In cerca di famiglia

Semplificare gli itinerari per l’affido e l’adozione, perché la famiglia è il grembo della vita. È lo spirito che anima la settimana estiva di formazione organizzata dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia insieme al Forum delle Associazioni Familiari e alla Caritas Italiana. L’appuntamento è dal 18 al 22 giugno a San Giovanni Rotondo (FG), nel Centro Congressi Padre Pio. Più di 300 gli iscritti, da 35 diocesi. Tra i relatori anche il vescovo Vincenzo Paglia, Presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia.
«Questo convegno – spiega Don Paolo Gentili, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia – nasce da un’attenta esigenza della Chiesa Italiana alla realtà della nostra Nazione, dove il decremento demografico sta sempre più assumendo un notevole rilievo. In tal senso la riflessione proposta è strettamente collegata al biennio 2014-2015 della Settimana di Studi sulla spiritualità coniugale e familiare dedicata al tema “Maschio e femmina li creò (Gen 1,27): le radici sponsali della persona umana”. La questione demografica infatti non solo è segno di una scarsa vitalità del nostro Paese, ma anche di una mancanza di fecondità della dimensione sponsale.
«Il convegno, in questo orizzonte,- prosegue Gentili – intende sollecitare una maggiore diffusione e una semplificazione degli itinerari per l’affido e l’adozione, con una rinnovata attenzione pastorale a tal riguardo. “È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo i figli diventano custodi dei genitori”. Queste parole di Papa Francesco, nell’omelia pronunciata il 19 marzo 2013, ci offrono la luce per accompagnare la circolarità del dono in famiglia, allargando lo sguardo alle periferie esistenziali dell’uomo e ai figli di Dio che attendono l’abbraccio di un padre e di una madre.
«Così, – conclude il Direttore – attraverso relatori di eccellenza e laboratori di condivisione, gli operatori pastorali e i responsabili delle associazioni di spiritualità familiare, a cui la Settimana estiva si rivolge, potranno gettare le basi per un accompagnamento premuroso della fecondità di ogni famiglia e ridare ali di speranza ai bambini senza famiglia».

Per saperne di più…
 

SS CORPO E SANGUE DI CRISTO

Prima lettura: Deuteronomio 8,2-3.14-16

Mosè parlò al popolo dicendo: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».    

 

Come si vede, siamo davanti al «mistero», che la nostra ragione può solo adorare, se accetta di essere illuminata dalla fede. Per chi crede, poi, la cosa non è per niente impossibile, perché la «parola» di Dio non solo è verace, ma onnipotente, cioè capace di creare eventi o situazioni imprevedibili, o addirittura umanamente impossibili.

     È a questa onnipotenza della «parola» che rimanda il testo del Deuteronomio, il quale ricorda l’episodio della manna (cf. Es 16), per ammonire gli Israeliti ed esortarli ad avere fiducia in Dio. Infatti, nonostante le loro «mormorazioni» durante l’aspro pellegrinaggio nel deserto, egli li ha provveduti di quel cibo misterioso che è appunto la «manna».

     Se ha fatto questo, può fare tante altre cose, anche più grandiose e mirabili, come è l’Eucaristia, in qualche maniera comparabile con la manna, in quanto Gesù la presenta proprio come «cibo» per alimentare la vita spirituale del nuovo popolo di Dio, peregrinante anch’esso nell’aspro deserto della storia, e talvolta tentato di non dar credito al suo Signore. Proprio in certe situazioni di difficoltà e di angustia, sia fisica che spirituale, conviene ricordarsi di quanto ci dice il deuteronomista: Dio «ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).

     E proprio «dalla bocca» di Gesù sono uscite quelle parole che ci hanno detto l’incredibile: e cioè che proprio lui, nel suo corpo e nel suo sangue, è il «cibo» di cui soprattutto abbiamo estremo bisogno. Il pane quotidiano è importante, e dobbiamo ogni giorno chiederlo al Signore; molto più importante, però, è nutrirsi del corpo di Cristo, che si è definito come il «pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51).

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 10,16-17

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

 

L’idea del «pane» rimanda anche alla «convivialità», in cui gli uomini nutrendosi si scoprono amici, uniti gli uni agli altri, assisi come sono alla stessa mensa. Orbene, nella comunità di Corinto, proprio in occasione della celebrazione eucaristica, riaffioravano divisioni e rivalità che turbavano la pacifica convivenza di quei cristiani (cf. 1Cor 1,11-17; 10,17-2 2).

     È proprio per contrastare tali atteggiamenti divisionistici che Paolo insegna invece, che l’Eucaristia è segno e strumento nello stesso tempo di «comunione» e di coesione fra tutti i membri della comunità. Ecco il testo brevissimo, ma teologicamente altrettanto ricchissimo: «Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17).

     È evidente che qui Paolo fa riferimento agli elementi che costituiscono l’Eucaristia, cioè il pane e il vino («calice»), che Gesù con la sua «benedizione» ha trasformato nel suo corpo e nel suo sangue, come l’Apostolo riferirà poco dopo nella stessa lettera (11,23-31).

     Orbene, proprio perché i cristiani di Corinto si nutrono del corpo e del sangue del Signore, sono tutti compaginati in singolare «comunione» con lui. Ed è proprio partendo dal Cristo, «condiviso» nell’Eucaristia, più che dalla buona volontà degli uomini, che questi possono diventare un «corpo solo» anche fra di loro.

     Bellissimo il commento di S. Giovanni Crisostomo a questo brano: «L’Eucaristia si chiama ed è veramente comunione (Koinónia) perché per essa noi veniamo uniti a Cristo e partecipiamo alla sua carne e alla sua divinità; essa è comunione anche perché, per suo mezzo, siamo uniti gli uni agli altri. Appunto perché partecipiamo a un solo pane, diventiamo tutti un solo corpo di Cristo, un solo sangue e membri gli uni degli altri, essendo stati fatti concorporei di Cristo».

 

Vangelo: Giovanni 6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». 

 

Esegesi

   È l’ultima parte del così detto «discorso eucaristico», che Gesù pronunciò, dopo la moltiplicazione dei pani, «nella sinagoga di Cafarnao» (Gv 6,59). Ed è anche la parte conclusiva in cui in maniera svelata, non più simbolica ed enigmatica come avviene nei versetti precedenti, Gesù dichiara non solo di essere «il pane della vita», presignificato dalla «manna» mangiata dai padri nel deserto (Gv 6,48-50), da accettare mediante la fede, ma addirittura, «realisticamente» da essere mangiato e triturato per la nostra «sussistenza» spirituale. È quanto leggiamo proprio all’inizio del brano evangelico odierno: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (6.51).

     Sono soprattutto le ultime parole a suscitare scandalo, perché sembrano assurde e impossibili: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». A questo punto la metafora del «pane» non è più tale; essa diventa crudo e scandalizzante realismo, come dimostra la immediata reazione dei Giudei: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52).

     Ma Gesù non è che ammorbidisca la espressione, anzi la esaspera aggiungendo un ulteriore motivo di scandalo, e cioè il fatto di «bere» il suo sangue, cosa rigorosamente proibita per degli Ebrei: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (vv. 53-55). Non è simbolico il parlare di Gesù: la sua «carne» donata è «vero cibo»; il suo «sangue» versato è «vera bevanda».

     Ciò che rende grandi e strabilianti queste parole non è solo il realismo a cui esse rimandano, ma soprattutto il risultato che esse producono. Anzi i risultati sono almeno due: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (v. 54). Mangiando e bevendo il corpo e il sangue del Signore si ha: 1) «la vita eterna», che in Giovanni significa l’assunzione a partecipare della «vita» stessa di Dio; 2) a tale «vita eterna» partecipa il nostro stesso corpo con la «risurrezione» finale: «Ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

     È chiaro che, parlando in tal modo, Gesù non può voler dire che nell’Eucaristia abbiamo a che fare con il suo corpo morto per noi sulla Croce: adesso però egli, che fu morto, è tornato alla vita mediante la risurrezione. Perciò partecipando all’Eucaristia, noi partecipiamo alla totalità del suo «mistero» salvifico, proprio come diciamo nella celebrazione eucaristica dopo la consacrazione: «Annunciamo la tua morte, o Signore; proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».

     Tutto questo presuppone però che l’Eucaristia diventi «vita», non solo «eterna», futura cioè, ma anche vita «presente»: vale a dire che dia senso e dimensione sacrale al nostro vivere quotidiano. È quanto afferma Gesù quando dichiara: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (v. 57). È estremamente interessante questo paragone: come Cristo è intimamente legato con il Padre e «vive» di questa strettissima relazione con lui, così il credente che mangia del corpo di Cristo, vive già, nel presente, della vita stessa di Dio mediante questa fusione, vorrei dire quasi fisica, con il Figlio. «È questo il vertice del discorso sul pane di vita: l’alleanza che Dio ha promesso è realizzata in Gesù Cristo» (J. DUPONT).

Meditazione

     Dio nutre il suo popolo; Dio dona il cibo alle sue creature. Questa l’affermazione che attraversa le tre letture. Nel deserto Dio ha nutrito il suo popolo con la manna (prima lettura); Gesù è il pane donato da Dio per la vita del mondo (vangelo); l’unico pane che significa Cristo nutre la comunità cristiana e la fa partecipare all’unica vita del suo Signore (seconda lettura).

     Il cibo che viene da Dio e che consente al popolo di sostenersi nel pellegrinaggio nel deserto, nel faticoso esodo verso la terra promessa (prima lettura), è il pane del popolo pellegrinante verso il Regno, è il pane che ha una valenza escatologica; è il pane che dona unità alla comunità costituendola come unico corpo (seconda lettura), radicandola nel dono di Dio e nel suo amore, e dunque ha una valenza ecclesiologica; è il pane vivo che assume il volto e il corpo di Cristo, che riveste le fattezze della sua vita e della sua umanità, della sua carne e del suo sangue (vangelo), e in quanto tale, esso ha una valenza cristologica.

     Le parole di Gesù: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» ( Gv 6,51 ) non vanno immediatamente intese in senso eucaristico e in riferimento al pane eucaristico. Queste parole indicano Gesù come colui che rivela il Padre e che può dare la vita al mondo con la sua stessa vita, con l’interpretazione della vita umana che egli ha mostrato all’umanità nella sua concreta esistenza. Il «mangiare me» (Gv 6,57), il «mangiare la mia carne e bere il mio sangue» (Gv 6,53.54.56) rinviano il discepolo all’operazione spirituale di assimilare nella propria vita la vita di Cristo. Di questa operazione fa parte la fede, il credere, fa parte l’ascolto della parola delle Scritture, fa parte la prassi, il fare concretamente la volontà del Padre. Non vi fa parte solo la manducazione eucaristica.

     La vita umana di Gesù (la sua carne e il suo sangue), come testimoniata nei vangeli, è il cibo di cui ogni credente è chiamato a nutrirsi affinché la vita di Gesù viva concretamente in lui. La chiesa è il luogo in cui la concreta umanità di ogni credente (la sua carne e il suo sangue) è chiamata a conformarsi all’umanità di Gesù, alla sua vita. Affinché sia vero che una sola vita, un’unica vita lega il Signore e il suo discepolo. Lì la chiesa si ma-nifesta come luogo dell’alleanza tra il Signore e il credente.

     La vita eterna promessa a chi assimila la sua vita (Gv 6,51.54.58), in realtà inizia già qui e ora per il credente. Si tratta di integrare la morte nella vita facendo della vita un atto di

donazione di sé, un atto di amore sulle tracce di Gesù (Gv 13,34). Come atto di amore è quello per cui Gesù si dona come cibo e bevanda agli uomini. Come atto di amore è la morte di Gesù, amore che è all’origine della resurrezione e della promessa della vita per sempre con il Signore nel Regno.

     Nell’affermazione che Gesù è il pane che non proviene dalla terra ma discende dal cielo e che è destinato ad essere mangiato per dare vita agli uomini, si cela il mistero e lo scandalo dello scambio e della comunicazione: per dare vita occorre perdere vita. Ma la vita che perdo in me, la vedo fiorire nell’altro. Per donare agli uomini la vita di Dio, il Figlio di Dio entra nella vita umana, diviene partecipe della carne e del sangue (cfr. Eb 2,14) e invita l’uomo allo scambio, alla relazione, alla partecipazione, alla comunione. Invita l’uomo a mangiare la sua carne e il suo sangue, cioè lo invita e lo abilita a partecipare alla sua vita.

     Vita di Dio e vita dell’uomo si incontrano nell’amore, nell’agape, cibo che veramente nutre l’uomo e realtà che costituisce la vita di Dio: «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). L’eucaristia è il sacramento della carità, dell’agape, in cui il dono di Dio agli uomini è la piena narrazione del suo amore per loro e la fonte del loro amarsi come Cristo li ha amati. La comunità che nasce dall’eucaristia è costituita dall’insieme dei «donanti», dei «capaci di dono» perché essi stessi «destinatari di dono», in un circuito di donazione che ha la sua origine nell’alto, da Dio; è formata da «coloro che amano» («Amatevi gli uni gli altri»: Gv 13,34) in quanto essi stessi «amati» («come io ho amato voi»: Gv 13,34).

Preghiere e racconti 

«Amen»

«Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero!

Voi rispondete “Amen” a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete. Sentite dire: “Corpus Christi ” e rispondete: “Amen!”.

Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia vero».

(AGOSTINO, Sermo 272, in PL 38, 1247).

«La messa è finita, andate in pace!»

Al termine della Messa il prete ci congeda con la formula: “La Messa è finita, andate in pace!”. Sono sempre tentato di correggere: andate, perché la Messa non è finita, non finisce mai. Questo infatti è un inizio, non una conclusione. Il sacerdote non vuol dire:   “Bravi, avete fatto il vostro dovere, potete andare tranquilli”; al contrario, è come se dicesse: “Adesso tocca a voi, è il vostro momento”. Dunque non un segnale di “riposo”, ma di “partenza” per una missione. Significa “agganciarsi” alla vita quotidiana. Ci si alza dalla mensa eucaristica e si attacca a lavorare, a costruire il Regno.

(Alessandro Pronzato).

“Signor parroco, signor parroco…”

Un parroco aveva preparato con tanta cura la festa del Corpus Domini. Pienamente soddisfatto, iniziò con grande solennità e raccoglimento la processione. Durante il tragitto, però, ripetutamente il chierichetto a fianco a lui gli tirò la veste: “Signor parroco, Signor parroco…”. Parole che il parroco ogni volta mise subito a tacere. Arrivato in chiesa, pose l’ostensorio sull’altare e solo lì si accorse… che mancava l’ostia.

Il Dio nell’ostensorio

Cantavano le donne lungo il muro inchiodato

quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento,

palpitante e nudo come un bambino che corre

inseguito da sette torelli capitali.

Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.

Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.

O Forma consacrata, vertice dei fiori,

dove tutti gli angoli prendono luci fisse,

dove numero e bocca costruiscono un presente

corpo di luce umana con muscoli di farina!

O Forma limitata per esprimere concreta

moltitudine di luci e clamore ascoltato!

O neve circondata da timpani di musica !

O fiamma crepitante sopra tutte le vene!

(F. García Lorca)

La contemplazione eucaristica

La forma per eccellenza di contemplazione eucaristica si ha nell’adorazione silenziosa davanti al Santissimo.

Si può, certo, contemplare Gesù Eucaristia anche da lontano, nel tabernacolo della propria mente (San Francesco era solito dire: “Quando non ascolto la Messa, adoro il corpo di Cristo nella preghiera, allo stesso modo con cui lo adoro durante la celebrazione eucaristica”). Tuttavia, la contemplazione fatta alla presenza reale di Cristo… Stando calmi e silenziosi, e possibilmente a lungo, davanti a Gesù Eucaristia, si percepiscono i suoi desideri su di noi, si depongono i nostri progetti per far posto a quelli di Cristo. La luce di Dio penetra a poco a poco nel cuore. E lo risana.

(Padre Raniero Cantalamessa).

Il giorno della carità

«Se l’Eucaristia è e deve essere il cuore della domenica, quest’ultima non può non essere il “giorno della carità”. Non può non esserlo, perché l’Eucaristia, nella sua più profonda verità, è il “sacramento della carità” […].

In quanto “giorno della carità”, la domenica deve potersi presentare nel segno della “unione fraterna” e della “comunione” nella Chiesa. È questo un aspetto essenziale di quell’amore che l’Eucaristia genera, promuove e alimenta»

(Mi sarete testimoni, 50-52).

In Te e per Te non saremo che una cosa sola.

Signore, non vengo a riceverti,

ma a chiederti di accogliermi in Te.

Non sei Tu che ti nascondi in me:

sono io che voglio scomparire in Te.

Ti ho portato il mio cuore

per poter amare nel tuo amore.

Ti ho portato il mio spirito,

per poter pensare alla tua luce.

I miei occhi…. per poter vedere come vedi Tu.

Le mie labbra…. per parlare e sorridere nel nome tuo.

Le mie mani…. perché in me tu possa soccorrere tutti.

Ti dono il mio essere perché continui la tua Incarnazione.

Noi non veniamo a riceverti per portarti via separatamente:

veniamo insieme per consegnarci a Te insieme.

Veniamo diversi: ripartiremo uniti nel tuo amore.

Veniamo a te con le nostre discordie e divisioni:

e saremo uniti nella tua Carità.

Veniamo a Te da tutti i punti dell’orizzonte sociale:

ripartiremo per costruire lo stesso Regno.

Veniamo molteplici:

in Te e per Te non saremo che una cosa sola.

(Anonimo).

L’Eucaristia meta di un lungo cammino

Non è facile mettere l’Eucaristia al centro! Non è facile accogliere il messaggio del sacramento dell’Eucaristia nella sua forza.

I testi del Nuovo Testamento alludono spesso all’incomprensione che essa incontra in coloro cui essa è destinata. Il primo documento neotestamentario sull’Eucaristia denuncia la maniera scorretta con cui essa veniva celebrata dai cristiani di Corinto. Luca racconta come durante l’Ultima Cena i discepoli discutessero chi fosse tra loro il più grande. Nel capitolo 6 di Giovanni si incontra l’incomprensione da parte degli ascoltatori di Gesù: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.

Nell’Eucaristia l’amore di Dio si manifesta nelle sue forme più pure e sconvolgenti ed incontra un uomo che è spaesato dinanzi a cose immensamente più grandi di lui.

L’Eucaristia è la meta di un lungo cammino. Confessare umilmente le nostre lacune o anche semplicemente le nostre incertezze e difficoltà, è il primo passo da compiere per riscoprire l’inesauribile ricchezza di questo mistero. 

(Card. Carlo Maria Martini).

«Il Corpus Domini»

Perché c’è tanta fame nel mondo? Perché tantissimi bambini devono morire di fame, mentre altri sono soffocati dall’abbondanza? Perché il povero Lazzaro deve continuare ad aspettarsi invano le briciole del ricco gaudente, senza poter varcare la soglia della sua casa? Certamente non perché la terra non sia in grado di produrre pane per tutti. Nei Paesi dell’Occidente si offrono indennizzi per la distruzione dei frutti della terra, allo scopo di sostenere il livello dei prezzi, mentre altrove c’è chi patisce la fame. La mente umana sembra più abile nell’escogitare sempre nuovi mezzi di distruzione, invece che nuove strade per la vita. È più ingegnosa nel far arrivare in ogni angolo del mondo le armi per la guerra, piuttosto che portarvi il pane. Perché accade tutto questo? Perché le nostre anime sono malnutrite, i nostri cuori sono accecati e induriti. Il mondo è nel disordine perché il nostro cuore è nel disordine, perché gli manca l’amore, perciò non sa indicare alla ragione le vie della giustizia.

Riflettendo su tutto questo, comprendiamo le parole con cui Gesù obietta a Satana, che lo invita a trasformare le pietre in pane: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Perché ci sia pane per tutti, deve prima essere nutrito il cuore dell’uomo.

Perché ci sia giustizia tra gli uomini, deve prima germogliare la giustizia nei cuori, ma essa non si sviluppa senza Dio e senza il nutrimento vitale della sua Parola. Questa Parola si è fatta carne, è diventata persona umana, affinché noi potessimo accoglierla e farla nostro nutrimento. Poiché l’uomo è troppo piccolo, incapace di raggiungere Dio, Dio stesso si è fatto piccolo per noi, così che possiamo ricevere amore dal suo amore e il mondo diventi il suo regno. Questo significa la festa del Corpus Domini. Il Signore che si è fatto carne, il Signore che è diventato pane, noi lo portiamo per le vie delle nostre città e dei nostri paesi. Lo immergiamo nella quotidianità della nostra vita, le nostre strade diventano le sue strade. Egli non deve restare rinchiuso nei tabernacoli discosto da noi, ma in mezzo a noi, nella vita d’ogni giorno. Deve camminare dove noi camminiamo, deve vivere dove noi viviamo. Il nostro mondo, le nostre esistenze devono diventare il suo tempio. Il Corpus Domini ci fa capire cosa significa fare la comunione: ospitarlo, riceverlo con tutto il nostro essere. Non si può mangiare il corpo del Signore come un qualsiasi pezzo di pane. Occorre aprirsi a lui con tutta la propria vita, con tutto il cuore: «Ecco, io sto alla porta e busso», dice il Signore nell’Apocalisse. «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui e lui con me» (3,20).

Il Corpus Domini vuole rendere percepibile questo bussare del Signore anche alla nostra sordità inferiore. Egli bussa forte alla porta della nostra vita d’ogni giorno e dice: «Aprimi! Fammi entrare! Comincia a vivere di me!». Questo non può valere soltanto un attimo, come di sfuggita, durante la santa Messa, e poi di nuovo come prima. È un’esperienza che attraversa tutti i tempi e tutti i luoghi. «Aprimi!», dice il Signore. «Come io mi sono aperto per te. Aprimi il mondo, perché io possa entrarvi, e possa così rischiarare la tua mente intorpidita, vincere la durezza del tuo cuore. Fammi entrare! Io per te mi sono lasciato squarciare il cuore». Il Signore dice questo a ciascuno di noi, lo dice alla nostra comunità nel suo insieme: fatemi entrare nella vostra vita, nel vostro mondo. Vivete di me, per essere veramente vivi. Ma vivere significa anche e sempre: donare ad altri. II Corpus Domini è un invito rivolto a noi dal Signore, ma è anche un grido che noi indirizziamo a lui. Tutta la festa è una grande preghiera: facci dono di Te! Da a noi il vero pane! Arriviamo così a comprendere meglio il Padre nostro, la preghiera per eccellenza. La quarta invocazione, quella per il pane, funge come da collegamento fra le tre invocazioni che riguardano il regno di Dio e le ultime tre che riguardano le nostre necessità. Che cosa chiediamo? Naturalmente il pane per oggi. È la preghiera dei discepoli, che non hanno capitali da parte, ma vivono della quotidiana bontà del Signore: perciò si mantengono in dialogo costante con lui, volgono a lui il loro sguardo, confidano soltanto in lui. E la preghiera di chi non vuole accumulare ricchezze, di chi non cerca una sicurezza mondana, ma si accontenta del necessario per avere tempo da dedicare alle cose veramente importanti. È la preghiera dei semplici, degli umili, di coloro che amano e vivono la povertà nello Spirito Santo.

Ma nella domanda del pane c’è un’altra profondità, il termine greco epioúsios, che noi traduciamo con “quotidiano”, non compare da nessun’altra parte, ma è tipico ed esclusivo del Padre nostro. Per quanto gli esperti discutano ancora sul suo significato, molto probabilmente vuole anche dire: dacci il pane di domani, cioè il pane del mondo a venire. In realtà, soltanto l’Eucaristia può essere la risposta a ciò che questa misteriosa parola, epioúsios, vuole indicare: il pane del mondo futuro, che già oggi ci è dato, affinché già oggi il mondo futuro abbia inizio in mezzo a noi.

Alla luce di quest’invocazione, la preghiera perché venga il regno di Dio e perché la terra diventi come il cielo assume grande concretezza: con l’Eucaristia il cielo viene sulla terra, il domani di Dio si compie già oggi e introduce nel mondo di oggi il mondo di domani.

Ma qui è come sintetizzata anche la richiesta di essere liberati da tutti i mali, dai nostri debiti, dal pericolo della tentazione: dammi questo pane, perché il mio cuore si mantenga vigile, perché possa resistere al male, perché sappia distinguere il bene e il male, perché impari a perdonare e sia forte nella tentazione. Soltanto allora il nostro mondo comincerà a essere veramente umano: se il mondo futuro diventa già in qualche misura l’oggi, se il mondo comincia già oggi a diventare divino. Con la richiesta del pane andiamo incontro al domani di Dio, alla trasformazione del mondo. Nell’Eucaristia ci viene incontro il domani di Dio, il suo Regno già oggi comincia tra di noi. E non dimentichiamo, infine, che tutte le invocazioni del Padre nostro sono espresse col “noi”: nessuno può dire “Padre mio” se non Cristo, il Figlio. Perciò noi, se davvero vogliamo pregare nel modo giusto, dobbiamo farlo con gli altri e per gli altri, uscendo da noi stessi, aprendoci.

Tutto questo è significato da quel “camminare insieme col Signore” che è, per così dire il segno distintivo della festa del Corpus Domini.

Dopo che Gesù ebbe terminato il suo discorso eucaristico nella sinagoga di Cafarnao, molti discepoli lo abbandonarono: era qualcosa di troppo impegnativo, di troppo misterioso. Le loro attese erano più che altro rivolte a una liberazione politica, tutto il resto sapeva ben poco di concretezza. Non è forse così anche oggi? Quante persone, nel corso degli ultimi cent’anni, se ne sono andate perché a loro avviso Gesù non era abbastanza “pratico”. Quello che poi, da parte loro, sono riusciti a realizzare è sotto gli occhi di tutti. E se il Signore oggi ci domandasse: «Volete andarvene anche voi?». In questa festa del Corpus Domini, insieme con Simon Pietro, noi con tutto il cuore vogliamo rispondergli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68ss.).

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-109).

Preghiera a Gesù nel Tabernacolo

O Dio nascosto nella prigione del tabernacolo! con gioia vengo accanto a voi ogni sera per ringraziarvi dei favori che mi avete concesso e per implorare perdono delle mancanze commesse durante questo giorno che si è dileguato come un sogno.

Gesù, come sarei felice se fossi stata interamente fedele! Ma spesso la sera sono triste perché sento che avrei potuto corrispondere meglio alle vostre grazie. Se fossi stata più unita a voi, più caritatevole con le consorelle, più umile e più mortificata, avrei meno pena ad intrattenermi con voi nell’orazione. Tuttavia, o mio Dio, ben lungi dallo scoraggiarmi alla vista delle mie miserie, vengo a voi con fiducia, ricordando che “Non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma i malati”. Vi supplico perciò di guarirmi, di perdonarmi, ed io, Signore, mi ricorderò che l’anima alla quale più avete perdonato, deve amarvi più delle altre. Vi offro tutti i battiti del cuore come altrettanti atti d’amore e di riparazione e li unisco ai vostri meriti infiniti. Vi scongiuro, sposo mio divino, di essere voi stesso il riparatore della mia anima, di agire in me senza tener conto delle mie resistenze; in una parola: non voglio più avere altra volontà che la vostra. E domani, con il soccorso della vostra grazia, ricomincerò una vita nuova.

Dopo essere venuta così ogni sera ai piedi del vostro altare, arriverò infine all’ultima sera della mia vita; allora comincerà per me il giorno senza tramonto dell’eternità, in cui mi riposerò sul vostro Cuore divino dalle lotte dell’esilio. Così sia!

(Preghiera composta da S. Teresa di Lisieux, il 16 luglio 1895, per Sr. Marta di Gesù).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 

PER L’APPROFONDIMENTO:

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (A)

SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura: Esodo 34,4-6.8-9

In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».  Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».    

 

Dio è il mistero che gli uomini non sono riusciti a dipanare; nemmeno i profeti. L’autore dell’Esodo vi si prova una prima volta narrando l’esperienza di Mosè sul Sinai, ma la risposta è enigmatica. La frase: «Sono colui che sono» per quanto espressiva («Sono colui che esiste, che fa esistere», spiegano gli esperti), da l’impressione che l’interpellato voglia nascondersi dietro un gioco di parole, rifiuti di rivelare il suo nome, far conoscere la sua identità.

     Ma il libro dell’Esodo è la raccolta di differenti tradizioni. Se la prima (3,4-13) è chiamata elohistica, la successiva si può definire sacerdotale (6,1-8; 19,5-6). Qui il nome di Dio è quello ormai abituale: «Il Signore». Esso sta a indicare la supremazia, sovranità assoluta sugli uomini e sulle cose.

     Al termine del libro è narrata un’altra teofania in cui il «volto» (panim) di Dio rimane ancora nascosto dalla «nube», ma egli fa’ trapelare o meglio svela apertamente il suo animo, le disposizioni che sono alla base dei suoi comportamenti. L’autore, questa volta il jahvista, registra anche i movimenti che il Signore compie: «scese», «si fermò là presso di lui», gli parla. Nonostante che sia il Signore non parla dall’alto, ma si abbassa fino al livello dell’uomo e gli apre il suo cuore con una sbalorditiva confessione. Egli non è il terribile JHWH che non fa accostare il suo servo e chiede di togliersi i calzari ai piedi prima di avanzare verso di lui (3,5), ma un Signore benevolo, pronto a capire e a perdonare le debolezze dell’uomo.

     La coreografia, l’accompagnamento della nube luminosa, la ripetizione del nome poteva far pensare a manifestazione di un potente dignitario, ma le parole rivelano tutto il contrario. «Dio (è) misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Una designazione insolita della divinità, fatta su misura d’uomo si potrebbe aggiungere, quella che lo aiuta a vivere, a realizzarsi nonostante le sue incapacità, i suoi limiti, i suoi difetti, le sue imperfezioni. L’uomo rischia sempre di essere schiacciato dalle sue inadempienze, dalle colpe che accumula quotidianamente, dai debiti con se stesso e con gli altri.

     La precisazione «lento all’ira» sembra far supporre che nonostante tutto Dio qualche volta potrebbe sentirsi spinto a usare il rigore (la «giustizia») verso i trasgressori della sua legge, ma sa contenersi. Il redattore finale del testo però ritiene opportuno correggere con una nota aggiuntiva questa versione che Dio sta dando di sé, ricordando appunto che «castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (v. 7), ma è una distorsione del messaggio originario e centrale del passo, quello che Mosé stesso ribadisce (vv. 8-9). Egli sa che Israele è un popolo di peccatori, meriterebbe di essere cancellato dalla storia (Es 32,19), ma ciò nonostante crede di poter fare appello alla misericordia di Dio per ottenere comprensione e perdono. Però invece di ergersi davanti al Signore con protervia o arroganza occorre riconoscere umilmente, con la testa a terra, le proprie colpe e ritrovare così la sua amicizia, sentirsi ancora sua eredità, ovvero la particolare «proprietà» tra tutti i popoli della terra (19,5).

Seconda lettura: 2 Corinzi 13,11-13

Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

 

La 2Cor è lo scritto di Paolo che sembra aver subito delle vicissitudini letterarie. Potrebbe essere una raccolta di differenti missive dell’apostolo alla comunità egea, che ha inglobato anche qualche riflessione del redattore o compilatore del testo finale. Tale è forse il brano 13,11-13. Ad ogni modo il v. 13 non racchiude una delle abituali formule di congedo ricorrente nelle lettere paoline (cf. Gv 6,18; Rom 15,33; Fil 4,23).

     Il passo 13,11-13 è un’esortazione a vivere in armonia e in pace, si intende con Dio e con i propri simili. Per una comunità così animata e si può aggiungere litigiosa com’era quella di Corinto il richiamo alla concordia era sempre il più opportuno. Anche il tono perentorio ne sottolinea l’urgenza.

     I cristiani di Corinto non sono ancora «perfetti» perché secondo Paolo la misura da raggiungere è quella di Cristo (cf. Ef 4,13) e Gesù ha additato come meta il comportamento del padre che riesce a trattare bene tutti, anche quelli che non lo meritano (Mt 5,48). Il modello a cui occorre guardare e avvicinarsi è troppo alto per poter pensare di averlo una volta raggiunto.

     L’uomo è sempre un essere imperfetto, ma il suo agire può migliorare costantemente, salire verso un grado sempre più elevato del precedente. Il giovane aspirante aveva «osservato tutti i comandamenti», ma Gesù gli fa comprendere che tutti si potevano osservare in un modo più completo (Mt 19,16-21).

     C’è un unico modo di vivere la propria fede, amando l’uomo nel modo che sa fare Dio e che Gesù ha segnalato e realizzato fino al prezzo della vita.

     La piccola esortazione si chiude con un grande augurio. L’apostolo invoca sulla comunità i riflessi dell’agape (amore) di Dio e della grazia (charis) di Cristo unitamente, alla comunione (koinonia) dello Spirito Santo. Un saluto che la nuova liturgia ha recuperato e riproposto solennemente all’inizio della celebrazione eucaristica.   

     Ai tessalonicesi Paolo augura «la grazia del Signore Gesù Cristo» (1Ts 5,28; 2Ts 3,18), ma, in quest’epilogo della 2Cor si fa riferimento anche all’amore di Dio che in Gesù Cristo ha avuto la sua piena attuazione e continua a espandersi sugli uomini tramite l’azione santificatrice dello Spirito. Dio non è qui chiamato «padre» e nemmeno Gesù è definito «figlio», ma si parla egualmente come di «tre» punti di riferimento a cui il credente è invitato a tenersi in contatto. Dati insufficienti per proporre tout court la dottrina trinitaria, ma possono essere e sono stati di fatto una base valida per arrivarvi.

 

Vangelo: Giovanni 3,16-18

In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

 

Esegesi 

   Il vangelo di Giovanni come si sa, è una composizione teologica; cerca di illustrare la persona e la missione di Gesù più che richiamare episodi concreti della sua vita.

     Gesù, che i giudei conoscevano come «il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), è invece la Parola di Dio incarnata nella storia (Gv 1,13), l’Agnello che toglie i peccati del mondo (1,29),  il Cristo (1,42), ma sotto questa veste non era stato accettato dai suoi familiari, dai concittadini e dai connazionali (1,5;2,12;2,24;7,5).

     Nicodemo apre una serie di interlocutori evangelici; lo segue la donna di Samaria e l’ufficiale regio (4,1-54). Egli avrebbe dovuto comprendere subito le parole di Gesù e accettarle, invece si perde in banali obiezioni e alla fine scompare come in incognito, senza aver fatto comprendere la sua risposta. I giudei non hanno accolto il loro messia e anche i migliori spiriti sono rimasti perplessi alla predicazione di Gesù come ora della Chiesa. Le proposte di Gesù erano innovatrici; toccavano l’alleanza (2,1-11), il culto (2,13-23), soprattutto il modo di vivere (conversione), lasciandosi investire interiormente dalla forza rigeneratrice dello Spirito di Dio (3,1-8). Il credente infatti non è chi pensa o parla come Cristo o come Dio, ma chi agisce nel modo in cui essi operano, cercando innanzitutto il bene dell’altro.

     Lo Spirito è la carità di Dio, la sua Volontà di aiutare e beneficare il mondo («cosmo»), in particolare l’uomo. Questa è la buona notizia che i profeti, la Bibbia rivolgono agli uditori e lettori, e Gesù e il vangelo ripetono ai propri ascoltatori. Bisogna mettere in partenza un punto fermo per spiegare ciò che accade nel tempo e ad esso far riferimento con la mente e il cuore, il pensiero e le azioni, per sentirsi tranquilli.

     Il vangelo odierno riparte da questa certezza basilare: la carità o agape di Dio verso il mondo, la creazione e le creature. La missione profetica di Gesù, quella che l’evangelista sta ricordando ai suoi lettori, a Nicodemo, ossia ai giudei, è far conoscere la maniera concreta con cui Dio ha «ultimamente» manifesto il suo amore verso il mondo e gli uomini. Tramite un «dono» senza eguali, quale è la dignità del Figlio unico loro inviato.

     La storia di Gesù è quella di un martire che accetta di morire più che rinunciare al mandato ricevuto; che accetta l’impopolarità, il rigetto, la condanna per liberare i propri simili dall’illegalità e dall’oppressione, dal fanatismo e dalla superstizione. La sua sorte appare contraddittoria: apparentemente è un vinto in realtà è un vincitore. È stato «elevato» su un patibolo, ma da qui è salito al cielo, nella gloria del Padre; ha perso la vita terrena ma ha acquisto quella «eterna» (3,14-15).

     Il testo 3,16-18 è strettamente collegato con i due versetti che precedono e con i due che seguono. Parte dalla vicenda di Gesù di Nazaret (1,42-47) termina nel Cristo della gloria, esaltato cioè alla destra di Dio. La fede del cristiano è dar credito all’esperienza di Gesù, riconoscerla come venuta e voluta da Dio e conformarvi la propria. Anche per il cristiano la vita si consegue attraverso la morte, che è il presupposto non della fine ma della risurrezione o del passaggio nel mondo di Dio. Il seguace di Cristo è colui che si è lasciato prendere dalla carità di Dio, investire cioè dalle radiazioni del suo Spirito; in altre parole si lascia guidare dalla legge dell’amore e non dai sentimenti opposti che vengono dal Maligno (cf. 1 Gv 3,13). Per queste ragioni non è più nella morte e non va soggetto ad alcuna condanna.

     Dio è solo amore e può compiere solo operazioni benefiche verso l’uomo e il mondo; tale è il figlio che è della stessa identità del padre e che nella sua esistenza è passato facendo del bene a tutti e guarendo gli uomini dalle loro infermità (cf. At 10,38). Il «giudizio» cioè la discriminazione tra chi crede e si salva chi non crede e si danna non è compiuta da Dio, né dal Cristo, ma dall’uomo stesso che accetta o rifiuta la proposta di Dio (la Parola) realizzatasi nella testimonianza di Gesù, l’unica «strada» che bisogna percorrere per arrivare al padre (Gv 14,6). «Come ho fatto io dovete fare anche voi», raccomanda Gesù ai suoi nel corso dell’ultima cena (13,15).

     L’uomo per salvarsi deve uscire dalle «tenebre» e passare nella zona della luce cioè della verità e del bene. Il giudizio di approvazione e di condanna non è il pronunciamento, la sentenza di un tribunale eretto davanti all’uomo, ma proviene dal suo intimo; dalla sintonia o dal disaccordo con il suo «io» migliore.

     Il Cristo risorto (3,14-15) vive in un mondo nuovo di cui nessuno, che è ancora sulla terra, può conoscere, ma vi si avvicina, e un giorno vi entrerà a far parte solo chi si lascia irradiare dalla carità di Dio che ha avuto la sua più alta illustrazione nella testimonianza di Gesù, il suo unigenito. 

Meditazione 

     Le tre letture bibliche orientano l’odierna celebrazione della Trinità divina verso la contemplazione del Dio estroverso, del Dio che si comunica all’uomo, del Dio il cui amore è per il mondo, insomma del Deus pro nobis. Del resto, il dogma trinitario non è altro che «lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’affermazione giovannea per cui “Dio è amore” (1Gv 4,8)» (Rémi Brague).

     Dopo il peccato del vitello d’oro, Dio si manifesta una seconda volta ai figli d’Israele scendendo sul Sinai per comunicare loro il suo Nome che lo rivela quale compassionevole e misericordioso, capace di grazia e di perdono. È il Dio condiscendente, che scende per raggiungere l’uomo nel suo peccato (prima lettura). Il vangelo presenta il Dio che ama a tal punto il mondo, l’umanità, da donare il suo Figlio per la salvezza del mondo. Il figlio unico è tutta la vita di un padre, è ciò che egli più ama di tutto ciò che ama: il Dio che dona il Figlio è il Dio mosso da amore folle. Vi è un eccesso nell’amare di Dio e questo eccesso è il Figlio Gesù Cristo. La benedizione presente nella seconda lettura vuole stabilire la presenza di Dio nella comunità dei cristiani di Corinto. Questi sono pertanto esortati ad accogliere e a lasciar operare tra di loro la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo.

     Sempre la presenza di Dio necessita di una mediazione umana per essere colta come presenza di benedizione e di amore. Mosè, innocente del peccato commesso dai figli d’Israele si mette liberamente nel novero dei peccatori («perdona la nostra colpa e il nostro peccato»: Es 34,9) per intercedere presso Dio a favore del popolo. Gesù narra con la prassi della sua vita e con la sua auto-donazione l’amore folle di Dio per gli uomini. Pao-lo, con il suo ministero e la sua paternità apostolica, cerca di fare della comunità di Corinto una dimora del «Dio dell’amore e della pace» (2Cor 13,11).

     L’azione del Dio trinitario è perdono (prima lettura), amore (vangelo), comunione (seconda lettura) e può essere esperita grazie alla fede (vangelo).

     «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito» (Gv 3,16). Letteralmente, questo è l’inizio del nostro testo evangelico. Che sottolinea la modalità dell’amore di Dio, modalità che rinvia a quanto detto nei versetti precedenti che parlano della necessità dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (Gv 3,14-15) fondandola sulla continuità con il gesto di Mosè che innalzò il serpente nel deserto affinché chiunque lo guardasse, avesse vita. C’è dunque un così, una modalità, una forma dell’amore di Dio che è anzitutto fedeltà. Fedeltà di Dio al popolo con cui si è legato in alleanza, alla storia condotta con il popolo, al suo Nome in cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (Es 34,6-7). Si tratta di fedeltà a colui che è infedele e di amore per colui che non vi corrisponde: la fedeltà e l’amore di Dio diventano la sua responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni uomo. E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna, ma salva.

     Così Dio amò. La forma verbale del verbo amare rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cfr. Rm 5,8). L’amore di Dio manifestato sulla croce assume la forma dello scandalo, dell’eccesso che, nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i parametri umani di reciprocità, corrispondenza e contraccambio dell’amore. Il dono sovrabbondante insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già pre-dispone per colui che pecca e che peccherà.

     Così Dio amò. Il Dio che ama è anche il Dio che soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che non sta senza l’uomo. E l’uomo, situandosi per fede in Cristo e lasciandosi guidare dallo Spirito abita l’agape, l’amore, e così conosce la comunione con Dio. Con il Dio che è amore. L’agape, infatti, è il cuore della vita trinitaria.

Preghiere e racconti

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia vide un bambino che faceva una cosa molto strana aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino andava al mare prendeva l acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede Che cos è che stai facendo E il ragazzo Voglio mettere tutta l acqua del mare in questo fosso S. Agostino sentendo ciò rispose Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci Il mare è immenso e il fosso è piccolo. E poi con questo cucchiaino non basta la tua vita E il ragazzo che era un angelo mandato da Dio gli rispose E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l infinito mistero di Dio Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

O mio Dio, Trinità che adoro

Aiutami a dimenticarmi interamente, per stabilirmi in te, immobile e tranquilla come se l’anima mia già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace ne farmi uscire da te, o mio Immutabile; ma ogni istante mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia,  ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.          

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! […]. Ma sento tutta la mia impotenza; e ti prego di rivestirmi di te, di immedesimare la mia anima a tutti i movimenti dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che una irradiazione della tua Vita vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima a ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi in me, perché faccia dell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io gli sia prolungamento di umanità in cui egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze.

O miei ‘Tre’, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

(ELISABETTA DELLA TRINITÀ, Scritti spirituali di Elisabetta della Trinità, Brescia 1961, 73s.).

Dio è amore

Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?

Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.

La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.

Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

Affidiamo la nostra lode alle mani della Vergine Maria. Lei, la più umile tra le creature, grazie a Cristo è già arrivata alla meta del pellegrinaggio terreno: è già nella gloria della Trinità. Per questo Maria nostra Madre, la Madonna, risplende per noi come segno di sicura speranza. E’ la Madre della speranza; nel nostro cammino, nella nostra strada, Lei è la Madre della speranza. E’ la Madre anche che ci consola, la Madre della consolazione e la Madre che ci accompagna nel cammino. Adesso preghiamo la Madonna tutti insieme, a nostra Madre che ci accompagna nel cammino.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, Piazza San Pietro, Solennità della Santissima Trinità, Domenica, 26 maggio 2013).

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello. 

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.    

PER L’APPROFONDIMENTO PERSONALE:

SANTISSIMA TRINITÀ

100 Metri dal Paradiso

Monsignor Angelo Paolini (Domenico Fortunato) è uno spirito illuminato, profondamente convinto che la Chiesa debba ‘aggiornare’ il suo linguaggio per poter continuare a testimoniare la parola di Dio al mondo. Mario Guarrazzi (Jordi Mollà), suo caro amico d’infanzia, è invece un ex centometrista che, nella sua carriera, ha vinto tutto tranne la cosa più importante: le Olimpiadi. Un cruccio che ha segnato la sua vita e dal quale cerca riscatto attraverso suo figlio Tommaso (Lorenzo Richelmy), anch’egli ottimo velocista. La sua speranza si spegne, però, quando Tommaso gli rivela di non poter andare ai Giochi perché intende farsi frate.

Per Mario è il tracollo! A ridargli speranza, paradossalmente, è proprio un’idea di Angelo che pensa di poter risolvere le proprie necessità e quelle dell’amico attraverso un progetto a dir poco sconcertante: mettere su la Nazionale Olimpica del Vaticano e partecipare alle Olimpiadi di Londra 2012. L’idea, apprezzata dal Segretario di Stato (Mariano Rigillo), viene però bocciata dal diretto superiore di Paolini, Sua Eminenza Higgins (Ralph Palka), espressione dell’ala più tradizionalista della Chiesa. L’unico modo per andare avanti è quello di ‘aggirare’ l’ostacolo e organizzare una stangata ai danni delle gerarchie ecclesiastiche. Inizia così la seconda fase del folle progetto. Reperire tra i religiosi di tutto il mondo ex sportivi da affiancare a Tommaso per costruire la squadra del Vaticano. 
E’ il 27 Luglio 2012. All’apertura della XXX Olimpiade c’è, straordinariamente, anche la Nazionale del Vaticano..

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PENTECOSTE

Prima lettura: Atti 2,1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano  stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei?

E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi,  Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Il celebre racconto lucano della Pentecoste ha una certa “drammaticità”, con la quale s’intende conferire il giusto rilievo all’importanza del fatto. In primo luogo, occorre notare che, ormai, la festa di Pentecoste stava volgendo al termine, essendo iniziata, com’era prassi nella liturgia ebraica, nel pomeriggio del giorno precedente. L’accaduto, dunque, si è verificato al mattino, come dirà poi Pietro, per giustificare il fatto che, quelli che sembravano ubriachi, non lo erano affatto perché non avevano bevuto, essendo le nove (cf. la diceria dell’ubriachezza degli apostoli al v. 13 e la risposta di Pietro al v. 15), quando mancavano ancora poche ore per la conclusione della festa. I discepoli, raccolti in un unico luogo, furono testimoni e destinatari di un evento teofanico, i cui elementi letterari sono facilmente riconoscibili: il rumore forte, che viene dall’alto, e il fuoco, in forma di lingue: «Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (vv. 2-3).

     L’effetto della discesa dello Spirito fu subito avvertibile dai pellegrini presenti alla festa, come testimonia il v. 4: «e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Il lungo elenco di nazionalità riportato dall’autore degli Atti fa capire l’ampiezza della partecipazione a feste come Pentecoste (in ebraico Shavuot), Pasqua (Pesach) e Capanne (Sukkot). Bisogna, però, ricordare che si trattava di Giudei, provenienti dalla diaspora o che, vissuti in diaspora, erano ritornati a vivere a Gerusalemme (v. 5: «Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo»). Sono essi i primi popoli destinatari dell’annuncio della novità di Cristo risorto. A costoro i discepoli propongono un annuncio nella loro propria lingua, come il testo stesso afferma più volte, sia nel già citato v. 5, nel v. 6 («A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua »), nell’8 («E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?») e nell’11 («li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio »).

     Il particolare ora messo in rilievo non è da trascurare: l’evento della discesa dello Spirito sui discepoli significa che questi ultimi vengono spinti a proseguire la missione di Gesù, rivolgendola a tutte le nazioni, poiché la comunità dei credenti dovrà imparare ad annunciare il Vangelo nelle lingue di ogni popolo che si trova sulla faccia della terra.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 12,3b-7.12-13

Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune.

Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

 

Lo Spirito, con la sua azione, invade ogni aspetto della vita del credente in Cristo e della Chiesa. Com’è possibile, infatti, professare la fede e avvicinarsi al sublime mistero della conoscenza di Cristo se manca lo Spirito? D’altronde, l’apostolo con chiarezza lo afferma: «nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (12,3b). Alla stessa stregua, com’è possibile immaginare la vita della Chiesa senza lo Spirito, il quale ne anima l’esistenza e la missione nel mondo con la molteplicità dei carismi e delle operazioni? La solennità di Pentecoste, dunque, impone una riflessione, oltre che sull’opera dello Spirito Santo nel mondo, anche sulla sua presenza discreta, efficace e sorprendente.

     Abituati come siamo a considerare quasi esclusivamente gli aspetti organizzativi, con programmazioni e piani pastorali di breve, medio e lungo periodo, probabilmente dimentichiamo che, da parte sua, lo Spirito Santo, nella propria sovrana libertà, ha già tracciato delle linee di progettualità, elargendo doni e suscitando ministeri per il bene del popolo di Dio. Tali doni e carismi, però, hanno come prima finalità quella di creare l’unità del popolo che Dio si è acquistato con il sangue di suo Figlio: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (12,12-13). Il progetto dello Spirito, dunque, è formare e consolidare il corpo di Cristo che è la Chiesa, alla quale apparteniamo in virtù del Battesimo. E quel Dio, presso il quale non ci sono preferenze, desidera che in quest’unico corpo vi sia radunata l’intera umanità, senza distinzioni di razza e nazionalità, lingua o cultura. In quell’unico corpo, inoltre, è consentito ai credenti di abbeverarsi allo Spirito attraverso la vita sacramentale, la quale ne irrobustisce e rinvigorisce le forze, cosicché essi possano affrontare le quotidiane insidie del maligno e far vincere la concordia, la misericordia e l’unità.

 

Vangelo: Giovanni 20,19-23

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.  Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

 

Esegesi 

     Nel capitolo 20, come sappiamo, il Vangelo di Giovanni racconta gli avvenimenti del giorno della Pasqua. Chi vide il Signore risorto per prima e parlò con lui fu Maria Maddalena presso il sepolcro (vv. 14-17), la quale, poi, andò a riferire agli altri discepoli quanto le era accaduto (v. 18). Soltanto a sera Gesù apparve ai discepoli riuniti, come concordemente afferma, oltre a Giovanni, anche Luca (cf. 24,36-43). Infatti, i due racconti presentano diversi punti in comune: a sera Gesù appare in mezzo ai discepoli; egli saluta dicendo: «Pace a voi!»; Gesù mostra le ferite sul suo corpo per facilitare il riconoscimento da parte dei discepoli. Giovanni, inoltre, in poche battute riferisce il mandato missionario e l’effusione dello Spirito, mentre Luca parla più ampiamente della missione (cf. 24,44-48) e fa soltanto annunciare a Gesù il prossimo invio dello Spirito (cf. 24,49).

     Dopo questo raffronto, che conferma una certa e ben nota vicinanza tra gli evangelisti Giovanni e Luca, ritorniamo all’esame del brano. Dobbiamo subito notare la situazione di “miseria” in cui versavano i discepoli. Costoro erano in un luogo (non specificato dal racconto evangelico), con le porte sbarrate per paura dei Giudei: ciò fa pensare che essi, oltre a motivi di prudenza (temevano di essere arrestati o di essere accusati di aver rubato il corpo di Gesù?), non si attendevano altro da quella giornata, in cui non era ancora certo se dovessero nutrire speranze o, al contrario, aspettare il momento opportuno per fuggire da Gerusalemme. Ci possiamo chiedere che effetto abbiano avuto le visite al sepolcro vuoto da parte di Pietro e del discepolo prediletto e la testimonianza di Maria Maddalena, tuttavia la sorpresa di vedersi apparire Gesù dovette essere grande.

     L’apparizione di Gesù è indicata dal verbo «venne», molto probabilmente per sottolineare che, nonostante le porte ben chiuse, egli era nella possibilità di entrare in quel luogo. Il saluto «Pace a voi!», inoltre, va considerato non quale semplice augurio, o addirittura come normale saluto, poiché esprime una realtà di fatto: davvero la pace è con loro, dal momento che, con la presenza di Gesù, ormai risorto, ciò che costituiva una semplice promessa diventa ora una concreta realtà. Il «Pace a voi!» viene ripetuto al v. 21, forse perché Gesù vuole ulteriormente rassicurare i discepoli, dopo aver mostrato loro le mani e il costato.

     Subito dopo, segue il comando missionario: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». In Giovanni si segnala molto esplicitamente che il motivo fondante della missione nasce dall’iniziativa del Padre, il quale ha mandato sulla terra il Figlio, che a sua volta invia i discepoli, proseguendo questa catena. A tal proposito, si deve confrontare questa frase con il testo di Gv 17,18: «Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io mando loro nel mondo».

     Infine, l’ultimo momento del racconto è rappresentato dalla cosiddetta insufflazione. In Gv 20,22-23 troviamo scritto che Gesù, «Detto questo, soffiò (in greco enefásesen) e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». L’unico motivo per cui ci siamo permessi di segnalare l’espressione «soffiò» in greco è dovuto al fatto che anche nella versione greca dell’Antico Testamento (che gli scrittori del NT generalmente usano), in Gn 2,7, leggiamo lo stesso verbo: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò (enefásesen) nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». L’evangelista intenzionalmente adopera il medesimo verbo, perché stabilisce una relazione tra lo spirito, che diede la vita all’uomo creato da Dio traendolo  dalla polvere, e lo Spirito Santo, che conferisce ai discepoli la potestà di “restituire la vita” con l’eccezionale dono della remissione dei peccati a vantaggio della comunità dei credenti.

     Il passaggio dalla morte alla vita rappresenta una vera specialità dello Spirito. Un altro testo di riferimento si trova in Ez 37,9, nella versione greca, dove, usando lo stesso verbo dei brani precedenti (benché in una forma grammaticale diversa), pure è scritto che lo Spirito soffia, affinché venga restituita la vita ai morti: «Egli aggiunse: “Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia (emfáseson) su questi morti, perché rivivano”». E che lo Spirito dia la vita e la risurrezione ben lo esprime Paolo, che rapporta la risurrezione di Cristo alla nostra: «E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). 

Meditazione

      Il dono dello Spirito celebrato a Pentecoste è intravisto dai testi biblici odierni come linguaggio della comunità cristiana che riesce a comunicare ad extra le opere di Dio (I lettura), come principio ordinatore che regola i doni e i ministeri all’interno della comunità secondo il principio dell’«utilità comune» (1Cor 12,7; II lettura), come forza escatologica che stabilisce la pace nella comunità e consente ai discepoli di rimettere i peccati (vangelo).

    Lo Spirito crea relazione e innesta in Cristo le relazioni intraecclesiali, interecclesiali e missionarie. Esso guida ciascuno e tutti nella comunità ad assumere i modi e i pensieri di Cristo in vista dell’edificazione dell’unico corpo: la chiesa.

    Il vangelo stabilisce un nesso tra Spirito santo e remissione dei peccati. Il Risorto mostra ai discepoli le ferite delle mani e del costato e dona la pace e lo Spirito santo. Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subito l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti. Il Risorto ha vinto in se stesso, nella sua persona, con l’amore, il male patito e, manifestando ai discepoli la continuità del suo amore nei loro confronti, comunica loro anche la via per partecipare alla sua vita di Risorto: vincere il male con il bene, rispondere alla cattiveria con la dolcezza, far prevalere la grazia sulla vendetta e sulla rivalsa. Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri, lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?

    Frutto dello Spirito, il perdono è evento escatologico prima che etico. Tuttavia, il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso. Per perdonare occorre rinunciare alla volontà di vendicarsi; riconoscere che si soffre per il male subito e che tale male ci ha privati realmente di qualcosa; condividere con qualcuno il racconto del male subito; dare il nome a ciò che si è perso per poterne fare il lutto; dare alla collera il diritto di esprimersi; perdonare a se stessi (soprattutto il male subito da persone amate o vicine suscita pesanti sensi di colpa che rischiano di imprigionare per tutta la vita); comprendere l’offensore, cioè guardarlo come un fratello che il male ha allontanato da me; trovare un senso al male ricevuto; sapersi perdonati da Dio in Cristo. Questo cammino il credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.

     Lo Spirito è dono e promessa: le due cose a un tempo. Come dono esso è verificabile nella vita del credente e della chiesa nei frutti di carità, pace, benevolenza, pazienza, mitezza; come promessa esso apre il futuro, suscita la speranza, da una direzione di cammino. Nel nostro testo, lo Spirito è dono e impegno: dono del Risorto che impegna nella missione i discepoli. Missione che, avendo al suo cuore la remissione dei peccati, è essenzialmente far sperare, dare una forma vivibile al tempo degli uomini, dischiudere orizzonti di senso narrando il perdono di Dio.

    Lo Spirito, in quanto dono di Dio, dona al credente e alla chiesa la forma Christi. Come il Risorto dona lo Spirito attraverso il suo corpo, corpo ferito e risorto, così lo Spirito, accolto dai discepoli, vivifica il loro corpo psicofisico (paralizzato dalla paura) e il corpo ecclesiale che essi formano (immobilizzato nella chiusura). Il Figlio, inviato dal Padre, ha donato agli uomini il volto e l’umanità di Dio, e ora dona loro il respiro, il soffio di Dio grazie a cui essi potranno donare al mondo, con i loro corpi, le loro vite e le relazioni che vivranno, la narrazione del volto di Cristo. Narrazione che nel donare il perdono trova il suo momento più alto. Non a giudicare o a condannare è chiamata la chiesa ma a narrare la grande opera del Dio che ha risuscitato Gesù dai morti: la remissione dei peccati, il perdono.

 

Preghiere e racconti 

Come si può parlare dello Spirito Santo?

Se non era facile parlare ai contemporanei di Dio, ancora più difficile è stato parlare loro del Figlio di Dio. Ma come si deve parlare dello Spirito santo di Dio, che non si può concepire né rappresentare e, certamente, neppure dipingere?

Nella storia dell’arte occidentale c’è un pittore, al quale più che ad altri si attribuisce un anelito di spiritualizzazione. Molti dei suoi dipinti sono pervasi di un’inquietudine estatica. Lo spazio da lui dipinto è spesso più accennato simbolicamente che reale; domina la verticale, il movimento ascensionale; le sue figure sembrano stirate artificialmente, allungate in maniera innaturale; il gioco delle ombre e delle luci è altamente drammatico; i contorni sfumano. La bellezza è qui in larga misura smaterializzata – anche a prescindere dagli occhi espressivi di molte figure.

Questo pittore proviene dall’arte greco-bizantina, tuttavia a Venezia e a Roma, presso i grandi maestri Tiziano, Bassano e Tintoretto, si era appropriato delle acquisizioni del rinascimento e del manierismo. E tutto questo coniugava con la religiosità popolare mistica della Spagna, lui che non era spagnolo e che tuttavia era più spagnolo degli spagnoli: Domenikos Theotokópoulos di Creta detto El Greco (1541-1614), non soltanto pittore, ma anche scultore, architetto e teorico dell’arte.

Nel suo ultimo periodo creativo questo artista molto raffinato, prossimo ai settant’anni e sempre più assistito dal figlio nei suoi lavori, aveva provato a rappresentare un oggetto che, rispetto al Natale, al Venerdì santo o alla Pasqua, è infinitamente meno presente nella pittura occidentale: la Pentecoste, la festa dell’effusione dello Spirito santo. In questo dipinto che tende verso l’alto – ora al Prado di Madrid -, in uno scenario surreale su sfondo grigioverde, si vede un gruppo di persone, dominato dallo Spirito e composto da due donne e da una dozzina di uomini. Essi sono in preda a un’appassionata eccitazione, evidente dai volti e dai gesti: alcuni protendono le mani verso l’alto, altri allungano il collo e altri ancora guardano in estatico rapimento. In alto ci sono dieci figure, quasi come in un dipinto greco-bizantino, tutte alla stessa altezza, dietro le quali, in posizione obliqua, altre figure Si piegano in atteggiamento di sorpresa. Le loro vesti, dai colori molto intensi – verde, azzurro, giallo, rosso e colori terrei -, ricevono luce dall’alto. Sopra ciascuna delle figure fluttua una piccola abbagliante lingua di fuoco, che rende le figure rappresentate ancor più profilate, mosse ed estatiche. Un dipinto altamente drammatico di un’audacia quasi espressionistica, e tuttavia concentrato, smaterializzato, spiritualizzato.

E lo Spirito stesso, lo Spirito santo? Eccolo lassù in alto, in uno splendore divino, che illumina l’oscurità dello spazio. Rappresentato mediante quel simbolo che a partire dal battesimo di Gesù viene usato molto presto anche per le raffigurazioni della Pentecoste: il simbolo della colomba. Fin nell’alto medioevo esso rimane quello prevalente e viene ripreso a partire dal secolo XVI/XVII, appunto nel tempo di El Greco.

«Ma nella teologia non si parla continuamente – con riferimento ad alcune affermazioni del vangelo di Giovanni – dello Spirito santo come di una persona (il “Consolatore”)? E non compare perciò, per lo meno nell’arte medievale, in figura spesso direttamente umana?»

In effetti, nell’arte medievale lo Spirito viene spesso rappresentato, insieme a Dio e al suo Figlio, come la terza di tre figure umane uguali – tre angeli o dèi. O proprio all’opposto: a partire dal secolo XIII fino al rinascimento italiano la trinità di Padre, Figlio e Spirito veniva spesso dipinta perfino come un’unica figura con tre teste o tre volti (Tri-kephalos) – una divinità sotto tre modalità, dunque. Ma entrambi – triteismo o modalismo – non sono oggi ugualmente inaccettabili per l’uomo contemporaneo?

Ma si ascolti e ci si stupisca: le due rappresentazioni sono state vietate dai papi: già Urbano VIII vietava nel 1628 queste immagini troppo umane della Trinità, e a partire dall’illuminato Benedetto XIV (1745) lo Spirito santo può essere rappresentato soltanto nella figura della colomba, decisione ribadita ancora nel nostro secolo, nel 1928, dal Sanctum Officium, dall’autorità dell’Inquisizione romana, ora denominata Congregazione della fede. Ciò induce ad affrontare l’interrogativo fondamentale.

Che cosa significa Spinto santo?

Come si sono immaginati gli uomini dell’antico tempo biblico lo «Spirito» e l’agire invisibile di Dio? Percepibile e tuttavia non percepibile, invisibile e tuttavia potente, di vitale importanza come l’aria che si respira, carico di energia come il vento, la tempesta, questo è lo Spirito. Tutte le lingue conoscono una parola per indicare ciò, e la diversità del genere in cui lo collocano dimostra che lo spirito non è così facilmente determinabile: spiritus in latino è maschile (come anche «lo» spirito in italiano), ruah invece in ebraico è femminile, mentre il greco conosce il neutro pneuma.

Lo spirito, quindi, è in ogni caso una realtà totalmente diversa da una persona umana. La «ruah»: secondo l’inizio del racconto della creazione è quello «scroscio» o «tempesta» di Dio che aleggia sopra le acque. E il «pneuma»: sta, anche secondo il Nuovo Testamento, in opposizione alla carne», alla realtà creata, transeunte, ed è la potenza e la forza viva che promana da Dio. Lo Spirito è quindi quella forza e potenza di Dio che opera creando o anche distruggendo, come vita o come giudizio, che opera sia nella creazione sia nella storia, in Israele come anche, in seguito, nelle comunità cristiane. Secondo la Bibbia, questa potenza può raggiungere l’uomo con forza o con levità, può indurre in estasi singole persone o anche interi gruppi, come appunto quello raffigurato nel quadro di El Greco. Lo Spirito opera nei grandi uomini e nelle grandi donne, in Mosè e nei «giudici» d’Israele, nei guerrieri, nei cantori e nei re, nei profeti e nelle profetesse, ma anche – come nel nostro quadro – negli apostoli e nelle discepole. Il centro nel quadro è chiaramente rappresentato da Maria madre di Gesù in veste rossa, verso la quale si piega la giovane Maria di Magdala.

Ma in che senso questo Spirito è lo Spirito santo? Lo Spirito è «santo» in quanto viene distinto dallo spirito non santo dell’uomo e del suo mondo e deve essere visto come lo Spirito dell’unico Dio santo. Lo Spirito santo è lo Spirito di Dio. Neppure nel Nuovo Testamento lo Spirito santo è – come spesso nella storia delle religioni – un qualche fluido magico, sostanziato, misteriosamente soprannaturale, di natura dinamica («qualcosa» di spirituale) o un essere magico di tipo animistico (un fantasma o uno spettro). Anche nel Nuovo Testamento lo Spirito santo non è che Dio stesso.  Dio stesso, in quanto egli è vicino agli uomini e al mondo, anzi egli diventa loro intimo in quanto potenza che afferra, ma non è afferrabile, in quanto forza che vivifica, ma anche giudica, in quanto grazia che dona, ma non è a disposizione dell’uomo.

C’è però una domanda: proprio il simbolo della colomba (in origine uccello messaggero delle dee dell’amore nell’antico Oriente), che ha a sua volta soppiantato la rappresentazione antropomorfica dello Spirito santo, non evoca associazioni antropomorfiche?  Risposta: in ogni caso questo simbolo dell’elemento materno-femminile, del dono della vita, dell’amore e della pace – entrato nel racconto del battesimo di Gesù forse passando attraverso l’antica tradizione ebraica della sapienza (Filone) -, sottolinea la dimensione femminile in Dio, che è tanto importante quanto quella maschile, perché in Dio stesso, ribadiamolo ancora una volta, la differenziazione sessuale è inclusa e insieme viene superata. Va però ammesso che la maggior parte dei fraintendimenti sullo Spirito santo provengono dal fatto che lo si è staccato da Dio e reso autonomo alla stregua di una figura mitologica. Comunque proprio il concilio di Costantinopoli del 381, al quale dobbiamo l’estensione allo Spirito santo della professione di fede, originariamente cristologica, del concilio di Nicea del 325, afferma esplicitamente: lo Spirito è della medesima natura del Padre e del Figlio.

In nessun caso, dunque, si può concepire lo Spirito santo come un terzo, come una realtà tra Dio e l’uomo. No, con la parola Spirito è intesa la vicinanza personale di Dio stesso agli uomini, altrettanto poco separabile da Dio quanto il raggio dal sole. Se dunque ci si chiede come il Dio invisibile e inafferrabile sia vicino, presente ai credenti, alla comunità di fede, la risposta del Nuovo Testamento suona concorde: Dio è vicino a noi uomini nello Spirito; è presente nello Spirito, mediante lo Spirito, anzi, come Spirito. E se ci si chiede come Gesù Cristo, elevato e accolto presso Dio, sia vicino ai credenti e alla comunità di fede, la risposta, secondo Paolo, suona: Gesù è diventato uno «Spirito vivificatore» (1 Cr 15, 45). Anzi, «il Signore (Il Kyrios, quindi Gesù, il glorificato) è lo Spirito» (2Cor 3,17). Ciò significa che lo Spirito di Dio ora è anche lo Spirito del Glorificato presso Dio, così che ora il Signore elevato presso Dio è nel modo di esistere e agire dello Spirito. Ora perciò egli può essere mediante lo Spirito, nello Spirito, in quanto Spirito. L’incontro di Dio, del Kyrios e dello Spirito con i credenti è in realtà un unico e medesimo incontro. Ma si noti bene: Dio e il suo Cristo non sono presenti soltanto attraverso il ricordo soggettivo dell’uomo o attraverso la fede. Essi sono presenti piuttosto in virtù della realtà spirituale, dell’attività di Dio e di Gesù Cristo stesso, che vengono incontro all’uomo.

Credere nello Spirito Santo

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile. E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù. Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà. Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno. Il suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio. Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per l’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia (…).

Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.

E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti. Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile. No, lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo. E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo. Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio, da ricevere con fiducia incondizionata. Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede. No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».

Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io. E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa. Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa. Credo sanctam ecclesiam.

(H. KUNG, Credo). 

La Chiesa ha bisogno…

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita interiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».

E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!»

(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972). 

Omelia di Papa Francesco pronunciata per la Santa Messa di sabato 24 maggio 2014 presso l’International Stadium di Amman: 

Nel Vangelo abbiamo ascoltato la promessa di Gesù ai discepoli: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). Il primo Paraclito è Gesù stesso; l’«altro» è lo Spirito Santo. Qui ci troviamo non lontano dal luogo in cui lo Spirito Santo discese con potenza su Gesù di Nazareth, dopo che Giovanni lo ebbe battezzato nel fiume Giordano (cfr Mt 3,16), e oggi mi recherò li. Dunque il Vangelo di questa domenica, e anche questo luogo nel quale grazie a Dio mi trovo pellegrino, ci invitano a meditare sullo Spirito Santo, su ciò che Egli compie in Cristo e in noi, e che possiamo riassumere in questo modo: lo Spirito compie tre azioni: prepara, unge e invia.

Nel momento del battesimo, lo Spirito si posa su Gesù per prepararlo alla sua missione di salvezza; missione caratterizzata dallo stile del Servo umile e mite, pronto alla condivisione e alla donazione totale di sé. Ma lo Spirito Santo, presente fin dall’inizio della storia della salvezza, aveva già operato in Gesù nel momento del suo concepimento nel grembo verginale di Maria di Nazareth, realizzando l’evento mirabile dell’Incarnazione: “lo Spirito Santo ti colmerà, ti adombrerà – dice l’Angelo a Maria – e tu partorirai un Figlio al quale porrai nome Gesù” (cfr Lc 1,35).

In seguito, lo Spirito Santo aveva agito in Simeone e Anna nel giorno della presentazione di Gesù al Tempio (cfr Lc 2,22). Entrambi in attesa del Messia; entrambi ispirati dallo Spirito Santo, Simeone ed Anna alla vista del Bambino intuiscono che è proprio l’Atteso da tutto il popolo. Nell’atteggiamento profetico dei due vegliardi si esprime la gioia dell’incontro con il Redentore e si attua in certo senso una preparazione dell’incontro tra il Messia e il popolo.

I diversi interventi dello Spirito Santo fanno parte di un’azione armonica, di un unico progetto divino d’amore. La missione dello Spirito Santo, infatti, è di generare armonia – Egli stesso è armonia – e di operare la pace nei differenti contesti e tra i soggetti diversi. La diversità di persone e di pensiero non deve provocare rifiuto e ostacoli, perché la varietà è sempre arricchimento. Pertanto, oggi, invochiamo con cuore ardente lo Spirito Santo, chiedendogli di preparare la strada della pace e dell’unità.

In secondo luogo, lo Spirito Santo unge. Ha unto interiormente Gesù, e unge i discepoli, perché abbiano gli stessi sentimenti di Gesù e possano così assumere nella loro vita atteggiamenti che favoriscono la pace e la comunione. Con l’unzione dello Spirito, la nostra umanità viene segnata dalla santità di Gesù Cristo e ci rende capaci di amare i fratelli con lo stesso amore con cui Dio ci ama. Pertanto, è necessario porre gesti di umiltà, di fratellanza, di perdono, di riconciliazione. Questi gesti sono premessa e condizione per una pace vera, solida e duratura.

Chiediamo al Padre di ungerci affinché diventiamo pienamente suoi figli, sempre più conformi a Cristo, per sentirci tutti fratelli e così allontanare da noi rancori e divisioni e poter amarci fraternamente. È quanto ci ha chiesto Gesù nel Vangelo: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito, perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16).

E infine lo Spirito Santo invia. Gesù è l’Inviato, pieno dello Spirito del Padre. Unti dallo stesso Spirito, anche noi siamo inviati come messaggeri e testimoni di pace. Quanto bisogno ha il mondo di noi come messaggeri di pace, come testimoni di pace! E’ una necessità che ha il mondo. Anche il mondo ci chiede di fare questo: portare la pace, testimoniare la pace!

La pace non si può comperare, non si vende. La pace è un dono da ricercare pazientemente e costruire “artigianalmente” mediante piccoli e grandi gesti che coinvolgono la nostra vita quotidiana. Il cammino della pace si consolida se riconosciamo che tutti abbiamo lo stesso sangue e facciamo parte del genere umano; se non dimentichiamo di avere un unico Padre nel cielo e di essere tutti suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza.

In questo spirito abbraccio tutti voi: il Patriarca, i fratelli Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, i fedeli laici, i tanti bambini che oggi ricevono la Prima Comunione e i loro familiari. Il mio cuore si rivolge anche ai numerosi rifugiati cristiani; anche tutti noi, con il nostro cuore, rivolgiamoci a loro, ai numerosi rifugiati cristiani provenienti dalla Palestina, dalla Siria e dall’Iraq: portate alle vostre famiglie e comunità il mio saluto e la mia vicinanza.

Cari amici, cari fratelli, lo Spirito Santo è disceso su Gesù presso il Giordano e ha dato avvio alla sua opera di redenzione per liberare il mondo dal peccato e dalla morte. A Lui chiediamo di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace. Amen!

Si compie ciò che era prefigurato in quei giorni

Fratelli, è iniziato un giorno di grazia, in cui la santa chiesa risplende agli occhi dei fedeli e riscalda i loro cuori. Celebriamo questo giorno in cui il Signore Gesù Cristo, dopo la sua risurrezione, glorificato dalla sua ascensione, inviò lo Spirito santo. Sta scritto nell’evangelo: «Se uno ha sete, venga a me e beva; chi crede in me, dal suo seno fluirà acqua viva» e l’evangelista prosegue: «Diceva questo dello Spirito santo che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui. Infatti non era stato ancora dato loro lo Spirito perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,37-39). Gesù, risorto dai morti e asceso al cielo, doveva ancora inviare lo Spirito santo che aveva promesso. Così avvenne. Il Signore, dopo essere risorto dai morti, passò quaranta giorni con i suoi discepoli, poi ascese al cielo e il cinquantesimo giorno, che oggi celebriamo, inviò lo Spirito santo come sta scritto: «Venne all’improvviso un rombo dal cielo, come di vento che si abbatte gagliardo e apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,1-4). Quel vento purificava i cuori dalla paglia carnale, quel fuoco consumava il fieno degli antichi desideri cattivi, quelle lingue con cui parlavano quelli che erano colmi di Spirito santo prefiguravano la chiesa che sarebbe stata presente nelle lingue di tutte le genti. Come infatti dopo il diluvio gli uomini superbi e malvagi edificarono contro il Signore una torre altissima per cui il genere umano meritò di essere diviso in lingue diverse così che ogni popolo parlava la propria lingua senza essere compreso dagli altri (cfr. Gen 11,1-9), così l’umile fervore dei fedeli riportò all’unità della chiesa la diversità di quelle lingue perché ciò che la discordia aveva diviso fosse radunato dalla carità e le membra disperse del genere umano, quali membra di un solo corpo, venissero riunite, ben compaginate, a Cristo, loro unico capo, e si fondessero nell’unità del santo corpo mediante il fuoco dell’amore. […] Voi, fratelli miei, membra del corpo di Cristo, germogli di unità, figli della pace, trascorrete questa festa nella gioia, celebratela senza timore. In voi si compie infatti ciò che era prefigurato in quei giorni, quando venne lo Spirito santo poiché come allora chi riceveva lo Spirito santo, pure essendo una sola persona, parlava in tutte le lingue, così anche ora la chiesa, una tra tutti i popoli, parla tutte le lingue e voi, costituiti in tale unità, possedete lo Spirito santo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 271,1 Opere di sant’Agostino XXXII/2, pp. 1038-1040).

Cinquanta giorni dopo la Pasqua, celebriamo la solennità della Pentecoste, in cui ricordiamo la manifestazione della potenza dello Spirito Santo, il quale  come vento e come fuoco  scese sugli Apostoli radunati nel Cenacolo e li rese capaci di predicare con coraggio il Vangelo a tutte le genti (cfr At 2,1-13). Il mistero della Pentecoste, che giustamente noi identifichiamo con quell’evento, vero “battesimo” della Chiesa, non si esaurisce però in esso.

La Chiesa infatti vive costantemente della effusione dello Spirito Santo, senza il quale essa esaurirebbe le proprie forze, come una barca a vela a cui venisse a mancare il vento. La Pentecoste si rinnova in modo particolare in alcuni momenti forti, a livello sia locale sia universale, sia in piccole assemblee che in grandi convocazioni. I Concili, ad esempio, hanno avuto sessioni gratificate da speciali effusioni dello Spirito Santo, e tra questi vi è certamente il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Possiamo ricordare anche il celebre incontro dei movimenti ecclesiali con il Venerabile Giovanni Paolo II, qui in Piazza San Pietro, proprio nella Pentecoste del 1998. Ma la Chiesa conosce innumerevoli “pentecoste” che vivificano le comunità locali: pensiamo alle Liturgie, in particolare a quelle vissute in momenti speciali per la vita della comunità, nelle quali la forza di Dio si è percepita in modo evidente infondendo negli animi gioia ed entusiasmo. Pensiamo a tanti convegni di preghiera, in cui i giovani sentono chiaramente la chiamata di Dio a radicare la loro vita nel suo amore, anche consacrandosi interamente a Lui.

Non c’è dunque Chiesa senza Pentecoste. E vorrei aggiungere: non c’è Pentecoste senza la Vergine Maria. Così è stato all’inizio, nel Cenacolo, dove i discepoli “erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la Madre di Gesù, e ai fratelli di lui”  come ci riferisce il libro degli Atti degli Apostoli (1,14).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita del Regina caeli, 23.05.2010).

Vieni, o Spirito del cielo

Vieni, o Spirito del cielo,

manda un raggio di tua luce,

manda il fuoco creatore.

Misterioso cuor del mondo,

o bellezza salvatrice,

vieni dono della vita.

Tu sei il vento sugli abissi,

tu il respiro al primo Adamo,

ornamento a tutto il cielo.

Vieni, luce della luce,

delle cose tu rivela

la segreta loro essenza.

Concezione germinale

della terra e di ogni uomo,

gloria intatta della Vergine…

O tu Dio in Dio amore,

tu la luce del mistero,

tu la vita di ogni vita.

(David Maria Turoldo)  

 

«O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli».
È con questa invocazione sulle labbra e nel cuore che la Chiesa celebra il mistero della Pentecoste cinquanta giorni dopo la Pasqua. Una volta compiuta l’opera che il Padre aveva affidato a Cristo, prima che il giorno di Pentecoste giungesse alla fine, fu inviato alla Chiesa lo Spirito Santo, dono del Risorto, per santificarla e perché i credenti avessero accesso alla vita divina. È lo Spirito del Padre e del Figlio che dà la vita, quale sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna (cf. Gv 4,14), Dono per eccellenza che il Padre fa agli uomini per richiamarli dalla morte alla vita (cf. Gv 7,38) e così custodirli fino al giorno della risurrezione finale in comunione con Cristo. Essi sono perciò resi partecipi, anche con i loro corpi mortali (cf. Rm 8,10), della medesima gloria del corpo risorto di Cristo.
Con l’effusione dello Spirito preannunciata dai profeti e realizzata dal Risorto, viene dunque inaugurato il tempo della Chiesa in cui il Paraclito conduce alla “verità tutta intera”, interiorizza il mistero di Cisto, lo rende presente per i credenti di ogni luogo e di ogni tempo, guida e sostiene la Chiesa nella sua missione di annuncio e di testimonianza del vangelo. Se è vero che «lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato», tuttavia «fu nel giorno della Pentecoste che egli discese sui discepoli, per rimanere con loro in eterno, e la Chiesa apparve pubblicamente di fronte alla moltitudine, ed ebbe inizio mediante la predicazione e la diffusione del Vangelo in mezzo ai pagani» (Ad Gentes 4).

Tra i suggestivi mosaici che ricoprono quasi per intero la superfice della Cattedrale di Monreale, la scena della Pentecoste è posta nel complesso dell’illustrazione musiva delle apparizioni del Risorto ai suoi discepoli. Questi sono come disposti in semicerchio attorno a una mensa ideale. Da una semisfera posta in alto, simbolo del divino, si dipartono dodici raggi luminosi con delle fiammelle che raggiungono gli apostoli i quali danno vita a un unico e indivisibile disegno, poiché una sola è la rete che li unisce tra di essi e che li congiunge a Dio. Colpisce l’essenzialità della scena nella quale si nota immediatamente non solo l’assenza di ogni architettura e di ogni riferimento a un possibile luogo fisico ben preciso, ma soprattutto l’assenza della Madre del Signore. In realtà Maria è il simbolo più forte e l’immagine più pura della Chiesa ricolma di Spirito Santo.
Questa verità risalta maggiormente se si prende in considerazione il fatto che «nell’economia della grazia, attuata sotto l’azione dello Spirito Santo, c’è una singolare corrispondenza tra il momento dell’incarnazione del Verbo e quello della nascita della Chiesa. La persona che unisce questi due momenti è Maria: Maria a Nazareth e Maria nel cenacolo di Gerusalemme. In entrambi i casi la sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della “nascita dallo Spirito”. Così colei che è presente nel mistero di Cristo come madre, diventa – per volontà del Figlio e per opera dello Spirito Santo – presente nel mistero della Chiesa.

Anche nella Chiesa continua ad essere una presenza materna». Lo scrive Giovanni Paolo II al n. 24 della Redemptoris Mater. Gli fa eco Benedetto XVI il quale nella Spe salvi si rivolge a Maria con una preghiera con la quale il popolo di Dio in cammino verso la Gerusalemme celeste, rigenerato dall’acqua e dallo Spirito, può concludere il tempo pasquale: «Presso la croce, in base alla parola stessa di Gesù, tu eri diventata madre dei credenti. In questa fede, che anche nel buio del Sabato Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua.
La gioia della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo nuovo ai discepoli, destinati a diventare famiglia di Gesù mediante la fede. Così tu fosti in mezzo alla comunità dei credenti, che nei giorni dopo l’Ascensione pregavano unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cf. At 1,14) e lo ricevettero nel giorno di Pentecoste» (n. 50).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014. 

PER APPROFONDIRE:

PASQUA PENTECOSTE (A)

Senza cattedra, senza voti, senza zaino: ecco la scuola rivoluzionaria che già esiste in Italia. Ecco com’è e dov’è

Solo la merenda e un paio di quaderni per i compiti: lo zaino ha un peso piuma alla scuola primaria di Classe dell’Emilia Romagna. La mattina, quando si arriva, ci si siede nell’agorà e si discute di quello che si farà durante la giornata. La cattedra, nelle aule, non c’è. E nemmeno i banchi. Ci sono i tavoli, isole per gruppi di alunni. Qui, infatti, la condivisione è tutto. E il lavoro di gruppo è di casa. Ma perché un progetto così innovativo attecchisce in una scuola del forese, nella minuscola Classe a pochi chilometri da Ravenna?

Merito di Rita Gentili, un’insegnante illuminata che dopo essersi innamorata, aver proposto ed essere riuscita ad ottenere di aderire alla rete nazionale “Senza Zaino” – partita da Marco Orsi, dirigente scolastico di Lucca – non tornerebbe più indietro: no, la scuola tradizionale mai più.

La storia che l’insegnante racconta a ROMAGNAMAMMA.IT inizia sei anni fa, quando in attesa della realizzazione del nuovo plesso scolastico, Rita partecipa ad un corso di formazione dedicato all’organizzazione degli spazi. Ed è lì, a Bologna, che conosce Orsi, venendo a conoscenza del metodo da lui lanciato sull’onda di alcune esperienze scolastiche in Nord Europa. Quando torna a casa, si catapulta dalle colleghe: “Chiesi loro se fossero disposte a cambiare approccio, a studiare, a mettersi in gioco. E loro non esitarono a dirmi di sì. Così partì la nostra avventura”. Complessa, visto che il primo anno dopo l’avvio del progetto viene dedicato per intero alla formazione del corpo insegnanti. Le maestre di Classe si appassionano a tal punto da dare indicazioni precise al Comune per la costruzione e l’arredamento della aule.

Sì, perché Senza Zaino significa anche arredi molto diversi da quelli che vediamo normalmente in una scuola. Significa i tappeti con le sedute che caratterizzano l’agorà dove ci si dà il buongiorno, significa pareti colorati come se le classi fossero camerette, significa una cartellonistica particolare per fissare gli apprendimenti. Significa, anche, laboratori: di italiano, di matematica.

Il tutto per agevolare un metodo didattico alternativo, diverso: “Senza Zaino considera il bambino nella sua globalità e cerca di attivare tutte le intelligenze possibili affinché ognuno trovi la sua strada per crescere. Senza Zaino è una scuola accogliente e condivisa: i materiali sono tutti a disposizione e lo spirito è quello di una comunità”. Le regole, infatti, non vengono decise e imposte dall’alto ma discusse e poi scritte insieme ai bambini. Nel caso non funzionino, vengono ritrattate e cambiate. Dietro, c’è uno stile pedagogico montessoriano: “Per andare in bagno, non c’è bisogno di chiederlo. I bambini, senza disturbare, si alzano e ci vanno in tutta autonomia”.

L’autonomia è infatti il risultato più importante del metodo adottato da Classe: “I bambini imparano ad organizzarsi, a fare da soli. Diventano responsabili. Un esempio? Se un alunno ha difficoltà con le ‘c’ e le ‘q’, prende una scheda di auto-verifica e si esercita. Ha tutta la libertà per farlo”. L’insegnante, dal canto suo, gira tra i tavoli su una sedia a ruote, non giudica i bambini con un voto numerico se non sul registro, e con la classe costruisce giochi didattici unici, che poi passeranno in eredità alle classi successive.

Al momento, a Classe, sono sei le sezioni “Senza zaino”: le prime, le seconde e le terze. Tra due anni, la scuola sarà interamente a regime. Tutta “Senza zaino”. E i genitori? “Alcuni obiettano che lavorare sempre insieme non aiuta i bambini a fare da soli. Noi rispondiamo che innanzitutto non sempre il lavoro è collettivo, capita anche che sia individuale. E poi vedessero come i bambini imparano dal compagno. E alle medie avranno una marcia in più, capaci come saranno di cooperare”.

Bagnasco: genitori e scuola patto entusiasmante

«Comunione» e «comunicazione della fede». È stato questo il binomio che ha caratterizzato i lavori della 66ma Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (Cei). Binomio sviluppato «nell’orizzonte sostanziale della presenza e delle parole» del Papa nella giornata di apertura dei lavori. Lo ha spiegato il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, presentando il comunicato conclusivo e il messaggio finale dei vescovi italiani (che pubblichiamo integralmente a parte). 

Rispondendo alle domande dei cronisti, il porporato ha confermato l’esistenza di un «effetto Papa Francesco» nella presenza dei fedeli nelle liturgie e nei confessionali. «Certamente il Santo Padre con la sua presenza, la sua parola, il linguaggio dei gesti, – ha detto – aiuta la gente a riscoprire la dimensione trascendente della vita, il senso spirituale e alto delle cose, che non si può vivere di solo pane, per usare la parola evangelica». Il cardinale ha quindi spiegato il «senso complessivo» delle nuove modalità di elezione del presidente dei vescovi italiani, che verrà scelto dal Papa su una terna di vescovi diocesani votati a maggioranza assoluta dall’assemblea generale. Questo cambiamento statutario, da sottoporre alla recognitio della Santa Sede, è infatti il frutto di «una proposta mediana che vuole riconoscere due valori: la partecipazione del Papa, che procede alla nomina sulla base del riconoscimento del suo ruolo unico in Italia, in quanto vescovo di Roma, e il riconoscimento della partecipazione dei vescovi all’elezione del loro nuovo presidente». Il cardinale Bagnasco ha anche precisato che dopo una serie di “votazioni orientative” – in cui l’assemblea si era divisa praticamente a metà tra favorevoli e contrari all’elezione diretta del presidente – alla fine la soluzione di presentare una terna al Papa è stata approvata, superando i due terzi richiesti per i cambi statutari, con 156 voti favorevoli (il quorum era fissato a 142 suffragi) e una trentina contrari.

Nel corso della conferenza stampa il porporato ha anche parlato della grande manifestazione sulla scuola dello scorso 10 maggio e ha ribadito l’auspicio che «tutti siano a servizio della famiglia: lo Stato, la Chiesa, qualunque istituzione». «Tutte le tipologie di scuole» infatti sono a servizio della famiglia, che «non può mai essere scavalcata, né dallo Stato, né dalla Chiesa, né da nessuno». «Uno Stato che ha un concezione statalista dell’educazione non sarebbe né democratico né umano né umanistico», ha sottolineato il cardinale, secondo il quale «la scuola deve ritrovare il compito bello, entusiasmante, appassionato di aiutare i genitori ad educare i propri figli». Al porporato è stato chiesto poi se ci potranno essere altre manifestazioni analoghe a quella del 10 maggio. «Non si può escludere nulla a priori», ha risposto Bagnasco, ricordando che «il Papa ripete che dobbiamo essere noi vescovi, che conosciamo le situazioni concrete dei nostri Paesi e delle nostre regioni, a discernere, a valutare insieme le opportunità di discernimento, di azione che riteniamo più opportune per aiutare il Paese di volta in volta».

Il presidente della Cei, rispondendo ad altre domande, ha anche commentato la bufera giudiziaria che ha coinvolto la banca Carige di Genova («è un fatto che ci rattrista moltissimo», «però posso testimoniare per esperienza diretta che c’è una grande determinazione, capacità e competenza per superare questo momento di difficoltà») e ha smentito seccamente di aver avuto contatti con il politico Claudio Scajola che in un colloquio telefonico intercettato dalla magistratura e finito sui giornali aveva detto che lo avrebbe contattato per avere un sostegno alla sua candidatura, poi non andata in porto, alle europee. Richiesto di spiegare il motivo della non diffusione pubblica da parte della Cei del questionario in preparazione al Sinodo dei vescovi sulla famiglia, il cardinale Bagnasco ha puntualizzato che «non è stato pubblicato perché la segreteria del Sinodo ha detto di non pubblicare niente».

 
Gianni Cardinale

“Affettività e sessualità, una sfida per l’educazione”

“Questioni di cuore e di ragione. Tracce per un percorso formativo all’affettività e alla sessualità” è il tema del XII Convegno dell’Associazione nazionale Scienza & Vita, che si svolge a Roma venerdì 23 e sabato 24 maggio. Ad aprirlo un intervento di S.E. Mons. Nunzio Galantino: “Quando come Chiesa tocchiamo questi temi – quando parliamo di amore e di sessualità – sembra che sia semplicemente per negare o per proibire: e quando passa questa idea, la proposta cristiana finisce per non attrarre più nessuno, né potrebbe essere altrimenti. Siamo qui, piuttosto, a raccogliere con passione e convinzione anche su questo fronte la sfida educativa”.
Tra le tentazioni da cui guardarsi – ha spiegato il Segretario Generale – c’è la semplificazione: “E «semplificazione» non è solo la mercificazione della sessualità o la svalutazione dell’affettività; ancor più «semplificazione» è da considerarsi la rinunzia colpevole al pensiero critico e al dialogo, sostituita più comodamente dal ricorso a luoghi comuni e falsamente rassicuranti”.
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