuro.

Andate a dire che il cosmo è un tempio.

Andate a dire che ogni bimbo sorride.

Andate a dire che è possibile l’uomo.

Andate a dire, voi tribolati.

Andate a dire, voi torturati.

Andate a dire, voi ammalati.

Andate a dire, voi perseguitati.

Andate a dire, voi prostrati.

Andate a dire, voi disperati.

Andate a dire, comunque sofferenti.

Andate a dire, offerenti-sorridenti.

Andate a dire su tutte le piazze.

Andate a dire di porta in porta.

Andate a dire in fondo alle strade.

Andate a dire per tutta la terra.

Andate a dire gridandolo agli astri.

Andate a dire che la gioia ha un volto.

Proprio quello sfigurato dalla morte.

Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.

Oggi, proprio ora, qui andate a dire.

Andate a dire.

Ed è subito pace.

Perché è subito Pasqua.

(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp. 28-29)

Quelli che fanno suonare le campane

Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna. C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”. Tutti diedero delle risposte. Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”. Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

I macigni rotolati

Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuna col suo sigillo di morte. Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo. Pasqua è la festa dei macigni rotolati. E’ la festa del terremoto.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

L’affidamento dell’uomo a Dio               

Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio. L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la rivelazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.

La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.

L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.  

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94). 

Auguri di Pasqua

Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene,

di speranza e di pace.

Un arcobaleno che per nessun motivo

annunci ingannevoli bontà,

speranze vane e false immagini di pace.

Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo,

che annunci il tuo amore di Padre,

la risurrezione del tuo Figlio,

la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.

(H. Camera). 

«“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione e vana anche la nostra fede” (1Cor 15,14). La risurrezione costituisce anzitutto la conferma di tutto ciò che Cristo stesso ha fatto e insegnato» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 651).
Tale evento avviene secondo le Scritture, realizza la speranza del mondo e determina un inizio qualitativamente nuovo della storia. È inoltre il frutto di un intervento potente di Dio il quale non abbandona la vita del giusto nella tomba e non permette che il suo santo veda la corruzione, ma gli indica il sentiero della vita perché possa avere gioia piena nella sua presenza, dolcezza senza fine alla sua destra (cf. Sal 16,10-11). L’azione di Dio inaugura un tempo nuovo e un nuovo ordine di cose che pone in crisi il passato: «Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17b).
Nella risurrezione di Gesù ha avuto infatti inizio la risurrezione escatologica di coloro che appartengono a Cristo perché “aspersi del suo sangue” e perché “rinati dall’acqua e dallo Spirito”, finché ciò che avvenuto nel Capo si realizzi pienamente in tutte le sue membra. Gesù del resto aveva detto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,25), che vuol dire: «La comunione con Gesù è già ora risurrezione; dove si è stabilita la comunione con lui, è varcato qui e adesso il confine della morte…Ovunque l’uomo entri nell’Io del Cristo, egli è già entrato nello spazio della vita definitiva» (J. Ratzinger).
Ce lo ricorda Sant’Ambrogio il quale nella sua Spiegazione del Simbolo scrive: «Credi che risorgerà anche la carne! Infatti perché fu necessario che Cristo s’incarnasse? Perché fu necessario che Cristo salisse sulla croce? Perché fu necessario che Cristo soggiacesse alla morte, ricevesse la sepoltura e risorgesse, se non per la tua risurrezione? Tutto questo mistero è quello della tua risurrezione. Se Cristo non è risorto, la nostra fede è vana. Ma siccome è risorto, la nostra fede è saldamente fondata». Gli fa eco S. Agostino: «Ha guarito te dalla morte eterna là dove si è degnato di morire in senso temporale. Ed è morto, oppure in Lui è morta la morte? Che morte è, quella che uccide la morte?» (Commento al Vangelo di Giovanni 3,3).
 
Nel riquadro bronzeo della Porta di San Ranieri posta nel braccio meridionale del transetto della cattedrale di Pisa, Bonanno Pisano alla fine del XII sec. ha incastonato la scena della risurrezione di Cristo tra la formella della sua Discesa al Limbo e quella della sua Ascensione al cielo.
L’artista non ha tuttavia presentato Cristo risorto, né l’evento stesso della risurrezione, nascosto agli occhi degli uomini e custodito dal buio di quella notte “veramente beata” che sola meritò di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi (Preconio pasquale). Ciò che vediamo è invece l’edicola del sepolcro che sovrasta il sepolcro stesso sul quale è seduto un angelo che annuncia alle donne che giungono da sinistra la risurrezione del Signore: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto» (Mt 28,5-7).
Sotto il sepolcro le guardie ancora stordite sono assopite in un sonno profondo, simbolo della morte che è stata “ingoiata per la vittoria” (cf. 1Cor 15,54). Risuonano come non mai nel cuore della Chiesa, in questo giorno di luce, le parole della Sequenza pasquale: «Dimmi, Maria, cos’hai visto per via? Ho visto morire la morte. Ho visto il Signore risorto».
  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER APPROFONDIRE:

PASQUA DI RISURREZIONE (A)

PASSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 52,13-53,12

Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito. Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

  Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Il brano di Isaia che leggiamo oggi è uno dei brani scritturistici a cui la tradizione cristiana si è rivolta per tentare di capire più a fondo il mistero di Gesù che muore in croce.

     Esso è denominato come il quarto carme del Servo del Signore (cf. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12).

     Questi carmi sono una delle diverse riflessioni teologiche della Bibbia di fronte al problema tremendo della sofferenza del giusto, che mette in causa direttamente Dio.

     «Il vocabolario (quarantasei hapax legomena [vocaboli che si incontrano soltanto in questo testo] del Deuteroisaia) lo stile, la veemenza dei contrasti e dei sentimenti fanno di questo carme, anche dal punto di vista letterario — nonostante le difficoltà testuali ed esegetiche — un gioiello dell’Antico Testamento. La figura del Servo, che rappresenta il popolo di Israele in esilio, ricapitola in sé i tratti più caratteristici degli eroi e profeti dell’Antico Testamento: Mosè, Geremia, Giobbe, però sorpassa tutti questi personaggi, divenendo una figura escatologica». (S. VIRGULIN, Isaia, Nuovissima versione della Bibbia, Ed. Paoline, 1968, 344). Gli evangelisti e più esplicitamente la tradizione cristiana interpretarono l’opera e la morte di Gesù alla luce di questo carme.

     – 52,13-15. Il Signore presenta il servo trionfante. Dall’umiliazione assoluta egli è chiamato all’esaltazione così da stupire i re e le nazioni.

     – 53,1-9. La sezione comincia con un interrogativo retorico per attirare l’attenzione. Le sofferenze del servo sono descritte nei particolari con grande efficacia. La sua sofferenza lo faceva ritenere un castigato da Dio, percosso e umiliato. Egli non è stato colpito per essere castigato, ma per la salvezza degli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti…. il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».

     – 10-12. «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori». Si ribadisce di nuovo che quanto è avvenuto al servo è stato voluto da Dio, ma si aggiunge che Dio stesso riabiliterà ed esalterà il suo servo, che ha espiato i peccati altrui: «il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».

 

Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno. [Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono. 

 

I due brani della lettera agli Ebrei scelti dalla liturgia di oggi presentano Gesù come sommo sacerdote, mediatore compassionevole per i nostri peccati. Non dobbiamo temere il giudizio divino, ci dice l’autore della lettera, stiamo saldi nella confessione della nostra fede e abbiamo fiducia in Gesù Cristo. Egli può capire la nostra debolezza avendo anche lui subito la prova della sofferenza.

     Dobbiamo quindi avere piena fiducia che avremo un aiuto opportuno per essere ascoltati da un giudice già propenso alla misericordia, presso il quale troveremo grazia. Assai efficace è l’immagine di accostarsi «al trono della grazia». Essa mi fa venire in mente una tradizione midrashica ebraica che narra che Dio per creare gli uomini si è alzato dal trono della giustizia per sedersi su quello della misericordia.

     Nei versetti 7-9 del capitolo 5, accostati direttamente dalla liturgia a 4,14-16 Gesù è presentato nel mistero della sua umanità e dell’abbassamento fino alla morte accettata in obbedienza a Dio, che poteva liberarlo e a cui aveva rivolto suppliche e grida. Dio lo ha esaudito, ma misteriosamente solo attraverso la prova suprema.

 

Vangelo: Giovanni 18,1-19,42

 – Catturarono Gesù e lo legarono

     In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».

– Lo condussero prima da Anna

Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.

– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! 

Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.

– Il mio regno non è di questo mondo

Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

– Salve, re dei Giudei!

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi. Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».

– Via! Via! Crocifiggilo!

Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

– Lo crocifissero e con lui altri due

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».

– Si sono divisi tra loro le mie vesti

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.

– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

– E subito ne uscì sangue e acqua

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».

– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù. 

 

Esegesi 

     La liturgia ci fa leggere oggi tutto il «libro della passione» di Giovanni, che inizia con l’andata di Gesù nel giardino (18,1) e termina al sepolcro nel giardino (19,41). L’inclusione sottolinea l’unità letteraria del racconto.

     All’interno di questa unità possiamo individuare cinque scene: 1. Gesù nel giardino e il suo arresto (18,1-11); 2. Gesù davanti ad Anna, episodio scandito all’esterno dalle negazioni di Pietro (18,12-27); 3. Gesù davanti a Pilato (18,28 19,16); 4. la crocifissione (19,17-30); 5. il colpo di lancia e la sepoltura (19,31-42).

     Molti elementi del racconto di Giovanni, oltre allo schema generale della passione, sono in comune con i sinottici, mi soffermo soltanto sugli elementi propri di Giovanni presenti in ciascuna delle sezioni individuate sopra.

     1. In 18,1-11: Gesù sa che cosa gli sta per accadere: si fa avanti spontaneamente e si rivela nella sua potenza. Alla sua risposta decisa: «Io sono» tutti indietreggiano e cadono a terra. Nonostante non si riesca a dare di ciò una spiegazione univoca, è evidente che l’evangelista vuole sottolineare il contrasto fra il coraggio di Gesù che si fa avanti, padrone della situazione e la paura di chi è venuto ad arrestarlo, che ha fatto pensare a molti studiosi allo stupore-paura che nella Bibbia coglie coloro che intuiscono di essere alla presenza di Dio.  Gesù intesse un colloquio con le guardie per escludere i suoi dal suo destino e l’evangelista commenta che così si è adempiuta la sua stessa parola: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (18,9 cf. 17,12; 6,39).

     Solo Giovanni dice il nome del servo del sommo sacerdote. Nelle parole dette a Pietro: «il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?». C’è una eco della preghiera di Gesù al Getzemani, che Giovanni non riporta, ma il tono della domanda sottolinea che quanto accade è un «dovere» comandato dal Padre, che Gesù accoglie senza tentennamenti 12-27. Entrano in azione i soldati romani e le guardie dei capi dei sacerdoti, che erano venuti con Giuda (cf. 18,3). Al versetto 12 il Vangelo non specifica più le guardie (o meglio secondo il termine greco tradotto dalla Vulgata con ministri, gli aiutanti, i servitori) dei sommi sacerdoti, ma usa il termine generico «giudei». È un uso particolare di questa parte del Vangelo di Giovanni. In 18,14 si dice che Caifa era quello che aveva consigliato ai «giudei», mentre nel capitolo 11, a cui si riferisce il nostro testo, Caifa sta parlando al sinedrio; in 19,6-7: gridano di crocifiggere Gesù i sommi sacerdoti, mentre rispondono a Pilato «i giudei»; in 19,14-15 avviene l’inverso: Pilato parla ai «giudei» e rispondono i «sommi sacerdoti».

     Proprio in riferimento al Vangelo di Giovanni — avvertono i documenti di applicazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate n. 4 — si deve fare attenzione a questo uso del termine giudei per non attribuire a tutti gli ebrei contemporanei di Gesù le colpe dei capi o di un gruppo particolare (cf. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, IV, 1).

     La dichiarazione conciliare dice chiaramente: «Se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né  agli ebrei del nostro tempo».

     Solo Giovanni ricorda l’udienza di fronte ad Anna, mentre accenna soltanto al processo da Caifa (18,28) descritto ampiamente dai sinottici (Mt 26,57-68; Mc 14,53-65; Lc 22,54-71).

     Di Caifa, genero di Anna e «sommo sacerdote quell’anno» (18,13) il redattore ricorda che era colui che aveva detto: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo» (18,14; cf. 11,49-51). Si nota il sottile gioco stilistico di Giovanni che fa dire ai personaggi presentati una verità di cui non hanno affatto coscienza.

     Nel cortile del palazzo fa da cornice al dramma che sta vivendo Gesù il triplice rinnegamento di Pietro.

     Il processo davanti a Pilato è condotto dal quarto Vangelo nella linea della sottolineatura della regalità di Gesù. Pilato presenta Gesù con ironia e disprezzo con le parole: «Ecco il vostro re!» (19,14). Il colloquio fra Pilato e Gesù sottolinea la regalità particolare, diversa da quelle del potere di questo mondo. Gesù afferma che la sua missione nel mondo è quella di «dare testimonianza alla verità» (18,37). Al che Pilato replica con una domanda carica di scetticismo: «Che cos’è la verità?» (18,38). Pilato, di fronte a Gesù, che per lui non è che un oscuro giudeo, proveniente per di più dalla Galilea, la regione dove più attivi erano i gruppi ostili ai romani, non esita a metterlo a morte per evitare il rischio di avere problemi di ordine pubblico, che potrebbero mettere in forse il suo potere, sarà lui, però, che con la sua scritta sulla croce lo proclamerà re (19,19).

     Gesù, secondo Giovanni, porta la croce da sé. Questo è un altro particolare per sottolineare come Gesù sia padrone della situazione.

     Solo Giovanni riporta il colloquio con il discepolo prediletto e la madre. Pur nel dolore profondo che in quel momento doveva provare, Gesù si immedesima in quello della mamma, di fronte a un figlio che moriva a quel modo e le affida il discepolo come nuovo figlio, che riempia in qualche modo il vuoto lasciato da lui.

     «È compiuto!» sono secondo Giovanni le ultime parole di Gesù prima di morire. Esse sottolineano che quanto è avvenuto si è svolto secondo il disegno di Dio di cui Gesù era pienamente consapevole e che ha accettato in piena coscienza.

     Dopo il racconto del colpo di lancia, invece della rottura delle ginocchia, che era il metodo per accelerare la morte, ma che non era più necessario nel caso di Gesù, che era già spirato, l’evangelista invita a fissare su Gesù uno sguardo di fede. Quanto è avvenuto non è avvenuto casualmente, ma perché si «adempisse la Scrittura». Al di là delle citazioni, che non sono precise, il richiamo stesso alla Scrittura rende avvertiti che dobbiamo guardare a Gesù dentro al piano di Dio in essa rivelato.

    

Meditazione 

      «Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente» (Is 52,13). Sono queste le prime parole che sentiamo risuonare nella liturgia della Passione del Venerdì santo, dopo la prostrazione iniziale, compiuta in silenzio, seguita dall’orazione di apertura in cui si implora il Padre di ricordarsi della sua misericordia, santificando e proteggendo sempre la sua famiglia «per la quale il Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero pasquale». Già da subito è messo così in evidenza il carattere prettamente ‘pasquale’ di questa celebrazione: si fa memoria della morte del Signore ma nella prospettiva luminosa della sua vittoria sul peccato e sulla morte stessa. L’inizio della prima lettura dà dunque la tonalità giusta a questo giorno così centrale per la fede e la pietà cristiana. Prima di descrivere tutte le sofferenze e le violenze patite da questo misterioso Servo, il profeta Isaia dice che «avrà successo» e «sarà esaltato grandemente». Il suo destino di gloria ci è messo davanti come prima realtà forse per suggerirci l’angolatura corretta entro la quale comprendere questo testo. Ma che gloria è mai questa del Servo? Una gloria che passa attraverso una via dolorosa e tenebrosa; una gloria che si manifesta nell’affrontare il male con pazienza e mitezza («come agnello condotto al macello, come pecora muta…»: 53,7), nel subire ingiustizie di ogni sorta soffrendo da innocente, nel farsi carico in piena libertà delle colpe e delle iniquità altrui. La «luce» che vedrà dopo il suo «intimo tormento» (53,11) è la luce che emerge con forza da questa notte oscura e che irradia il suo splendore proprio sulle tenebre più fitte. Il Signore glorifica il Servo non liberandolo dal male e da una morte infame, ma facendosi a lui vicino e accogliendo l’offerta della sua vita per renderla feconda di salvezza per tutti.

     La tradizione cristiana, fin dai primi secoli, ha letto in questa figura il destino di passione e di gloria del Signore Gesù, tanto che il Nuovo Testamento in più occasioni riprende alla lettera questo canto per illuminare e interpretare la vicenda pasquale del Figlio di Dio (cfr. 1Pt 2,21-25; At 8,32-33; Mt 8,l7; Gv 1,29; Lc 22,37).

     Dal canto suo, l’evangelista Giovanni rilegge in modo nuovo e originale il racconto della passione di Gesù. Rispetto ai sinottici omette molti importanti dettagli, premunendosi però di compensarli con numerose aggiunte proprie. Il Gesù giovanneo ci appare fin dall’inizio un uomo sovranamente libero, che va incontro alla sua morte con la coscienza di chi sa cosa gli sta capitando (cfr. Gv 18,4; 19,28) e che affronta gli eventi con estrema dignità e solenne maestà. Tutto è teso al compimento di quell’«ora», l’ora del dono e della glorificazione, della quale Giovanni ci ha parlato fin dai primi capitoli del suo vangelo (cfr. 2,4). Ciò che Gesù aveva annunciato attraverso l’immagine del buon pastore, ora non fa altro che metterlo in pratica: egli dà la sua vita per le sue pecore, e la dà liberamente – nessuno gliela toglie – perché ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (cfr. 10,14-18). Questo lo si vede già nella prima scena, quella dell’arresto (18,1-11), in cui Gesù rinuncia a esercitare la sua potenza divina (se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo difendersi, visto che al solo suono della sua voce le guardie «indietreggiarono e caddero a terra»: 18,6!) e si lascia catturare senza opporre resistenza. Nessuno infatti può mettergli le mani addosso se non è lui stesso a offrirsi spontaneamente. Le forze delle tenebre nulla possono contro colui che è la vera luce («la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta»: Gv 1,5). I soldati vengono «con lanterne e fiaccole» (18,3) a catturare colui che è «la luce del mondo» (8,12; 12,46; 3,19; 1,9): paradosso della sorte! Chi è nelle tenebre pretende di offuscare la luce, ma non sa che la luce sprigiona tutta la sua forza proprio in mezzo all’oscurità più fitta. La luce si lascia ‘prendere’ ma non smette di brillare, tanto che nel confronto cruciale con Pilato (sezione centrale e cuore del racconto giovanneo della passione) l’evangelista annota: «Era l’alba» (18,28). L’alba è l’ora del trionfo della luce sulle tenebre, è l’ora che si oppone alla notte del rifiuto e del tradimento (cfr.13,30!). Davanti a Pilato il vero vincitore è Gesù: è lui in realtà colui che giudica, è lui il vero re. Per Giovanni, che si colloca esplicitamente sul piano della testimonianza e della fede (cfr. 19,35), è evidente questo ‘capovolgimento’ delle parti. Gli occhi della fede vedono le cose diversamente e riescono a scorgere dietro le realtà immediatamente percepibili l’agire di Dio, che guida gli eventi per vie misteriose e umanamente alquanto incomprensibili.

     A questo proposito è emblematico l’episodio dell’iscrizione che Pilato fa affiggere alla croce (19,19-22). Nelle tre lingue ufficiali dell’epoca (ebraico, latino e greco) viene proclamata la regalità universale di Gesù: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (v. 19). Ma questa iscrizione assume un senso ben diverso a seconda del punto di vista con cui viene interpretata. Agli occhi dei sommi sacerdoti non può che formulare una menzogna – la pretesa di Gesù di farsi re messianico – (tanto che cercarono in tutti i modi di farla correggere: v. 21); sulla bocca di Pilato ha un valore ironico ed esprime scherno e derisione (come la dichiarazione beffarda di 19,14: «Ecco il vostro re!»); mentre per l’autore del racconto, che rappresenta la comunità credente, essa rivela la vera identità del crocifisso. Gesù è veramente il re che muore sulla croce (peraltro Giovanni lo suggerisce di nuovo nel particolare della sepoltura, in quell’incredibile quantità di unguenti portata da Nicodemo per ungere il corpo di Gesù: «circa trenta chili di una mistura di mirra e àloe»: 19,29. Non è una misura comune: è una misura esagerata, degna di un re!) ed è solo guardando al modo in cui muore che si può comprendere la vera natura della sua regalità. La croce è davvero «il trono della grazia» (Eb 4,16), come si esprime la lettera agli Ebrei nel passo proposto come seconda lettura, dal quale «colui che è stato trafitto» (Gv 19,37) fa sgorgare copiosamente i doni del suo esercizio regale vissuto fino in fondo: il «sangue» della sua vita effusa in sacrificio per la salvezza del mondo e l’«acqua» feconda dello Spirito santo ormai consegnato definitivamente all’umanità intera (cfr. 19,34).

     La Chiesa in questa liturgia ci fa cantare il Salmo 30(31) che l’evangelista Luca pone sulle labbra di Gesù nell’ora della sua morte (cfr. Lc 23,46). In esso troviamo alcune immagini molto forti (che la nuova traduzione CEI ha cercato di riportare alla loro originaria vivacità e plasticità): «sono come un morto, lontano dal cuore; sono come un coccio da gettare» (Sal 30/31,13). In questo «coccio da gettare» ritroviamo tutto il paradosso del mistero della vita di Gesù: Gesù è divenuto ‘ciò che non serve più a nulla’ (un vaso rotto, appunto, da buttar via), rifiutato e dimenticato da tutti; ma proprio in questo suo essere «disprezzato e reietto» (Is 53,3) «divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9). Una vita ‘spezzata’ e ‘gettata via’ può rifiorire insperabilmente dentro il terreno di un amore che non muore…

 

Preghiere e racconti 

Nelle tue mani

    «Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, rese lo spirito» (Gv 19,30). […] A ragione Gesù dice che tutto è compiuto. Ora, però, la sua ora lo chiama a proclamare la Parola agli spiriti che sono negli inferi. Vi si reca per mostrare la sua signoria sui vivi e sui morti. E per noi che si è immerso nella morte e che subisce questa passione comune a tutta la nostra natura, cioè la sofferenza della carne, mentre, essendo Dio, è per natura la vita. Dopo aver spogliato gli inferi, vuole ricondurre la natura umana alla vita, lui che le Scritture chiamano «la primizia» (1Cor l5,24) di quanti si sono addormentati e «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18).

    Egli dunque, inclinò il capo, fatto normale nei morenti, perché lo spirito o l’anima che mantiene e governa il corpo lo lascia. Quanto a ciò che l’evangelista aggiunge: «rese lo spirito» (Gv 19,30) è un’espressione impiegata per parlare di qualcuno che si spegne e muore. Ma sembra che intenzionalmente, volutamente l’evangelista non abbia detto soltanto che Gesù era morto, ma che aveva consegnato il suo spirito nelle mani di Dio Padre, in accordo con quello che aveva detto di se stesso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). La portata e il senso di queste parole sono per noi principio e fondamento di una gioiosa speranza.

    Si deve credere, infatti, che le anime sante, dopo essersi liberate dal loro corpo terrestre, sono affidate, tra le mani del Padre pieno d’amore, alla bontà e alla misericordia di Dio. […] Esse si affrettano a consegnarsi nelle mani del Padre di tutti e in quelle del nostro Salvatore, il Cristo, che ci ha mostrato questo itinerario. Egli ha consegnato la propria anima nelle mani di suo Padre affinché anche noi, mettendoci su questo cammino, possediamo una gloriosa speranza, sapendo e credendo fermamente che, dopo aver subito la morte del corpo, saremo tra le mani di Dio e in una condizione di molto preferibile a quella in cui abbiamo vissuto nella carne. E per questo che san Paolo scrive per noi che è meglio essere sciolti dal corpo per essere con Cristo (cfr. Fil 71,23).

(GIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni 12,30, PG 74,667C-670B)

«Non sciunt quod faciunt»

Persino sulla Croce, mentre compiva nell’angoscia la perfezione della sua Santa Umanità, Nostro Signore non si afferma vittima dell’ingiustizia: Non sciunt quod faciunt. Parole intelligibili dai bambini più piccoli, parole che si potrebbero dire infantili, ma che i demòni debbono ripetersi, dopo d’allora, senza comprenderle, con spavento crescente. Mentre si aspettavano la folgore, è come se una mano innocente avesse chiuso su loro i pozzi dell’abisso.

(G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano, Mondadori, 1994, 238-239).

Coraggio, fratello che soffri

Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.

Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

(Don Tonino Bello)

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno

di Dio; dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera

del sol, padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Ché sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

Venerdì Santo

Venerdì Santo: giorno della croce, giorno di sofferenza, giorno di speranza, giorno di abbandono, giorno di vittoria, giorno di mestizia, giorno di gioia, giorno di conclusione, giorno di inizio.

Durante la liturgia a Trosly, Père Thomas e Père Gilbert staccarono dalla parete l’enorme croce che sta appesa dietro l’altare e la tennero sollevata, così che tutta la comunità poté andare a baciare il corpo morto di Cristo. Vennero tutti, più di quattrocento persone – uomini e donne disabili con i loro assistenti e amici. Tutti apparivano consapevoli di quello stavano facendo: esprimere il loro amore e la loro gratitudine per colui che aveva dato la propria vita per loro. Mentre stavano tutti radunati attorno alla croce e baciavano i piedi e la testa di Gesù, chiusi gli occhi e vidi il suo sacro corpo disteso e crocifisso sul nostro pianeta terra. Vidi l’immensa sofferenza dell’umanità lungo i secoli: persone che si uccidono a vicenda, persone che muoiono di fame o di malattia; persone cacciate dalle proprie case; persone che dormono nelle strade delle grandi città; persone che si attaccano le une alle altre nella disperazione; persone flagellate, torturate, bruciate e mutilate; persone isolate in appartamenti chiusi, in prigioni sotterranee, nei campi di lavori forzati; persone che implorano una parola dolce, una lettera amichevole, un abbraccio consolante, persone… che gridano tutte con voce angosciata: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Immaginando il corpo di Gesù nudo e lacerato, disteso sul nostro globo, mi sentivo pieno di orrore. Ma non appena aprii gli occhi, vidi Jacques, che porta sul volto i segni della sua sofferenza, mentre baciava il corpo con passione e le lacrime gli scendevano dagli occhi. Vidi Ivan, trasportato a spalle da Michael. Vidi Edith che avanzava nella sua sedia a rotelle. Man mano che venivano – diritti o claudicanti, vedenti o ciechi, udenti o sordi – vedevo l’interminabile processione dell’umanità che si radunava attorno al sacro corpo di Gesù coprendolo di lacrime e di baci, per poi allontanarsene lentamente, confortata e consolata da un così grande amore… Con gli occhi della mia mente vidi l’immensa folla di isolati, di individui angosciati che si allontanavano insieme dalla croce, uniti dall’amore che essi avevano visto con i loro stessi occhi e toccato con le loro stesse labbra. La croce dell’orrore divenne la croce della speranza, il corpo torturato divenne il corpo che da nuova vita; le ferite aperte diventarono fonte di perdono, di guarigione e di riconciliazione.

O mio Signore, che cosa ti posso dire?

Ci sono forse parole

che possono uscire dalla mia bocca?

Qualche pensiero? Qualche frase?

Tu sei morto per me

hai dato tutto a causa dei miei peccati,

non solo sei diventato uomo per me

ma hai anche sofferto

la più crudele delle morti per me.

C’è forse una risposta?

Mi piacerebbe trovare una risposta adatta.

Ma contemplando la tua santa passione e morte

posso soltanto confessare umilmente davanti a te,

che l’immensità del tuo amore divino

fa apparire del tutto inadeguata qualsiasi risposta.

Che io semplicemente stia davanti a te e ti guardi.

Il tuo corpo è lacerato, il tuo capo ferito,

le tue mani e i tuoi piedi

perforati dai chiodi

il tuo fianco aperto,

il tuo corpo morto

ora riposa tra le braccia di tua Madre.

Ora tutto è finito.

È terminato. È compiuto. È consumato.

Dolce Signore, grazioso Signore,

generoso Signore, Signore pronto al perdono,

ti adoro, ti lodo, ti rendo grazie.

Tu hai fatto nuove tutte le cose

Mediante la tua passione e la tua morte

La tua croce è stata piantata su questo mondo                                                                              

come nuovo segno di speranza.                                                                                             

Che io viva sempre sotto la tua croce, o Signore, e proclami la speranza della tua croce senza stancarmi.                                                                         

(H.J.M. NOUWEN, Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003).

Undicesima stazione

II panno umido sul viso mi ha dato un breve sollievo.

Sono caduto per la terza volta, qualche braccio soccorrevole mi ha sostenuto nel

rialzarmi, ma il peso per le membra che ho è troppo grave.

L’onta e il castigo della carne, questo alla loro ferocia piace molto.

Il supplizio della misconoscenza e del tradimento

alla loro perfidia è un piacere più sottile,

lo delibano i sommi sacerdoti.

Ma ora, Padre, sono ingiusto:

ci sono anime innocenti,

creature pietose che si angosciano,

non si danno pace. E questi, ti prego, prediligili.

Tra loro c’è mia madre,

ci sono uomini e donne di cuore che la

accompagnano,                                        

e molti altri addolorati e increduli.

Sempre, dal principio fino all’avvento del tuo regno,

il bene e il male si affrontano.

Oggi va al male, secondo appare a noi, la palma.

Tra gente come loro ho seminato le beatitudini,

erano meravigliati – alcuni un giorno capiranno,

ma io sarò morto e risorto

per tutti quelli che capito avranno

e per coloro che saranno rimasti chiusi nell’ottusità.

Tutti potranno essere salvi, così vuole l’Alleanza.

Ma dove andiamo, dove va questa trista processione?

Mi conducono a un’altura.

(M. LUZI, Via crucis, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1999, 47-49).

Orazione finale

In piedi e con le braccia appena aperte,

tesa, perché non secchi, la man destra,

fa che la via sassosa della vita,

ascesa del Calvario, percorriamo

dai chiodi del dovere sostenuti,

e in piedi come Te, le braccia aperte

ansiosamente, noi moriamo; e dopo

alla gloria saliamo ancora in piedi

come Te, perché in piedi Iddio ci parli

e con le braccia aperte. Dammi, Cristo,

che quando alfine vagherò sperduto

uscendo dalla notte tenebrosa

ove sognando il cuore si impaura,

entri nel chiaro giorno sconfinato,

con gli occhi fissi sul tuo bianco corpo,

Figlio dell’uomo, Umanità perfetta,

nell’increata luce che non muore;

gli occhi, Signore, fissi nei tuoi occhi,

e in te, Cristo, perduto il guardo mio!

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 138-139)

 Francisco Zurbaran (1598-1664), Agnus Dei, Museo Nacional del Prado, Madrid.

 

«Ogni volta che il sacrificio della croce “col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato” (1Cor 5,7) viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cf. 1Cor 10,17)» (Lumen Gentium 3).

Sulla croce, infatti, è stato offerto l’unico e perfetto sacrificio che ha portato la salvezza al mondo intero, tanto che l’apostolo Pietro può affermare: «Non siete stati redenti con oro o argento, beni corruttibili…ma col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato e incontaminato» (1Pt 1;18-19). Il credente non appartiene dunque a se stesso, perché egli è stato comprato da Cristo “a caro prezzo” (cf. 1Cor 6,20). Colui che Giovanni Battista aveva indicato alla folla e ai suoi discepoli come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del ondo (cf. Gv 1,29) è Cristo, «agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19). È lui che viene offerto sull’altare della croce quale vittima innocente e immacolata; è lui che «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Maria, sua madre, è la serva obbediente che ha vissuto nella totale sottomissione alla volontà di Dio e ha seguito il suo figlio fino al Calvario. «Ai piedi della croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione. È questa forse la più profonda kenosi della fede nella storia dell’umanità. Mediante la fede la madre partecipa alla morte del Figlio, alla sua morte redentrice; ma, a differenza di quella dei discepoli che fuggivano, era una fede ben più illuminata.

Sul Golgota Gesù mediante la croce ha confermato definitivamente di essere il “segno di contraddizione”, predetto da Simeone. Nello stesso tempo, là si sono adempiute le parole da lui rivolte a Maria: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima”» (Giovanni Paolo II, Redemptoris mater 18). Per tutti i discepoli di Cristo onorare la passione del Signore vuol dire «guardare con gli occhi del cuore Gesù crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne» (Leone Magno, Discorso 15 sulla passione del Signore).

Francisco Zurbaran, artista attivo nella Spagna della Controriforma, ha dipinto con grande realismo in primissimo piano un semplice e comune agnello, con le zampe legate in segno di croce, posto su uno sfondo scuro e appoggiato su una mensa grigia. L’opera è del 1635-40 circa e oggi è conservata al Museo Nacional del Prado di Madrid.

L’uso sapiente dei colori e della luce conduce lo sguardo dell’osservatore verso l’animale che sembra essere totalmente abbandonato al suo destino fatale, senza reagire alla violenza inflittagli. Fissandolo sembra che il tempo sia sospeso e che anche lo spazio si sia come concentrato in quel punto preciso dell’universo. Trova spazio soltanto l’oracolo del profeta Isaia: «Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca» (Is 53,6-7).

Il significato mistico, sacrificale e cristologico del piccolo dipinto è reso dalla stessa immagine dell’agnello che l’artista ci presenta senza alcun attributo iconografico, come invece fa in altre versioni della stessa opera. Nel dipinto del Prado l’Agnello è invece mostrato nella sua assoluta e disarmante semplicità, quasi come una natura morta consegnata allo sguardo dell’osservatore il quale può ripetere con le labbra e con il cuore: «L’agnello ha redento il suo gregge, l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre» (Sequenza pasquale).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

PER APPROFONDIRE:

Sett santa VENERDÌ SANTO (A)

CENA DEL SIGNORE

Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14

Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.

 

Il brano dell’Esodo, che la liturgia ci fa leggere oggi è uno dei testi che fonda la festa della pasqua (pesach) ebraica, che viene celebrata ancora oggi, come «memoriale» della liberazione dall’Egitto e che Gesù, la sua famiglia e i suoi apostoli hanno celebrato secondo le tradizioni che si rifacevano alla Torà di Mosè.

     Nella Torà (Pentateuco) sono numerosi i testi che «fondano» la pasqua, mentre accenni alla pasqua si trovano anche nelle altre parti del tanach (nome della Bibbia ebraica, dalle iniziali delle tre parti fondamentali in cui è divisa: Torà = insegnamento, legge; Neviim, = profeti; Ketuvim = agiografi). Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv. 1-28 e 41-50. In questi testi è esplicito il collegamento con l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e a cui viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.

     Sempre in questo capitolo sono indicate le modalità essenziali, per riuscire a far entrare la nuova generazione dentro al significato di questa celebrazione: «Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito: Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore».

     Il passaggio di generazione in generazione avviene in forma di domande dei figli e di risposte dei padri. Il modo di ricordare, attraverso gesti simbolici susciterà la curiosità dei più giovani e sarà il punto di partenza per il racconto delle opere compiute da Dio per liberare il suo popolo e avviarlo verso la terra promessa, proprio il racconto di tali opere in risposta alle domande dei figli costituisce il nucleo del «memoriale» celebrato nel Seder pasquale dagli ebrei ancora oggi, in continuità con la prima pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto.

     La pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto è la pasqua avvenuta, potremmo dire, sotto il segno del miracolo, le pasque celebrate in seguito sono «memoriale». Chi partecipa al memoriale deve considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto, ma il miracolo è per ora solo spirituale, dato solo nel racconto e nei gesti simbolici. Il rito deve essere perenne: esso è un «memoriale» rende efficace per i presenti l’azione salvifica di Dio ed è teso al sabato messianico, che non avrà più tramonto.

     L’andamento in tre tempi del «memoriale» ebraico è lo stesso di quello cristiano: i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Gesù in questo tempo intermedio, partecipano cioè nel rito dell’opera salvifica di Gesù in attesa della domenica del Regno, quando sarà finito il tempo intermedio nel quale dobbiamo avvalerci del racconto e dei segni.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Il brano di Paolo è uno dei quattro testi neotestamentari, che presentano direttamente il racconto di quella che siamo soliti chiamare l’«istituzione dell’eucaristia». Gli altri tre sono Lc 22,14-20; Mt 26,20-29; Mc 14,17-25. In realtà il termine eucaristia non c’è negli scritti apostolici; esso inizia solo con la Didaché e in Ignazio di Antiochia (110 d.C.) comincia ad avere un senso sacramentale. I termini per indicare la prassi eucaristica nel Nuovo Testamento sono cena del Signore (cf. 1Cor 10,14,22; 11, 17,33) e frazione del pane (cfAt 2,42.46; 20,7.11).

     Il testo di Paolo che si legge oggi è un testo che presuppone già una tradizione liturgica. Esso è legato a quello di Luca e si fa risalire alla tradizione antiochena, mentre Marco e Matteo, apparentati fra loro, risalgono alla tradizione gerosolimitana.

     In Paolo e Luca sono rilevanti tre aspetti: l’invito a «fare memoria» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19 solo sul pane); il riferimento all’alleanza (1Cor 11,25, Lc 22,20); la dimensione del dono personale di Gesù espresso da «questo è il mio corpo, che è per voi» (1Cor 11,24; Lc 22,19) e dal sangue versato per voi (Lc 22,20). È da notare anche il ‘voi’, che si riferisce direttamente ai presenti alla celebrazione e che è molto insistito nel racconto di Luca.

     L’eucaristia è «fare memoria» vale a dire compiere il rito, ma soprattutto accettare la logica del servizio proposta dalla lavanda dei piedi.

     Il calice è la nuova alleanza, vale a dire un’alleanza vera voluta da Dio e che deve essere accettata dai discepoli di Gesù. Il termine analogico è sempre l’alleanza del Sinai; lì c’è l’iniziativa di Dio che ha liberato il popolo e gli dà una norma di condotta; il popolo deve rispondere accettando l’alleanza, vale a dire mettendo in pratica i precetti. La fedeltà all’alleanza è sicura da parte di Dio, è difficile da parte del popolo. Dio, però, non lo abbandona e continuamente lo richiama, soprattutto attraverso i profeti rammentando loro la sua misericordia e la sua fedeltà, nonostante le sofferenze e l’apparente abbandono.

     Dalla fede che il gesto di Gesù è un’alleanza reale con Dio, un dono di Dio come quella stipulata con Israele, l’alleanza è chiamata «nuova», con riferimento a Geremia: «Ecco verranno giorni in cui con la casa di Israele e la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova…» (Ger 31,31-34).

     L’eucaristia è soprattutto dono di sé di Gesù, che deve diventare dono di sé dei discepoli che la celebrano.

 

Vangelo: Giovanni 13,1-15

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».   

 

Esegesi 

   Il primo versetto del brano di Giovanni fa da introduzione ai capitoli 13-17, che vengono generalmente denominati «discorsi di addio». Il redattore ha unificato i discorsi tenuti da Gesù ai suoi introducendoli nella cornice dell’ultima cena con loro. Giovanni non parla di cena pasquale come i sinottici, ma dell’ultima cena di Gesù con i discepoli, che cronologicamente pone «prima della festa di Pasqua». Il problema della datazione dell’ultima cena e della crocifissione, presentata in modo differente dai sinottici e da Giovanni, è stato affrontato da molti studiosi, ma è impossibile raggiungere una intesa che non lasci dubbi. D’altro canto l’interesse dei Vangeli non è cronachistico; il racconto è rivolto all’annuncio della rivelazione salvifica di Gesù, che nella morte e risurrezione trova il suo punto culminante.     

     In particolare, il brano che leggiamo oggi si muove su due binari uno è quello di rivelarci qualcosa della natura divina di Gesù e dell’azione salvifica insita nella sua morte, discorso che si farà più evidente nei capitoli che narrano la passione, l’altro è quello di mostrare ai discepoli il tipo di condotta richiesto, per essere veramente considerati tali.

     Gesù è presentato pienamente consapevole della sua passione: il participio «sapendo» è ripetuto ai versetti 1 e 3. Egli conosce la «sua ora», cioè quella della morte, presentata come l’ora «di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1); egli ha piena coscienza dei poteri che gli sono stati dati dal Padre dal quale è venuto e al quale ritorna (Gv 13,3).

     L’evangelista pone gli avvenimenti che seguono nell’orizzonte dell’amore sconfinato di Gesù: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

     In contrasto con questo amore senza limiti c’è il tradimento di Giuda, che è ispirato dal diavolo, il vero nemico, che Gesù deve sconfiggere (Gv 13,2). È giunto il momento dell’azione del «principe di questo mondo», che anche se apparentemente contrario, non ha nessun potere su Gesù (Gv 14,30); il giudizio sul «principe di questo mondo» è già stato pronunciato (Gv 16,11).

     Sempre nella linea di rivelarci qualcosa del mistero della persona di Gesù e illustrare il valore salvifico della sua missione nel mondo eseguita secondo il volere del Padre, va il colloquio con Pietro. Il gesto di Gesù è a prima vista incomprensibile sia dal punto di vista delle convenzioni sociali, sia perché è il simbolo dell’abbassamento di Gesù, che viene dal Padre, e quindi è di natura divina.

     Gesù è consapevole che, se il livello morale del gesto, più che da capire sarà difficile da imitare; l’abbassamento, la «kenosi» del Verbo di Dio non si accetta se non con l’opera dello Spirito Santo: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).

     L’insistenza sulla natura divina di Gesù, sul suo potere, che gli viene dal Padre, sulla sua qualità di maestro e Signore porta a dare al gesto della lavanda dei piedi la profondità di «segno» nel senso pregnante del termine che sintetizza la logica di tutta la vita di Gesù e rende il suo comando di fare come ha fatto lui un impegno inderogabile per i discepoli. «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14).

     Non si tratta semplicemente di compiere un rito liturgico, ma di testimoniarne la logica; il rito serve a ricordare che il Maestro ha chiesto di vivere una vita di servizio dandone l’esempio fino all’amore totale della morte di Croce; i discepoli devono comportarsi di conseguenza. Infatti «il servo non è più grande del suo padrone, né l’apostolo è più grande di colui che l’ha mandato» (Gv 13,16). Questo insegnamento, insiste Gesù, non si deve solo capire, ma la comprensione è vera solo se lo si mette in pratica: «Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

 

Meditazione

    Nella cornice evocativa del pasto rituale della Pasqua ebraica, si apre il racconto della cena di Gesù con i suoi discepoli, momento simbolico che introduce il racconto della passione in tutte le narrazioni evangeliche. Due gesti contrastanti sembrano staccarsi in questo contesto così umanamente intenso, due gesti che sorprendentemente rivelano la profondità dell’amore di Cristo: il tradimento di Giuda e il dono che Gesù fa di se stesso ai suoi. Unico, in qualche modo, è il verbo che accomuna questi due gesti apparentemente molto lontani: si tratta del verbo consegnare (paradidonai in greco). Con sfumature differenti (può significare anche ‘abbandonare’, ‘dare in balia’, ‘tradire’), questo verbo domina tutto il racconto della passione, assumendo una forza paradossale soprattutto nel racconto dell’ultima cena. Il tradimento di Gesù da parte di uno dei dodici (aspetto messo in rilievo soprattutto nella liturgia bizantina, ma anche in quella ambrosiana) non è una semplice azione malvagia dell’uomo, una fatalità dovuta a quei giochi di potere, di invidia, di egoismo che si impossessano del cuore dell’uomo. Questo gesto si inserisce in un disegno più ampio che ha Dio come protagonista: è Dio che si consegna all’uomo. E in qualche modo, il tradimento del discepolo, nella sua triste verità umana, diventa un ‘vangelo’ poiché annunzia la grandezza dell’amore di Dio: mentre l’uomo consegna l’amico per meschinità, il Padre consegna il Figlio per amore. Ma, ancora più in profondità, è il Figlio stesso, nella sua incondizionata obbedienza, a consegnarsi, a donarsi, a spezzare la sua vita e a versare il suo sangue per la salvezza degli uomini.

     E l’evangelista Giovanni non manca di sottolinearlo proprio all’inizio del racconto della cena pasquale, mettendo in rilievo la piena consapevolezza di Gesù nel vivere la sua drammatica passione: «prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda… di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani… si alzò da tavola…» (Gv 13,1-4).

     L’infinita gratuità dell’amore di Cristo, sottolineata da Gv 13,1 con quella stupenda espressione, «amò i suoi sino alla fine», che rivela un amore oltre ogni limite, un amore inaudito e impensabile per l’uomo, è resa plasticamente visibile dai gesti della lavanda dei piedi e del pane e del vino donati. Questi gesti, che si trasformano nella memoria della Chiesa in ‘sacramento’ di una presenza e di un amore che salva, diventano il cuore stesso della liturgia del Giovedì santo. E la liturgia della Parola della messa in Coena Domini, nei testi scritturistici, ci offre una particolare angolatura che ci permette di cogliere questo mistero nella sua totalità. La descrizione del rituale del pasto pasquale ebraico (Es 12,1-14), la narrazione di ciò che Gesù ha compiuto nell’ultima cena (secondo il racconto di Gv 13,1-15) e la celebrazione dell’eucaristia in una comunità cristiana (riportata in ICor 11,23-26) si presentano quasi come un’unica narrazione che scorre misteriosamente nella storia sacra di ogni credente, diventando in essa la memoria viva e il luogo in cui si opera la salvezza. In ognuno dei tre racconti c’è un gesto, un simbolo, una realtà significata: un agnello ucciso e condiviso in un pasto (Es 12,3-8), un catino d’acqua e un asciugatoio usati da Gesù per lavare e asciugare i piedi dei discepoli (Gv 13,3-5), del pane e del vino distribuiti su di una mensa (1Cor 11,23-25). Tre simboli differenti che sorprendentemente formano un’unica icona: quella del dono, quella del volto di Colui che offre la vita per gli amici, l’icona della compassione di Dio per il suo popolo. Altri elementi significativi legano i tre racconti. Il tempo in cui sono collocate le tre scene è la notte, tempo simbolico della morte. E proprio nella notte (che inizia al momento del tramonto del sole) vengono collocati questi tre momenti simbolici che, per la loro forte carica comunicativa (sono gesti di condivisione e di dono) hanno la capacità di squarciare il buio della notte, quasi a capovolgerne il significato: «in quella notte io passerò… Io sono il Signore» (Es 12,12). Un secondo simbolo accomuna i tre racconti: quello del pasto. Nella notte si condivide un pasto: è un linguaggio squisitamente umano che ha la capacità di esprimere la dimensione comunitaria del dono di Dio. E infatti l’agnello viene consumato tra tutti i mèmbri della famiglia; durante il pasto Gesù compie l’umile gesto di servizio verso tutti i suoi discepoli; sulla mensa, nel pane e nel vino condivisi, è posto il mistero dell’amore di Gesù, come presenza perenne in mezzo ai suoi. C’è anche un terzo elemento che lega drammaticamente e misteriosamente le tre scene: quello del sangue, cioè della vita donata, simbolo della morte che apre alla vita (il sangue dell’agnello ucciso, il sangue che viene misteriosamente versato nel gesto di colui che lava i piedi ai discepoli, il sangue donato come comunione di vita nel calice). E, infine, in tutti e tre i racconti, i gesti compiuti non sono un episodio tra i tanti nella storia di un credente. Sono gesti che devono essere rivissuti, ripetuti, gesti che devono trasformarsi in vita per operare la salvezza: «questo sarà per voi un memoriale… lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14)… «vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15)… «ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). In questi tre eventi è racchiusa la nostra memoria di credenti e tutta la nostra storia; in essi scopriamo continuamente il senso di ciò che facciamo, il senso di ogni evento, il senso della nostra fede; su questi si costruisce la comunione della Chiesa e in essi continuamente la Chiesa si comprende e si purifica.

     Ma con ogni probabilità, il racconto che maggiormente provoca la nostra vita di credenti, nella sua quotidianità e concretezza, è il gesto che Gesù compie verso i suoi discepoli e che la liturgia del Giovedì santo pone come momento di sintesi di tutto il mistero celebrato: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua… e cominciò a lavare i piedi dei discepoli…» (Gv 13,5). Se nella nostra vita di uomini riusciamo ancora, in qualche modo, a spezzare il pane, sicuramente questo gesto, ci è estraneo: estraneo per cultura, estraneo per sentimenti, estraneo soprattutto per incapacità di comprenderlo. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (v. 7). Quando incominciamo a capire questo gesto? Quando Gesù lo fa a noi, quando diventa vita in noi, quando noi diventiamo questo gesto per gli altri. Allora questo gesto così lontano dalla nostra cultura, dal nostro modo di vivere, dai nostri rapporti quotidiani, ci apre lo sguardo sull’amore folle di Dio. Ecco perché non possiamo capire questo gesto: è folle perché è totalmente gratuito. E tutto ciò che è folle e gratuito, può essere solo accolto come dono nella nostra vita. Colui che è Signore e maestro, si alza da tavola e ci insegna la bellezza dell’essere servi. Addirittura fa qualcosa di più: depone le vesti. Mentre l’uomo cerca sempre di indossare le vesti della potenza, tutte quelle maschere con cui vuole nascondere a se stesso e agli altri la sua povertà, il Signore depone la sua gloria per indossare l’abito della debolezza e della misericordia, della mitezza e dell’umiltà, l’abito del servo. E così vestito si china sul punto in cui l’uomo si confonde con la terra, il punto in cui l’uomo sperimenta tutta la fatica di essere creatura. Nessun uomo ha il coraggio di collocarsi così in basso. Ed è proprio in questo luogo limite, il luogo della terra dell’umanità, che il Signore rivela la sua potenza. Ed è quella che passa attraverso il gesto della compassione: lavare i piedi di chi è stanco e affaticato, renderli puliti e asciugarli perché l’uomo possa riprendere il cammino nella consolazione e nella certezza che qualcuno custodisce ogni suo passo, che qualcuno è sempre pronto a lavarli e ad asciugarli. In qualunque situazione umiliante l’uomo si trovi, scoprirà ai suoi piedi, al di sotto di lui, un volto ancora più umiliato del suo, il volto del suo Signore che è lì, pronto ad avvolgere i suoi piedi nella compassione.

     Ma il discepolo di Cristo non può dimenticare che tutti i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena sono accompagnati da un imperativo: «fate questo in memoria di me… come ho fatto io fate anche voi…». Quei gesti non rimangono in quella sala del banchetto, su di una mensa o ai piedi del discepolo. E nemmeno rimangono come stupita memoria nel cuore. Da quella mensa e da quei discepoli essi ripartono, come un cammino ininterrotto lungo la storia, per fermarsi sulla mensa e ai piedi di ogni uomo. Il dono del pane e del vino, il dono della vita di Dio e il suo volto di compassione, hanno un suo luogo di verità: quando li ritroviamo, con lo stesso splendore, ai piedi di ogni fratello. E a quei piedi, se sapremo inginocchiarci, scopriremo accanto a noi il Signore e lui ci insegnerà ancora a lavarli e ad asciugarli, con la stessa tenerezza e umiltà con cui ha lavato e asciugato, in quella notte e in quella cena, i piedi dei suoi discepoli. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo…».

 

Preghiere e racconti

La tavola dell’umanizzazione

Allora come oggi, se è degna di tal nome, la tavola si accende quando ci sono invitati. Invitare qualcuno – parenti, amici, conoscenti… – è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell’altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente. Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive “poco”, mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell’invitare che nell’essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l’atto in sé è ricompensa. Non è un caso che anche nel Vangelo, uno degli insegnamenti di Gesù che ridimensiona l’assoluto della reciprocità – oggi tanto di moda quando ci fa comodo – riguarda proprio l’invito a tavola: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio”.

Poter dire in verità “la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei” significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi  nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un “salotto” che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l’amicizia gratuita. Quando c’è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, così che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro…

Chi mi ha educato mi diceva sempre che è la tavola il luogo in cui ci esercitiamo a vivere la fede, la speranza, l’amore. La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri. In questa scuola di umanizzazione tre elementi legano il pasto dall’inizio alla fine: il pane, le bevande e la parola. Ma è la parola che costituisce il legame più profondo fra tutti gli attori del pasto: è la parola che narra gli alimenti diversi che giungono in tavola, è la parola che unisce i presenti e gli assenti, i commensali e gli altri, è la parola che mette in relazione il passato con il presente, aprendoli al futuro. La parola a tavola può essere davvero strumento di comunione, mezzo privilegiato per conferire senso al pasto, per valorizzare il gusto degli alimenti, per suscitare l’arte dell’incontro.

Stare a tavola insieme è un linguaggio universale tra i più determinanti e decisivi per l’umanizzazione di ciascuno di noi. A tavola, piccoli e grandi, vecchi e giovani, genitori e figli, siamo tutti commensali, tutti con lo stesso diritto di parola e con lo stesso diritto al cibo che arricchisce la tavola. Davvero stare a tavola è molto più che saper nutrirsi: è saper vivere.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi, Torino, 2010, 45-47).

Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16). È questo l’esempio che ci ha dato il Signore. Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp. 1094.1098-1100)

Pane della condivisione

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Un giorno unico

Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino. Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta. Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta. Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima. Quella volta che facesti il primo sacrificio. Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia. La prima vittima.

(Ch. PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).

Giovedì Santo

Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto. Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15). Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.

Questi due gesti sono intimamente uniti. Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore. Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15). Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo. Ci chiama a una totale autodonazione.                                                             

Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi. Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.

Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate. E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me». Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.

(H.J.M. NOUWEN, In cammino verso la luce).

O Signore, dove mai potrei andare?

Io volgo il mio sguardo a te, o Signore. Tu hai pronunciato parole così piene di amore. Il tuo cuore ha parlato così chiaro. Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami. Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…

Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me. Voglio che tu condivida in pieno la mia vita. Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre. Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».

Ti sto di nuovo guardando, o Signore. Tu ti alzi e mi inviti alla mensa. Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me. «Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te». Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te». Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine. Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei. Mi doni il tuo stesso io. Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto. Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.

O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto?

(H.J.M. NOUWEN, Da cuore a cuore) 

Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione

Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione, prenderei

proprio quel catino colmo d’acqua sporca.

Girare il mondo con quel recipiente

e ad ogni piede

cingermi dell’asciugatoio e curvarmi giù in basso, non alzando mai la

testa oltre il polpaccio per non distinguere i nemici dagli amici, e

lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato, del carcerato,

dell’omicida, di chi non mi saluta più, di quel compagno per cui non

prego mai, in silenzio, finché tutti abbiano capito nel mio

il tuo amore.

(M. Delbrel)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014. 

DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Isaia 50,4-7

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. 

 

2 Dopo la gioiosa processione iniziale, con le palme benedette, questa prima lettura introduce la partecipazione alle sofferenze e ai sentimenti di Cristo, nella passione. È la parte iniziale del terzo carme di Isaia sul «Servo sofferente», una «confessione», sul tipo «di alcune composizioni di Geremia e dei Salmi di lamento individuale».

     Dapprima il Servo ricorda, in modo appassionato, la missione ricevuta di sostenere gli sfiduciati, quali erano i rimpatriati dall’esilio babilonese, alla fine del VI secolo a.C., in mezzo a tante difficoltà e ostilità. Poi proclama come l’ha vissuta, grazie ai doni del Signore di una lingua e di un orecchio «da iniziati», cioè degli introdotti e pienamente dediti all’ascolto e alla proclamazione della parola di Dio. Ciò implica un impegno profondo e costante anche suo. Anzi, ha richiesto la più dura testimonianza della vita, per le persecuzioni, espresse col piegare il dorso ai flagellatori, e per le umiliazioni subite, che si possono prendere alla lettera, fatte di insulti, sputi in faccia e depilazioni infamanti.

     Di fronte a tutto questo, il Servo riafferma i suoi più profondi sentimenti. Non si tira indietro, ma affronta con coraggio le prove. È sicuro che Dio lo assiste, per questo non ha confusioni e incertezze, ma rende la faccia dura e impavida come roccia.

     La lettura si ferma qui, forse per restare a quanto è più consono ai sentimenti di Cristo nella passione che segue. Nei versetti che completano il carme, il Servo sfida pure gli avversari sulla giustezza delle sue posizioni ed è sicuro che saranno confusi da Dio e logorati come veste intaccata dalle tarme. Non sono sentimenti teneri ma neppure estranei a Cristo. Forse i cristiani d’oggi dovrebbero riscoprire il modo e il coraggio di ripeterli.

 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11 

 Cristo Gesù, pur essendo di natura divina,

non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre.
    

 

2 La lettera ai Filippesi indirizzata alla prima comunità cristiana fondata da Paolo in Europa, ha in quest’inno cristologico il perno del suo messaggio, carico di stimoli per la vita cristiana di tutti e di sempre. L’apostolo si trova in catene (Fil 1,7.14), fortemente impegnato a vivere il mistero di Cristo morto e risorto, che va predicando. Brama di «cono-scere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti». Dai Filippesi ha accettato più volte aiuti materiali come partecipazione della sua tribolazione (Fil 4,14-16) e li ringrazia. Ma molto di più desidera che siano partecipi della sua adesione a Cristo, da «cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27) e da cristiani che vivono in comunione (Fil 2,1-4). Per questo è inscindibile dal brano odierno l’invito che lo introduce: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Esso vale anche per noi, oggi, proprio come cittadini e come cristiani.

     Può darsi che Paolo stesso sia l’autore di questa composizione ritmata. Ma più probabilmente l’ha presa dalla liturgia preesistente e l’ha adattata ai suoi intendimenti. È chiaro lo schema in due parti simmetriche, una discendente nella kènosys e l’altra ascendente nella esaltazione.

     Con la kènosys, svuotamento (vv. 6-8), Cristo scende dal trono più alto all’abisso più profondo, per gradini vertiginosi. Al contrario di Adamo, presuntuoso di essere come Dio, egli passa dalla reale «uguaglianza con Dio» alla «condizione di servo»; quindi da regnante supremo a servo obbediente; in una obbedienza non ordinaria, ma fino alla morte; e una morte non qualunque, ma in croce, come si usava per gli schiavi e per i delinquenti peggiori…

     Con la esaltazione (vv. 9-11), Dio gli fa risalire tutti i gradini. Vi sono coinvolte tutte le creature ed è conseguente, anzi intrinseca, all’annientamento. A Cristo da, anzitutto un Nome, cioè una realtà e missione al di sopra di ogni altro; quindi sottomette a lui tutti gli esseri buoni e cattivi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e, nel riconoscimento della signoria universale di lui, da ad ogni persona la possibilità di ritrovare e di vivere la gloria della paternità divina.

     Di seguito, Paolo indica ai Filippesi alcune conseguenze pratiche da tirare, che valgono anche per noi se le attualizziamo, rapportandole alla vita nella società e nella Chiesa di oggi.

 

Vangelo: Matteo 26,14-27,66

In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: P “Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?”. C E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo. Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: P “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?”. C Ed egli rispose: + “Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. C I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse: + “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà”. C Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: P “Sono forse io, Signore?”. C Ed egli rispose: + “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. C Giuda, il traditore, disse: P “Rabbi, sono forse io?”. C Gli rispose: + “Tu l’hai detto”.

C Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: + “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. C Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: + “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. C E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Allora Gesù disse loro: + “Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: ‘‘Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge’’, ma dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea”. C E Pietro gli disse: P “Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai”. C Gli disse Gesù: + “In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. C E Pietro gli rispose: P “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. C Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli.

Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: + “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. C E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: + “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. C E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: + “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. C Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: + “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. C E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: + “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà”. C E tornato di nuovo trovò i suoi che dormivano, perché gli occhi loro si erano appesantiti. E lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: + “Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’uomo sarà consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina”.  C Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: P “Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!”. C E subito si avvicinò a Gesù e disse: P “Salve, Rabbi!”. C E lo baciò. E Gesù gli disse: + “Amico, per questo sei qui!”. C Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli disse: + “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?”. C In quello stesso momento Gesù disse alla folla: + “Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti”. C Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono.

Or quelli che avevano arrestato Gesù, lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale già si erano riuniti gli scribi e gli anziani. Pietro intanto lo aveva seguito da lontano fino al palazzo del sommo sacerdote; ed entrato anche lui, si pose a sedere tra i servi, per vedere la conclusione.

I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a morte; ma non riuscirono a trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: P “Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni”. C Alzatosi il sommo sacerdote gli disse: P “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?”. C Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: P “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. + “Tu l’hai detto, C gli rispose Gesù, + anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete ‘‘il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo’’”.

C Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: P “Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”. C E quelli risposero: P “È reo di morte!”. C Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, dicendo: P “Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?”.  C Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una serva gli si avvicinò e disse: P “Anche tu eri con Gesù, il Galileo!”. C Ed egli negò davanti a tutti: P “Non capisco che cosa tu voglia dire”. C Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: P “Costui era con Gesù, il Nazareno”. C Ma egli negò di nuovo giurando: P “Non conosco quell’uomo”. C Dopo un poco, i presenti gli si accostarono e dissero a Pietro: P “Certo anche tu sei di quelli; la tua parlata ti tradisce!”. C Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: P “Non conosco quell’uomo!”. C E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò delle parole dette da Gesù: “Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. E uscito all’aperto, pianse amaramente.

Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato.

Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: P “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. C Ma quelli dissero: P “Che ci riguarda? Veditela tu!”. C Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: P “Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue”. C E, tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: “E presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il Campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”. Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l’interrogò dicendo: P “Sei tu il re dei Giudei?”. C Gesù rispose: + “Tu lo dici”. C E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla.

Allora Pilato gli disse: P “Non senti quante cose attestano contro di te?”. C Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore. Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: P “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo? ”. C Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: P “Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”. C Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: P “Chi dei due volete che vi rilasci?”. C Quelli risposero: P “Barabba!”. C Disse loro Pilato: P “Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?”. C Tutti gli risposero: P “Sia crocifisso!”. C Ed egli aggiunse: P “Ma che male ha fatto?”. C Essi allora urlarono: P “Sia crocifisso!”.

C Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla dicendo: P “Non sono responsabile di questo sangue; vedetevela voi!”. C E tutto il popolo rispose: P “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. C Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso. Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: P “Salve, re dei Giudei!”. C E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo. Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la croce di lui. Giunti a un luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo quindi crocifisso, si spartirono le sue vesti tirandole a sorte. E sedutisi, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo, posero la motivazione scritta della sua condanna: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”. Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.

E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: P “Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!”. C Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: P “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!”. C Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo. Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: + “Elì, Elì, lemà sabactani?”, C che significa: + “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. C Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: P “Costui chiama Elia”. C E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: P “Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!”. C E Gesù, emesso un alto grido, spirò. Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: P “Davvero costui era Figlio di Dio!”. C C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo.

Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatea, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù. Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Magdala e l’altra Maria.

Il giorno dopo, che era quello successivo alla Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo: P “Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!”. C Pilato disse loro: P “Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete”. C Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia.

 

 

Esegesi

     Matteo scrive il Vangelo per i cristiani provenienti dal giudaismo, quando, dopo le prime conversioni in massa, molti stavano tirandosi indietro e la sinagoga prendeva le distanze dalla Chiesa, mentre cresceva l’afflusso dei pagani. Egli fa trasparire questa situazione fin dall’inizio (Mt 1-2), quando presenta Gesù di Nazaret, figlio di Abramo e di David, generato dallo Spirito Santo, nato a Betlemme secondo le Scritture, cercato dai magi pagani, mentre Erode, tiranno sanguinario e geloso, trama per farlo morire, complici i sacerdoti e gli scribi, intimoriti e plagiati. Nel racconto della passione torna a mettere in evidenza gli atteggiamenti di rifiuto e di scoperta di Gesù fino al suo trionfo nella risurrezione e all’invio dei discepoli in missione a tutte le genti.

Gesù, mentre è tradito, si dona totalmente (Mt 26,14-30).

     Il racconto incomincia con il tradimento di Giuda, indicato col verbo «consegnare» (paradidomi), lo stesso adoperato da Gesù, all’inizio del capitolo, per annunciare ai discepoli che il Figlio dell’uomo «sarà consegnato» per essere crocifisso, dopo due giorni, in coincidenza con la Pasqua ebraica. Il passivo usato da lui ha per soggetto Dio, il Padre, e vuol dire che «sarà donato» come supremo atto di amore. Giuda invece pretende di disporre lui del Maestro e vuol dire che è in grado di «tradirlo». Due modi opposti di vivere la stessa realtà, che si ripetono spesso.

     Gesù però, oltre che prevedere tutto, sa mantenersi nella piena prospettiva del dono e domina perfettamente gli eventi malgrado la cattiveria degli avversari e la debolezza dei discepoli. Mentre celebra la Pasqua ebraica, infatti, smaschera e deplora il tradimento, ma soprattutto istituisce l’Eucaristia, anticipando e rendendo perenne il dono di sé stesso sulla croce.

La forza di Gesù e il sostegno ai discepoli (Mt 26,31-56)

     Con i fatti del Getsemani, Gesù si avvia al dono supremo di sé e cerca di rendere coscienti i discepoli della crisi che stanno per affrontare, preannunciando a Pietro la fragilità della sua presunzione, sia pure ben intenzionata. Poi fa vedere dove lui trova la forza e dove anche loro possono trovarla: «Vegliate e pregate». Vegliare per far fronte alla crisi e per il sostegno reciproco. Pregare il Padre con totale disponibilità: «Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».                                       

     Il contrasto tra dono e tradimento incentrati sulla sua persona, rende Gesù triste fino alla morte. Ma lo accetta e lo affronta con fermezza: «Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’uomo sarà consegnato (dal Padre nell’amore)… Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina». Apre il cuore allo stesso traditore: «Amico, per questo sei qui!», cioè per qualcosa che rinnega il rapporto da amico. Poi ferma la violenza inconsueta dei discepoli e dice ingiusta e vile quella degli avversari. Il rimorso portò successivamente Giuda a ributtare il prezzo del tradimento ai carnefici (Mt 27,3-10).

Il Figlio di Dio condannato dal Sinedrio (Mt 26,57-75)

     Riunito in casa del sommo sacerdote, il Sinedrio più che un processo fa un confronto con Gesù sui principali capi d’accusa. Avviene di notte, perciò invalido, e i sinedriti sono immersi nella notte del pregiudizio e dell’odio, peggio che i sommi sacerdoti e gli scribi interrogati da Erode all’arrivo dei magi (Mt 2). Cercano false testimonianze sul suo insegnamento, col dichiarato proposito di metterlo a morte. Caifa è ipocrita nel chiedere a Gesù di replicare a due che concordano sulla sua affermazione di poter distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni: lui stesso è convinto che i falsi testimoni non bastano su un’affermazione così carica di significato religioso e di profonda verità. Passa quindi a una supplica solenne: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo il Figlio di Dio» (Mt 26,63). Ma è ancora teatrale e ipocrita. Infatti rifiuta subito la risposta affermativa che Gesù, prima silenzioso, si sente in dovere di dare all’autorità. Concerta l’accusa di bestemmia meritevole di morte e scatena il disprezzo con sputi e percosse.

     Sullo sfondo di questo processo religioso, Matteo riferisce le negazioni di Pietro, che sono il venire meno delle doverose testimonianze a favore e che hanno per cause, oggi come ieri, non solo l’odio e la prepotenza dei nemici, ma anche la propria paura, fragilità e convenienza.

          L’innocente Gesù giudicato dallo sprezzante e opportunista Pilato (Mt 27,1-26)

     Per dare legalità al processo notturno, i membri del Sinedrio lo ripetono sommariamente appena fattosi giorno e «consegnano» Gesù a Pilato, pagano e invasore. Anche la loro è una «consegna» tradimento di Gesù e insieme di se stessi, della propria dignità e autonomia di somme autorità ebraiche. Un sussulto di dignità lo ha il traditore del quale Matteo riporta a questo punto il pentimento. Ma Giuda è sopraffatto dalla disperazione.

     Anche quello del governatore non è un processo, ma un palleggio sprezzante e furbesco delle responsabilità. Chiede a Gesù se è «il re dei Giudei», ben lontano però da quello che intendevano i magi con questa espressione (cf. Mt 2,2). Egli vede tutto nell’ottica politico-militare di Roma. Non da quindi peso alla risposta affermativa di Gesù e passa allo sporco gioco politico di proporre il baratto con il sedizioso Barabba. Uno spiraglio sul mistero che ha davanti gli viene dalla moglie, turbata in sogno su «quel giusto», qualcosa di simile al richiamo della stella per i magi. Ma Pilato da libero corso, alla furia omicida degli avversari e «consegna» loro Gesù perché sia crocifisso. Si proclama innocente, col gesto teatrale di lavarsi le mani e nello stesso tempo lo fa flagellare per confermare la licenza di ucciderlo.

Il re da burla è davvero Figlio di Dio! (Mt 27,27-54)

     L’esecuzione capitale scatena nella plebaglia un rigurgito dei sentimenti dei giudici perversi. I soldati di Pilato in crudele ossequio alla scritta da lui voluta sopra la croce come motivo della condanna, scherniscono Gesù con un abbigliamento da re da burla, con la corona di spine e con gli sputi. I passanti ebrei e in particolare i membri del Sinedrio lo prendono in giro come riformatore religioso, operatore di miracoli e Messia, «Figlio di Dio».

     Sembra la fine di tutto, il trionfo dei malvagi e l’abbandono di Dio Gesù stesso sperimenta nella sua umanità quest’abisso e grida la sua supplica al Padre. Ma è il crollo di un certo mondo e l’inizio di uno nuovo. Matteo lo fa notare, inserendo a questo punto dei particolari straordinari: buio su tutta la terra, terremoto, velo del tempio squarciato, apparizioni di morti. E mostra una primizia del riconoscimento dei pagani dicendo che, non solo il centurione, ma anche quelli che erano con lui esclamano: «Davvero costui era Figlio di Dio!».

L’attesa della risurrezione (Mt 27,55-66)

     I discepoli sembrano aver dimenticato il ripetuto annunzio della risurrezione al terzo giorno (Mt 16,21; 17,23;20,19). Hanno però nella loro esperienza e nel loro cuore le premesse per accoglierla. Matteo, come gli altri Sinottici, ricorda in primo luogo le donne, che fino all’estremo vogliono continuare la sequela e il servizio di Gesù incominciato dalla Galilea. In particolare Maria di Magdala e l’altra Maria rimangono presso il sepolcro anche quando tutti se ne sono andati. Sono le stesse che, appena passato il sabato, ritornano e hanno il primo annuncio della risurrezione (Mt 28,1-7) e sono incaricate di richiamare i discepoli sui loro passi. Giuseppe d’Arimatea per intanto si limita al pietoso atto della sepoltura.

     Coloro invece che l’hanno fatto assassinare ricordano la profezia di Gesù. La qualificano una impostura e si preoccupano che i discepoli non cerchino di spacciarla per verità, trafugando il cadavere. Avvertono Pilato, sigillano la pietra tombale e pongono le guardie. Matteo aggiungerà, più avanti, che dopo aver escluso pregiudizialmente la risurrezione, ricorreranno meschinamente al pagamento di falsi testimoni per continuare a negarla. Ma nulla, se non la malafede, può fermare la potenza di Cristo risorto.

Meditazione 

      L’obbedienza a Dio consente al Servo (I lettura) e a Gesù (vangelo e II lettura) di sostenere la dolorosa sottomissione agli uomini e alla loro violenza. La fede del servo Gesù appare così fedeltà radicale a Dio e solidarietà con gli uomini che riscatta il male con il bene. Il racconto di Matteo è anzitutto cristologico: Gesù è al centro della narrazione come figura ieratica che domina gli eventi con autorevolezza di Signore. Si preannuncia la theologia gloriae del racconto giovanneo. Il Cristo della passione di Matteo è più simile al Cristo maestoso dei mosaici bizantini che al Gesù kenotico della narrazione di Marco. Egli domina gli eventi: lo mostra l’introduzione all’intero racconto (il «titolo» della passione matteana: Mt 26,1-2). Gesù sa ciò cui va incontro e lo dice: alla luce di questa conoscenza vengono ridimensionati gli sforzi di Giuda e i complotti dei suoi avversari per arrestarlo. In verità, ciò che nella passione si compie è il disegno di Dio manifestato nelle Scritture: la corrispondenza tra particolari anche banali e testi scritturistici diviene per Matteo occasione di mostrare che la passione ha un fondamento metastorico, è il compimento drammatico della storia di Dio con l’umanità. L’autorevolezza incomparabile di Gesù è dovuta alla sua conoscenza e accettazione della volontà divina, in altre parole, alla sua obbedienza alle Scritture (cfr. l’annotazione solo matteana di 26,53-54). Sempre attento al compimento delle Scritture, Matteo lo è ancor più nel racconto culminante del vangelo (cfr. le inserzioni matteane di 26,15; 27,9-10; 27,43). La signoria che Gesù mostra (in particolare con cui interviene per dare il senso degli eventi, per ammonire e correggere: 26,1-2.52-54) si accompagna alla sua obbedienza: egli è il Servo del Signore (cfr. Mt 26,28 che riprende Is 53,12), il Giusto (27,19), cioè colui che non persegue la propria volontà, ma compie quella del Padre. Gesù è il Figlio di Dio (27,54), espressione che non indica un’identità di natura, ma una totale comunione di volere e di agire.

     La dimensione ecclesiale della passione di Matteo traspare da una presentazione dei fatti illuminati dalla fede nel Risorto; questa passione è «un racconto destinato a un’assemblea di credenti» (X. Léon-Dufour). La comunità a cui è rivolto il vangelo di Matteo, bisognosa di essere rafforzata nella fede e incoraggiata nelle ostilità, appare, nella sua povertà e piccolezza, destinataria di quel Regno di Dio (21,43) che è un tema di fondo del primo vangelo. Comunità ormai aperta ai non ebrei, essa vede nell’intervento divino (in sogno) alla moglie di Pilato, una pagana, un’antecedente dell’apertura universalistica che connoterà la comunità cristiana. La passione di Gesù è anche giudizio su Israele, soprattutto sui suoi capi religiosi, i sacerdoti e gli anziani (27,20): l’espressione in bocca a tutto il popolo è presente solo in Matteo, «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (27,25), non è formula di automaledizione, ma solo di assunzione di responsabilità giuridica, e nel contesto del racconto, è quanto desiderato da Pilato che si è deresponsabilizzato nei confronti del destino di Gesù (27,24). L’espressione «sopra i nostri figli» è un’amplificazione retorica che non può per nulla significare una maledizione che si deve perpetuare nella storia sul popolo d’Israele: Matteo non è tanto interessato a individuare chi sia più colpevole di fronte alla morte di Gesù, ma a mostrare che Gesù è il solo Giusto.

     Infine, la morte in croce di Gesù è narrata da Matteo in maniera teologica, non cronachistica: i segni teofanici che la accompagnano (27,51-53: terremoto, aprirsi dei sepolcri, resurrezione dei santi morti, loro ingresso nella città santa, ecc.) anticipano ciò che avverrà alla fine del mondo. Così Matteo dice che la morte di Gesù costituisce l’evento culminante e decisivo della storia: è già il compimento della storia. Questo testo, solamente matteano, parla della resurrezione di Gesù al momento stesso della sua morte (27,53), e mostra che la narrazione della passione è rivelazione di un mistero, il mistero della storia di salvezza.

 

Preghiere e racconti 

Come vivere la settimana Santa

La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.

Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare. L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino. Questa scena infatti, che vorrebbe essere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme degli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù. Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.

Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”. Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato. In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».

Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusalemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.

La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore. L’entrata in Gerusalemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo. Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23). Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

Lo splendore della pace

Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l’acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118[117],26; Lc 19,38). I pellegrini vedono in Gesù l’Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”.

Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza.

Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.

(Dalla Omelia di BENEDETTO XVI nella CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 28.03.2010).

Osanna nel più alto dei cieli!

Dopo la risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni, il Signore trovò un asinello che era stato preparato dai discepoli, come racconta l’evangelista Matteo (cfr. Mt 21,1-11), montò su di esso ed entrò in Gerusalemme secondo la profezia di Zaccaria, che aveva predetto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, giunge a te il tuo re, re di giustizia e di salvezza; mite cavalca il piccolo di un’asina» (Zc 9,9). Attraverso queste parole il profeta voleva indicare che Cristo è il re profetizzato, l’unico vero re di Israele. Il tuo re — dice – non mette paura a quelli che lo vedono, non è duro né malvagio, non conduce con sé soldati armati di scudo o guardie del corpo, né una quantità di fanti e di cavalieri, superbo, pronto a riscuotere imposte e tasse, a imporre schiavitù e servitù ignobili e dannose, ma sue insegne, invece, sono l’umiltà, la povertà, la sobrietà. Montato su un asino, infatti, faceva il suo ingresso senza ostentare alcuno sfarzo mondano. Per questo egli è il solo re giusto, che salva nella giustizia, mansueto perché la mansuetudine è l’attributo che più gli è proprio. Ed è lo stesso Signore che dice di sé: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mm,29). Colui dunque che risuscitò Lazzaro dai morti, re montato su un asino, entrava allora in Gerusalemme e subito tutta la gente, bambini, uomini, adulti e vecchi, stesero per terra i loro mantelli e, presi dei rami di palma, simbolo di vittoria, gli andavano incontro come all’autore della vita e al vincitore della morte, gli si prostravano davanti, lo scortavano e non solo all’esterno, ma anche dentro il recinto del tempio, e a una sola voce cantavano: «Osanna al figlio di David! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mt 21,9). «Osanna» è un inno che si eleva a Dio; infatti tradotto significa: «Salvaci, Signore!»; e la parte che segue «nell’alto dei cieli» significa che l’inno è cantato non solo sulla terra, non solo dagli uomini, ma anche nell’alto dei cieli dagli angeli del cielo.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 15, PC 151,184B-185).

La processione e la passione

Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato. […] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra. La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Passio san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”.

Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza.

Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.

(Dalla Omelia di BENEDETTO XVI nella CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 28.03.2010).

Osanna nel più alto dei cieli!

Dopo la risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni, il Signore trovò un asinello che era stato preparato dai discepoli, come racconta l’evangelista Matteo (cfr. Mt 21,1-11), montò su di esso ed entr

V DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Ezechiele 37,12-14

Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio. 

 

I tre versetti del capitolo 37 di Ezechiele, che la liturgia fa leggere oggi danno ad Israele, come segno della restaurazione della terra promessa e del ritorno in essa di tutto il popolo, la risurrezione dei morti. Non si tratta della risurrezione finale, ma del segno della potenza di Dio che ama il suo popolo e, dopo i castighi, gli invia una esaltante promessa di salvezza. «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele» (Ez 37,12). Il Signore si rivolge ad Israele con l’appellativo «popolo mio» ripetuto due volte in due versetti consecutivi.

     Dio ha scelto per sua libera volontà Israele e lo ha fatto proprio; i profeti lo ricordano ad Israele in esilio e sottolineano tutto l’amore paterno che Dio ha per lui. Egli castiga perché Israele si ravveda, ma egli è sempre il Dio misericordioso e consolatore, che ha scelto Sion fin dalla creazione del mondo: «Ti ho nascosto sotto l’ombra delle mie ali, quando ho disteso i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: “Tu sei il mio popolo” (Is 51,16). Dio stesso si incarica di rinnovare dall’interno ogni membro del suo popolo, perché segua i suoi comandi e non incorra più nell’infedeltà: «Darò loro un cuore nuovo ed uno spirito nuovo metterò dentro di loro…perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica, saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio» (Ez 11,20; cf. 14,11; 34,30; 36,28; 37,23.27).

     Anche Geremia insiste sull’appartenenza di Israele a Dio, che si fa carico di riportarlo nella terra che ha promesso ai padri: «Io poserò lo sguardo sopra di loro per il loro bene li ricondurrò in questo paese, li ristabilirò fermamente e non li demolirò; li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore» (Ger 24,6-7).

            Dio è fedele nonostante le infedeltà del popolo e concede la grazia del ravvedimento (in ebraico teshuvà).

Seconda lettura: Romani 8,8-11

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.

Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

 

Paolo nella prima sezione del capitolo 8 della lettera ai Romani presenta la vita nello Spirito che inabita nei cristiani come la vera ed unica vita, contrapposta a quella della carne, che è vita solo apparente, ma in realtà è morte. Egli con «carne», non intende i corpi mortali, ma i vizi e il peccato, che allontanano da Dio, unica fonte di vita. «Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio» (Rm 8,8). «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8,9; cf. 1Cor 3,16; 1Gv 3,24). La caratteristica propria dei cristiani è essere fatti simili a Cristo dallo Spirito. Non appartiene a Cristo chi non ha il suo stesso Spirito, mentre «se uno è in Cristo è una creatura nuova» (2Cor 5,17).

     Paolo di sé dichiara: «Sono stato crocefisso col Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me», e spiega che non si tratta di uscire dalla condizione mortale, ma di vivere nella fede: «Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato ed ha dato se stesso per me». (Gal 2,20; cf. Fil 1.21; Rm 8,2).

     Lo Spirito che risuscitò il Cristo è la caparra della risurrezione dei cristiani diventati mediante lo Spirito figli di Dio a somiglianza del Cristo (Rm 8,11.16).

 

Vangelo: Giovanni 11,1-45

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.

Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

 

Esegesi 

     Il racconto della risurrezione di Lazzaro si può considerare una vera e propria introduzione alla storia della passione, che si concluderà con la risurrezione dello stesso Gesù.

     La narrazione inizia con la presentazione dei protagonisti: Lazzaro, forma grecizzata di El-Azar, Dio presta aiuto, le sorelle Maria e Marta (Gv 12.1-8; Mt 26,6-13; Mc 14,3-9). Maria è presentata come «quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli» (Gv 11,2); il verbo è al passato, ma in realtà il gesto è narrato nel capitolo successivo (Gv 12,1-8; cf. Mt 26,6-13) e ambientato nel festoso banchetto dopo la risurrezione di Lazzaro; il gesto di Maria è da Gesù messo in relazione alla sua sepoltura (Gv 12,7).

     Non bisogna fare confusione fra Maria sorella di Lazzaro e la peccatrice nominata in Lc 10,36ss. Tale identificazione non è conosciuta dai padri prima di Gregorio Magno, ed è smentita dagli esegeti contemporanei.

     Lazzaro si ammala seriamente e le sorelle lo segnalano a Gesù, senza richiedere esplicitamente il suo intervento, come fa la madre di Gesù che segnala la mancanza di vino alle nozze di Cana senza aggiungere altro (Gv 2,3). Va da sé che Gesù, data la familiarità con queste persone, capisce anche quello che esse tacciono per discrezione.

     Gesù commenta la notizia dicendo che non è una malattia per la morte, ma per la gloria di Dio e la glorificazione del Figlio (Gv 11,4; cf. 9,3). Nel Vangelo di Giovanni la glorificazione del Figlio è l’evento pasquale (cf. Gv 3,14:8,28; 12,16-23; 13,31-32; 17,5) e la risurrezione di Lazzaro ne è un’anticipazione.

     Gesù si trattiene ancora due giorni nel luogo dove si trovava. Poi con grande risolutezza invita i discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!» (Gv 11,7). Egli sa che là si deve compiere la sua missione e con coraggio la vuole portare a termine. Anche Luca ci presenta un Gesù risoluto mentre intraprende il suo ultimo viaggio a Gerusalemme, è un Gesù che «indurisce la sua faccia», vale a dire richiama tutto il suo coraggio, prima di affrontare con decisione il cammino verso la passione (cf. Lc 9,51).

     I discepoli, appena Gesù ha espresso la volontà di andare in Giudea, gli ricordano timorosi che là era stato minacciato di morte (Gv 11,8). Gesù risponde con una parabola (Gv 11, 9-10) per rinfrancare i discepoli, che restano tuttavia tentennanti e, appena Gesù dice che Lazzaro si è addormentato ed egli vuole andare a riscuoterlo dal sonno, non vogliono capire e avanzano l’obiezione che se si è addormentato guarirà. Essi vogliono dissuadere Gesù dall’andare in Giudea e non colgono il secondo senso delle parole di Gesù, che si riferisce al sonno della morte. Allora Gesù dichiara apertamente che Lazzaro è morto ed è un bene che egli non era presente, perché ora essi avranno maggiore fede in lui. Poi rinnova l’invito a partire alla volta della Giudea. Fra i discepoli timorosi si distingue Tommaso (chiamato Didimo, che significa gemello) che, risoluto esorta i suoi compagni a condividere la stessa sorte di Gesù (Gv 11,16).

     All’arrivo di Gesù a Betania Lazzaro è sepolto da quattro giorni (Gv 11,18) e molte persone si sono radunate in casa di Marta e Maria per partecipare al loro lutto (Gv 11,19).

     Marta appena sente dell’arrivo di Gesù gli va subito incontro, mentre Maria rimane in casa (Gv 11,20). Questo particolare fa venire in mente l’episodio narrato da Luca 10,38-42; probabilmente entrambi gli evangelisti avevano dei ricordi molto vivi della stessa famiglia e in particolare delle due sorelle.

     La conversazione di Gesù con Marta introduce le motivazioni teologiche della rivelazione di Gesù che si presenta come «risurrezione e vita». Infatti la professione di fede di Marta nella risurrezione finale (Gv 11,24, cf. Dn 12,1-3; 2Mac 7,22-24,12,44) viene attualizzata da Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). È una ripresa più esplicitamente riferita alla sua persona di quanto aveva già detto: «In verità in verità vi dico: viene l’ora ed è ora in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l’avranno ascoltata vivranno» (Gv 5,25).

     Alla domanda di Gesù «Credi questo?». Marta risponde con la bellissima professione di fede simile a quella di Simon Pietro: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo » (Gv 11,27, cf. Mt 16,16).

     Marta allora va a chiamare Maria che esce in fretta anche lei per incontrarlo. La seguono i suoi ospiti, che credono che sia uscita per andare al sepolcro (Gv 11, 28-31).

     Gesù al vedere Maria e gli altri piangere è turbato (tarasso) e piange (dakryo) (Gv 11,33.35). Il pianto e il turbamento di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro anticipano il turbamento di fronte alla propria morte: «ora la mia anima è turbata (tarasso) e che devo dire … padre salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono venuto a quest’ora» (Gv 12,27).

     Al sepolcro c’è un’altra conversazione con Marta che obietta alla richiesta di Gesù di aprire il sepolcro; ella non ha ancora capito fino in fondo le parole di Gesù.

     Appena tolta la pietra Gesù innalza con la piena fiducia di essere esaudito una preghiera di ringraziamento al Padre e lo fa a voce alta, perché gli astanti odano e credano, poi a «gran voce» esclama: «Lazzaro vieni fuori!» e Lazzaro ubbidisce (Gv 11,41-44).

Meditazione 

      Il passaggio dalla morte alla vita, centro del messaggio di questa domenica, prelude, soprattutto con l’episodio della resurrezione di Lazzaro, all’evento pasquale la cui celebrazione si fa sempre più vicina. La resurrezione appare come evento storico: la morte in cui giacciono i figli d’Israele è la situazione di esilio a Babilonia da cui essi risorgeranno ritornando in terra d’Israele (I lettura); appare come evento spirituale che caratterizza il credente che, lasciandosi guidare dallo Spirito di Dio, passa dalla vita nella carne, cioè nell’egoismo e nel peccato, alla vita in Cristo (II lettura); appare come evento personale e corporeo che conduce Lazzaro a uscire dalla tomba all’udire la parola di Gesù (vangelo). I testi sottolineano anche tre dimensioni della morte: se solo la morte di Lazzaro è fisica, la morte spirituale di chi vive nella chiusura egocentrica e la morte simbolica del popolo deportato non sono meno drammatiche e reali.

     La morte comunitaria di cui parla Ezechiele è situazione di morte della speranza: «La nostra speranza è svanita, siamo perduti» (Ez 37,11). Anche noi, nelle vicende relazionali (un’amicizia, un amore, un matrimonio), comunitarie ed ecclesiali che viviamo, possiamo sperimentare la morte della speranza, l’assenza di futuro. Tuttavia, la nascita della fede nella resurrezione e della speranza pasquale avviene attraverso la morte di altre speranze. Lo Spirito creatore è anche lo Spirito che dona vita e suscita speranza là dove regna la morte.

     Per Paolo l’uomo che vive «nella carne», nell’autosufficienza egoistica, fa del proprio cuore la propria tomba e si trova nella morte spirituale. Ma lo Spirito di resurrezione che forza l’impenetrabilità della morte e fa uscire dai sepolcri, può penetrare le chiusure individualistiche e, ponendo la dimora nel cuore umano e inabitando in esso, può immettere l’uomo in una vita nuova.

     Il brano evangelico è una pedagogia verso la fede in Cristo che è la resurrezione e la vita. Il dialogo tra Gesù e Marta è incentrato sul credere: «Chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,25); «Credi questo?» (11,26); «Sì, o Signore, io credo» (11,27). Di fronte all’insicurezza e alla precarietà che la prospettiva della morte ingenera nelle nostre vite («a causa della morte, noi, gli uomini, siamo come città senza mura»: Epicuro), noi siamo tentati di costruirci baluardi, difese e barriere che ci proteggano da essa. Siamo indotti dalla paura a un atteggiamento difensivo. E così facciamo anche della vita una morte, una schiavitù («gli uomini sono schiavi per tutta la vita a causa della paura della morte»: Eb 2,15): cercando di difenderci dalla morte, in realtà ci allontaniamo dalla vita. Gesù, invece, chiedendo fede, affidamento, chiede di entrare nel suo atteggiamento di fronte alla morte («Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato»: Gv 11,42), atteggiamento che, mentre assume la morte e soffre per colui che è morto, fa anche della morte una vita, vivifica la morte. La fede è il luogo della resurrezione. La fede di Gesù è dunque un magistero perché noi impariamo a credere: «L’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano» (Gv 11,42). Proclama un’omelia dello Pseudo Ippolito: «Avendo tu visto l’opera divina del Signore Gesù, non dubitare più della resurrezione! Lazzaro sia per te come uno specchio: contemplando te stesso in lui, credi nel risveglio».

     Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore ne è la forza: Gesù amava molto Lazzaro (11,5) e questo amore si fece visibile nel suo pianto dirotto (11,35-36). L’amore integra la morte nella vita e trova il senso di quest’ultima nel dono: dare la vita diviene un dare vita. Aver fede in Gesù che è resurrezione e vita significa fare dell’amore un luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita.

     La fede e l’amore si manifestano nella parola con cui Gesù resuscita Lazzaro: lo scandalo e la follia di chiamare chi è morto e giace nel sepolcro è possibile grazie alla fede nel Dio che resuscita i morti e all’amore, all’umanissimo amore che legava Gesù a Lazzaro. La potenza di resurrezione della parola di Gesù è tutta nella fede e nell’amore che la abitano.

Preghiere e racconti 

L’amico dietro la pietra

Forse nel libro del Padre questo miracolo non era scritto. Egli non era stato mandato sulla terra per gli amici: i malati che guarisce, i morti che risuscita sono estranei; gente mai vista o quasi, lebbrosi dal volto irriconoscibile, salme ignote entro bare già coperte. Ai suoi non può regalar molto, al più un paio d’idre di vino, il carico di due barche da pesca. A se stesso nulla può regalare: forse per questo è bello pensare ch’egli abbia indugiato quei giorni sul Giordano.

«Io sono anche un uomo, Padre, e Lazzaro mi è più caro d’ogni altra cosa perché egli è il mio amico, la poca dolcezza di questo viaggio amaro che tu hai voluto. Se io corro a Betania, tu, lo so, darai potenza alle mie mani e lui sorgerà dal sepolcro, ma quel miracolo io lo farei per me solo, per queste poche giornate che mi rimangono, giacché la morte è troppo fredda senza un fuoco presso cui aspettarla. Scrivi quest’altro miracolo nel tuo libro, ma fa’ che a te, non a me io lo doni: quell’uomo che io amo rendimelo sconosciuto, cancella dalla mia memoria le dolci sere, fallo uguale a tutti questi altri di cui non so il nome, che non mi sono amici, ma solamente fratelli».

Il Padre ha risposto di sì, perché lui e il Padre sono una cosa sola. Dunque Lazzaro risorgerà. C’è solo questa remora di scostare la pietra, qualche istante appena e poi Marta e Maria risusciteranno anche loro alla gioia, quando quel fantoccio stecchito tornerà a essere il fratello e le sue braccia appena slegate dalle bende stringeranno contro il petto le loro teste indolenzite di pianto. Perché piange, allora? Signore, noi siamo felici, Lazzaro già respira sotto il sudario, era vero come tu dicevi, egli era solo assopito… 

(Luigi Santucci)

Quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo

«Il Signore aveva resuscitato la figlia del capo della sinagoga, Giairo, ma quando era morta da poco (cfr. Mc 5,21-43). […] Aveva resuscitato anche il figlio unico di una vedova, ma fermando il corteo funebre, prima che fosse sepolto, in modo da evitare la corruzione e prevenire il fetore, per restituire la vita al morto prima che fosse interamente caduto in potere della morte (cfr. Lc 7,11-17). Ma per ciò che riguarda Lazzaro tutto quello che accade è eccezionale; la sua morte e la sua risurrezione non hanno niente in comune con le altre di cui si è detto. Qui è dispiegata tutta la potenza della morte ed è manifestato tutto lo splendore della risurrezione. Oso dire che Lazzaro avrebbe sottratto tutto il mistero della resurrezione del Signore se fosse ritornato dagli inferi il terzo giorno, poiché Cristo ritornò il terzo giorno come Signore, Lazzaro è richiamato alla vita il quarto giorno come servo. Ma per provare quanto abbiamo detto, soffermiamoci su alcuni passaggi della lettura. Le sue sorelle andarono a dire al Signore: “Signore, colui che tu ami è malato” (Gv 11,3). Con queste parole toccano i suoi affetti, fanno appello all’amore, smuovono la carità, cercano di superare il tragico momento con l’amicizia. Ma Cristo al quale interessa di più vincere la morte che allontanare la malattia, per il quale amare non è far uscire dal letto, ma ricondurre dagli inferi, preparò per l’amato non una medicina per la sua malattia, ma la gloria della risurrezione. Quando seppe che Lazzaro era malato, rimase due giorni nello stesso luogo (Gv 11,6). Vedete come lascia campo libero alla morte, concede opportunità alla morte, permette che avvenga la decomposizione, non ostacola ne la putrefazione ne il fetore. Accetta che gli inferi si impadroniscano di Lazzaro, che lo trascinino a sé, che l’abbiano prigioniero; agisce in modo tale che tutta la speranza umana sia perduta e che tutta la violenza della disperazione terrena si scateni perché ciò che opera è divino e non umano. Resta nel medesimo luogo ad aspettare la morte di Lazzaro fino a che egli stesso possa annunciarla e dichiarare che andrà da lui. Dice infatti: Lazzaro è morto e io ne gioisco (Gv 11,14). È questo l’amore? Cristo gioiva perché la tristezza della morte si sarebbe trasformata ben presto nella gioia della resurrezione. E io ne gioisco per voi: perché per voi? Perché nella morte e nella risurrezione di Lazzaro era rappresentata in figura la morte e la risurrezione del Signore e quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo […] Era necessaria la morte di Lazzaro, affinché la fede dei discepoli, sepolta con Lazzaro, resuscitasse con lui».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorsi 63, CCL 24 A, pp. 373-376). 

Desiderio di eternità

Mancano solo due settimane alla Pasqua, e le Letture bibliche di questa domenica parlano tutte della risurrezione. Non ancora di quella di Gesù, che irromperà come una novità assoluta, ma della nostra risurrezione, quella a cui noi aspiriamo e che proprio Cristo ci ha donato, risorgendo dai morti. In effetti, la morte rappresenta per noi come un muro che ci impedisce di vedere oltre; eppure il nostro cuore si protende al di là di questo muro, e anche se non possiamo conoscere quello che esso nasconde, tuttavia lo pensiamo, lo immaginiamo, esprimendo con simboli il nostro desiderio di eternità.

Al popolo ebraico, in esilio lontano dalla terra d’Israele, il profeta Ezechiele annuncia che Dio aprirà i sepolcri dei deportati e li farà ritornare nella loro terra, per riposarvi in pace (cfr Ez 37,12-14). Questa aspirazione ancestrale dell’uomo ad essere sepolto insieme con i suoi padri è anelito ad una “patria” che lo accolga al termine delle fatiche terrene. Questa concezione non contiene ancora l’idea di una risurrezione personale dalla morte, che compare solo verso la fine dell’Antico Testamento, e ancora al tempo di Gesù non era accolta da tutti i Giudei. Del resto, anche tra i cristiani, la fede nella risurrezione e nella vita eterna si accompagna non raramente a tanti dubbi, a tanta confusione, perché si tratta pur sempre di una realtà che oltrepassa i limiti della nostra ragione, e richiede un atto di fede. Nel Vangelo di oggi – la risurrezione di Lazzaro – noi ascoltiamo la voce della fede dalla bocca di Marta, la sorella di Lazzaro. A Gesù che le dice: “Tuo fratello risorgerà”, ella risponde: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno” (Gv 11,23-24). Ma Gesù replica: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25-26). Ecco la vera novità, che irrompe e supera ogni barriera! Cristo abbatte il muro della morte, in Lui abita tutta la pienezza di Dio, che è vita, vita eterna. Per questo la morte non ha avuto potere su di Lui; e la risurrezione di Lazzaro è segno del suo pieno dominio sulla morte fisica, che davanti a Dio è come un sonno (cfr Gv 11,11).Ma c’è un’altra morte, che è costata a Cristo la più dura lotta, addirittura il prezzo della croce: è la morte spirituale, il peccato, che minaccia di rovinare l’esistenza di ogni uomo. Per vincere questa morte Cristo è morto, e la sua Risurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma l’apertura di una realtà nuova, una “nuova terra”, finalmente ricongiunta con il Cielo di Dio. Per questo san Paolo scrive: “Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11). Cari fratelli, rivolgiamoci alla Vergine Maria, che già partecipa di questa Risurrezione, perché ci aiuti a dire con fede: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Gv 11,27), a scoprire veramente che Lui è la nostra salvezza.

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 10-04-2011).

La vita eterna – che cos’è?

     «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.

Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –  questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

     È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva  parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».

(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca)

Io sono la risurrezione

Trovare una nuova vita attraverso la sofferenza e la morte: è questo il cuore della buona notizia. Gesù ha vissuto questa via di liberazione prima di noi e ne ha fatto il grande segno. Gli esseri umani hanno sempre la smania di vedere segni: eventi meravigliosi, straordinari, sensazionali che li possano distrarre un poco dalla dura realtà… Ci piacerebbe vedere qualcosa di meraviglioso, di eccezionale, che interrompa la vita ordinaria di tutti i giorni. In questo modo, anche se per un solo momento, possiamo giocare a nascondino. Ma a coloro che dicono: «Signore… vorremmo che tu ci facessi vedere un segno», Gesù risponde: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Da tutto questo, si può vedere quale sia il segno autentico: non un miracolo sensazionale ma la sofferenza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù. Il grande segno, che può essere compreso solo da coloro che sono disposti a seguire Gesù, è il segno di Giona, il quale volle anche lui fuggire dalla realtà, ma fu richiamato indietro da Dio perché adempisse il suo arduo compito fino in fondo. Guardare la sofferenza e la morte dritto in faccia e attraversarle con la speranza di una nuova vita data da Dio: è questo il segno di Gesù e di ogni essere umano che desidera vivere una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: il segno della sofferenza e della morte, ma anche della speranza di un totale rinnovamento.

(H.J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 117).

L’amore di Dio è più forte della morte

Anche se Gesù ha contrastato direttamente l’inclinazione umana a evitare la sofferenza e la morte, i suoi discepoli si resero conto che era meglio vivere la verità con occhi aperti che non vivere la loro vita nell’illusione.

La sofferenza e la morte appartengono alla via stretta di Gesù. Gesù non le glorifica, né le dichiara belle, buone o qualcosa da desiderare. Gesù non chiama all’eroismo o al sacrificio suicida. No, Gesù ci invita a guardare la realtà della nostra esistenza, e ci rivela che questa dura realtà è la strada da percorrere per arrivare a una nuova vita. Il nucleo del messaggio di Gesù è che la gioia e la pace non si possono mai raggiungere aggirando la sofferenza e la morte, ma soltanto affrontandole con coraggio.

Potremmo dire che in realtà, non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Chi, infatti, sfugge alla sofferenza e alla morte? Eppure c’è ancora una scelta.

Possiamo negare la realtà della vita, o possiamo affrontarla. Se la affrontiamo non da disperati, ma con gli occhi di Gesù, scopriamo che dove meno ce l’aspettiamo, è nascosto qualcosa che sostiene una promessa più forte della morte stessa. Gesù ha vissuto la sua vita con la sicurezza che l’amore di Dio è più forte della morte e che la morte non ha, quindi, l’ultima parola. Egli ci invita ad affrontare la realtà dolorosa della nostra esistenza con la stessa fiducia. La Quaresima è soprattutto questo.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 118).

 

Ezechiele 37, 12-14; Romani 8, 8-11; Giovanni 11, 1-45

La risurrezione del cuore

Le storie del Vangelo non sono scritte solo per essere lette, ma anche per essere rivissute. La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci questo: c’è una risurrezione del corpo e c’è una risurrezione del cuore; se la risurrezione del corpo avverrà “nell’ultimo giorno”, quella del cuore avviene, o può avvenire, ogni giorno.

Questo è il significato della risurrezione di Lazzaro che la liturgia ha voluto evidenziare con la scelta della prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride. Il profeta ha una visione: vede un’immensa distesa di ossa rinsecchite e capisce che esse rappresentano il morale del popolo che è a terra. La gente va dicendo: “La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Ad essi è rivolta la promessa di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe…Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. Anche in questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione attuale dei cuori alla speranza. Quei cadaveri, si dice, si rianimarono, si misero in piedi ed erano “un esercito grande, sterminato”. Era il popolo d’Israele che tornava a sperare dopo l’esilio.

Da tutto questo deduciamo una cosa che conosciamo anche per esperienza: che si può essere morti, anche prima di…morire, mentre siamo ancora in questa vita. E non parlo solo della morte dell’anima a causa del peccato; parlo anche di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.

A tutti quelli che per le ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento del coniuge, traviamento o malattia di un figlio, rovesci finanziari, crisi depressive, incapacità di uscire dall’alcolismo, dalla droga) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe arrivare come il suono di campane il mattino di Pasqua.

Chi può darci questa risurrezione del cuore? Per certi mali, sappiamo bene che non c’è rimedio umano che tenga. Le parole di incoraggiamento lasciano il terreno che trovano. Anche in casa di Marta e Maria c’erano dei “giudei venuti per consolarle”, ma la loro presenza non aveva cambiato nulla. Bisogna “mandare a chiamare Gesù”, come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone sepolte sotto una valanga o sotto le macerie di un terremoto che richiamano con i loro gemiti l’attenzione dei soccorritori.

Spesso le persone che si trovano in questa situazione non sono in grado di fare niente, neppure di pregare. Sono come Lazzaro nella tomba. Bisogna che altri facciano qualcosa per loro. Sulla bocca di Gesù troviamo una volta questo comando rivolto ai suoi discepoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti” (Mt 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo risuscitare fisicamente dei morti? Se fosse così, nella storia si contano sulle dita i santi che hanno messo in pratica quel comando di Gesù. No, Gesù intendeva anche e soprattutto i morti nel cuore, i morti spirituali. Parlando del figliol prodigo, il padre dice: “Egli era morto ed è tornato in vita” (Lc 15, 32). E non si trattava certo di morte fisica, se era tornato a casa.

Quel comando: “Risuscitate i morti” è rivolto dunque a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi! Tra le opere di misericordia che abbiamo imparato da bambini, ce n’era che diceva: “seppellire i morti”; adesso sappiamo che c’è anche quella di “risuscitare i morti”.

Preghiera

Tu hai parole di vita eterna,

tu sei cibo e bevanda,

tu sei la via, la verità e la vita.

Sei la luce che splende nelle tenebre,

la lampada sul candelabro, la casa sul monte.

Sei la perfetta icona di Dio.

Io grazie a te posso vedere il Padre celeste,

e con te posso trovare la strada per giungere a lui.

Sii il mio Signore, il mio Salvatore, il mio Redentore.

la mia Guida, il mio Consolatore, il mio Conforto,

la mia Speranza, la mia Gioia, la mia Pace.

A te voglio dare tutto ciò che sono.

Fa’ che io ti dia tutto,

tutto ciò che ho, penso, faccio e sento.

È tutto tuo, o Signore.

Ti prego, accettalo e rendilo completamento tuo.

Amen.   

 

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609.
© Su concessione della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali e Identità siciliana – Dipartimento Beni Culturali e Identità siciliana – Museo interdisciplinare regionale di Messina.

«Per la sua fede nel sole ‒ afferma san Giustino Martire ‒ non si è mai visto nessuno pronto a morire».
Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, “i cui raggi donano la vita”. A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta».
È quanto scrive papa Francesco all’inizio dell’enciclica Lumen fidei. Così come Gesù rispondendo a Tommaso dirà di sé: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), anche nel dialogo con Marta, la sorella di Lazzaro di Betania, afferma: «Io sono la risurrezione e la vita […] chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26). Gesù, infatti, è il Verbo nel quale «era la vita» (Gv 1,4), venuto nel mondo perché coloro che credono in  lui abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf. Gv 10,10). S. Agostino, riprendendo il testo giovanneo: «Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26), si chiede: «Che vuol dire questo? “Chi crede in me, anche se è morto” come è morto Lazzaro, “vivrà”, perché egli non è Dio dei morti ma dei viventi. Così rispose ai Giudei, riferendosi ai patriarchi morti da tanto tempo, cioè ad Abramo, Isacco e Giacobbe: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe; non sono Dio dei morti ma dei viventi: essi infatti sono tutti vivi (Mt 22,32; Lc 20,37-38). Credi dunque, e anche se sei morto, vivrai; se non credi, sei morto anche se vivi» (Commento al Vangelo di Giovanni 49). È proprio il dono della vita che Gesù partecipa all’amico Lazzaro che si era addormentato e che Egli era venuto a svegliare (cf. Gv 11,11).
Caravaggio ha tradotto in pittura l’episodio evangelico dipingendo a Messina, tra il 1608 e il 1609, una tela di notevoli dimensioni destinata alla Chiesa dei Padri Crociferi.
La scena è animata e mossa da un grande stupore che esprimono tutti i personaggi nell’istante in cui il corpo irrigidito di Lazzaro riprende vita, risvegliandosi dal sonno profondo della morte.
 
Il suo corpo nudo, liberato dalle bende, semicoperto da un lenzuolo, teso in forma di croce, è raggiunto dalla luce soprannaturale che si riflette anche sui volti smarriti dei personaggi che affollano il dipinto. All’estremità sinistra della tela è posta la figura solenne e composta di Gesù con il braccio destro alzato mentre la sua mano è rivolta verso il morto il quale ha già udito le parole: «Vieni fuori!» (Gv 11,43). Sciolto dalle bende e liberato dal sudario, Lazzaro riprende vita. Il suo capo è amorevolmente sostenuto dalle sorelle Maria e Marta. Quest’ultima aveva detto a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora io so che qualunque cosa chiederai a Dio, Egli te la concederà» (Gv 11,21-22). Adesso vede realizzato il suo desiderio e il suo atto di fede in Cristo, vita e risurrezione, trova risposta. Il tutto si consuma in una scenografia che si materializza in un ampio sfondo scuro che sembra incombere sulle figure disposte lungo uno stesso piano, uno spazio vuoto e impenetrabile che viene come squarciato dalla luce divina.
Caravaggio organizza la scena in modo teatrale. La proporzione tra le figure e l’altezza della tela aumenta la percezione del sacro e del mistero che avvolge e sconvolge gli uomini quasi sopraffatti dalla sua rivelazione. Il gioco di luce e di ombra sottolinea ancora di più l’evento pasquale che si sta compiendo quale anticipo dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù avrebbe realizzato da lì a breve a Gerusalemme. Ormai la morte, di cui anche le ossa e il teschio posti in primo piano, è stata sconfitta e fa spazio alla vita.
Nell’uomo raffigurato con le mani giunte e posto dietro l’indice di Cristo, rivolto proprio verso la fonte di luce, quasi alla ricerca della grazia, molti hanno letto l’autoritratto dello stesso Caravaggio. Nel suo volto smarrito ogni uomo che ricerca la verità può riconoscere se stesso.
Ogni credente, infatti, è chiamato ad abbandonare le tenebre della morte e del peccato per lasciarsi raggiungere dalla luce vivificante di Cristo.

 

l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

 

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA V DOMENICA DI QUARESIMA (A)