ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Atti 1,1-11

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

La pericope è l’inizio del libro degli Atti degli Apostoli. Nel vangelo Luca ha narrato gli avvenimenti e gli insegnamenti di Gesù nel tempo della sua vita mortale; negli Atti degli Apostoli l’autore mostra ancora la vita di Gesù, ma di Gesù risorto, vita che si attua nella comunità, nella Chiesa. Il brano è composto dal prologo, dalla notizia di quaranta giorni,

dalla promessa dello Spirito e dalla ascensione del Signore.

     Prologo: «Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo» (At 1,1-2).

     Questo prologo sintetizza il contenuto del vangelo, mostrando come il secondo libro del medesimo autore, Luca, non è altro che la seconda parte di un’opera unica il cui contenuto è Gesù Cristo. Oltre alla menzione di tutto quello che Gesù fece e insegnò che compendia l’attività del Signore, viene ricordata la scelta degli apostoli operata dal Signore in Spirito Santo. La frase finale: fu assunto in cielo compendia il racconto finale del vangelo (Lc 26,51). L’ascensione al cielo pone fine al grande itinerario di Gesù.

     I quaranta giorni: «Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio» (At 1,3).

     La cifra quaranta nel simbolismo numerico biblico rappresenta il periodo di iniziazione nell’insegnamento del Signore risorto e insieme il tempo delle apparizioni che serve a fondare la predicazione e testimonianza apostolica.

     La promessa dello Spirito Santo: «Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,4-8).

     La promessa dello Spirito Santo è data in questo testo due volte; nella prima lo Spirito Santo è connesso con il battesimo distinguendo il sacramento cristiano dal rito di Giovanni; nella seconda lo Spirito Santo è connesso con la forza che sarà infusa ai discepoli per la testimonianza da rendere a Gesù. La promessa dello Spirito si realizzerà presto nella festa di Pentecoste; da allora in poi lo Spirito sarà il grande protagonista della Chiesa descritta nel libro degli Atti degli Apostoli. Lo Spirito è la presenza del Signore risorto nella sua comunità credente.

     L’ascensione di Gesù al cielo: «Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,9-11).

     Il modo di descrizione del mistero dell’ascesa di Gesù al cielo è, come quello della sua risurrezione, sobrio ed essenziale. È presente l’elemento caratteristico delle teofanie, la nuvola che in questo episodio sottrae Gesù alla vista dei suoi. Il corpo glorioso di Gesù non appartiene più a questa terra ove regnano ancora la morte e la corruzione. Asceso al cielo Gesù entra con la sua umanità completa al possesso della gloria divina che gli è propria. Nell’ascensione di Gesù l’annuncio degli angeli assicura i credenti del suo ritorno finale. Tra l’ascensione e il ritorno si svolge il tempo dello Spirito e il tempo della Chiesa durante il quale il Signore è sommamente attivo a favore dei credenti in lui.

 

Seconda lettura: Efesini 1,17-23

Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

 

Il testo si trova all’inizio dell’epistola agli Efesini dopo che nel prologo è stato espresso il mistero della salvezza sotto forma di inno di benedizione, viene il nostro passo che è una preghiera per l’illuminazione dei cristiani. Il tema del brano è la situazione gloriosa di Gesù risorto e asceso al cielo, assise alla destra di Dio, costituito Signore di tutto l’uni-verso.

     Il brano inizia con la preghiera dell’apostolo che si può definire nella sua globalità come una domanda di illuminazione nel senso di penetrazione della luce della fede per l’intelligenza del mistero centrale della salvezza, cioè del disegno di Dio per la nostra sorte salvifica. Tutto in questa preghiera tende alla «conoscenza». Vi è il tema della gloria di Dio, di cui Dio è Padre, cioè autore, causa, origine, largitore alle creature; il tema della sapienza e della rivelazione, il tema della illuminazione e della comprensione, tutti questi concetti hanno come oggetto la speranza, la vocazione, l’eredità di Dio, la sua potenza, l’efficacia della sua forza.

     Questo dispiegarsi salvifico della potenza di Dio si sintetizza e si concentra in Cristo. Il mistero di Cristo viene espresso nei suoi aspetti di morte, risurrezione, di ascensione e sessione alla destra di Dio e signoria universale. È l’affermazione del primato di Cristo su tutto il creato e sulla Chiesa, perché tutto è stato sottomesso a lui ed egli è capo della Chiesa.

     Il tema e la contemplazione di Cristo capo della Chiesa per la sua supremazia di influsso totale e il tema della Chiesa corpo di Cristo sono qui uniti: capo e corpo; Cristo e Chiesa formano il Cristo totale. Il primato di Gesù risorto è assoluto e senza limiti. Ogni uomo e ogni creatura è sotto di lui e in questo mistero si realizza pienamente il piano divino di ricapitolare in Cristo tutte le cose; quelle del cielo e quelle della terra, il piano divino che investe non soltanto gli uomini ma tutti gli esseri creati, dagli angeli fino alle creature materiali rese partecipi della gloria di Dio attraverso il primato e la signoria di Cristo. La visione salvifica e cristologica è cosmica universale.

 

Vangelo: Matteo 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.  Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 

Esegesi 

   Il brano conclude il racconto delle apparizioni di Gesù risorto ed è il termine dell’intero vangelo di Matteo. Esso descrive la missione universale di Gesù, la missione da lui affidata agli apostoli, la promessa di esistenza fino alla fine del tempo.

     Il potere universale di Gesù risorto: «In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”» (Mt 28,16-18).

     Colui che parla è il Signore risorto e glorioso. Anche nel tempo della sua vita mortale Gesù aveva ricevuto dal Padre ogni potere; il potere di compiere miracoli, il potere di parlare con autorità, il potere di perdonare i peccati, il potere di cacciare i demoni, il potere della conoscenza di tutti i misteri del Regno. Ma prima della sua risurrezione Gesù era soggetto a limiti; alla fame, alla sete, al sonno, alla stanchezza, all’indigenza e infine alla sofferenza e alla morte; la sua stessa missione si era limitata alle pecore perdute della casa di Israele. Ora Gesù è risorto, ogni limitazione è scomparsa, egli afferma di avere ricevuto il potere totale assoluto universale; tutto il potere su tutte le cose; colui che gli ha dato tale potere è il Padre. In virtù di tale potere universale egli affida ora la missione universale ai suoi discepoli.

     La missione: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20a).

     In queste parole è espressa anzitutto l’universalità della missione; essa si rivolge a tutte le nazioni, a differenza del tempo della vita mortale di Gesù in cui aveva detto ai dodici inviandoli: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani, rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 10,5-6), ora l’invio è universale.

     Il compito della missione è triplice: fare discepoli, battezzare, fare osservare i comandamenti; è l’ufficio dottrinale profetico, sacramentale santificante, pastorale di governo. Si esprime così la totalità dell’esistenza apostolica che consiste nel predicare, nel battezzare, dare i sacramenti, nel guidare e dirigere la comunità credente affinché raggiunga la salvezza finale. Alla totalità della vita apostolica corrisponde la totalità della vita cristiana che consiste nel credere alla predicazione, nel ricevere il battesimo e i sacramenti, nell’osservare i comandamenti e così giungere alla vita eterna.

     La promessa dell’assistenza di Gesù: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28.20b).

     La formula: Io sono con voi (oppure: Io sono con te) pronunciata da Dio significa nella sacra Scrittura la garanzia del successo nel compito affidato a qualcuno; Dio dice questa parola a Mosè (Es 3,12) comunicandogli la buona riuscita nel liberare Israele dall’Egitto e ripete questa frase ad altri personaggi a cui dà mandato di compiere una impresa. Nel nostro testo Gesù si appropria la parola divina rivelando così la sua dignità divina e con essa assicura il buon esito nella missione data ai suoi. La promessa di Gesù significa in concreto che sempre, fino alla fine del tempo vi saranno predicatori del vangelo, vi saranno ministri del battesimo e dei sacramenti, vi saranno guide della comunità credente, e corrispondentemente sempre vi saranno ascoltatori della predicazione che crederanno, fedeli che riceveranno i sacramenti, credenti battezzati che osserveranno i comandamenti. È l’indefettibilità della chiesa fino alla fine del mondo.

     Sono queste le ultime parole del vangelo di Matteo, il quale non racconta l’ascensione di Gesù, come avviene al termine del vangelo di Marco e di quello di Luca.

     La pienezza della potestà divina di Gesù è ciò che nella sua ascensione al cielo viene disvelato nel segno; la formula trinitaria che sta al centro della missione ottiene anch’essa una sensibile manifestazione nell’ascendere e sedersi alla destra del Padre. La promessa della presenza del Signore con i suoi fino alla fine del mondo indica la natura trasformante del mistero dell’ascensione; essa consente un nuovo tipo di presenza del Signore glorificato; assiso in cielo alla destra del Padre egli intercede per i credenti in lui, per i battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, per coloro che osservano i suoi comandamenti, per i suoi predicatori, per i suoi ministri, i pastori del popolo cristiano; la sua efficace intercessione che avrà come effetto l’invio dello Spirito Santo è la sua nuova presenza non visibile, come la presenza corporale durante il tempo della vita mortale, ma è assai più efficace.

     Gesù salito al cielo è presente alla sua Chiesa in quanto è sommamente attivo in tutti attraverso lo Spirito Santo.

 

Meditazione

     Gesù, che «fu assunto in cielo» (At 1,11), che il Padre «fece sedere alla sua destra nei cieli» (Ef l, 20) e che da Dio ha ricevuto «ogni potere in cielo e sulla terra » (Mt 28,18), fa della sua assenza fisica una presenza invisibile, una compagnia nei confronti dei suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). L’esito del dono della vita per i suoi amici, gli uomini, è l’essere con loro per sempre, in modo misterioso, ma reale.

    «Là dove ci ha preceduto la gloria del capo, è chiamata altresì la speranza del corpo», afferma Leone Magno a proposito dell’ascensione (Sermo 73,4). E la seconda lettura parla espressamente della speranza dischiusa dalla vocazione cristiana, dal Cristo risorto e asceso al cielo (Ef 1,18); speranza escatologica, ma che inserisce pienamente nella storia i cristiani chiamandoli alla testimonianza in forza dello Spirito santo (I lettura); speranza retta dalla vicinanza e dalla compagnia del Risorto nei confronti dei discepoli che si vedono così sostenuti nel loro impegno quotidiano di servizio al vangelo (vangelo).

     Il vuoto lasciato dall’ascensione di Gesù deve essere colmato dalla testimonianza (At 1,8) e dall’insegnamento (Mt 28,20) dei discepoli. Le due cose sono distinte, ma anche strettamente connesse. Insegnare significa fare segno (in-signare), dare simboli e chiavi ermeneutiche della realtà. Insegnante credibile è colui che vive in prima persona ciò che insegna e che vive di ciò che insegna. O almeno, cerca di farlo. La figura di maestro che il vangelo costruisce, sulla scia di Gesù di Nazaret che è al tempo stesso maestro e insegnamento, è anche quella di un testimone: non si può insegnare l’evangelo senza viverne. L’evangelo, infatti, è il comando lasciato dal Signore ai suoi: «insegnando […] tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).

    Il mandato di insegnare e fare discepole le genti è un compito generante e significa educare alla fede, trasmettere la fede, esercitare un compito di paternità che introduca l’uomo alla relazione con Dio. Questo il compito della Chiesa nella storia «fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Compito che la Chiesa può assolvere se si affida alla promessa del Risorto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Queste parole non sono una garanzia, ma una promessa: e ad una promessa si fa credito, ci si affida, senza altre garanzie che l’affidabilità di colui che ha parlato. Il quale, promettendo, ha promesso se stesso, la sua presenza. Inoltre, quelle parole «Io sono con voi» devono essere lasciate in bocca al Signore: sono completamente stravolte se poste sulla bocca di uomini che dicono: «Dio è con noi». Questa non è più la promessa di un Altro a cui ci si affida ogni giorno con umiltà, timore e tremore, ma affermazione umana che fonda una pratica violenta e impositiva, arrogante e aggressiva.

    Le parole «Io sono con voi» stanno nello spazio della fede e della speranza, le parole «Dio è con noi» stanno nello spazio della certezza e del sapere (e nascondono illusione e menzogna): se le prime aprono il futuro (e lo aprono indefinitivamente: «fino alla fine del mondo»), le seconde lo chiudono irrimediabilmente. Trasmettere la fede è dunque anche donare speranza.

    La promessa solenne del Risorto evoca la formula di alleanza per cui Dio si lega al popolo ( «Io sarò il vostro Dio»), e soprattutto evoca la presenza di Dio in mezzo al popolo, nel Tempio. Quelle parole fondano dunque la comunità cristiana come luogo della presenza santa di Dio, come tempio, ma tempio di corpi e di relazioni. La promessa «Io sono con voi» impegna il «voi» a perseverare, a rimanere nella carità fraterna, nei legami reciproci, e a far regnare su di essi il Nome di Dio («Io sono») rivelato dal volto di Gesù di Nazaret. La presenza del Signore viene sperimentata come dono grazie alla fedeltà dei credenti. A sua volta, la faticosa fedeltà quotidiana («tutti i giorni») dei credenti è sostenuta dalla speranza suscitata dalla promessa: «Con la tua promessa mi hai fatto sperare» (Quoniam promisisti, me sperare fecisti: Agostino, Enarr. In Ps. 118,15,1).

 

Preghiere e racconti 

L’Ascensione del Signore

È il nascondimento di Gesù il giorno dell’Ascensione che ha reso possibile la vita e la testimonianza della Chiesa da venti secoli. La sua assenza non solo ha permesso l’esistenza della Scrittura, che ci trasmette il suo messaggio, ma genera ancor oggi quella Scrittura viva, quella Scrittura imprevedibile che tracciano, giorno dopo giorno, i discepoli di Gesù sparsi su tutte le strade del mondo. Quel Gesù che noi amiamo senza averlo visto, quel Gesù che popola le nostre solitudini e abita le nostre comunioni, ci sfugge sempre ogni qualvolta cerchiamo di afferrarlo. Egli è davanti a noi, oltre i personaggi nei quali vogliamo rinchiuderlo. Ed è giusto che sia così, perché possederlo una volta per tutte secondo il suo volto storico, dogmatico, culturale, politico, sarebbe già non ricercare più la sua bruciante assenza.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio).

L’eterno quotidiano

Degli occhi delle lingue dei volti

che annunciano a tutti i secoli

Io sono fino alla fine del tempo

l’asse del cielo la ruota del vento

l’albero della vita le cui radici

di corpi cinerei fanno un sol corpo

L’Alleluia che si radica

fra i denti murati dei morti

così forte che l’inferno non esamina

quest’Alleluia mi rianima

Io non posso più reprimerti

mia graminacea mia figlia folle

mio seme alato fatto parola

mia eternità neonata

mia gioia danzante a pie zoppo

fra le mie ossa sparse

Basta un papavero

uscito da me fuori dalla tomba

per farmene uscire

e per celebrare

il Risorto che mi rende

il mio filo d’alba il mio fiore nei denti

il dono di vivere nella gloria

dell’eterno quotidiano

La fede rinata ogni mattina

Di un’inconcepibile vittoria.

(P. Emmanuel, Evangeliario)

La porta del cielo

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: «Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo».

«Rimanete saldi nella fede»

«Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman)

Già ora con Cristo nei cieli

Oggi il Signore nostro Gesù Cristo è asceso al cielo; salga con lui il nostro cuore. Ascoltiamo l’Apostolo che dice: «Se siete risorti con Cristo, gustate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio; cercate le cose di lassù e non quelle della terra» (Col 3,1-2). Come infatti egli è asceso al cielo ma non si è allontanato da noi, così anche noi siamo già lassù con lui, sebbene non sia stato ancora realizzato nel nostro corpo quanto ci è stato promesso. Egli è già stato esaltato sopra i cieli, tuttavia sulla terra patisce le stesse sofferenze che proviamo noi sue membra. Di ciò ha reso testimonianza quando ha gridato dall’alto: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4), e: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35). Perché anche noi qui sulla terra non operiamo in modo tale da riposare già ora con lui nei cieli mediante la fede, la speranza e la carità che ci uniscono a lui? Cristo è nei cieli ed è anche con noi, noi siamo sulla terra e siamo anche con lui. Egli lo può fare per la divinità, la potenza e l’amore che possiede; noi, anche se non possiamo farlo per la divinità come lui, tuttavia lo possiamo fare con l’amore, però in lui. Cristo non ha abbandonato il cielo quando ne è disceso per venire fino a noi, ne si è allontanato da noi quando è asceso di nuovo al cielo. Che egli fosse in cielo mentre era anche qui sulla terra lo afferma lui stesso: «Nessuno – dice – è asceso al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo che è in cielo» (Gv 3,13). Non ha detto: «Il Figlio dell’uomo che sarà in cielo», ma: «Il Figlio dell’uomo che è in cielo». Che Cristo rimanga con noi anche quando è in cielo, ce lo ha promesso prima di salirvi, dicendo: «Ecco, io sono con voi fino alla fine dei secoli» (Mt 28,20). I nostri nomi sono lassù, perché egli ha detto: «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nel cielo» (Lc 10,20).

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 263/A, Opere di Sant’Agostino XXXII/2, p. 904).

Preghiera

Noi, viandanti sulle strade del mondo, sospiriamo a rivestire quell’abito di luce intramontabile che tu stesso, Signore Gesù, nel tuo amore hai preparato per noi. Fa’ che nulla vada perduto di quanto, per grazia, hai riversato come dono nelle nostre povere mani. La forza del tuo Spirito plasmi in noi l’uomo nuovo rivestito di mitezza e di umiltà.

Ti preghiamo di non lasciarci sordi alle tue parole di vita, perché se non seguiamo te e non ci affidiamo alla potenza del tuo nome, nessun altro potrà salvarci. Il tuo Spirito frantumi tutti gli idoli che ancora ci trattengono e ostacolano il nostro cammino. Nulla e nessuno su questa terra possa imprigionare il nostro cuore! Fa’ che volgendo lo sguardo a te e al tuo regno, acquistiamo occhi per vedere ovunque i prodigi del tuo amore.

 

«Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria» (1Tm 3,16).
Il mistero celebrato dalla Chiesa quaranta giorni dopo la Pasqua trova la sua sintesi nella preghiera Colletta della liturgia del giorno: «…nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria». Trova il suo compendio anche nel Prefazio della festa: «Mediatore tra Dio e gli uomini,
giudice del mondo e Signore dell’universo,
non si è separato dalla nostra condizione umana,
ma ci ha preceduti nella dimora eterna,
per darci la serena fiducia 
che dove è lui, Capo e primogenito,
saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria».

Gesù, infatti, è entrato nel santuario del cielo affinché “la gloria del Capo” potesse diventare “la gloria del corpo” (S. Leone Magno, Sermo I de Ascensione Domini). Egli è per sempre al suo posto quale «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Ciò significa che la natura umana per mezzo di Lui e in Lui è per sempre con Dio, è per sempre in Dio. Il Signore Risorto, inoltre, intercede per noi presso il Padre quale loro avvocato (cf. Eb 7,25) poiché «non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui…Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,24-26).
Nel riquadro dell’Armadio degli Argenti dipinto dal Beato Angelico in pieno ‘400, l’evento salvifico è come raccolto in uno spazio ridottissimo occupato quasi per intero dai discepoli riuniti in cerchio insieme a Maria posta al centro della scena. Essi fissano il cielo nel quale è penetrato Cristo risorto del quale è visibile però soltanto la parte inferiore della tunica avvolta da una nube che lo “sottrae al loro sguardo” (cf. At 1,9).
Gesù è accolto in una sfera di luce dorata che taglia quasi per intero il cielo azzurro che sovrasta un paesaggio essenziale e scarno, arricchito soltanto dalla presenza discreta di alcuni alberelli che conferiscono alla scena un certo realismo. Un angelo sulla destra rivolge ai discepoli le parole: «“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?

Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”» (At 1,11).
Gesù ha raggiunto il cielo ed è per sempre nella gloria del Padre suo. Si è assiso alla destra dell’Altissimo, ma è anche presente tra i suoi discepoli ai quali aveva già promesso che sarebbe stato con loro sino alla consumazione del mondo (cf. Mt 28,20). «Il paradiso non è ormai più un luogo da sempre esistito…bensì il paradiso si apre in Gesù stesso: esso è legato alla sua persona…Cristo è egli stesso il paradiso, la luce, l’acqua fresca, la pace sicura, cui tendono le aspettative e le speranze degli uomini» (J. Ratzinger).
Il mistero dell’ascensione è pertanto la celebrazione dell’opera di riconciliazione che Dio ha realizzato in Cristo. In lui, infatti, e in particolare nel suo mistero di morte e risurrezione, è stata fatta pace tra il cielo e la terra ed è stata riaperta la via che conduce a Dio.
Nel suo cammino verso la Gerusalemme celeste il credente affronta le prove e le tribolazioni della storia ben sapendo che «niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (Gaudium et Spes 39).
  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014. 

PER APPROFONDIRE:

PASQUA ASCENSIONE

Incontro dei Responsabili regionali per l’IRC

Il prossimo mercoledì 11 giugno 2014 si svolgerà l’incontro dei Responsabili regionali per l’IRC.
Si tratta di una giornata di dialogo e confronto che cerca di evidenziare le proposte e le prospettive migliori per favorire lo sviluppo dell’IRC, stimolati anche dalle emozioni vissute lo scorso 10 maggio durante l’incontro di Papa Francesco con tutto il mondo della scuola italiana.

L’appuntamento è previsto dalle ore 10 alle ore 17 nella sede CEI “Angeli Custodi”, in via Aurelia 468.

Per iscriversi, è necessario accedere alla procedura online attraverso il seguente link: www.iniziative.chiesacattolica.it/regionaliIRC

 
 

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 8,5-8.14-17

In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città.

Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

 

Lo Spirito Santo, di fatto, ci viene presentato come frutto della fede nell’annuncio evangelico in Samaria, ad opera del diacono Filippo secondo il racconto degli Atti.

     È un episodio molto importante, questo, perché ci fa vedere come il Vangelo sia destinato a tutti i popoli. Fin qui S. Luca ci aveva narrato qualcosa della diffusione del Vangelo in mezzo agli Ebrei: un passaggio intermedio è rappresentato dalla predicazione di Filippo ai Samaritani che, pur essendo divisi, avevano qualcosa in comune con gli Ebrei; più tardi avverrà il lancio missionario anche ai pagani, ad opera soprattutto di Paolo.

     Proprio per la novità del gesto compiuto dal diacono Filippo, che poteva comportare anche la nascita di certi problemi, avendo saputo la cosa, gli Apostoli da Gerusalemme «inviarono a loro Pietro e Giovanni» (At 8,14) per verificare la situazione e anche per completare l’opera dello stesso Filippo. Ed è precisamente a questo punto che si parla di una particolare discesa dello Spirito sopra quei primi credenti samaritani. Infatti i due Apostoli «pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (14,15-17).

     Dato che si dice che quei cristiani erano già stati «battezzati nel nome di Gesù», si dovrebbe pensare che il rito che compiono gli Apostoli con la loro preghiera e la «imposizione delle mani» sia qualcosa di corrispondente al sacramento della Cresima che, come sappiamo, è una specie di completamento, di «confermazione» vera e propria del Battesimo. Comunque, quello che è importante è la discesa dello Spirito sopra quei nuovi credenti, quasi a dire che si diventa cristiani solo con la «sigillazione» dello Spirito, che diventa così come l’anima che da forza e vitalità a chiunque crede in Cristo.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 3,15-18

Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

 

Se lo Spirito è come il «completatore» della salvezza, che guida i cristiani dall’interno, non si deve dimenticare però che egli è sempre «lo Spirito di Cristo», che è stato inviato proprio per completare la sua opera di salvezza. Perciò, come ci insegna il testo della lettera di Pietro, al centro rimane sempre Cristo che «è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito» (3,18). Dovremmo essere qui davanti ad una antica professione di fede, che ci rimanda al mistero pasquale: morte espiatrice di Cristo, «giusto» e innocente, e sua risurrezione dai morti, «per ricondurvi» al Padre.

     Tutto questo è grandioso, ma anche paradossale e difficile a credere.

È per questo che i cristiani debbono non solo essere convinti della loro fede, ma anche capaci di comunicarla agli altri, «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (v. 15). E tutto questo non con arroganza o senso di superiorità, ma «con dolcezza e rispetto», dimostrando con la propria «condotta» la forza trasformatrice del Vangelo (vv. 15-16). Questo potrà costare anche contraddizioni e sof-ferenza: ma è ancora il Vangelo che ci insegna che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (v. 17).

 

Vangelo: Giovanni 14,15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

 

Esegesi 

   Il brano che stiamo commentando fa parte del più lungo «discorso d’addio», che Gesù rivolge ai suoi discepoli mentre sta per avviarsi, dal luogo dell’ultima cena, all’orto dell’agonia.

     Sono parole di consolazione quelle che egli rivolge loro per predisporli agli eventi drammatici che seguiranno, e di cui essi non hanno piena consapevolezza: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio ed abbiate fede in me» (14,1). Ma sono anche parole «testamentarie», che esprimono le sue «volontà» circa i loro atteggiamenti futuri, il loro modo di rapportarsi a lui che, pur avviandosi alla morte, continuerà ad essere presente in mezzo a loro come il Risorto, «donatore» addirittura del suo «Spirito» di santità.

     Perciò la prima richiesta che egli fa agli apostoli, per continuare a tenere viva la sua memoria oltre la morte e dare testimonianza della sua risurrezione, è quella di vivere «nell’amore». E proprio sul tema dell’amore si apre e si chiude il brano di Vangelo oggi proposto alla nostra attenzione: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (14,15.21).

     Come si vede, l’amore di cui si parla è un amore a doppio senso, anzi triplice: è l’amore dei discepoli verso Cristo, anche dopo la sua morte! Anzi soprattutto dopo la sua morte, perché egli ritornerà a vita; e quella sarà una «vita» in gloria e in potenza: « Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (14,19). Proprio per questo l’amore dovrà essere più forte!

     A questo amore dei discepoli risponde dall’alto un duplice amore: ovviamente da parte di Cristo, che quei discepoli si è «scelti» lui stesso e non può non amarli; ma anche quello del Padre che ama tutto quello che ama il Figlio. Perciò siamo davanti a un amore infinito che avvolge il discepolo di Cristo!

     Però da lui si esige, come controparte, che dimostri il suo amore osservandone i «comandamenti»: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» (v. 21). Può anche sembrare strano che in un discorso di «amore» si parli di «comandamenti» (in greco entolài): ma non lo è se si pensa, come interpretano non pochi esegeti, che con questa espressione Gesù rimanda in modo particolare ai «due comandamenti» che sono come la «sintesi» del suo insegnamento, e cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Basti qui ricordare quello che Gesù dirà tra non molto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato» (15,12). Davanti all’amore immenso di Cristo si impone, di per sé, una «libera» volontà di risposta amorosa.

     E questo tanto più che, proprio in tale contesto, Gesù promette ai suoi di inviare lo Spirito Santo, che il testo greco chiama «Paraclito» (paràklētos), termine greco che può significare sia «consolatore» che «avvocato»: probabilmente l’Evangelista intende le due cose insieme.

     Comunque, di lui qui si enunciano due caratteristiche, come risulta dal testo: «io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» (14,16-17). La prima è che lo Spirito è dato per «rimanere sempre con noi»: dunque non ci abbandonerà mai. Addirittura si dice che sarà «in noi» (v. 17): si parla dunque di una «inabitazione» dentro di noi, di modo che sia lui ad agire in noi e per mezzo di noi. In tal modo è chiaro che egli, il quale è il frutto dell’amore del Padre e del Figlio, ci darà la capacità di riamare Dio ed i fratelli, attuando così quel «comandamento» dell’amore di cui ci ha parlato Gesù.

     La seconda caratteristica è che egli è lo «Spirito della verità» (v. 17), che ci guiderà «alla verità tutta intera» (16.13). Ma la «verità» di cui qui si parla non è qualcosa di astratto, di puramente concettuale o cognitivo, quanto piuttosto la «rivelazione» che Dio ha fatto di se stesso donandoci il Cristo, che è afferrabile solo attraverso la fede: è per questo che «il mondo» incredulo non può né «riceverlo», né «conoscerlo». Solo mediante la fede in Cristo si ha accesso alla salvezza.

 

Meditazione 

     Prima di passare da questo mondo al Padre, Gesù promette ai suoi discepoli il dono dello Spirito, del Paraclito, ovvero dell’avvocato difensore che proteggerà i discepoli stessi nella lotta che dovranno sostenere in un mondo ostile (vangelo); questo Spirito guida la presenza cristiana nel mondo sulla via della mitezza e del rispetto degli «altri», i non credenti (II lettura) ed accompagna la predicazione degli apostoli che da vita a nuove comunità cristiane (I lettura).

    Dall’evento pasquale sgorga la speranza come responsabilità dei cristiani. Di essa i cristiani devono essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). «Sempre», dunque in ogni ambito e momento della vita; «a chiunque», dunque non a qualcuno sì e ad altri no, ma a tutti. Inoltre di essa i cristiani devono «rispondere», cioè divenire responsabili: è la testimonianza che solo loro possono dare al mondo. Chi chiede conto della speranza, ne chiede anche un racconto: nella storia i cristiani si collocano come narratori di speranza. Prima ancora che in rapporto agli uomini, la speranza è responsabilità del cristiano in rapporto a Dio, è risposta a Colui che l’ha chiamato alla fede e alla speranza: la «speranza della vocazione» (Ef 1,18) è la speranza dischiusa dalla chiamata divina in Cristo Gesù. La speranza cristiana come responsabilità si situa pertanto tra chiamata di Dio e domanda degli uomini: è responsabilità unica e duplice al tempo stesso, come il comando di amare Dio e il prossimo è duplice e unico al tempo stesso (Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28).

    La nascita della Chiesa in Samaria procede dall’annuncio di Cristo («Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo»: At 8,5) e dalla discesa dello Spirito («Pietro e Giovanni …. imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo»: At 8,17). Il rapporto di collaborazione e fiducia tra Chiesa madre di Gerusalemme (At 8,14) e la nascente comunità in Samaria dice come la parola del vangelo e lo Spirito santo superano le barriere culturali e le separazioni etniche, le divisioni religiose e gli odi atavici: tra Giudei e Samaritani, infatti, non intercorrevano rapporti (Gv 4,9) a seguito di una storia ormai antica che protraeva nel tempo i suoi strascichi di incomunicabilità. I frutti della resurrezione si misurano anche in questa capacità di superare le rivalità antecedenti trovando unità e comunione in Cristo.

    Il vangelo presenta la promessa del dono dello Spirito da parte di Gesù, ma anche la promessa della sua venuta: «Ritornerò da voi» (lett: «verrò da voi»: Gv 14,18). La preghiera cristiana, che sempre avviene nello Spirito e in Cristo, sarà anche sempre invocazione dello Spirito, epiclesi, e invocazione della venuta gloriosa del Signore, Maranà tha. Ovvero, avrà sempre una connotazione escatologica determinante. Il Cristo, inoltre, promette anche la sua intercessione, la sua preghiera al Padre per i discepoli ( «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito»: Gv 14,16) e questa preghiera di Gesù è lo spazio al cui interno avviene ogni preghiera cristiana.

    Lo Spirito che Gesù promette sarà nel discepolo (Gv 14,17) diventando principio di vita interiore e interiorizzando in lui la presenza di Cristo. La sequenza di Pentecoste canta lo Spirito quale dulcis hospes animae (e anche consolator optime, dulce refrigerium). La dolcezza e la tenerezza che furono del Cristo, sono anche dello Spirito che spesso nella tradizione è stato evocato con immagini materne: «Lo Spirito è il seno in cui Dio è fecondo come una madre» (Francois-Xavier Durrwell). L’azione dello Spirito nel credente è quella di creare in lui una sorgente di vita per gli altri, anzi, di fare di lui uno spazio di vita per gli altri, capace di generare e dare vita. Lo Spirito, che è promessa e dono del Risorto, è anche tenerezza materna. E se esso insegna al cristiano a pregare, lo fa proprio come una madre: «Lo Spirito santo ci insegna a gridare “Abbà” comportandosi come una madre che insegna al proprio figlio a chiamare “papà” e ripete tale nome con lui finché lo porta alla consuetudine di chiamare il papa anche nel sonno» (Diadoco di Fotica).

 

Preghiere e racconti

Il Verbo sposo

Il Verbo sposo, che è entrato in me più di una volta, non mi ha mai dato alcun segno della sua irruzione, ne mediante la voce, ne mediante un’immagine visibile, ne mediante un qualsiasi altro approccio sensibile. Nessun movimento da parte sua mi ha segnalato la sua venuta, nessuna sensazione mi ha mai avvertito che egli si fosse insinuato nei miei recessi interiori. Mi sono accorto della sua presenza da certi movimenti del mio cuore: la fuga dai vizi e la repressione delle mie voglie carnali mi hanno mostrato la potenza della sua virtù.

(Bernardo, Sermone sul Cantico dei cantici, 74,6)

«Ritornerò da voi» (Gv 14,3)

«Si può essere indotti a spiegare l’affermazione in questo modo: «Egli è ritornato, ma nel suo Spirito» cioè al suo posto è venuto il suo Spirito e la sua affermazione che egli è in mezzo con noi significherebbe allora semplicemente che il suo Spirito è in mezzo a noi. Certo, nessuno può negare questa verità così bella e consolante della venuta dello Spirito Santo. Ma perché è venuto? Per supplire all’assenza di Cristo o piuttosto per perfezionare la sua presenza? Incontestabilmente per renderlo presente. Lo Spirito di Dio non è venuto perché il Cristo non venga, ma viene piuttosto in modo tale che il Cristo possa venire nella sua venuta. Attraverso lo Spinto Santo noi siamo in comunione con il Padre e il Figlio. Lo Spirito Santo causa, provoca la fede, l’abitazione di Cristo nel cuore. Cosi io lo Spirito non prende il posto di Cristo nell’anima, ma assicura al Cristo questo posto».

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, VI, 10).

In comunione con Gesù

     In comunione con Gesù, siamo sotto l’influsso dello Spirito Santo e possiamo essere creativi, agire pienamente in modo nuovo nella lotta per il Regno, la città dell’amore. In Gesù e attraverso Gesù, possiamo affrontare le forze del male e della menzogna inscritte nei cuori e nei gruppi umani, forze che schiacciano la vita, che schiacciano i deboli e gli umili. Non siamo più noi che parliamo, ma lo Spirito Santo in noi. Non siamo più noi che viviamo, ma Gesù in noi. Gesù è venuto a far nuova ogni cosa. In comunione con lui nello Spirito Santo, anche noi possiamo far nuova ogni cosa e fare cose più grandi ancora di quelle fatte da Gesù (Gv 14).

In comunione con Gesù, le nostre azioni nascono dalla comunione e sono orientale verso la comunione. Anche le nostre parole sono chiamate a sgorgare dal silenzio della comunione per arrivare al silenzio dell’amore. Siamo chiamati a bere al cuore di Cristo per diventare fonti di vita per gli altri, per dare la nostra vita agli altri.

 (J. VANIER, Gesù, il dono dell’amore, Bologna 1994,168).

Starà in voi

«Se mi amate, osservate i miei comandamenti» (Gv 14,15). Poiché prima aveva detto: «Qualunque cosa chiederete, io la farò» (Gv 14,13) perché non credessero che bastasse chiedere, aggiunse: «se mi amate»; allora io la farò. Poiché era naturale che sentendolo dire: «Io vado al Padre» fossero turbati, dice: «Non è l’essere turbati che prova l’amore per me, ma l’obbedire a ciò che ho detto. Vi ho dato il comandamento di amarvi a vicenda perché facciate a vicenda quello che io ho fatto a voi. Questo è l’amore nell’obbedire a queste parole e nell’accordarsi alla persona amata». […] Che cosa vuol dire: «Pregherò il Padre?» Con esse mostra che è giunto il tempo della venuta dello Spirito. Dopo che egli, con il suo sacrificio, ebbe purificato gli uomini, allora si ebbe l’effusione dello Spirito santo. Perché non discese prima, mentre Gesù era ancora con loro? Perché allora il sacrificio non era stato ancora consumato, ma quando il peccato fu annientato e i discepoli, mandati in mezzo a pericoli, si preparavano alla lotta, c’era bisogno che venisse chi poteva confortarli. Perché lo Spirito non venne subito dopo la risurrezione? Perché essi, provando un più vivo desiderio, lo accogliessero con buone disposizioni. Finché Cristo era con loro, non erano nell’angoscia, ma una volta che egli se ne andò, rimasero privi di difesa, in preda di una grande paura e provarono un vivo desiderio di riceverlo. «E resterà con voi». Questo dimostra che non se ne andrà neppure alla fine del mondo. Ma perché sentendo parlare del Paraclito, non pensassero a un nuova incarnazione e non si aspettassero quindi di vederlo con gli occhi del corpo, precisa: «II mondo non può riceverlo perché non lo vede. Non starà dunque con voi come faccio io, ma abiterà nelle vostre stesse anime» (Gv 14,17). Questo significa: «Starà in voi». […] Dice: «Starà in voi», ma neppure così riesce a disperdere il loro scoraggiamento. Cercavano ancora la sua presenza e la sua compagnia. Per guarire la loro tristezza dice: «Non vi lascerò orfani. Tornerò da voi» (Gv 14,18). Non temete; non vi ho detto che vi manderò un altro Paraclito perché vi avrei lasciati soli fino alla fine; non vi ho detto: «Resterà con voi» nel senso che io non vi vedrò più. “Non vi lascerò orfani”».

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Giovanni, om. 75, PG 59,403-405).

Cari giovani: non abbiate paura di Cristo!

Benedetto XVI saluta i giovani e ricorda loro il monito di papa Wojtyla: “Spalancate le porte a Cristo!” e aggiunge: “Egli non toglie nulla, e dona tutto”. 

E’ nel passaggio finale della sua omelia, pronunciata in occasione della cerimonia di inizio del suo pontificato, che Benedetto XVI guarda in modo speciale ai giovani, e lo fa sullo stile e con le parole di Giovanni Paolo II, proponendo ancora una volta al mondo la storica esortazione “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Un segno di continuità ma anche una scommessa a cui il successore di Pietro non vuole rinunciare.

“In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani.

Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen” 

La logica dell’amore

     Nella casa del Padre ci sono molti posti (Gv. 14,2) dice Gesù. In essa ogni figlio di Dio ha il suo posto unico. Devo allora abbandonare tutti i paragoni, tutte le rivalità e le competizioni ed arrendermi all’amore del Padre.

Ciò richiede un salto di fede perché ho poca esperienza di un amore che non si abbandoni a paragoni e non conosco ancora il potere salvifico di un tale amore. Dio mi spinge a raggiungere la sua casa. Nella luce di Dio io posso finalmente vedere il mio vicino come mio fratello, come colui che appartiene a Dio quanto appartengo io. Ma fuori dalla casa di Dio, fuori dalla sua logica di amore, fratelli e sorelle, mogli e mariti, genitori e figli, diventano rivali e perfino nemici; ognuno continuamente afflitto da gelosie, risentimenti, sospetti. Ma una siffatta situazione è solo fonte di dolore e di angoscia. In essa ogni cosa perde la sua spontaneità. Ogni cosa diventa sospetta, preoccupante, calcolata, e ci si abbandona a mille congetture. Non c’è più alcuna fiducia. C’è una via d’uscita? C’è uno sbocco dal risentimento verso il mio fratello, che nasce dal mio bisogno di essere amato? Sì, c’è.

Lasciarmi trovare da Dio Padre e sentirmi amato. Devo rivendicare a me stesso la mia condizione di figlio datami da Dio. Solo sentendomi unico, vedrò che l’amore di Dio non è esclusivo, ma comprende e sa mare, in modo unico e irripetibile, ciascun uomo. E anch’io farò lo stesso.

(J.H. Nouwen).

Scavare verso Dio

È da tempo che la sera è caduta

è da sere che il cielo è oscurato

è da cieli che la luce è partita

è da giorni che il ruscello è seccato.

Ecco questo uccello passare basso sotto la nube

bisogna partire e rientrare nel buio

non è più tempo di cantare nella strada

è troppo tardi per chiacchierare nel buio.

Gli alberi dormono come un corpo inerte,

la farfalla si affretta verso la sua rovina.

Solo, senza rimedio, bisogna chiudere gli occhi

e in fondo al buio scavare verso Dio.

(J.P. Dadelsen, Giona).

Preghiera

     Signore Gesù, noi crediamo che tu ci ami e desideriamo amarti: donaci lo Spirito di verità perché ci faccia comprendere e mettere in pratica tutte le tue parole di vita, quelle che hai attinto per noi dal cuore dell’eterno Padre. Tu sei sempre con noi e non ci lasci orfani: anche noi vogliamo rimanere con te. Sostieni e accresci in noi questo desiderio. Prega ancora per noi, presso il Padre, perché ci mandi l’«altro Consolatore», colui che ci difende dal maligno e ci fa ricordare quanto siamo amati in totale gratuità. Saremo così condotti alla verità tutta intera, alla dolcezza della comunione, alla sicurezza della pace e il mondo, vedendo, saprà: saprà che tu ami il Padre compiendo la sua volontà e che proprio questo amore salva il mondo. Amen.

Gesù Risorto si fa prossimo ai suoi discepoli, li incontra, parla con loro, condivide con loro alcuni pasti. Egli non è un fantasma: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 24,38-39). Egli non è neppure il predicatore di Galilea redivivo, ma è il Crocifisso Risorto, tanto che Pietro dopo la Pentecoste potrà dire con forza: «Gesù di Nazareth…dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,22-24).
Colui che i discepoli avevano visto, udito e toccato (cf. 1Gv 1,1-3), il Maestro che avevano ascoltato e seguito e con il quale avevano condiviso la mensa, adesso, dopo la sua morte, si mostra «ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (At 1,3). Per questo Paolo può affermare: «Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2Cor 5,16).

Nel riquadro della Maestà di Duccio di Buoninsegna Gesù Risorto appare vivo ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo. Questi sono distribuiti dall’artista in due gruppi di cinque, tutti rivolti verso il Signore. È assente soltanto Tommaso. Del «luogo dove si trovavano i discepoli per paura dei giudei» (Gv 20,19) Duccio ci fa intravedere uno scorcio di architettura e soprattutto le sue porte ben chiuse.
I discepoli nel loro insieme indicano la Chiesa che si rallegra nell’udire la voce del suo Sposo e che da Lui riceve la missione di annunciare con la forza dello Spirito il vangelo della salvezza a tutte le nazioni. Ma «lo Spirito Santo viene a prezzo della “dipartita” di Cristo. Se tale “dipartita” ha causato la tristezza degli apostoli, e questa doveva raggiungere il suo culmine nella passione e nella morte del Venerdì Santo, a sua volta “questa afflizione si cambierà in gioia”. Cristo, infatti, inserirà nella sua “dipartita” redentrice la gloria della risurrezione e dell’ascensione al Padre.
 
Pertanto, la tristezza, attraverso la quale traspare la gioia, è la parte che tocca agli apostoli nel quadro della “dipartita” del loro Maestro, una dipartita “benefica”, perché grazie ad essa un altro “consolatore” sarebbe venuto.
A prezzo della croce, operatrice della redenzione, nella potenza di tutto il mistero pasquale di Gesù Cristo, lo Spirito Santo viene per rimanere sin dal giorno della Pentecoste con gli apostoli, per rimanere con la Chiesa e nella Chiesa e, mediante essa, nel mondo» (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificante 14).
Per i discepoli che erano stati scossi dagli eventi drammatici della passione di Gesù e dalla sua morte, si realizzano finalmente le parole di Gesù: «Vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA VI DOMENICA DI PASQUA

7° Laboratorio Direttori/Responsabili diocesani IRC di recente nomina

Il laboratorio, riservato ai Direttori/Responsabili diocesani dell’IRC nominati nell’arco dell’ultimo quinquennio, si svolgerà martedì 17 giugno p.v., a Roma presso il “Centro Congressi” della CEI sito in via Aurelia 796, dalle ore 10.00 alle ore 17.00, sul tema “Il rapporto tra l’Ufficio Diocesano e le Autorità Scolastiche.
L’obiettivo è quello di sostenere i neo-direttori e responsabili IRC nell’attivare corretti e proficui rapporti di collaborazione con le competenti autorità scolastiche.
 
Il link per l’iscrizione è: http://www.iniziative.chiesacattolica.it/formazionedirettori
 
 

Collaboratori della catechesi diocesana

La formazione è elemento decisivo nell’evangelizzazione e nella catechesi per cui è prioritario il compito dell’animazione e preparazione dei catechisti. Il Corso è rivolto ai collaboratori degli Uffici Catechistici Diocesani, ai componenti delle équipe regionali e diocesane, agli incaricati della catechesi delle aggregazioni ecclesiali e a quanti hanno responsabilità formativa nei confronti dei catechisti di base. Il percorso vuole qualificare i partecipanti nella conoscenza delle dimensioni portanti della catechesi italiana attuale, abilitandoli a collaborare nelle équipe diocesane di catechesi e a comunicare quanto appreso ai catechisti.
 

La Formazione di base per i catechisti

Una formazione che non evolve, che non tiene conto dei mutamenti in corso, ha come conseguenza la preparazione di catechisti abilitati solo per interventi generici e comunque obsoleti rispetto alle attuali necessità. Si avverte il bisogno di percorrere nuove vie ma si fatica a intuire la direzione verso cui muoversi. E’ tuttavia una ponderazione necessaria, perché la scelta del modello formativo non è mai neutra.
In questo contesto si inserisce il presente studio che offre delle riflessioni teoriche e indicazioni operative stimolanti. Un primo elemento significativo è costituito dal ricorso a tutte e tre le dimensioni che animano la catechesi, quella teologica, pedagogica e comunicativa, strettamente intrecciate per dar vita a un quadro teorico capace di sostenere poi l’impianto formativo proposto.
I punti di riferimento interessano quattro orizzonti: antropologico, ecclesiologico, culturale e comunicativo. In particolare, vi si trovano enfatizzati: la visione di uomo fondamentalmente aperto alla Parola Rivelata, costitutivamente relazionale, in tensione permanente verso la maturità; il “noi ecclesiale”, in una comunità ermeneutica che assume il Crocifisso come propria identità; l’urgenza di abitare la modernità in modo ermeneutico, cioè libero ma responsabile; la comunicazione rituale empatica e lo stile del farsi accanto, tipico di micro-comunità empatiche.
Sulla base di questi presupposti, trovano un originale sviluppo i concetti di catechesi come circolarità comunicativo-educativa, esaminato a livello di processo catechistico, di strutturazione dei contenuti e di rapporto tra i soggetti dell’atto catechistico, e diapprendimento trasformativo, caratterizzato dalla centralità dell’educando e della dimensione esperienziale.
Un altro elemento qualificante è dato dall’opzione di pensare la formazione in termini di “competenze”. Questa scelta sottolinea la necessità di andare oltre l’approssimazione con cui ancora frequentemente si risolve la formazione degli operatori pastorali. Alle tre classiche dimensioni della formazione (essere, sapere e saper fare) e a quella ormai acquisita nel mondo della formazione ecclesiale del “saper stare con”, viene aggiunta una quinta “macro-competenza”, quella del “saper stare in”. Quest’ultima competenza, che ruota intorno al concetto di inculturazione, è un primo tentativo coraggioso di attirare l’attenzione su una nuova dimensione della formazione, una intuizione “promettente” seppure bisognosa di ulteriore elaborazione.
Per quanto riguarda le linee generali per una proposta formativa, nelle pagine del libro sono condensate le migliori intuizioni dell’attuale riflessione catechetica sulla formazione. Le scelte di metodo sono quattro: il gruppo di formazione inteso come micro-comunità empatica di pratica; il modello formativo del laboratorio, suggerito nella Nota pastorale del 2006, realizzato però in forma “mitigata”; il “Progetto Personale di Formazione”, con le finalità di monitorare, valutare e orientare l’attività formativa; l’equipe dei formatori, che mette in campo un atteggiamento di cura qualificante e promovente l’autoformazione dei catechisti.
Si è di fronte a un lavoro non “buono” – nel senso di accomodante – ma “provocante”, per le tesi che vi sono sostenute. Il testo si limita a presentare elementi teorici, ma l’Autore da anni sta sperimentando con esisti incoraggianti nella vita concreta della sua Diocesi l’applicazione pratica delle sue riflessioni e intuizioni. Auguriamo che in una prossima pubblicazione possa offrire pure il risultato di questa esperienza positiva, nella consapevolezza che – al di là di tutto – è dai “frutti” che si verifica la qualità dell’albero (Mt 7,16-20).

Verso la periferia del cristianesimo. Insegnamento religioso come invito

Si è svolto a Praga (23-27 aprile 2014) il XVI Forum europeo per l’insegnamento scolastico della religione, dal titolo: Verso la periferia del cristianesimo. Insegnamento religioso come invito.

Dell’interessante confronto, offriamo le tre relazioni principali e quattro contributi in lingua italiana di orientamento generale.

Ringraziamo la Direzione di EuFRES per la gentile concessione.

0. Programma

1. Relazione Tueck

2. Relazione di de Villar

3. Relazione Grillo

4. Contributo Wierzbicki

5. Contributo Bissoli

6. Contributo Usai

7. Contributo Filipovic

3° Convegno Nazionale sulla formazione socio–politica

Luogo dell’appuntamento: Centro Congressi Aurelia

Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro 
Segreteria Generale 
Servizio Nazionale per il progetto culturale

EDUCARE ALLA CITTADINANZA RESPONSABILE 3 
Roma, 13–14 giugno 2014 

Il convegno si pone in profonda continuità con il precedente realizzato a Roma nei giorni 5–6 aprile 2013. Si vuole approfondire l’impegno educativo alla cittadinanza responsabile attraverso una riflessione sulle motivazioni teologiche ed ecclesiali e con una proposta di metodo che sarà discussa anche in forma laboratoriale. L’intento è di raccordare sempre più tra loro le diverse esperienze diocesane di formazione cristiana all’impegno socio–politico (scuole, percorsi, esperienze, itinerari); consolidare per mezzo di sistemi informatici la rete tra le esperienze già avviate da tempo; sostenere le diocesi nello sviluppo delle esperienze recenti e di quelle in progettazione. I destinatari dell’incontro sono i direttori degli Uffici diocesani di pastorale sociale, i responsabili e i formatori degli Enti diocesani di formazione socio–politica. 

PROGRAMMA 

Venerdì 13 
15.30 Introduzione 
– Dott. Vittorio SOZZI, Responsabile del Servizio Nazionale per il progetto culturale della CEI 

15.45 Il bene comune e la pace sociale. Principi e provocazioni dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (nn. 217–237) 
– Prof. Mauro MAGATTI, Docente Scienze Politiche e sociali presso Università Cattolica Sacro Cuore, Milano 
Dibattito 
17.00 Pausa 
17.30 Lavori di gruppo: come ripensare la formazione socio–politica a partire da Evangelii Gaudium nn.217–237 
20.30 Cena (NH–Midas)

Sabato 14 
8.30 S. Messa (NH–Midas)
10.00 Sintesi dei lavori di gruppo 
10.45 Percorsi formativi a partire dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (nn. 217–237) 
– Prof. Leonardo BECCHETTI, Ordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma 
“Tor Vergata” 

11.30 Dibattito 
12.00 Prospettive e conclusioni 
– Mons. Fabiano LONGONI, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI 
12.30 Pranzo 

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 6,1-7

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».

     Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

 

Il brano presenta la vita della prima comunità cristiana che, crescendo per la predicazione degli apostoli e il buon esempio degli aderenti alla fede, comincia a presentare le prime difficoltà di carattere organizzativo. Sorge, infatti, un malcontento degli ellenisti contro gli ebrei.

     Gli ellenisti sono quegli ebrei che parlavano greco e leggevano la Bibbia in greco nelle riunioni sinagogali; erano provenienti dalla diaspora giudaica e avevano fissato la dimora a Gerusalemme; erano contrapposti agli Ebrei che parlavano e leggevano la Bibbia in aramaico. Il malcontento degli ellenisti nasce dal fatto che a causa del super-lavoro degli apostoli vengono da essi trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana di vitto e sussidi.

     I Dodici, che qui Luca nomina direttamente, convocano tutta la moltitudine dei credenti per affermare l’importanza e la priorità del loro compito di annunciatori della parola di Dio rispetto a quello delle mense, che poteva essere anche affidato ad altri. Gli Apostoli invitano la comunità a scegliere sette membri di cui però delineano le caratteristiche fondamentali: «buona fama» fra il popolo, «pieni di spirito e di sapienza».

     L’assemblea accoglie favorevolmente la proposta degli apostoli («piacque») e vengono scelti sette uomini. I loro nomi in greco fanno supporre che fossero preposti all’assistenza dei poveri di lingua greca. Gli unici di cui gli Atti parleranno in seguito sono Stefano (6,8-9,2) e Filippo (8,5-40 e 21,8) che avranno un ruolo importante nella diffusione del Vangelo, degli altri non si sanno ulteriori notizie.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,4-9 

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».

    Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.      

 

Nel brano in questione Cristo è presentato, con un’immagine tratta dall’Antico Testamento, come «pietra angolare» e i cristiani, in corrispondenza, come «pietre» che si edificano su quel fondamento. Cristo «pietra viva» è il Risorto che dalla morte è ritornato alla vita, e che, pur essendo stato scartato dagli uomini, è posto a fondamento dell’edificio spirituale che Dio voleva costruire e sul quale il Cristo vivente esercita il suo influsso energetico e vivificante.

     Solo in virtù di Cristo «pietra viva» e a partire dalla comunione con lui i cristiani sono «pietre vive» sovrapposte per costruire l’edificio spirituale. Essendo un edificio spirituale, la Chiesa non è solo ricolma dello Spirito, ma creata dallo Spirito. L’autore contrappone l’edificio materiale del tempio dell’Antico Testamento, e le offerte materiali che in esso si facevano, a quello spirituale che in Cristo i cristiani sono chiamati a compiere. Questo organismo costituito da Cristo e dai fedeli insieme, ha come scopo quello di offrire sacrifici spirituali, che consistono in tutta la vita cristiana vissuta e offerta a Dio.

     La funzione della pietra è duplice. Pietro ne chiarifica il senso mettendo insieme due brani dell’Antico Testamento tratti dal libro del profeta Isaia: Is 38,6 e Is 8,14. Per tutti coloro che credono, la pietra ha un valore positivo; per coloro che non credono alla Parola annunciata la pietra costituirà inciampo sulla loro strada. Lo scandalo si compie con la disobbedienza alla Parola proclamata che esige l’obbedienza, o comunque una scelta: il vangelo può essere accolto o respinto, ma non ascoltato con indifferenza! L’incredulità è disobbedienza: è una decisione dell’uomo che si chiude alla chiamata di Dio.

     I cristiani a cui si rivolge l’Apostolo hanno aderito alla fede, e chiamati dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù del peccato alla grazia di una vita nuova, sono il nuovo popolo di Dio che riattua in sé le caratteristiche che erano dell’antico popolo: elezione, sacerdozio, santità, possesso da parte di Dio e testimonianza per altri popoli. Il vero Israele è la Chiesa, perciò ad essa sono riservate tutte le promesse fatte ad Israele. 

Vangelo: Giovanni 14,1-12

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».  Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.

      Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre». 

 

Esegesi

     Gesù invita i discepoli alla fiducia e li assicura sul fatto che sta andando a preparare loro un posto nel regno del Padre per tornare a prenderli e portarli con sé.

     Gesù apre il dialogo con i discepoli invitandoli a non turbarsi per la separazione dal loro Signore e Maestro perché la sua lontananza sarà temporanea. Per accettare tale assicurazione è necessario un atto di fede verso Dio e verso Gesù. Con questa fede si crede all’intima comunione tra il padre e il Figlio e allo stesso tempo anche alla grande accoglienza nella casa del Padre.

     La casa del Padre indica il luogo o meglio lo stato beato in cui si vive in unione con Dio. In essa dimora il figlio, il quale può preparare tanti posti per i suoi amici, perché in essa vi sono «molti posti». Egli si separa dai suoi amici per andare per primo alla casa del Padre con il fine di preparare loro il posto, poi tornerà per portarli con sé, affinché essi vivano dove egli è (14,3).

     Per giungere nella casa del Padre bisogna dunque passare per il Figlio. Egli, infatti, è la via che conduce al Padre (14,4-6). Il linguaggio enigmatico usato da Gesù suscita l’immediata reazione del discepolo Tommaso che, con la razionalità e la concretezza che lo caratterizzano, chiede chiarezza nei discorsi: vuole sapere dove egli vada, per conoscerne la via. Tommaso prende il termine via in senso materiale, mentre il Maestro lo intende in senso spirituale, quale mezzo per giungere a Dio. Per questo nella sua risposta Gesù proclama di essere la via per andare verso Dio. Solo per mezzo di Cristo, infatti, si può giungere al Padre. Nessuno infatti può arrivare a Dio con le sue forze, ne può servirsi di altri mediatori (14,6). Come nessuno può, andare verso Cristo se non gli è concesso da Dio (6,55), così nessuno può giungere a Dio senza la mediazione di Gesù (14,69). Gesù proclama inoltre di essere anche la Verità e la Vita. La locuzione autorivelativa «Io Sono» esprime la funzione divina di Gesù di essere il rivelatore. I sostantivi via, verità e vita sono applicati al Cristo per indicare le sue funzioni di mediatore e salvatore. Egli manifesta la vita e l’amore di Dio per l’umanità e comunica al mondo la salvezza.

     Gesù è l’unico che può condurre a Dio perché egli solo vive nel Padre e viceversa. Perciò chi conosce Gesù conosce il Padre e chi vede l’uno vede l’altro (14,7). Il linguaggio di Gesù risulta nuovamente enigmatico per i discepoli e provoca l’intervento di Filippo, il quale chiede a Gesù di mostrargli il Padre. Il discepolo, infatti, crede che il Padre sia altro da Gesù. Gesù risponde affermando che egli vive nel Padre e non nasconde la sua meraviglia per l’ignoranza di Filippo, che avrebbe dovuto conoscere la sua vera identità.

     Data l’immanenza del Figlio nel Padre, le opere del Figlio sono compiute dal Padre e per tale ragione debbono essere chiamate opere di Dio e del Padre. L’immanenza del Padre in Gesù può essere accettata solo per fede, perciò Gesù esorta i discepoli a credere in questa verità anche a motivo delle opere da lui compiute (14,11).

     Gesù continua per assicurare i discepoli che chi crede nella sua persona divina non solo compirà opere simili a quelle fatte da lui, ma ne farà maggiori. La motivazione di tale possibilità di compiere opere straordinarie, risiede nel prossimo ritorno di Gesù dal Padre, presso il quale egli esaudirà le promesse dei discepoli.

Meditazione 

     Il Cristo risorto, andato al Padre (vangelo), è il fondamento dell’edificio spirituale che è la Chiesa (II lettura): è in riferimento a lui, con la preghiera che guida il discernimento, che i credenti affrontano i problemi della comunità cristiana cercando di farlo regnare sulla vita della comunità (I lettura).

    Il Cristo che lascia i suoi discepoli e sale al Padre chiede loro in fede (Gv 14,1.10.11.12); la Chiesa fondata sul Crocifisso Risorto è l’insieme dei credenti chiamati a offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (1Pt 2,5): il riferimento è certamente alla liturgia, ma più estesamente al culto nell’esistenza quotidiana, a fare del quotidiano il luogo dell’adorazione di Dio in cui il credente offre il proprio corpo in «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1); i problemi organizzativi della comunità, che rischierebbero di soffocare ciò che è essenziale nella Chiesa, devono essere risolti in modo da far sempre emergere il primato della Parola di Dio e il suo servizio. La predicazione stessa deve sempre essere innestata nella preghiera: «Di che utilità potrebbe mai essere una predicazione disgiunta dalla preghiera? In primo luogo viene la preghiera, e dopo la parola, come dicono gli Apostoli: “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (At 6,4)» (Giovanni Crisostomo).

    Che il Cristo risorto sia pietra scartata dai costruttori, ma scelta da Dio e divenuta pietra angolare ( 1Pt 2,7), è importante per quanti si trovano a vivere «vite di scarto» (Zygmunt Bauman), a essere rigettati ai margini della società o del mondo o del loro gruppo o della Chiesa. Dio sceglie ciò che nel mondo è disprezzato e insignificante, sceglie «la spazzatura del mondo» (cfr. 1Cor 4,12) per confondere i costruttori mondani e le loro costruzioni che si reggono su criteri di efficienza e produttività, che richiedono conformismo e omologazione, che vogliono che le pietre sino morte e non vive. Una pietra viva, fedele eco del Crocifisso Risorto, è un ossimoro intollerabile per la razionalità mondana e abbisogna di essere scartata.

    Il vangelo presenta l’addio di Gesù ai suoi. L’addio è l’ultimo saluto che intercorre fra chi se ne va per sempre e chi resta. Ma l’addio, e più che mai l’addio pronunciato da Gesù, è anche una promessa: ad Deum. Con ad-Dio il futuro, proprio e degli altri, è posto in Dio. Gesù, che ha sempre vissuto le sue relazioni nell’ad-Dio, cioè davanti a Dio e per Dio, vi pone anche il suo futuro. Che è anche il futuro di chi è «suo», di chi «crede in lui» (cfr. Gv 14,12). Infatti, il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (Gv 14,10), e il discepolo che rimane nel Figlio (Gv 15,1-7), rimane anche nel Padre ( 1Gv 2,24). Se così va inteso l’ad-Dio, allora ogni nostra relazione dovrebbe restare sotto il suo segno, cioè sotto il segno dell’apertura e dell’invocazione all’Altro che salva le relazioni con gli altri dai rischi dell’assolutismo, della tirannia, della violenza.

    Dopo aver annunciato la sua partenza, Gesù ha dato ai discepoli il comando dell’amore (Gv 13,33-34) e ora chiede loro di aver fede e di non essere turbati (Gv 14,1). Di fronte a un distacco si prova dolore per la persona che se ne va, ma anche smarrimento e ansia per il futuro proprio e della propria comunità che era legata vitalmente alla presenza che ora non è più. La dipartita di Gesù è crisi per la comunità dei suoi discepoli. E il turbamento del cuore non riguarda solo la sfera emotiva e dei sentimenti, ma indica anche la paralisi della volontà e della capacità di prendere decisioni, l’annebbiamento dell’intelligenza e del discernimento. Gesù, con le sue parole, sta facendo della sua dipartita e del vuoto che egli lascia un’occasione di rinascita dei suoi discepoli. Chiedendo fede, li spinge a trasformare la paura del nuovo e il terrore dell’abbandono nel coraggio di donarsi appoggiandosi sul Signore; promettendo che va a preparare un posto per loro, egli vive la sua partenza in relazione con chi resta e mostra che non li sta abbandonando, ma sta inaugurando una fase nuova e diversa di relazione con loro. Il distacco è in vista di una nuova accoglienza (Gv 14,2-3).

Preghiere e racconti

«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?»

Si leggono a volte pagine molte belle su dio, sui suoi attributi, sulla sua grandezza, sul suo mistero. Le si definirebbe volentieri mistiche, se non si temesse di sciupare questo termine. Ma se manca il nome di Gesù Cristo non si sfugge al dubbio. Ciò che dice l’autore, come lo sa? da dove lo ricava? I cristiani hanno ragione di diffidare delle affermazioni teologiche che non derivano dalla conoscenza di Cristo o che si svolgono senza un esplicito riferimento al Vangelo. Non bisogna stancarsi di ripetere la frase chiave che leggiamo in Giovanni: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14,9). Essa significa che l’unità di Dio e dell’uomo in Gesù manifesta nel tempo l’unità eterna del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La voce del Figlio è la voce del Padre. Ascoltare Gesù è ascoltare il Padre. L’immagine proposta da Urs von Balthasar è suggestiva. Egli afferma che il credente sente questa voce «come in stereofonia».

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio).

Camminando si fa il cammino

Tu che cammini, sono le tue tracce

il cammino e null’altro;

tu che cammini, non c’è cammino,

il cammino si fa camminando.

Camminando si fa il cammino

e volgendo indietro lo sguardo

si vede il cammino sul quale mai più

si ritornerà a camminare.

Tu che cammini, non c’è cammino,

tranne delle scie nel mare.

 (A. Machado)

Il cammino particolare 

      «Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un acceso diverso. È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo».

(Martin BUBER, Il cammino dell’uomo, Edizione Qiqajon, 1990, Magnano (BI), 28)

 

Io sono… la vita

«Carissimi giovani, voi vi fate interpreti di una domanda, che spesso vi viene rivolta da tanti vostri amici: Come e dove possiamo incontrare questa vita, come e dove possiamo viverla? La risposta potrete trovarla da voi stessi, se cercherete di dimorare fedelmente nell’amore di Cristo (cfr. Gv 15,9). Voi sperimenterete allora direttamente la verità di quella sua parola: “Io sono… la vita” (Gv 14,6) e potrete recare a tutti questo gioioso annuncio di speranza. Egli vi ha costituiti suoi ambasciatori, primi evangelizzatori dei vostri coetanei».

(Giovanni Paolo II, Messaggio per la VIII GMG, 1993).

Il buio e la luce

È buio dentro di me,

ma presso di te c’è la luce;

sono solo, ma tu non mi abbandoni;

sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;

sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;

in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;

io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.

(Dietrich Bonhoeffer)

Mi chiamate Redentore

Mi chiamate Redentore

e non vi fate redimere.

Mi chiamate Luce

e non mi vedete.

Mi chiamate Via

e non mi seguite.

Mi chiamate Vita

e non mi desiderate.

Mi chiamate Maestro

e non mi credete.

Mi chiamate Sapienza

e non m’interrogate.

Mi chiamate Signore

e non mi servite.

Mi chiamate Onnipotente

e non vi fidate di me.

 

Se un giorno non vi riconosco

non vi meravigliate.

(Iscrizione nel duomo di Lubecca).

L’amore è ciò che conta

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.

Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.

Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Vorrete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio. Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

 

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

 

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

 

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

 

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

 

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).  

Saremo anche noi dove è Cristo

Colmi di fiducia, volgiamoci senza timore verso il nostro redentore Gesù, volgiamoci senza timore verso l’assemblea dei patriarchi, partiamo per andare senza timore presso il nostro padre Abramo quando sarà giunto il giorno per noi fissato; senza timore volgiamoci all’assemblea dei santi e alla adunanza dei giusti. Andremo presso i nostri padri, andremo presso i nostri maestri nella fede perché, anche se mancano le opere, ci soccorra la fede e sia conservata la nostra eredità. Andremo dove il santo Abramo apre il suo seno per accogliere i poveri così come ha accolto anche Lazzaro. In quel seno riposano coloro che in questo mondo sopportarono gravi e penose fatiche. Padre [Abramo], ancora una volta tendi le tue mani per accogliere il povero, apri il tuo grembo, allarga il tuo seno per accoglierne di più perché moltissimi sono quelli che credono nel Signore. […] Il Signore sarà la luce di tutti e la luce vera che illumina ogni uomo (cfr. Gv 1,9) risplenderà su tutti. Andremo là dove ai suoi poveri servi il Signore Gesù ha preparato le dimore, per essere anche noi dove è Lui; così ha voluto. Ascoltalo quando dice quali sono queste dimore: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» (Gv 14,2), e ascoltalo quando manifesta la sua volontà: «Vengo di nuovo e vi chiamo a me, perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3). Ma tu affermi che Gesù parlava soltanto ai suoi discepoli perché ad essi soltanto avrebbe promesso molte dimore; perciò le preparava solamente per i suoi undici discepoli. E che ne è allora di quel detto che da tutte le parti del mondo verranno e riposeranno nel regno di Dio? (cfr. Mt 8,11). Perché dubitiamo della realizzazione della volontà divina? Il volere di Cristo è già operante. Cristo mostrò anche la via, mostrò anche il luogo, dicendo: «E dove io vado, voi lo sapete e conoscete la mia via» (Gv 14,4). Il luogo è presso il Padre, la via è Cristo, così come lui stesso dice: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Entriamo dunque per questa via, restiamo saldi nella verità, seguiamo la vita. La via è quella che conduce, la verità quella che da saldezza, la vita è quella che è data per mezzo suo. E perché conoscessimo la sua vera volontà, aggiunse: «Padre, quelli che tu mi hai dato, voglio che essi pure siano con me dove sono io, in modo che vedano la mia gloria» (Gv 17,24).

(AMBROGIO, Il bene della morte 12,52-54, in Opera omnia di sant’Ambrogio, pp. 200-204).

Butto la rete

Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita. Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettre spirituali, Ed. San Paolo)

Il dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

Via, verità e vita

Noi ti seguiamo, Signore Gesù, ma tu chiamaci, perché ti possiamo seguire. Nessuno potrà salire senza di te. Tu sei la via, la verità, la vita, la possibilità a fede, il premio. Accogli i tuoi: tu sei la via. Confermali: tu sei la verità. Ravvivali: tu sei la vita.

Ammettici a quel bene che Davide desiderava vedere, abitando nella casa del Signore, quando si chiedeva: «Chi ci mostrerà il bene? e diceva: «Io credo che vedrò i beni del Signore nella terra dei viventi»: i beni si trovano là dove c’è la vita eterna, la vita senza colpa.

Aprici il cuore a quello che è veramente il bene, il tuo bene divino, «in cui noi siamo, viviamo e ci muoviamo».

Noi ci muoviamo, se camminiamo sulla via; esistiamo, se rimaniamo nella verità; viviamo, se siamo nella vita. Mostraci il bene inalterabile, unico, immutabile, nel quale possiamo essere eterni e conoscere ogni bene. In quel bene si trova la pace serena, la luce immortale, la grazia perenne, la santa eredità delle anime, la tranquillità senza turbamento, non destinata a perire ma sottratta alla morte: là dove non vi sono lacrime, e non dimora il pianto – può esservi pianto dove non c’è peccato – dove i tuoi santi sono liberati dagli errori e dalle inquietudini, dal timore e dall’ansia, dalle cupidigie da tutte le sozzure e da ogni affanno corporale, dove si estende la terra dei viventi.

(AMBROGIO, De bono mortis, XII, 55). 

Preghiera

Signore Gesù, maestro buono, il nostro cuore è spesso turbato per tutto il male che c’è nel mondo e per le nostre stesse debolezze, per i tradimenti e i rinnegamenti di cui ci vediamo capaci. Aumenta la nostra fede in te e nel Padre che ci hai rivelato.

Tu sei la via: fa’ che ti seguiamo! Tu sei la verità: fa’ che ti conosciamo! Tu sei la vita: fa’ che viviamo in te per vedere il Padre e glorificare il tuo santo nome davanti a tutti gli uomini.

   

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA V DOMENICA DI PASQUA (A)

Messaggio di Papa Francesco alla scuola italiana

Circa 300.000 persone – bambini, ragazzi, studenti, docenti e famiglie – dal primo pomeriggio di sabato 10 maggio hanno portato la loro gioia in Piazza San Pietro per un incontro atteso con il Santo Padre.  L’evento, trasmesso dalle 17 alle 18.30 da RaiUno, è rilanciato da Tv2000, da tutte le emittenti collegate al circuito del Centro Televisivo Vaticano. Grandi artisti italiani si sono alternati con testimonianze significative del mondo della scuola, per un evento nel quale incontrarsi, condividere e ascoltare il testimone più autorevole.

“Per favore, non lasciamoci rubare l’amore per la scuola!”. Si è concluso con questo appello l’intervento del Papa al mondo della scuola, che ha gremito Piazza S. Pietro sabato 10 maggio , evento per cui ha ringraziato la Cei che l’ha promosso: “Questa manifestazione non è contro, ma è per; non è un lamento, è una festa, una festa per la scuola”.

Nelle parole di Francesco le ragioni del suo amore per una scuola, a partire da un ricordo personale: “Come ho sentito dalle vostre testimonianze – ha detto – è sempre uno sguardo, quello che ti aiuta a crescere: a mia volta, ho l’immagine della mia prima insegnate, che mi ha accolto a sei anni: sono andato a trovarla finché è mancata a 98 anni, non ho mai potuto dimenticarla  proprio perché mi ha insegnato ad amare la scuola”.
Il Papa ha, quindi, aggiunto: “Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà, o almeno così dovrebbe essere: andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, la scuola ci insegna a capire la realtà nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni”.
A questo proposito, ha citato la figura di  “un grande educatore italiano, don Lorenzo Milani”, per la sua convinzione che “se uno ha imparato ad imparare questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà”. Si tratta di una condizione essenziale, ha fatto capire, innanzitutto per gli insegnanti, che devono essere “i primi a restare aperti alla realtà, perché se un insegnante non lo fosse,  non sarebbe un buon insegnante e nemmeno riuscirebbe a farsi interessante: i ragazzi sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, incompiuto, che cercano un «di più» e così contagiano gli studenti”.
Altro motivo di amore alla scuola il Papa l’ha additato nel suo essere “un luogo di incontro” con “compagni, insegnanti, personale” e tra genitori e docenti. “Noi oggi abbiamo bisogno di questa cultura dell’incontro per camminare insieme”, ha aggiunto, spiegando che “la famiglia è il primo nucleo, la base; ma a scuola socializziamo, incontrando persone diverse da noi: per questo essa è la prima società, che integra la famiglia”.
Due istituzioni non contrapposte, ma complementari – ha specificato – che devono collaborare”. Perché, “per educare un figlio ci vuole un villaggio”, ha fatto ripetere ai 300.000, citando un proverbio africano.
Infine, tra le ragioni d’amore alla scuola, Francesco ha evidenziato il suo “educare al vero, al bene e al bello, tre dimensioni sempre intrecciate”.
“L’educazione – ha specificato – non può essere neutra: arricchisce la persona o la impoverisce, la fa crescere o la deprime, persino può corromperla. Andiamo a scuola per conoscere, per imparare certe abitudini, per assumere determinati valori”. E, riprendendo la testimonianza del campione olimpionico Jury Chechi, ha fatto ripetere ancora ai ragazzi: “Sempre è più bella una sconfitta pulita, che una vittoria sporca”.
Nell’augurare “una bella strada nella scuola, che faccia crescere le tre lingue che una persona matura deve saper parlare in maniera armoniosa: mente, cuore e mani”, ha concluso: “Per favore, non lasciamoci rubare l’amore per la scuola!”

Discorso Papa Francesco e Scuola Italiana