VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 8,5-8.14-17

In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città.

Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

 

Lo Spirito Santo, di fatto, ci viene presentato come frutto della fede nell’annuncio evangelico in Samaria, ad opera del diacono Filippo secondo il racconto degli Atti.

     È un episodio molto importante, questo, perché ci fa vedere come il Vangelo sia destinato a tutti i popoli. Fin qui S. Luca ci aveva narrato qualcosa della diffusione del Vangelo in mezzo agli Ebrei: un passaggio intermedio è rappresentato dalla predicazione di Filippo ai Samaritani che, pur essendo divisi, avevano qualcosa in comune con gli Ebrei; più tardi avverrà il lancio missionario anche ai pagani, ad opera soprattutto di Paolo.

     Proprio per la novità del gesto compiuto dal diacono Filippo, che poteva comportare anche la nascita di certi problemi, avendo saputo la cosa, gli Apostoli da Gerusalemme «inviarono a loro Pietro e Giovanni» (At 8,14) per verificare la situazione e anche per completare l’opera dello stesso Filippo. Ed è precisamente a questo punto che si parla di una particolare discesa dello Spirito sopra quei primi credenti samaritani. Infatti i due Apostoli «pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (14,15-17).

     Dato che si dice che quei cristiani erano già stati «battezzati nel nome di Gesù», si dovrebbe pensare che il rito che compiono gli Apostoli con la loro preghiera e la «imposizione delle mani» sia qualcosa di corrispondente al sacramento della Cresima che, come sappiamo, è una specie di completamento, di «confermazione» vera e propria del Battesimo. Comunque, quello che è importante è la discesa dello Spirito sopra quei nuovi credenti, quasi a dire che si diventa cristiani solo con la «sigillazione» dello Spirito, che diventa così come l’anima che da forza e vitalità a chiunque crede in Cristo.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 3,15-18

Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

 

Se lo Spirito è come il «completatore» della salvezza, che guida i cristiani dall’interno, non si deve dimenticare però che egli è sempre «lo Spirito di Cristo», che è stato inviato proprio per completare la sua opera di salvezza. Perciò, come ci insegna il testo della lettera di Pietro, al centro rimane sempre Cristo che «è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito» (3,18). Dovremmo essere qui davanti ad una antica professione di fede, che ci rimanda al mistero pasquale: morte espiatrice di Cristo, «giusto» e innocente, e sua risurrezione dai morti, «per ricondurvi» al Padre.

     Tutto questo è grandioso, ma anche paradossale e difficile a credere.

È per questo che i cristiani debbono non solo essere convinti della loro fede, ma anche capaci di comunicarla agli altri, «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (v. 15). E tutto questo non con arroganza o senso di superiorità, ma «con dolcezza e rispetto», dimostrando con la propria «condotta» la forza trasformatrice del Vangelo (vv. 15-16). Questo potrà costare anche contraddizioni e sof-ferenza: ma è ancora il Vangelo che ci insegna che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (v. 17).

 

Vangelo: Giovanni 14,15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

 

Esegesi 

   Il brano che stiamo commentando fa parte del più lungo «discorso d’addio», che Gesù rivolge ai suoi discepoli mentre sta per avviarsi, dal luogo dell’ultima cena, all’orto dell’agonia.

     Sono parole di consolazione quelle che egli rivolge loro per predisporli agli eventi drammatici che seguiranno, e di cui essi non hanno piena consapevolezza: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio ed abbiate fede in me» (14,1). Ma sono anche parole «testamentarie», che esprimono le sue «volontà» circa i loro atteggiamenti futuri, il loro modo di rapportarsi a lui che, pur avviandosi alla morte, continuerà ad essere presente in mezzo a loro come il Risorto, «donatore» addirittura del suo «Spirito» di santità.

     Perciò la prima richiesta che egli fa agli apostoli, per continuare a tenere viva la sua memoria oltre la morte e dare testimonianza della sua risurrezione, è quella di vivere «nell’amore». E proprio sul tema dell’amore si apre e si chiude il brano di Vangelo oggi proposto alla nostra attenzione: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (14,15.21).

     Come si vede, l’amore di cui si parla è un amore a doppio senso, anzi triplice: è l’amore dei discepoli verso Cristo, anche dopo la sua morte! Anzi soprattutto dopo la sua morte, perché egli ritornerà a vita; e quella sarà una «vita» in gloria e in potenza: « Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (14,19). Proprio per questo l’amore dovrà essere più forte!

     A questo amore dei discepoli risponde dall’alto un duplice amore: ovviamente da parte di Cristo, che quei discepoli si è «scelti» lui stesso e non può non amarli; ma anche quello del Padre che ama tutto quello che ama il Figlio. Perciò siamo davanti a un amore infinito che avvolge il discepolo di Cristo!

     Però da lui si esige, come controparte, che dimostri il suo amore osservandone i «comandamenti»: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» (v. 21). Può anche sembrare strano che in un discorso di «amore» si parli di «comandamenti» (in greco entolài): ma non lo è se si pensa, come interpretano non pochi esegeti, che con questa espressione Gesù rimanda in modo particolare ai «due comandamenti» che sono come la «sintesi» del suo insegnamento, e cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Basti qui ricordare quello che Gesù dirà tra non molto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato» (15,12). Davanti all’amore immenso di Cristo si impone, di per sé, una «libera» volontà di risposta amorosa.

     E questo tanto più che, proprio in tale contesto, Gesù promette ai suoi di inviare lo Spirito Santo, che il testo greco chiama «Paraclito» (paràklētos), termine greco che può significare sia «consolatore» che «avvocato»: probabilmente l’Evangelista intende le due cose insieme.

     Comunque, di lui qui si enunciano due caratteristiche, come risulta dal testo: «io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» (14,16-17). La prima è che lo Spirito è dato per «rimanere sempre con noi»: dunque non ci abbandonerà mai. Addirittura si dice che sarà «in noi» (v. 17): si parla dunque di una «inabitazione» dentro di noi, di modo che sia lui ad agire in noi e per mezzo di noi. In tal modo è chiaro che egli, il quale è il frutto dell’amore del Padre e del Figlio, ci darà la capacità di riamare Dio ed i fratelli, attuando così quel «comandamento» dell’amore di cui ci ha parlato Gesù.

     La seconda caratteristica è che egli è lo «Spirito della verità» (v. 17), che ci guiderà «alla verità tutta intera» (16.13). Ma la «verità» di cui qui si parla non è qualcosa di astratto, di puramente concettuale o cognitivo, quanto piuttosto la «rivelazione» che Dio ha fatto di se stesso donandoci il Cristo, che è afferrabile solo attraverso la fede: è per questo che «il mondo» incredulo non può né «riceverlo», né «conoscerlo». Solo mediante la fede in Cristo si ha accesso alla salvezza.

 

Meditazione 

     Prima di passare da questo mondo al Padre, Gesù promette ai suoi discepoli il dono dello Spirito, del Paraclito, ovvero dell’avvocato difensore che proteggerà i discepoli stessi nella lotta che dovranno sostenere in un mondo ostile (vangelo); questo Spirito guida la presenza cristiana nel mondo sulla via della mitezza e del rispetto degli «altri», i non credenti (II lettura) ed accompagna la predicazione degli apostoli che da vita a nuove comunità cristiane (I lettura).

    Dall’evento pasquale sgorga la speranza come responsabilità dei cristiani. Di essa i cristiani devono essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). «Sempre», dunque in ogni ambito e momento della vita; «a chiunque», dunque non a qualcuno sì e ad altri no, ma a tutti. Inoltre di essa i cristiani devono «rispondere», cioè divenire responsabili: è la testimonianza che solo loro possono dare al mondo. Chi chiede conto della speranza, ne chiede anche un racconto: nella storia i cristiani si collocano come narratori di speranza. Prima ancora che in rapporto agli uomini, la speranza è responsabilità del cristiano in rapporto a Dio, è risposta a Colui che l’ha chiamato alla fede e alla speranza: la «speranza della vocazione» (Ef 1,18) è la speranza dischiusa dalla chiamata divina in Cristo Gesù. La speranza cristiana come responsabilità si situa pertanto tra chiamata di Dio e domanda degli uomini: è responsabilità unica e duplice al tempo stesso, come il comando di amare Dio e il prossimo è duplice e unico al tempo stesso (Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28).

    La nascita della Chiesa in Samaria procede dall’annuncio di Cristo («Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo»: At 8,5) e dalla discesa dello Spirito («Pietro e Giovanni …. imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo»: At 8,17). Il rapporto di collaborazione e fiducia tra Chiesa madre di Gerusalemme (At 8,14) e la nascente comunità in Samaria dice come la parola del vangelo e lo Spirito santo superano le barriere culturali e le separazioni etniche, le divisioni religiose e gli odi atavici: tra Giudei e Samaritani, infatti, non intercorrevano rapporti (Gv 4,9) a seguito di una storia ormai antica che protraeva nel tempo i suoi strascichi di incomunicabilità. I frutti della resurrezione si misurano anche in questa capacità di superare le rivalità antecedenti trovando unità e comunione in Cristo.

    Il vangelo presenta la promessa del dono dello Spirito da parte di Gesù, ma anche la promessa della sua venuta: «Ritornerò da voi» (lett: «verrò da voi»: Gv 14,18). La preghiera cristiana, che sempre avviene nello Spirito e in Cristo, sarà anche sempre invocazione dello Spirito, epiclesi, e invocazione della venuta gloriosa del Signore, Maranà tha. Ovvero, avrà sempre una connotazione escatologica determinante. Il Cristo, inoltre, promette anche la sua intercessione, la sua preghiera al Padre per i discepoli ( «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito»: Gv 14,16) e questa preghiera di Gesù è lo spazio al cui interno avviene ogni preghiera cristiana.

    Lo Spirito che Gesù promette sarà nel discepolo (Gv 14,17) diventando principio di vita interiore e interiorizzando in lui la presenza di Cristo. La sequenza di Pentecoste canta lo Spirito quale dulcis hospes animae (e anche consolator optime, dulce refrigerium). La dolcezza e la tenerezza che furono del Cristo, sono anche dello Spirito che spesso nella tradizione è stato evocato con immagini materne: «Lo Spirito è il seno in cui Dio è fecondo come una madre» (Francois-Xavier Durrwell). L’azione dello Spirito nel credente è quella di creare in lui una sorgente di vita per gli altri, anzi, di fare di lui uno spazio di vita per gli altri, capace di generare e dare vita. Lo Spirito, che è promessa e dono del Risorto, è anche tenerezza materna. E se esso insegna al cristiano a pregare, lo fa proprio come una madre: «Lo Spirito santo ci insegna a gridare “Abbà” comportandosi come una madre che insegna al proprio figlio a chiamare “papà” e ripete tale nome con lui finché lo porta alla consuetudine di chiamare il papa anche nel sonno» (Diadoco di Fotica).

 

Preghiere e racconti

Il Verbo sposo

Il Verbo sposo, che è entrato in me più di una volta, non mi ha mai dato alcun segno della sua irruzione, ne mediante la voce, ne mediante un’immagine visibile, ne mediante un qualsiasi altro approccio sensibile. Nessun movimento da parte sua mi ha segnalato la sua venuta, nessuna sensazione mi ha mai avvertito che egli si fosse insinuato nei miei recessi interiori. Mi sono accorto della sua presenza da certi movimenti del mio cuore: la fuga dai vizi e la repressione delle mie voglie carnali mi hanno mostrato la potenza della sua virtù.

(Bernardo, Sermone sul Cantico dei cantici, 74,6)

«Ritornerò da voi» (Gv 14,3)

«Si può essere indotti a spiegare l’affermazione in questo modo: «Egli è ritornato, ma nel suo Spirito» cioè al suo posto è venuto il suo Spirito e la sua affermazione che egli è in mezzo con noi significherebbe allora semplicemente che il suo Spirito è in mezzo a noi. Certo, nessuno può negare questa verità così bella e consolante della venuta dello Spirito Santo. Ma perché è venuto? Per supplire all’assenza di Cristo o piuttosto per perfezionare la sua presenza? Incontestabilmente per renderlo presente. Lo Spirito di Dio non è venuto perché il Cristo non venga, ma viene piuttosto in modo tale che il Cristo possa venire nella sua venuta. Attraverso lo Spinto Santo noi siamo in comunione con il Padre e il Figlio. Lo Spirito Santo causa, provoca la fede, l’abitazione di Cristo nel cuore. Cosi io lo Spirito non prende il posto di Cristo nell’anima, ma assicura al Cristo questo posto».

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, VI, 10).

In comunione con Gesù

     In comunione con Gesù, siamo sotto l’influsso dello Spirito Santo e possiamo essere creativi, agire pienamente in modo nuovo nella lotta per il Regno, la città dell’amore. In Gesù e attraverso Gesù, possiamo affrontare le forze del male e della menzogna inscritte nei cuori e nei gruppi umani, forze che schiacciano la vita, che schiacciano i deboli e gli umili. Non siamo più noi che parliamo, ma lo Spirito Santo in noi. Non siamo più noi che viviamo, ma Gesù in noi. Gesù è venuto a far nuova ogni cosa. In comunione con lui nello Spirito Santo, anche noi possiamo far nuova ogni cosa e fare cose più grandi ancora di quelle fatte da Gesù (Gv 14).

In comunione con Gesù, le nostre azioni nascono dalla comunione e sono orientale verso la comunione. Anche le nostre parole sono chiamate a sgorgare dal silenzio della comunione per arrivare al silenzio dell’amore. Siamo chiamati a bere al cuore di Cristo per diventare fonti di vita per gli altri, per dare la nostra vita agli altri.

 (J. VANIER, Gesù, il dono dell’amore, Bologna 1994,168).

Starà in voi

«Se mi amate, osservate i miei comandamenti» (Gv 14,15). Poiché prima aveva detto: «Qualunque cosa chiederete, io la farò» (Gv 14,13) perché non credessero che bastasse chiedere, aggiunse: «se mi amate»; allora io la farò. Poiché era naturale che sentendolo dire: «Io vado al Padre» fossero turbati, dice: «Non è l’essere turbati che prova l’amore per me, ma l’obbedire a ciò che ho detto. Vi ho dato il comandamento di amarvi a vicenda perché facciate a vicenda quello che io ho fatto a voi. Questo è l’amore nell’obbedire a queste parole e nell’accordarsi alla persona amata». […] Che cosa vuol dire: «Pregherò il Padre?» Con esse mostra che è giunto il tempo della venuta dello Spirito. Dopo che egli, con il suo sacrificio, ebbe purificato gli uomini, allora si ebbe l’effusione dello Spirito santo. Perché non discese prima, mentre Gesù era ancora con loro? Perché allora il sacrificio non era stato ancora consumato, ma quando il peccato fu annientato e i discepoli, mandati in mezzo a pericoli, si preparavano alla lotta, c’era bisogno che venisse chi poteva confortarli. Perché lo Spirito non venne subito dopo la risurrezione? Perché essi, provando un più vivo desiderio, lo accogliessero con buone disposizioni. Finché Cristo era con loro, non erano nell’angoscia, ma una volta che egli se ne andò, rimasero privi di difesa, in preda di una grande paura e provarono un vivo desiderio di riceverlo. «E resterà con voi». Questo dimostra che non se ne andrà neppure alla fine del mondo. Ma perché sentendo parlare del Paraclito, non pensassero a un nuova incarnazione e non si aspettassero quindi di vederlo con gli occhi del corpo, precisa: «II mondo non può riceverlo perché non lo vede. Non starà dunque con voi come faccio io, ma abiterà nelle vostre stesse anime» (Gv 14,17). Questo significa: «Starà in voi». […] Dice: «Starà in voi», ma neppure così riesce a disperdere il loro scoraggiamento. Cercavano ancora la sua presenza e la sua compagnia. Per guarire la loro tristezza dice: «Non vi lascerò orfani. Tornerò da voi» (Gv 14,18). Non temete; non vi ho detto che vi manderò un altro Paraclito perché vi avrei lasciati soli fino alla fine; non vi ho detto: «Resterà con voi» nel senso che io non vi vedrò più. “Non vi lascerò orfani”».

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Giovanni, om. 75, PG 59,403-405).

Cari giovani: non abbiate paura di Cristo!

Benedetto XVI saluta i giovani e ricorda loro il monito di papa Wojtyla: “Spalancate le porte a Cristo!” e aggiunge: “Egli non toglie nulla, e dona tutto”. 

E’ nel passaggio finale della sua omelia, pronunciata in occasione della cerimonia di inizio del suo pontificato, che Benedetto XVI guarda in modo speciale ai giovani, e lo fa sullo stile e con le parole di Giovanni Paolo II, proponendo ancora una volta al mondo la storica esortazione “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Un segno di continuità ma anche una scommessa a cui il successore di Pietro non vuole rinunciare.

“In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani.

Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen” 

La logica dell’amore

     Nella casa del Padre ci sono molti posti (Gv. 14,2) dice Gesù. In essa ogni figlio di Dio ha il suo posto unico. Devo allora abbandonare tutti i paragoni, tutte le rivalità e le competizioni ed arrendermi all’amore del Padre.

Ciò richiede un salto di fede perché ho poca esperienza di un amore che non si abbandoni a paragoni e non conosco ancora il potere salvifico di un tale amore. Dio mi spinge a raggiungere la sua casa. Nella luce di Dio io posso finalmente vedere il mio vicino come mio fratello, come colui che appartiene a Dio quanto appartengo io. Ma fuori dalla casa di Dio, fuori dalla sua logica di amore, fratelli e sorelle, mogli e mariti, genitori e figli, diventano rivali e perfino nemici; ognuno continuamente afflitto da gelosie, risentimenti, sospetti. Ma una siffatta situazione è solo fonte di dolore e di angoscia. In essa ogni cosa perde la sua spontaneità. Ogni cosa diventa sospetta, preoccupante, calcolata, e ci si abbandona a mille congetture. Non c’è più alcuna fiducia. C’è una via d’uscita? C’è uno sbocco dal risentimento verso il mio fratello, che nasce dal mio bisogno di essere amato? Sì, c’è.

Lasciarmi trovare da Dio Padre e sentirmi amato. Devo rivendicare a me stesso la mia condizione di figlio datami da Dio. Solo sentendomi unico, vedrò che l’amore di Dio non è esclusivo, ma comprende e sa mare, in modo unico e irripetibile, ciascun uomo. E anch’io farò lo stesso.

(J.H. Nouwen).

Scavare verso Dio

È da tempo che la sera è caduta

è da sere che il cielo è oscurato

è da cieli che la luce è partita

è da giorni che il ruscello è seccato.

Ecco questo uccello passare basso sotto la nube

bisogna partire e rientrare nel buio

non è più tempo di cantare nella strada

è troppo tardi per chiacchierare nel buio.

Gli alberi dormono come un corpo inerte,

la farfalla si affretta verso la sua rovina.

Solo, senza rimedio, bisogna chiudere gli occhi

e in fondo al buio scavare verso Dio.

(J.P. Dadelsen, Giona).

Preghiera

     Signore Gesù, noi crediamo che tu ci ami e desideriamo amarti: donaci lo Spirito di verità perché ci faccia comprendere e mettere in pratica tutte le tue parole di vita, quelle che hai attinto per noi dal cuore dell’eterno Padre. Tu sei sempre con noi e non ci lasci orfani: anche noi vogliamo rimanere con te. Sostieni e accresci in noi questo desiderio. Prega ancora per noi, presso il Padre, perché ci mandi l’«altro Consolatore», colui che ci difende dal maligno e ci fa ricordare quanto siamo amati in totale gratuità. Saremo così condotti alla verità tutta intera, alla dolcezza della comunione, alla sicurezza della pace e il mondo, vedendo, saprà: saprà che tu ami il Padre compiendo la sua volontà e che proprio questo amore salva il mondo. Amen.

Gesù Risorto si fa prossimo ai suoi discepoli, li incontra, parla con loro, condivide con loro alcuni pasti. Egli non è un fantasma: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 24,38-39). Egli non è neppure il predicatore di Galilea redivivo, ma è il Crocifisso Risorto, tanto che Pietro dopo la Pentecoste potrà dire con forza: «Gesù di Nazareth…dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,22-24).
Colui che i discepoli avevano visto, udito e toccato (cf. 1Gv 1,1-3), il Maestro che avevano ascoltato e seguito e con il quale avevano condiviso la mensa, adesso, dopo la sua morte, si mostra «ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (At 1,3). Per questo Paolo può affermare: «Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2Cor 5,16).

Nel riquadro della Maestà di Duccio di Buoninsegna Gesù Risorto appare vivo ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo. Questi sono distribuiti dall’artista in due gruppi di cinque, tutti rivolti verso il Signore. È assente soltanto Tommaso. Del «luogo dove si trovavano i discepoli per paura dei giudei» (Gv 20,19) Duccio ci fa intravedere uno scorcio di architettura e soprattutto le sue porte ben chiuse.
I discepoli nel loro insieme indicano la Chiesa che si rallegra nell’udire la voce del suo Sposo e che da Lui riceve la missione di annunciare con la forza dello Spirito il vangelo della salvezza a tutte le nazioni. Ma «lo Spirito Santo viene a prezzo della “dipartita” di Cristo. Se tale “dipartita” ha causato la tristezza degli apostoli, e questa doveva raggiungere il suo culmine nella passione e nella morte del Venerdì Santo, a sua volta “questa afflizione si cambierà in gioia”. Cristo, infatti, inserirà nella sua “dipartita” redentrice la gloria della risurrezione e dell’ascensione al Padre.
 
Pertanto, la tristezza, attraverso la quale traspare la gioia, è la parte che tocca agli apostoli nel quadro della “dipartita” del loro Maestro, una dipartita “benefica”, perché grazie ad essa un altro “consolatore” sarebbe venuto.
A prezzo della croce, operatrice della redenzione, nella potenza di tutto il mistero pasquale di Gesù Cristo, lo Spirito Santo viene per rimanere sin dal giorno della Pentecoste con gli apostoli, per rimanere con la Chiesa e nella Chiesa e, mediante essa, nel mondo» (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificante 14).
Per i discepoli che erano stati scossi dagli eventi drammatici della passione di Gesù e dalla sua morte, si realizzano finalmente le parole di Gesù: «Vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA VI DOMENICA DI PASQUA

7° Laboratorio Direttori/Responsabili diocesani IRC di recente nomina

Il laboratorio, riservato ai Direttori/Responsabili diocesani dell’IRC nominati nell’arco dell’ultimo quinquennio, si svolgerà martedì 17 giugno p.v., a Roma presso il “Centro Congressi” della CEI sito in via Aurelia 796, dalle ore 10.00 alle ore 17.00, sul tema “Il rapporto tra l’Ufficio Diocesano e le Autorità Scolastiche.
L’obiettivo è quello di sostenere i neo-direttori e responsabili IRC nell’attivare corretti e proficui rapporti di collaborazione con le competenti autorità scolastiche.
 
Il link per l’iscrizione è: http://www.iniziative.chiesacattolica.it/formazionedirettori
 
 

Collaboratori della catechesi diocesana

La formazione è elemento decisivo nell’evangelizzazione e nella catechesi per cui è prioritario il compito dell’animazione e preparazione dei catechisti. Il Corso è rivolto ai collaboratori degli Uffici Catechistici Diocesani, ai componenti delle équipe regionali e diocesane, agli incaricati della catechesi delle aggregazioni ecclesiali e a quanti hanno responsabilità formativa nei confronti dei catechisti di base. Il percorso vuole qualificare i partecipanti nella conoscenza delle dimensioni portanti della catechesi italiana attuale, abilitandoli a collaborare nelle équipe diocesane di catechesi e a comunicare quanto appreso ai catechisti.
 

La Formazione di base per i catechisti

Una formazione che non evolve, che non tiene conto dei mutamenti in corso, ha come conseguenza la preparazione di catechisti abilitati solo per interventi generici e comunque obsoleti rispetto alle attuali necessità. Si avverte il bisogno di percorrere nuove vie ma si fatica a intuire la direzione verso cui muoversi. E’ tuttavia una ponderazione necessaria, perché la scelta del modello formativo non è mai neutra.
In questo contesto si inserisce il presente studio che offre delle riflessioni teoriche e indicazioni operative stimolanti. Un primo elemento significativo è costituito dal ricorso a tutte e tre le dimensioni che animano la catechesi, quella teologica, pedagogica e comunicativa, strettamente intrecciate per dar vita a un quadro teorico capace di sostenere poi l’impianto formativo proposto.
I punti di riferimento interessano quattro orizzonti: antropologico, ecclesiologico, culturale e comunicativo. In particolare, vi si trovano enfatizzati: la visione di uomo fondamentalmente aperto alla Parola Rivelata, costitutivamente relazionale, in tensione permanente verso la maturità; il “noi ecclesiale”, in una comunità ermeneutica che assume il Crocifisso come propria identità; l’urgenza di abitare la modernità in modo ermeneutico, cioè libero ma responsabile; la comunicazione rituale empatica e lo stile del farsi accanto, tipico di micro-comunità empatiche.
Sulla base di questi presupposti, trovano un originale sviluppo i concetti di catechesi come circolarità comunicativo-educativa, esaminato a livello di processo catechistico, di strutturazione dei contenuti e di rapporto tra i soggetti dell’atto catechistico, e diapprendimento trasformativo, caratterizzato dalla centralità dell’educando e della dimensione esperienziale.
Un altro elemento qualificante è dato dall’opzione di pensare la formazione in termini di “competenze”. Questa scelta sottolinea la necessità di andare oltre l’approssimazione con cui ancora frequentemente si risolve la formazione degli operatori pastorali. Alle tre classiche dimensioni della formazione (essere, sapere e saper fare) e a quella ormai acquisita nel mondo della formazione ecclesiale del “saper stare con”, viene aggiunta una quinta “macro-competenza”, quella del “saper stare in”. Quest’ultima competenza, che ruota intorno al concetto di inculturazione, è un primo tentativo coraggioso di attirare l’attenzione su una nuova dimensione della formazione, una intuizione “promettente” seppure bisognosa di ulteriore elaborazione.
Per quanto riguarda le linee generali per una proposta formativa, nelle pagine del libro sono condensate le migliori intuizioni dell’attuale riflessione catechetica sulla formazione. Le scelte di metodo sono quattro: il gruppo di formazione inteso come micro-comunità empatica di pratica; il modello formativo del laboratorio, suggerito nella Nota pastorale del 2006, realizzato però in forma “mitigata”; il “Progetto Personale di Formazione”, con le finalità di monitorare, valutare e orientare l’attività formativa; l’equipe dei formatori, che mette in campo un atteggiamento di cura qualificante e promovente l’autoformazione dei catechisti.
Si è di fronte a un lavoro non “buono” – nel senso di accomodante – ma “provocante”, per le tesi che vi sono sostenute. Il testo si limita a presentare elementi teorici, ma l’Autore da anni sta sperimentando con esisti incoraggianti nella vita concreta della sua Diocesi l’applicazione pratica delle sue riflessioni e intuizioni. Auguriamo che in una prossima pubblicazione possa offrire pure il risultato di questa esperienza positiva, nella consapevolezza che – al di là di tutto – è dai “frutti” che si verifica la qualità dell’albero (Mt 7,16-20).

Verso la periferia del cristianesimo. Insegnamento religioso come invito

Si è svolto a Praga (23-27 aprile 2014) il XVI Forum europeo per l’insegnamento scolastico della religione, dal titolo: Verso la periferia del cristianesimo. Insegnamento religioso come invito.

Dell’interessante confronto, offriamo le tre relazioni principali e quattro contributi in lingua italiana di orientamento generale.

Ringraziamo la Direzione di EuFRES per la gentile concessione.

0. Programma

1. Relazione Tueck

2. Relazione di de Villar

3. Relazione Grillo

4. Contributo Wierzbicki

5. Contributo Bissoli

6. Contributo Usai

7. Contributo Filipovic

3° Convegno Nazionale sulla formazione socio–politica

Luogo dell’appuntamento: Centro Congressi Aurelia

Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro 
Segreteria Generale 
Servizio Nazionale per il progetto culturale

EDUCARE ALLA CITTADINANZA RESPONSABILE 3 
Roma, 13–14 giugno 2014 

Il convegno si pone in profonda continuità con il precedente realizzato a Roma nei giorni 5–6 aprile 2013. Si vuole approfondire l’impegno educativo alla cittadinanza responsabile attraverso una riflessione sulle motivazioni teologiche ed ecclesiali e con una proposta di metodo che sarà discussa anche in forma laboratoriale. L’intento è di raccordare sempre più tra loro le diverse esperienze diocesane di formazione cristiana all’impegno socio–politico (scuole, percorsi, esperienze, itinerari); consolidare per mezzo di sistemi informatici la rete tra le esperienze già avviate da tempo; sostenere le diocesi nello sviluppo delle esperienze recenti e di quelle in progettazione. I destinatari dell’incontro sono i direttori degli Uffici diocesani di pastorale sociale, i responsabili e i formatori degli Enti diocesani di formazione socio–politica. 

PROGRAMMA 

Venerdì 13 
15.30 Introduzione 
– Dott. Vittorio SOZZI, Responsabile del Servizio Nazionale per il progetto culturale della CEI 

15.45 Il bene comune e la pace sociale. Principi e provocazioni dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (nn. 217–237) 
– Prof. Mauro MAGATTI, Docente Scienze Politiche e sociali presso Università Cattolica Sacro Cuore, Milano 
Dibattito 
17.00 Pausa 
17.30 Lavori di gruppo: come ripensare la formazione socio–politica a partire da Evangelii Gaudium nn.217–237 
20.30 Cena (NH–Midas)

Sabato 14 
8.30 S. Messa (NH–Midas)
10.00 Sintesi dei lavori di gruppo 
10.45 Percorsi formativi a partire dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (nn. 217–237) 
– Prof. Leonardo BECCHETTI, Ordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma 
“Tor Vergata” 

11.30 Dibattito 
12.00 Prospettive e conclusioni 
– Mons. Fabiano LONGONI, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI 
12.30 Pranzo 

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 6,1-7

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».

     Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

 

Il brano presenta la vita della prima comunità cristiana che, crescendo per la predicazione degli apostoli e il buon esempio degli aderenti alla fede, comincia a presentare le prime difficoltà di carattere organizzativo. Sorge, infatti, un malcontento degli ellenisti contro gli ebrei.

     Gli ellenisti sono quegli ebrei che parlavano greco e leggevano la Bibbia in greco nelle riunioni sinagogali; erano provenienti dalla diaspora giudaica e avevano fissato la dimora a Gerusalemme; erano contrapposti agli Ebrei che parlavano e leggevano la Bibbia in aramaico. Il malcontento degli ellenisti nasce dal fatto che a causa del super-lavoro degli apostoli vengono da essi trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana di vitto e sussidi.

     I Dodici, che qui Luca nomina direttamente, convocano tutta la moltitudine dei credenti per affermare l’importanza e la priorità del loro compito di annunciatori della parola di Dio rispetto a quello delle mense, che poteva essere anche affidato ad altri. Gli Apostoli invitano la comunità a scegliere sette membri di cui però delineano le caratteristiche fondamentali: «buona fama» fra il popolo, «pieni di spirito e di sapienza».

     L’assemblea accoglie favorevolmente la proposta degli apostoli («piacque») e vengono scelti sette uomini. I loro nomi in greco fanno supporre che fossero preposti all’assistenza dei poveri di lingua greca. Gli unici di cui gli Atti parleranno in seguito sono Stefano (6,8-9,2) e Filippo (8,5-40 e 21,8) che avranno un ruolo importante nella diffusione del Vangelo, degli altri non si sanno ulteriori notizie.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,4-9 

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».

    Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.      

 

Nel brano in questione Cristo è presentato, con un’immagine tratta dall’Antico Testamento, come «pietra angolare» e i cristiani, in corrispondenza, come «pietre» che si edificano su quel fondamento. Cristo «pietra viva» è il Risorto che dalla morte è ritornato alla vita, e che, pur essendo stato scartato dagli uomini, è posto a fondamento dell’edificio spirituale che Dio voleva costruire e sul quale il Cristo vivente esercita il suo influsso energetico e vivificante.

     Solo in virtù di Cristo «pietra viva» e a partire dalla comunione con lui i cristiani sono «pietre vive» sovrapposte per costruire l’edificio spirituale. Essendo un edificio spirituale, la Chiesa non è solo ricolma dello Spirito, ma creata dallo Spirito. L’autore contrappone l’edificio materiale del tempio dell’Antico Testamento, e le offerte materiali che in esso si facevano, a quello spirituale che in Cristo i cristiani sono chiamati a compiere. Questo organismo costituito da Cristo e dai fedeli insieme, ha come scopo quello di offrire sacrifici spirituali, che consistono in tutta la vita cristiana vissuta e offerta a Dio.

     La funzione della pietra è duplice. Pietro ne chiarifica il senso mettendo insieme due brani dell’Antico Testamento tratti dal libro del profeta Isaia: Is 38,6 e Is 8,14. Per tutti coloro che credono, la pietra ha un valore positivo; per coloro che non credono alla Parola annunciata la pietra costituirà inciampo sulla loro strada. Lo scandalo si compie con la disobbedienza alla Parola proclamata che esige l’obbedienza, o comunque una scelta: il vangelo può essere accolto o respinto, ma non ascoltato con indifferenza! L’incredulità è disobbedienza: è una decisione dell’uomo che si chiude alla chiamata di Dio.

     I cristiani a cui si rivolge l’Apostolo hanno aderito alla fede, e chiamati dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù del peccato alla grazia di una vita nuova, sono il nuovo popolo di Dio che riattua in sé le caratteristiche che erano dell’antico popolo: elezione, sacerdozio, santità, possesso da parte di Dio e testimonianza per altri popoli. Il vero Israele è la Chiesa, perciò ad essa sono riservate tutte le promesse fatte ad Israele. 

Vangelo: Giovanni 14,1-12

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».  Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.

      Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre». 

 

Esegesi

     Gesù invita i discepoli alla fiducia e li assicura sul fatto che sta andando a preparare loro un posto nel regno del Padre per tornare a prenderli e portarli con sé.

     Gesù apre il dialogo con i discepoli invitandoli a non turbarsi per la separazione dal loro Signore e Maestro perché la sua lontananza sarà temporanea. Per accettare tale assicurazione è necessario un atto di fede verso Dio e verso Gesù. Con questa fede si crede all’intima comunione tra il padre e il Figlio e allo stesso tempo anche alla grande accoglienza nella casa del Padre.

     La casa del Padre indica il luogo o meglio lo stato beato in cui si vive in unione con Dio. In essa dimora il figlio, il quale può preparare tanti posti per i suoi amici, perché in essa vi sono «molti posti». Egli si separa dai suoi amici per andare per primo alla casa del Padre con il fine di preparare loro il posto, poi tornerà per portarli con sé, affinché essi vivano dove egli è (14,3).

     Per giungere nella casa del Padre bisogna dunque passare per il Figlio. Egli, infatti, è la via che conduce al Padre (14,4-6). Il linguaggio enigmatico usato da Gesù suscita l’immediata reazione del discepolo Tommaso che, con la razionalità e la concretezza che lo caratterizzano, chiede chiarezza nei discorsi: vuole sapere dove egli vada, per conoscerne la via. Tommaso prende il termine via in senso materiale, mentre il Maestro lo intende in senso spirituale, quale mezzo per giungere a Dio. Per questo nella sua risposta Gesù proclama di essere la via per andare verso Dio. Solo per mezzo di Cristo, infatti, si può giungere al Padre. Nessuno infatti può arrivare a Dio con le sue forze, ne può servirsi di altri mediatori (14,6). Come nessuno può, andare verso Cristo se non gli è concesso da Dio (6,55), così nessuno può giungere a Dio senza la mediazione di Gesù (14,69). Gesù proclama inoltre di essere anche la Verità e la Vita. La locuzione autorivelativa «Io Sono» esprime la funzione divina di Gesù di essere il rivelatore. I sostantivi via, verità e vita sono applicati al Cristo per indicare le sue funzioni di mediatore e salvatore. Egli manifesta la vita e l’amore di Dio per l’umanità e comunica al mondo la salvezza.

     Gesù è l’unico che può condurre a Dio perché egli solo vive nel Padre e viceversa. Perciò chi conosce Gesù conosce il Padre e chi vede l’uno vede l’altro (14,7). Il linguaggio di Gesù risulta nuovamente enigmatico per i discepoli e provoca l’intervento di Filippo, il quale chiede a Gesù di mostrargli il Padre. Il discepolo, infatti, crede che il Padre sia altro da Gesù. Gesù risponde affermando che egli vive nel Padre e non nasconde la sua meraviglia per l’ignoranza di Filippo, che avrebbe dovuto conoscere la sua vera identità.

     Data l’immanenza del Figlio nel Padre, le opere del Figlio sono compiute dal Padre e per tale ragione debbono essere chiamate opere di Dio e del Padre. L’immanenza del Padre in Gesù può essere accettata solo per fede, perciò Gesù esorta i discepoli a credere in questa verità anche a motivo delle opere da lui compiute (14,11).

     Gesù continua per assicurare i discepoli che chi crede nella sua persona divina non solo compirà opere simili a quelle fatte da lui, ma ne farà maggiori. La motivazione di tale possibilità di compiere opere straordinarie, risiede nel prossimo ritorno di Gesù dal Padre, presso il quale egli esaudirà le promesse dei discepoli.

Meditazione 

     Il Cristo risorto, andato al Padre (vangelo), è il fondamento dell’edificio spirituale che è la Chiesa (II lettura): è in riferimento a lui, con la preghiera che guida il discernimento, che i credenti affrontano i problemi della comunità cristiana cercando di farlo regnare sulla vita della comunità (I lettura).

    Il Cristo che lascia i suoi discepoli e sale al Padre chiede loro in fede (Gv 14,1.10.11.12); la Chiesa fondata sul Crocifisso Risorto è l’insieme dei credenti chiamati a offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (1Pt 2,5): il riferimento è certamente alla liturgia, ma più estesamente al culto nell’esistenza quotidiana, a fare del quotidiano il luogo dell’adorazione di Dio in cui il credente offre il proprio corpo in «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1); i problemi organizzativi della comunità, che rischierebbero di soffocare ciò che è essenziale nella Chiesa, devono essere risolti in modo da far sempre emergere il primato della Parola di Dio e il suo servizio. La predicazione stessa deve sempre essere innestata nella preghiera: «Di che utilità potrebbe mai essere una predicazione disgiunta dalla preghiera? In primo luogo viene la preghiera, e dopo la parola, come dicono gli Apostoli: “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (At 6,4)» (Giovanni Crisostomo).

    Che il Cristo risorto sia pietra scartata dai costruttori, ma scelta da Dio e divenuta pietra angolare ( 1Pt 2,7), è importante per quanti si trovano a vivere «vite di scarto» (Zygmunt Bauman), a essere rigettati ai margini della società o del mondo o del loro gruppo o della Chiesa. Dio sceglie ciò che nel mondo è disprezzato e insignificante, sceglie «la spazzatura del mondo» (cfr. 1Cor 4,12) per confondere i costruttori mondani e le loro costruzioni che si reggono su criteri di efficienza e produttività, che richiedono conformismo e omologazione, che vogliono che le pietre sino morte e non vive. Una pietra viva, fedele eco del Crocifisso Risorto, è un ossimoro intollerabile per la razionalità mondana e abbisogna di essere scartata.

    Il vangelo presenta l’addio di Gesù ai suoi. L’addio è l’ultimo saluto che intercorre fra chi se ne va per sempre e chi resta. Ma l’addio, e più che mai l’addio pronunciato da Gesù, è anche una promessa: ad Deum. Con ad-Dio il futuro, proprio e degli altri, è posto in Dio. Gesù, che ha sempre vissuto le sue relazioni nell’ad-Dio, cioè davanti a Dio e per Dio, vi pone anche il suo futuro. Che è anche il futuro di chi è «suo», di chi «crede in lui» (cfr. Gv 14,12). Infatti, il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (Gv 14,10), e il discepolo che rimane nel Figlio (Gv 15,1-7), rimane anche nel Padre ( 1Gv 2,24). Se così va inteso l’ad-Dio, allora ogni nostra relazione dovrebbe restare sotto il suo segno, cioè sotto il segno dell’apertura e dell’invocazione all’Altro che salva le relazioni con gli altri dai rischi dell’assolutismo, della tirannia, della violenza.

    Dopo aver annunciato la sua partenza, Gesù ha dato ai discepoli il comando dell’amore (Gv 13,33-34) e ora chiede loro di aver fede e di non essere turbati (Gv 14,1). Di fronte a un distacco si prova dolore per la persona che se ne va, ma anche smarrimento e ansia per il futuro proprio e della propria comunità che era legata vitalmente alla presenza che ora non è più. La dipartita di Gesù è crisi per la comunità dei suoi discepoli. E il turbamento del cuore non riguarda solo la sfera emotiva e dei sentimenti, ma indica anche la paralisi della volontà e della capacità di prendere decisioni, l’annebbiamento dell’intelligenza e del discernimento. Gesù, con le sue parole, sta facendo della sua dipartita e del vuoto che egli lascia un’occasione di rinascita dei suoi discepoli. Chiedendo fede, li spinge a trasformare la paura del nuovo e il terrore dell’abbandono nel coraggio di donarsi appoggiandosi sul Signore; promettendo che va a preparare un posto per loro, egli vive la sua partenza in relazione con chi resta e mostra che non li sta abbandonando, ma sta inaugurando una fase nuova e diversa di relazione con loro. Il distacco è in vista di una nuova accoglienza (Gv 14,2-3).

Preghiere e racconti

«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?»

Si leggono a volte pagine molte belle su dio, sui suoi attributi, sulla sua grandezza, sul suo mistero. Le si definirebbe volentieri mistiche, se non si temesse di sciupare questo termine. Ma se manca il nome di Gesù Cristo non si sfugge al dubbio. Ciò che dice l’autore, come lo sa? da dove lo ricava? I cristiani hanno ragione di diffidare delle affermazioni teologiche che non derivano dalla conoscenza di Cristo o che si svolgono senza un esplicito riferimento al Vangelo. Non bisogna stancarsi di ripetere la frase chiave che leggiamo in Giovanni: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14,9). Essa significa che l’unità di Dio e dell’uomo in Gesù manifesta nel tempo l’unità eterna del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La voce del Figlio è la voce del Padre. Ascoltare Gesù è ascoltare il Padre. L’immagine proposta da Urs von Balthasar è suggestiva. Egli afferma che il credente sente questa voce «come in stereofonia».

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio).

Camminando si fa il cammino

Tu che cammini, sono le tue tracce

il cammino e null’altro;

tu che cammini, non c’è cammino,

il cammino si fa camminando.

Camminando si fa il cammino

e volgendo indietro lo sguardo

si vede il cammino sul quale mai più

si ritornerà a camminare.

Tu che cammini, non c’è cammino,

tranne delle scie nel mare.

 (A. Machado)

Il cammino particolare 

      «Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un acceso diverso. È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo».

(Martin BUBER, Il cammino dell’uomo, Edizione Qiqajon, 1990, Magnano (BI), 28)

 

Io sono… la vita

«Carissimi giovani, voi vi fate interpreti di una domanda, che spesso vi viene rivolta da tanti vostri amici: Come e dove possiamo incontrare questa vita, come e dove possiamo viverla? La risposta potrete trovarla da voi stessi, se cercherete di dimorare fedelmente nell’amore di Cristo (cfr. Gv 15,9). Voi sperimenterete allora direttamente la verità di quella sua parola: “Io sono… la vita” (Gv 14,6) e potrete recare a tutti questo gioioso annuncio di speranza. Egli vi ha costituiti suoi ambasciatori, primi evangelizzatori dei vostri coetanei».

(Giovanni Paolo II, Messaggio per la VIII GMG, 1993).

Il buio e la luce

È buio dentro di me,

ma presso di te c’è la luce;

sono solo, ma tu non mi abbandoni;

sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;

sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;

in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;

io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.

(Dietrich Bonhoeffer)

Mi chiamate Redentore

Mi chiamate Redentore

e non vi fate redimere.

Mi chiamate Luce

e non mi vedete.

Mi chiamate Via

e non mi seguite.

Mi chiamate Vita

e non mi desiderate.

Mi chiamate Maestro

e non mi credete.

Mi chiamate Sapienza

e non m’interrogate.

Mi chiamate Signore

e non mi servite.

Mi chiamate Onnipotente

e non vi fidate di me.

 

Se un giorno non vi riconosco

non vi meravigliate.

(Iscrizione nel duomo di Lubecca).

L’amore è ciò che conta

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.

Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.

Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Vorrete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio. Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

 

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

 

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

 

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

 

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

 

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).  

Saremo anche noi dove è Cristo

Colmi di fiducia, volgiamoci senza timore verso il nostro redentore Gesù, volgiamoci senza timore verso l’assemblea dei patriarchi, partiamo per andare senza timore presso il nostro padre Abramo quando sarà giunto il giorno per noi fissato; senza timore volgiamoci all’assemblea dei santi e alla adunanza dei giusti. Andremo presso i nostri padri, andremo presso i nostri maestri nella fede perché, anche se mancano le opere, ci soccorra la fede e sia conservata la nostra eredità. Andremo dove il santo Abramo apre il suo seno per accogliere i poveri così come ha accolto anche Lazzaro. In quel seno riposano coloro che in questo mondo sopportarono gravi e penose fatiche. Padre [Abramo], ancora una volta tendi le tue mani per accogliere il povero, apri il tuo grembo, allarga il tuo seno per accoglierne di più perché moltissimi sono quelli che credono nel Signore. […] Il Signore sarà la luce di tutti e la luce vera che illumina ogni uomo (cfr. Gv 1,9) risplenderà su tutti. Andremo là dove ai suoi poveri servi il Signore Gesù ha preparato le dimore, per essere anche noi dove è Lui; così ha voluto. Ascoltalo quando dice quali sono queste dimore: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» (Gv 14,2), e ascoltalo quando manifesta la sua volontà: «Vengo di nuovo e vi chiamo a me, perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3). Ma tu affermi che Gesù parlava soltanto ai suoi discepoli perché ad essi soltanto avrebbe promesso molte dimore; perciò le preparava solamente per i suoi undici discepoli. E che ne è allora di quel detto che da tutte le parti del mondo verranno e riposeranno nel regno di Dio? (cfr. Mt 8,11). Perché dubitiamo della realizzazione della volontà divina? Il volere di Cristo è già operante. Cristo mostrò anche la via, mostrò anche il luogo, dicendo: «E dove io vado, voi lo sapete e conoscete la mia via» (Gv 14,4). Il luogo è presso il Padre, la via è Cristo, così come lui stesso dice: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Entriamo dunque per questa via, restiamo saldi nella verità, seguiamo la vita. La via è quella che conduce, la verità quella che da saldezza, la vita è quella che è data per mezzo suo. E perché conoscessimo la sua vera volontà, aggiunse: «Padre, quelli che tu mi hai dato, voglio che essi pure siano con me dove sono io, in modo che vedano la mia gloria» (Gv 17,24).

(AMBROGIO, Il bene della morte 12,52-54, in Opera omnia di sant’Ambrogio, pp. 200-204).

Butto la rete

Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita. Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettre spirituali, Ed. San Paolo)

Il dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

Via, verità e vita

Noi ti seguiamo, Signore Gesù, ma tu chiamaci, perché ti possiamo seguire. Nessuno potrà salire senza di te. Tu sei la via, la verità, la vita, la possibilità a fede, il premio. Accogli i tuoi: tu sei la via. Confermali: tu sei la verità. Ravvivali: tu sei la vita.

Ammettici a quel bene che Davide desiderava vedere, abitando nella casa del Signore, quando si chiedeva: «Chi ci mostrerà il bene? e diceva: «Io credo che vedrò i beni del Signore nella terra dei viventi»: i beni si trovano là dove c’è la vita eterna, la vita senza colpa.

Aprici il cuore a quello che è veramente il bene, il tuo bene divino, «in cui noi siamo, viviamo e ci muoviamo».

Noi ci muoviamo, se camminiamo sulla via; esistiamo, se rimaniamo nella verità; viviamo, se siamo nella vita. Mostraci il bene inalterabile, unico, immutabile, nel quale possiamo essere eterni e conoscere ogni bene. In quel bene si trova la pace serena, la luce immortale, la grazia perenne, la santa eredità delle anime, la tranquillità senza turbamento, non destinata a perire ma sottratta alla morte: là dove non vi sono lacrime, e non dimora il pianto – può esservi pianto dove non c’è peccato – dove i tuoi santi sono liberati dagli errori e dalle inquietudini, dal timore e dall’ansia, dalle cupidigie da tutte le sozzure e da ogni affanno corporale, dove si estende la terra dei viventi.

(AMBROGIO, De bono mortis, XII, 55). 

Preghiera

Signore Gesù, maestro buono, il nostro cuore è spesso turbato per tutto il male che c’è nel mondo e per le nostre stesse debolezze, per i tradimenti e i rinnegamenti di cui ci vediamo capaci. Aumenta la nostra fede in te e nel Padre che ci hai rivelato.

Tu sei la via: fa’ che ti seguiamo! Tu sei la verità: fa’ che ti conosciamo! Tu sei la vita: fa’ che viviamo in te per vedere il Padre e glorificare il tuo santo nome davanti a tutti gli uomini.

   

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA V DOMENICA DI PASQUA (A)

Messaggio di Papa Francesco alla scuola italiana

Circa 300.000 persone – bambini, ragazzi, studenti, docenti e famiglie – dal primo pomeriggio di sabato 10 maggio hanno portato la loro gioia in Piazza San Pietro per un incontro atteso con il Santo Padre.  L’evento, trasmesso dalle 17 alle 18.30 da RaiUno, è rilanciato da Tv2000, da tutte le emittenti collegate al circuito del Centro Televisivo Vaticano. Grandi artisti italiani si sono alternati con testimonianze significative del mondo della scuola, per un evento nel quale incontrarsi, condividere e ascoltare il testimone più autorevole.

“Per favore, non lasciamoci rubare l’amore per la scuola!”. Si è concluso con questo appello l’intervento del Papa al mondo della scuola, che ha gremito Piazza S. Pietro sabato 10 maggio , evento per cui ha ringraziato la Cei che l’ha promosso: “Questa manifestazione non è contro, ma è per; non è un lamento, è una festa, una festa per la scuola”.

Nelle parole di Francesco le ragioni del suo amore per una scuola, a partire da un ricordo personale: “Come ho sentito dalle vostre testimonianze – ha detto – è sempre uno sguardo, quello che ti aiuta a crescere: a mia volta, ho l’immagine della mia prima insegnate, che mi ha accolto a sei anni: sono andato a trovarla finché è mancata a 98 anni, non ho mai potuto dimenticarla  proprio perché mi ha insegnato ad amare la scuola”.
Il Papa ha, quindi, aggiunto: “Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà, o almeno così dovrebbe essere: andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, la scuola ci insegna a capire la realtà nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni”.
A questo proposito, ha citato la figura di  “un grande educatore italiano, don Lorenzo Milani”, per la sua convinzione che “se uno ha imparato ad imparare questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà”. Si tratta di una condizione essenziale, ha fatto capire, innanzitutto per gli insegnanti, che devono essere “i primi a restare aperti alla realtà, perché se un insegnante non lo fosse,  non sarebbe un buon insegnante e nemmeno riuscirebbe a farsi interessante: i ragazzi sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, incompiuto, che cercano un «di più» e così contagiano gli studenti”.
Altro motivo di amore alla scuola il Papa l’ha additato nel suo essere “un luogo di incontro” con “compagni, insegnanti, personale” e tra genitori e docenti. “Noi oggi abbiamo bisogno di questa cultura dell’incontro per camminare insieme”, ha aggiunto, spiegando che “la famiglia è il primo nucleo, la base; ma a scuola socializziamo, incontrando persone diverse da noi: per questo essa è la prima società, che integra la famiglia”.
Due istituzioni non contrapposte, ma complementari – ha specificato – che devono collaborare”. Perché, “per educare un figlio ci vuole un villaggio”, ha fatto ripetere ai 300.000, citando un proverbio africano.
Infine, tra le ragioni d’amore alla scuola, Francesco ha evidenziato il suo “educare al vero, al bene e al bello, tre dimensioni sempre intrecciate”.
“L’educazione – ha specificato – non può essere neutra: arricchisce la persona o la impoverisce, la fa crescere o la deprime, persino può corromperla. Andiamo a scuola per conoscere, per imparare certe abitudini, per assumere determinati valori”. E, riprendendo la testimonianza del campione olimpionico Jury Chechi, ha fatto ripetere ancora ai ragazzi: “Sempre è più bella una sconfitta pulita, che una vittoria sporca”.
Nell’augurare “una bella strada nella scuola, che faccia crescere le tre lingue che una persona matura deve saper parlare in maniera armoniosa: mente, cuore e mani”, ha concluso: “Per favore, non lasciamoci rubare l’amore per la scuola!”

Discorso Papa Francesco e Scuola Italiana

Galantino: vincere l’analfabetismo religioso si può

Venerdì 2 maggio alle 17 presso la Sala Zuccari del Senato, a Roma (via della Dogana Vecchia, 29), sarà presentato il “Rapporto sull’analfabetismo religioso 2014” (Il Mulino). Anticipiamo in queste colonne ampi stralci dell’intervento che terrà Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio e segretario generale della Cei; interverranno anche Giuliano Amato, Massimo Campanini, Mariella Enoc, Alberto Melloni, Marco Morselli e Paolo Naso. Il progetto, finanziato dal Miur e dalla Fondazione Cariplo e diretto dalla fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII”, ambisce a incidere sui decisori e ad alimentare il dibattito; il volume, curato da Melloni, è il primo frutto del cantiere di ricerca interdisciplinare sul tema.
 
Nel libro dell’Apocalisse è riportato lo strano e contraddittorio effetto provocato dalla lettura di un piccolo libro. «Mi avvicinai all’angelo – si legge in Ap 10,9 – e lo pregai di darmi il piccolo libro. Egli mi disse: “[…] Ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”». Come persona mediamente attenta a quello che avviene sul nostro territorio, la lettura delRapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, di primo acchito, ha provocato in me una sorta di benessere; in genere, infatti, sono sempre contento quando posso essere aiutato da studi seri e non faziosi a leggere quello che avviene dentro e fuori dalle realtà con le quali ho a che fare. Man mano però che, leggendo, dai numeri e dalle percentuali passavo alla interpretazione di quei dati, l’amarezza di cui parla l’Apocalisse ha preso anche me. Indipendentemente dal ruolo che una persona occupa, certe constatazioni non fanno piacere, o comunque non lasciano indifferenti.

L’amarezza però, lo sappiamo, può essere attutita o neutralizzata del tutto con qualche zolletta di zucchero o – se quell’amarezza sia accompagna ad attenta consapevolezza – può anche essere inizio fecondo di percorsi davvero virtuosi. I numeri che vengono fuori dal Rapporto sono, per certi versi, abbastanza spietati – o almeno così possono apparire a chi non ha un contatto serio e coinvolgente con la realtà – e le “letture” che di quei dati vengono offerte sono davvero illuminanti.

Lette con animo sereno indicano esse stesse possibili percorsi, utili per abitare consapevolmente quei numeri/percentuali, e aiutano a prendere le distanze da atteggiamenti in fine dei conti sterili. “Sterile” ritengo infatti l’atteggiamento di chi si ferma ai numeri e alle analisi – condotte semmai con grande rigore e capaci di ricondurre alle cause certe delle situazioni analizzate – incapaci però di andare un poco più in là; incapaci di affacciarsi sul piano degli impegni richiesti per avviare risposte credibili agli interrogativi legittimi provocati da quei numeri e da quelle percentuali. Ritengo però anche “sterile”, anzi oltremodo dannoso, l’atteggiamento di chi, di fronte a dati e percentuali che mostrano il limite di certe prassi di evangelizzazione e di testimonianza – visto che stiamo parlando di vita e di esperienza religiosa – si arroccano su posizioni tipiche di chi è sopraffatto dalla “sindrome da accerchiamento”; una sindrome che porta ad attivare soltanto difese ad oltranza e diversivi di ogni genere.

Di fronte alla fotografia statistica che ci viene consegnata dal Rapporto, ho cercato di evitare questi due atteggiamenti, che sono il contrario di quello che Papa Francesco chiede nellaEvangelii gaudium (n. 24). A una Chiesa consapevole del mandato affidatole da Gesù, ma consapevole anche dei propri limiti e delle difficoltà che accompagnano l’assolvimento di questo mandato, Papa Francesco – ricorrendo a un neologismo spagnolo – chiede di primerear; chiede cioè di “prendere l’iniziativa”. Primerear perché l’esperienza religiosa non si riduca a uno sfondo anonimo a cui si presta un’attenzione interessata o peggio sospetta, fatta di “narrazioni” su Gesù e accompagnate da buoni sentimenti; tutti comunque assolutamente irrilevanti per la vita che conta.

In quali direzioni va presa questa iniziativa? Il Rapporto ne individua tre: l’ambito scolastico, quello della produzione legislativa sulla libertà religiosa e l’ambito della ricerca universitaria che attiene alle “scienze religiose”. A proposito del primo elemento, quello che connette l’analfabetismo religioso in Italia ad alcuni caratteri specifici della storia post-unitaria – tra cui la particolare dinamica dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica – credo che esso vada compreso come una componente di un processo più generale. Si può infatti convenire con quanto si afferma in uno dei contributi del Rapporto stesso, e cioè sul fatto che il contesto in cui la questione dell’analfabetismo religioso va inserita è «la dissociazione tra elementi culturali e [elementi] religiosi e la conseguente difficoltà ad apprendere e comprendere i secondi all’interno dell’orizzonte segnato dai primi» (p. 16). 

Una dinamica che, come altri contributi presenti nel Rapporto confermano, appartiene dunque ai processi secolarizzanti che hanno attraversato l’intero Occidente, e che, in una conferenza italiana di un paio di anni fa, Gilles Routhier definiva appunto come l’incapacità delle Chiese (delle religioni) di reagire con pertinenza all’emergere di nuove culture. Una prospettiva, questa, che, coerentemente con quella evocata dal Rapporto, indica nelle Chiese (nelle religioni) le attrici, e non solo le vittime, tanto del diffondersi dell’analfabetismo religioso, quanto del suo contrasto […].

La maggior parte dei contributi presenti nel Rapporto è sull’insegnamento della religione cattolica (Irc) nella scuola pubblica italiana, sul percorso storico attraverso il quale esso è passato lungo tutto il Novecento e sul suo attuale statuto […]. Certamente, è bene che le istituzioni che hanno voce in capitolo – lo Stato, da un lato, la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose (particolarmente quelle già titolari di un’Intesa con lo Stato), dall’altro lato – non smettano di interrogarsi sull’effettiva rispondenza delle attuali forme di alfabetizzazione religiosa presenti nella scuola italiana, e in primis dell’Irc, alle mutate circostanze storico-civili […]. Ma è altrettanto importante ricordare che non risultano per nulla superate, ma anzi appaiono particolarmente attuali le premesse a partire dalle quali la Conferenza episcopale italiana si incamminò per giungere al quadro attuale, e che il volume stesso richiama in un altro dei contributi che ospita: «La scuola fa parte propriamente delle strutture civili, in certa proporzione anche quando essa è organizzata dalle diocesi o da istituti religiosi […]. La formazione integrale dell’uomo e del cittadino, mediante l’accesso alla cultura, è la preoccupazione fondamentale. L’educazione della coscienza religiosa si inserisce in questo contesto, come dovere e diritto della persona umana che aspira alla piena libertà e come doveroso servizio che la società rende a tutti». 

Si tratta del n. 154 de Il rinnovamento della catechesi, il documento-base con il quale, nell’immediato post-concilio (siamo nel 1970), l’episcopato italiano metteva mano all’intero impianto della catechesi, e dove era già evidente la consapevolezza che l’insegnamento della religione nella scuola dovesse essere impartito, come in effetti avviene a partire dal 1985, al di fuori della catechesi, cioè «nel quadro delle finalità della scuola», pur «riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano» (Accordo di revisione del Concordato lateranense 9,2).

Da ultimo, vorrei fare riferimento a un altro ambito significativo sia per il consolidamento dell’analfabetismo religioso in Italia, sia per l’eventuale suo contrasto […]: il sistema della comunicazione di massa. Sia gli elementi empirici a disposizione di chiunque guardi la televisione, ascolti la radio, navighi sul web, frequenti i social network o legga, secondo l’uso antico, i quotidiani e le riviste, sia diversi dati e analisi un poco più strutturati messi in campo anche di recente (penso in particolare a un volume edito dalla LEV e a un numero monografico diDesk, la rivista dell’Ucsi), ci dicono che l’informazione religiosa risente, come e più degli altri giornalismi “specialistici”, di un processo di contaminazione con gli altri generi giornalistici che risulta, rispetto alla tradizione del genere che impropriamente chiamiamo “vaticanismo”, secolarizzante, e di conseguenza minaccia di accrescere l’analfabetismo religioso o perlomeno – in parallelo a quanto un altro autore del Rapporto afferma a proposito dei manuali scolastici – di produrre un’alfabetizzazione mediocre. 

Una questione abbastanza complessa, ma che possiamo essere aiutati a dipanare accogliendo le parole chiare rivolte da Papa Francesco, il 22 marzo scorso, all’associazione Corallo, che riunisce le radio e le televisioni “cattoliche”. «Per me – ha detto in quell’occasione – i peccati dei media, i più grossi, sono quelli che vanno sulla strada della bugia, della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Queste due ultime sono gravi!, ma non tanto pericolose come la prima». Perché, ha proseguito, «la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno». Il Papa non si rivolgeva, in quel frangente, a giornalisti specializzati nell’informazione religiosa. Ma a maggior ragione il suo monito vale, se applicato a questi ultimi, a contrastare l’analfabetismo religioso, anche perché ne traspare, come già un anno fa quando aveva ricevuto in udienza le migliaia di “vaticanisti” convenuti a Roma per il Conclave, l’idea che la professionalità, per un giornalista, venga prima di ogni appartenenza, fosse anche un’appartenenza religiosa.

Ho parlato all’inizio dell’amarezza che ha provocato dentro di me l’approfondimento di alcuni dati statistici. Accanto a quanto ho detto fin qui e che ho cercato – per quanto mi è stato possibile – di leggere in maniera critica, penso vada aggiunta un’altra considerazione trasversale ai tre ambiti dei quali ho parlato. Il preoccupante tasso di analfabetismo religioso registrato dal Rapportopenso che, almeno in parte, sia anche il frutto amaro ma evidente di un sentimento religioso che poggia su tracce cristiane infantilistiche, anche nel linguaggio e nelle immagini, che rivelano tutta la loro inadeguatezza e tutta la loro marginalità rispetto a ciò che nel conta nel “mondo adulto”; un mondo adulto che domanda sempre di più al credente di saper “dare ragione della speranza” che lo anima e che innerva le sue progettualità; un mondo adulto che, proprio per questo, domanda contenuti di fede da adulti. 

Quelli che chiamo “contenuti di fede da adulti” sono il contrario, o comunque sono “altro” rispetto al pacchetto di dogmi e comandamenti, semmai anche conosciuti “a memoria”, ma senza che abbiamo un impatto vero sulla capacità di giudizio e di scelta dell’uomo. I contenuti di fede da adulti sono quelli che, radicati nel dato rivelato, permettono di formarsi e di avere una coscienza critica e una sensibilità capace di capire e di apprezzare le differenze, senza demonizzarle né volerle necessariamente omologare.
Un’ultima considerazione, che vorrei offrire come conclusione. 

Un’attenta lettura dei dati presenti nel Rapporto conferma quanto altre ricerche sociologiche affermano, e cioè che i due terzi degli italiani sono immersi in una fede light; nel senso che non si dichiarano atei e agnostici, anzi dicono di credere, ma non hanno le idee chiare sul contenuto del loro credere e non mantengono nessun contatto con la Chiesa. Forse è il caso di spendere qualche parola su questa fascia per niente marginale di sedicenti credenti. Sullo sfondo di questa, che amo chiamare fede light – e che non so se può ricondursi tout court alla figura dell’analfabetismo religioso – vi è il rimando non troppo implicito alla filosofia nietzscheana, secondo la quale la verità, la ricerca della verità e la conoscenza dei contenuti della verità è distinta dalla fede, che appare invece come qualcosa che non consente all’uomo “di coltivare l’audacia del sapere”. Il passaggio successivo al quale si approda è quello di identificare la ragione con la luce e la fede col buio e, di conseguenza, col ritenere che oggetto di fede è tutto ciò che la ragione non riesce a intercettare e a dominare.

In alcuni passaggi, la Lumen fidei – enciclica scritta a quattro mani da Papa Benedetto e da Papa Francesco – contribuisce al superamento di questa polarizzazione alimentata e portata alle estreme conseguenze dall’Illuminismo recuperando, intanto, quello che la tradizione biblica afferma della fede, e poi, ripresentando quanto ci ha consegnato la riflessione critica sul dato rivelato, a partire dal contributo di sant’Agostino. Tutto può essere sintetizzato nell’affermazione che la fede, senza negare il valore che ha ogni conoscenza razionale, non può essere ridotta a questa. 

La fede infatti è “esperienza di relazione”, attraverso la quale il credente viene inserito in un dinamismo di comprensione e di condivisione responsabile. Mi piacerebbe, a questo proposito, che una prossima ricerca potesse prendere in seria considerazione non solo la conoscenza dei contenuti della fede, ma che tentasse anche una sortita seria e intelligente, come quella condotta nel Rapporto, anche sulla fede come “esperienza di relazione”, per verificare – ma onestamente la vedo dura! – quante delle considerazioni presenti nel Rapporto conservano tutta la loro forza.

 
Nunzio Galantino

Rete, luogo di regole

Non possiamo nasconderci dietro a un dito: sono tanti i rischi che le nuove tecnologie digitali comportano. Cyberbullismo, furto di dati personali, diffamazioni on line, violazione della privacy e reati ben più gravi commessi nel mondo digitale sono all’ordine del giorno tra le pagine di cronaca.
Non tutti, però, sanno che da questi mali è possibile difendersi efficacemente, sia con la prevenzione, sia con la difesa dei propri diritti nelle sedi opportune. Come prepararsi al mondo della rete anche quando lo si abita a nome di parrocchie, associazioni, enti religiosi e realtà formative?
Proprio per questo il 12 maggio, a partire dalle ore 21, in diretta su Youtube e sul sito WebCattolici www.weca.it, sarà trasmessa la sesta diretta del percorso “La Rete: come viverla?” dal titolo “La Rete: luogo di regole”.

Nel corso dell’incontro faranno chiarezza su questi e altri aspetti:
 

  • Mauro Berti, Sovrintendente della Polizia di Stato, Responsabile dell’Ufficio Indagini Pedofilia del Compartimento Polizia Postale e delle Comunicazioni per il Trentino Alto Adige di Trento.
  • Avv. Carlo Acquaviva, Collaboratore dell’Ufficio nazionale per i problemi giuridici della Conferenza Episcopale Italiana.
  • Gianluca Bentivegna, IDS&Unitelm, esperto di sicurezza e trattamento dei dati personali.
La diretta sarà disponibile all’interno del Canale Youtube di WebCattolici ma verrà ritrasmessa da numerosi social network, dal sito www.weca.it, dal sito di Peace Communication Network (www.pcn.net) e da tanti altri siti di realtà nazionali e locali.

Anche questo incontro vivrà delle domande e dei commenti del pubblico. Esistono tre modi per porre quesiti e fare considerazioni, anche prima dell’inizio della diretta: utilizzando il modulo di commento di Youtube sotto il video, su Twitter con l’hashtag #incontriweca, oppure inviando una mail a incontri@webcattolici.it.
Il meglio di tutti gli incontri viene riproposto ogni giorno sotto forma di “Pillola”.
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