Nota pastorale sulla scuola cattolica

Sono trascorsi più di trent’anni dalla pubblicazione dell’ultimo documento della Chiesa italiana sulla scuola cattolica ed è sembrato giusto e doveroso che la Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università tornasse ad esprimersi sull’argomento con una nuova Nota pastorale dal titolo La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società.
In questi ultimi trent’anni è cambiata la società italiana, si è rinnovato il sistema scolastico con una serie di riforme, ma soprattutto è intervenuta la legislazione sulla parità scolastica che, nonostante i ben noti limiti, ha integrato le scuole cattoliche nell’unico sistema nazionale di istruzione.
Ci troviamo inoltre nel pieno del decennio dedicato dalla Chiesa italiana all’educazione e dunque era necessario soffermarsi sulla speciale realtà educativa della scuola cattolica. Per farlo, come è possibile notare fin dal titolo della Nota, è stata scelta la categoria della «risorsa».

Già negli Orientamenti pastorali per il decennio in corso si era parlato della scuola cattolica come «grande risorsa per il Paese» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 48). Oggi si ribadisce questo aspetto, qualificando la risorsa come «educativa» e assegnandole una specifica paternità: la scuola cattolica è una risorsa «della Chiesa locale».
Questo radicamento nella comunità cristiana locale vuole essere una sottolineatura della natura intimamente ecclesiale della scuola cattolica e suscitare quindi un duplice richiamo: alle scuole cattoliche, perché conservino e valorizzino la loro appartenenza ecclesiale, e alle comunità cristiane, affinché guardino con responsabilità e simpatia al ruolo educativo che la scuola cattolica svolge sul territorio.
Nel 1977 la Sacra Congregazione per l’educazione cattolica, per sottolineare il servizio educativo che ognuna doveva assicurare, aveva ricordato che una scuola cattolica deve essere anzitutto una scuola (La scuola cattolica¸ n. 25); e questa affermazione è puntualmente riportata nella Nota odierna. Ma si ha l’impressione che tutte le strutture scolastiche, per il fatto di appartenere a un gigantesco sistema nazionale (quasi nove milioni di alunni), siano oggi percepite come espressione di un unico organismo e perdano facilmente la loro identità particolare. E il paradigma statalista facilita enormemente questo processo. Le scuole cattoliche, invece, in quanto frutto di azione sussidiaria, cioè dell’iniziativa libera dei soggetti che vivono e animano il territorio, possono dare la prova di come ciascuna scuola abbia una sua specifica identità e sia il risultato dell’impegno educativo di una comunità.

Sul versante opposto, le Chiese locali tendono talvolta a trascurare le scuole cattoliche (o a non avvertirle come “proprie”), in quanto lo sguardo si sofferma quasi solo sul servizio scolastico offerto. La Nota intende riportare l’attenzione sul legame costitutivo e vitale tra la Chiesa locale e le singole scuole cattoliche che operano sul suo territorio. In una fase storica in cui, anche e soprattutto nel caso delle scuole statali, la scuola è vista principalmente come fonte di spesa su cui operare dolorosi ma indispensabili risparmi, si vuole ribadire che la scuola è una risorsa preziosa: una risorsa educativa e, nel caso delle scuole cattoliche, una risorsa offerta dalle Chiese locali all’intera società.
Dopo un lungo processo di riflessione ed elaborazione, conclusosi con l’approvazione del Consiglio Episcopale Permanente nel marzo scorso, la Nota pastorale viene oggi offerta a tutti, anche per rilanciare l’immagine della scuola cattolica in un momento di diffuse difficoltà.
Il documento si articola sostanzialmente in tre parti. Dopo una breve introduzione, la prima parte ha carattere descrittivo e presenta la complessa posizione della scuola cattolica oggi in Italia, nel contesto di un sistema educativo di istruzione e formazione che negli ultimi anni ha subito importanti trasformazioni. Non si può infatti comprendere la realtà della scuola cattolica se la si separa dalle dinamiche del sistema scolastico nazionale, cui la natura di scuola paritaria l’ha sempre più decisamente legata.

La seconda parte è quella di maggiore impegno teorico, pur nella sua estrema sinteticità. A partire dall’emergenza educativa, evidenziata con particolare lucidità da Benedetto XVI, si cerca di collegare la proposta culturale della scuola cattolica alla questione antropologica: non può esserci un progetto educativo senza un’idea di persona umana. Alle scuole cattoliche spetta da sempre il compito, impegnativo ma esaltante, di coniugare la cultura con la fede, assegnando alla testimonianza vissuta nella quotidiana relazione educativa un ruolo decisivo nella vita scolastica. È qui che si colloca l’identità ecclesiale e la dimensione comunitaria che ogni scuola cattolica è chiamata a sviluppare in maniera originale.
Il richiamo è molto forte per ogni comunità cristiana, dal suo vescovo ai singoli fedeli: «La scuola cattolica – dichiara la Nota – è inserita nel tessuto della Chiesa locale in modo così organico da potersi pensare che una Chiesa locale priva di scuole cattoliche abbia di che sentirsi più povera e più carente nella propria azione evangelizzatrice» (n. 13). Purtroppo l’esperienza ci dice che talvolta si verifica in alcuni ambienti della comunità cristiana «una incomprensibile disattenzione verso la scuola cattolica» (n. 22). Già trent’anni fa i vescovi avevano rilevato lo stesso problema e a maggior ragione sembra oggi necessario tornare a chiedere attenzione e condivisione per l’impegno – umano, spirituale, organizzativo, economico – che le Chiese locali assolvono in questo settore.
Purtroppo, sono note le difficoltà economiche in cui si dibattono le scuole cattoliche. La Nota torna più volte a denunciare l’ingiustizia di condizioni materiali che ostacolano l’esercizio di quella elementare libertà di scelta educativa che tutte le famiglie dovrebbero poter esercitare e che in particolare le più povere non hanno la possibilità di praticare. Più che ottenere semplici ma essenziali provvedimenti economici, appare indispensabile promuovere una cultura della parità e del pluralismo scolastico che attribuisca il corretto significato al principio costituzionale di sussidiarietà.

È sicuramente riduttivo impostare il problema in termini meramente economici, ricordando il cospicuo risparmio che deriva allo Stato dall’esistenza delle scuole paritarie: ciò che si auspica è un cambiamento di mentalità, che faccia riconoscere il valore di civiltà legato alla pluralità dell’offerta formativa e alla concreta libertà di scelta educativa delle famiglie. Una volta compreso questo valore, i sussidi economici verranno da sé.
È però fondamentale ricordare, come fa la Nota al n. 21, che una corretta impostazione del problema non può vedere la Chiesa – a livello locale e nazionale – preoccuparsi solo delle proprie scuole. Papa Francesco ce lo ha detto con la consueta semplicità e incisività nel grande incontro con la scuola italiana il 10 maggio scorso: «Io amo la scuola», tutta la scuola. È l’intero mondo della scuola che deve stare a cuore alla comunità cristiana per le infinite potenzialità educative in esso racchiuse. Anche le legittime rivendicazioni di equità nel trattamento delle scuole paritarie sono finalizzate sempre alla costituzione di un sistema nazionale di istruzione che assicuri realmente le stesse condizioni a tutti gli alunni.
Queste indicazioni trovano attuazione negli orientamenti pastorali contenuti nella terza parte del documento, in cui si chiede di attivare tutte le iniziative, anche di carattere meramente organizzativo, per rendere concreta l’attenzione per la scuola. Un aspetto sempre qualificante la scuola cattolica è la preparazione degli insegnanti: essi rimangono i primi testimoni e gli artefici immediati del progetto educativo di una scuola. Altro aspetto qualificante è l’insegnamento della religione cattolica, che meriterebbe di essere specificamente valorizzato e potenziato.

È forte poi l’esigenza di un’attenzione privilegiata ai più deboli. Le scuole cattoliche nascono proprio come scuole popolari per chi non poteva permettersi altre forme di istruzione e di emancipazione; erano un esercizio di carità e un’insostituibile occasione di recupero umano e sociale per le categorie più svantaggiate. Oggi, purtroppo e contraddittoriamente, sono percepite come scuole di élite, in quanto la loro frequenza è subordinata alla possibilità di pagare rette sempre più elevate. Nasce da qui l’invito a non disperdere una preziosa eredità dando luogo a tutte le possibili forme di sostegno affinché queste scuole siano aperte anche e soprattutto alle nuove forme di povertà e debolezza: disabili, immigrati, emarginati.
Con specifico riferimento a questo fondamentale aspetto viene ricordato infine il prezioso contributo della formazione professionale, che costituisce il necessario complemento del sistema di scuola cattolica. Gran parte degli enti che operano nel settore sono di ispirazione cristiana e forniscono un servizio in enorme espansione, che di fatto si rivolge ai giovani in maggiore difficoltà (alcuni centri, per esempio, arrivano ad avere oltre due terzi di allievi stranieri) offrendo loro una efficace occasione di crescita umana e di inserimento lavorativo. Pregiudizi di vario genere fanno considerare la formazione professionale un mondo a parte, anche amministrativamente separato dalla scuola tradizionale, ma le ultime riforme ne hanno integrato la realtà in quello che, proprio per questo motivo, ha assunto il nome di sistema educativo di istruzione e di formazione. È per questo che la Nota dedica il giusto spazio anche alla formazione professionale di ispirazione cristiana, integrandola nel più ampio sistema di scuola cattolica.
Nelle conclusioni la Nota si sofferma sulla qualità che ogni scuola cattolica deve perseguire. Le difficoltà economiche non devono far adottare soluzioni che riducano in qualche modo il livello del servizio educativo. Non si parla di efficientismo o di affanno per raggiungere i punteggi più alti negli indicatori oggi in uso per misurare la qualità delle scuole: la qualità di una scuola cattolica si misura anche, e soprattutto, per la sua capacità di accendere «la passione per la verità, l’amore, la giustizia, la solidarietà, la libertà, la legalità» (n. 37).
Con questa fiducia affidiamo le nostre riflessioni alla comunità cristiana e a tutte le scuole cattoliche italiane, nella speranza di ravvivare una sincera e costruttiva attenzione verso l’opera preziosa che le nostre scuole svolgono nella società italiana.
  

S.E. Mons. Gianni Ambrosio
(presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università)
 

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura: Ezechiele 33,1.7-9 

Mi fu rivolta questa parola del Signore:  «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.  Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.  Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu sarai salvato».

 

Se il Vangelo c’invita a essere custodi gli uni degli altri, a sua volta il testo del profeta Ezechiele indica nell’immagine della sentinella la caratterizzazione del proprio ruolo. Tale immagine, naturale in un contesto militare e in cui la guerra ha un posto importante nella vita quotidiana, come in una civiltà nella quale le mura della città erano appunto custodite da sentinelle, era immediatamente percepibile: la sentinella ha il compito di avvertire il popolo appena avvista il pericolo. Il profeta, da parte sua, non avvista i pur notevoli pericoli di eserciti nemici, bensì quelli ancora più insidiosi dell’allontanamento da Dio, dalla sua legge.

     Ciò che, però, il profeta Ezechiele afferma si rivela sorprendente perché egli non sarà sentinella nel senso che, avendo visto l’empio agire male, lo riprende di sua iniziativa. Al contrario, dovrà seguire un criterio ben preciso e determinato: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (33,7). Dunque, è Dio stesso che si preoccuperà di dare l’«allarme» alla sentinella-profeta! Dio, cioè, si renderà garante dell’oggettività del richiamo, che ha il solo scopo di conseguire la salvezza dell’empio, la cui vita, davanti agli occhi di Dio, non ha meno valore di quella del giusto, essendo Egli il creatore dell’una come dell’altra: «Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (33,8).

     Il profeta risulta perciò responsabile in caso di omissione del compito che Dio gli ha affidato: anche la vita dell’empio appartiene al Signore ed Egli non vuole certo sciuparla, perderla. Tuttavia, l’empio, da parte sua, conserva la responsabilità sulla propria vita e sul suo esito, qualora si ostini a non convertirsi: «Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (33,9). Si tratta del famoso principio della responsabilità personale, secondo il quale le colpe personali ricadono soltanto su chi le ha commesse. Di questo l’empio dev’essere altamente consapevole, sapendo comprendere e scorgere nel richiamo del profeta-sentinella l’occasione per approfittare dell’offerta di misericordia da parte di Dio.

 

Seconda lettura: Romani 13,8-10

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».  La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità. 

 

Fungere da sentinella, avvertendo con saggezza unita a fermezza circa i pericoli di determinati comportamenti, non è un compito tra i più gratificanti nell’ambito di una comunità, grande o piccola che sia. Bene lo sapevano i profeti dell’antichità come pure i profeti di oggi. Non si può negare, però, che anche questo rappresenti un vero servizio d’amore a vantaggio di un’umanità spesso disorientata. Ed è proprio sull’amore che l’apostolo Paolo invita a riflettere, insistendo su un particolare di non poco conto: l’osservanza della legge. Infatti, contrariamente a chi lo dipinge come abrogatore della legge, Paolo intende incoraggiare i cristiani di Roma a realizzare il fine proprio della legge, ossia l’amore.

     Esaminando i tre versetti del brano, iniziamo dalla prima affermazione, la cui formulazione può sembrare un po’ strana: «non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (13,8). Paolo ritiene che, se dev’esserci una qualche obbligazione tra fratelli di una comunità, questa non può che essere l’agape, l’amore, di cui ha già parlato abbondantemente in 12,9-21, esortando a essere sinceri nella carità e a non rendere a nessuno male per male, bensì a vincere il male con il bene.

     Nel versetto 9, poi, citando esplicitamente alcuni dei precetti mosaici e richiamando allusivamente gli altri, tira una conclusione che ben conosciamo, essendo tipica anche di altri passi del Nuovo Testamento, in particolare del Vangelo (Mc 12,28-31; Mt 22,34-40; Lc 10,25-28; Gv 13,34-35): «Infatti: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai”, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”». I tanti precetti della legge, cioè, in chi è giunto alla maturità della fede e dell’amore verso Dio, si rivelano riassumibili nel precetto dell’amore per il prossimo, il quale non ha bisogno di vietare, ma al contrario di spingere a fare di più per i fratelli. D’altronde, l’amore rende il cristiano più capace di vedere i bisogni di chi è il suo prossimo, non raramente anche di prevenirli.

     Infine, con il v. 10 si chiude la breve riflessione, ribadendo il rapporto tra amore e compimento della legge: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità». È utile sottolineare che quanto dice Paolo non costituisce una semplice parenesi, quasi un appello ai buoni sentimenti, ma un ritrovare nel nucleo stesso della rivelazione (la legge) le motivazioni profonde che insegnano l’agire di Dio agli uomini.

     La legge, quindi, secondo l’insegnamento paolino (cf. Romani e Galati), rimane efficace e necessario pedagogo che conduce a Cristo, giacché, in ultima analisi, colui che compie la legge si mette sulla medesima scia segnata dal Figlio di Dio, che ha interpretato la sua morte in croce come compimento della legge nell’amore. Una scia che porta alla croce, in quanto l’amore significa comunque rinunciare a se stessi per far posto a Dio e imitare la vita del Figlio.

 

Vangelo: Matteo 18,15-20

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

 

Esegesi 

     Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, rispondendo alla domanda riguardo ai fondamenti della vita di una comunità, ne presenta due di non trascurabile valore: la correzione fraterna e la preghiera in comune.

     Iniziamo dalla correzione fraterna, che viene esposta dall’evangelista in maniera abbastanza giuridica, come si deduce dal tipo di ragionamento seguito: a) v. 15, ossia la correzione in privato: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»; b) v. 16, la correzione in presenza di testimoni «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»; c) v. 17, correzione davanti all’assemblea come extrema ratio, prima dell’espulsione: «Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

     In realtà, tra i vari riferimenti del Nuovo Testamento alla correzione (Mt 7,4; Lc 6,41-42; Gal 6,1; 2Ts 3,15; 1Tm5,l; 2Tm 2,25; Tt 3.10; Gc 5,19-20), questo di Matteo è il più preciso, ma è anche quello che si rivela subito, allo stato dei fatti, il più irrealizzabile, se non nel contesto limitato di comunità come Qumran (presso la quale esisteva una disciplina precisa in proposito) e, successivamente, quelle monastiche (si pensi al capitolo delle colpe). Può darsi che nella comunità dell’evangelista, di carattere giudeocristiano, si agisse in questo modo, poiché tale prassi risente della tradizione biblica. Infatti, 18,16 cita esplicitamente Dt 19,15, mentre il concetto generale della correzione fraterna si trova in Lv 19,17: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui».

     Pur coscienti della problematicità storica di tale prassi nelle comunità antiche, non si può negare un dato: ogni membro della comunità si sente un po’ responsabile di chi gli sta a fianco, il che vuol dire che, per la salvezza del fratello e il buon nome della comunità stessa, egli ritiene proprio dovere intervenire nella correzione. Questa, poi, può addirittura giungere all’estremo dell’espulsione nei casi di perdurante ostinazione da parte di chi è stato corretto. Per confermare questo tipo di «potere» da parte della comunità. Gesù dice: «In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (18,18). Anche Dio accetta la decisione che la comunità, dopo aver attentamente ponderato ed esplorato ogni possibile strada di correzione, consideri non più discepolo l’ostinato e lo affidi alla misericordia divina affinché lo faccia ritornare sui propri passi.

     L’altro fondamento, quello della preghiera in comune, è strettamente legato a quanto abbiamo detto finora: soltanto una comunità che sa riunirsi nella concordia della preghiera e della professione di fede in Gesù Cristo può intercedere per coloro che hanno voltato le spalle al vero pastore dell’umanità. Anzi, ancora più radicalmente, il Vangelo afferma che basta essere in due, che, in accordo, possono chiedere qualsiasi cosa al Padre, perché egli la conceda. E quale cosa migliore si può chiedere al Padre se non che nessuno si perda di quelli che Egli ha chiamato?

Quando tutte le altre metodologie falliscono, non rimane che implorare dal Padre il suo onnipotente intervento per raddrizzare ciò che ha preso una cattiva piega

Meditazione

     La fede in Dio diviene responsabilità verso il fratello e questa si declina come ammonizione e correzione del fratello: questo il messaggio che unisce prima lettura e vangelo.

La correzione fraterna richiede un profondo senso di fede. Questo emerge dalle parole di Gesù secondo le quali essa deve esercitarsi nei confronti di chi «ha peccato», commettendo una colpa pubblica, non diretta in modo particolare contro l’altro. Il testo non dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te». In quel caso, rivelerà Gesù, vi è il perdono senza misura (Mt 18,21-22).

La maturità di fede consiste nel sentirsi feriti dal peccato in quanto tale, non soltanto dall’offesa personale.

     La correzione fraterna si oppone al silenzio complice, alla pigrizia di chi non vuole inimicarsi l’altro, ai meccanismi di autogiustificazione sempre pronti a trovare buoni motivi per non intervenire e non denunciare il male là dove è commesso. A livello ecclesiale la correzione corrisponde a una parola audace e profetica pronunciata a qualunque prezzo, perché di mezzo c’è il vangelo. Uno dei più frequenti peccati di omissione è il sottrarsi alla denuncia del male e del peccato, è il sottrarsi alla correzione fraterna.

     La capacità di correzione dice la libertà del credente. E anche la sua obbedienza radicale al vangelo e la sua appartenenza al Signore.

     L’autenticità dell’amore sgorgato dal vangelo si manifesta nella capacità di correggere colui che si ama. L’amore «spirituale», non psichico, vince la tentazione di tacere il peccato commesso dall’amico per timore di perderne l’amicizia. La correzione fraterna dice che l’amore cristiano deve essere vissuto all’interno della responsabilità per gli altri e per il mondo.

     La correzione fraterna va colta anche dal punto di vista di chi la riceve, che è sempre un fratello, un membro della comunità cristiana. Occorre molta umiltà e disponibilità a ricredersi e a ricominciare. L’autentica correzione fraterna non è un giudizio, e ancor meno una condanna, ma un evento sacramentale che fa regnare Cristo come terzo tra chi la esercita e chi la riceve. Essa richiede il coraggio della parola: coraggio che può nascere solo radicando la propria parola nella parola evangelica.

     I tre «gradi» del processo disciplinare nei confronti di chi ha peccato nella chiesa (Mt 18,15-17) indicano quantomeno imprudenza e la gradualità in cui si svolge il tentativo di accordare l’istanza evangelica con il rispetto del fratello peccatore al fine di recuperarlo. L’orizzonte della correzione è infatti quello espresso dal profeta Ezechiele, secondo cui Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11).

     La scomunica (Mt 18,17) appare come extrema ratio. E certamente la prassi storica delle comunità potrà e dovrà creare e inventare forme di intervento che cerchino in ogni modo di evitare l’allontanamento di un fratello. Impressiona, nella Regola di san Benedetto, la procedura prevista nei confronti di un fratello peccatore: «L’abate si comporti come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e, da ultimo, il cauterio dell’esclusione o delle battiture della verga, se vede che tutto il suo darsi da fare non serve a nulla, allora ricorra a ciò che è ancor più efficace: la preghiera sua e di tutti i fratelli per lui, affinché il Signore, che tutto può, operi la guarigione del fratello malato» (28,2-5).

     L’estensione ai membri della comunità, o almeno ai suoi responsabili, del potere di «sciogliere e legare», riservato al solo Pietro in Mt 16,19, dice l’importanza della corresponsabilità nell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. E ribadisce un principio importante della prassi sinodale: «Ciò che nel corpo ecclesiale concerne tutti, deve essere discusso e approvato da tutti».

     Se nella Chiesa vi è divisione e peccato, essa però trova la sua unità nel Nome del Signore: lì, fosse ben tra due o tre credenti, perché mai nel Nuovo Testamento la Chiesa dipende dal numero, si può creare la sinfonia (vb. symphonéo: v. 19) gradita al Signore e da lui ascoltata.

Preghiere e racconti 

Le sentenze dei padri del deserto

Per molti anni due uomini erano vissuti insieme senza mai litigare. Un giorno, uno disse: “E se litigassimo almeno una volta come fanno tutti?”. L’altro rispose: “Io non so come si fa a litigare… Il primo disse: “Ecco: io colloco un mattone fra noi due e io dico che è mio e tu dici che è tuo. È così che comincia un litigio. Collocarono quindi il mattone fra di loro. Uno disse: “È mio”. L’altro disse: “No, è mio”. Riprese il primo: “Sì  è tuo; prendilo e vattene. E si separarono senza riuscire a litigare.

(L. Regnault, Le sentenze dei padri del deserto)

Correzione con amore

«Rabbi Aronne arrivò un giorno nella città in cui cresceva il piccolo Mardocheo, il futuro Rabbi di Lechowitz. Il padre di questi gli condusse il ragazzo e si lamentò che non avesse costanza nello studio. “Lasciatemelo qui un poco”, disse Rabbi Aronne. Quando fu solo con il piccolo Mardocheo, strinse il bambino al suo cuore e in silenzio ve lo tenne vicino fino a che il padre tornò. “Gli ho fatto un discorsino” disse quindi Rabbi Aronne. “D’ora in poi la costanza non gli mancherà”. Quando il Rabbi di Lechowitz raccontava questa vicenda aggiungeva: “Ho imparato allora come si convertono gli uomini”».

(MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti,1985, 245).

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe un volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite ; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa . – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. E’ questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

L’amicizia e la correzione fraterna in S. Giovanni Crisostomo

«Più di noi stessi, se lo volete, voi potete beneficarvi a vicenda: passate più tempo insieme, conoscete meglio di noi le vostre relazioni reciproche, non vi sono nascoste le vostre mancanze vicendevoli, avete più franchezza, più amore, più consuetudine reciproca: questi non sono piccoli vantaggi per ammaestrare, anzi ne offrono una possibilità grande e opportuna; e più di noi potete rimproverare ed esortare. E non solo questo, ma io sono solo, e voi molti; e tutti potete, quanti siete, essere maestri. Perciò vi scongiuro: non trascurate questa grazia! Ciascuno ha una moglie, ha un amico, ha un servo, ha un vicino: questi ammonisca, quelli esorti. Non è un assurdo? Per il cibo si fanno banchetti e simposi, vi sono giorni stabiliti per riunirsi e quello in cui uno manca personalmente, viene compiuto dalla società, come ad esempio se si debba partecipare a un funerale, o a un banchetto, o si debba aiutare in qualcosa un prossimo. E, invece, per ammaestrare alla virtù non si fa nulla di ciò! Sì, vi scongiuro! Nessuno lo trascuri! Riceverà da Dio una grande ricompensa!

[…] «Ma non so parlare» si dice. Non c’è bisogno di saper parlare né d’eloquenza. Se vedi un tuo amico che si abbandona all’impudicizia, digli: «Ciò che fai è un’azione cattiva; non ti vergogni? Non arrossisci? È male!». Ma lui non sa che è male? si obietta. Certo, lo sa, ma la passione lo trascina. Anche gli ammalati sanno che una bevanda fredda fa loro male, e tuttavia c’è bisogno di chi glielo impedisca. Chi soffre, non sa facilmente dominarsi, se è ammalato. C’è bisogno di te, che sei sano, per curarlo; e se non riesci a persuaderlo a parole, osserva dove va e impedisciglielo, forse se ne vergognerà. «Ma che giova se agisce così per me, se solo per me se ne trattiene?». Non sottilizzare troppo: intanto distoglilo in qualsiasi modo dall’azione cattiva; si abitui a non precipitarsi in quel baratro sia per te, sia per qualsiasi altro impedimento: è già un guadagno. E quando si sarà abituato a non recarsi più là, allora, dopo che si sarà un po’ riavuto, potrai riavvicinarlo e insegnargli che bisogna evitare ciò per Dio e non per gli uomini. Non pretendere di correggerlo tutto in una volta, perché non ci riuscirai; bensì piano piano, un po’ alla volta.

E se lo vedi andare a bere, se lo vedi recarsi a banchetti dove ci si ubriaca, comportati nello stesso modo. Anzi, supplicalo di aiutarti a correggerti se vede che tu hai qualche difetto. In tal modo rivolgerà in sé il rimprovero, vedendo che anche tu hai bisogno di ammonizione, e che lo aiuti non perché sei il correttore di tutti, o il maestro, ma sei un amico e un fratello. Digli: Ho giovato a te ricordandoti qualcosa di utile; anche tu, se vedi in me qualche difetto, prendimi per i capelli e raddrizzami: se mi vedi irascibile, o avaro, frenami e legami con le tue ammonizioni. Questa è l’amicizia, così il fratello viene aiutato dal fratello e diventa una città fortificata (cf. Pr 18,19). Non è il mangiare o il bere insieme che crea l’amicizia: così l’hanno anche i ladri e gli assassini; ma se siamo amici, se veramente ci diamo pensiero l’uno dell’altro, ci dobbiamo anche accordare. E questo ci porta a un’amicizia utile e ci impedisce di precipitare nella geenna.

D’altra parte chi viene rimproverato non si turbi, siamo uomini e abbiamo difetti; e chi rimprovera non lo faccia pubblicamente, insultando e facendo mostra di sé, ma a quattr’occhi e con dolcezza; ha bisogno di tanta dolcezza colui che ammonisce, se vuole che sia ben accolto il suo discorso tagliente. Non vedete i medici, quando bruciano o quando tagliano, con quanta dolcezza applicano la loro terapia? E molto più lo deve fare chi ammonisce, perché il rimprovero è più violento del ferro e del fuoco, e fa sobbalzare. Per questo motivo anche i medici si esercitano molto per riuscire a incidere con calma, e lo fanno con dolcezza, in quanto è possibile, e incidono un poco e poi permettono di riprendere il fiato. Così si devono fare anche i rimproveri, perché chi viene ammonito non se ne sottragga. E se fosse necessario venire insultati e anche schiaffeggiati, non ricusiamolo; anche quelli infatti che subiscono un intervento urlano mille cose contro coloro che li operano, però essi non guardano a nulla di ciò, ma solamente alla salute dei pazienti. Così, anche nel nostro caso, si deve fare di tutto perché il rimprovero risulti utile, e si deve sopportare tutto guardando il premio che c’è preparato. È detto: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge del Cristo (Gal 6,2). Così, ammonendoci e sopportandoci a vicenda, potremo completare l’edificazione del Cristo».

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole . Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269). 

Correzione fraterna: la correzione evangelica          

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

Con grande misericordia e discrezione

      Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

Preghiera

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIII DOM TEMP ORDINARIO

 

XVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 55,1-3

Così dice il Signore: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?  Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti.

Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide».

 

Questo oracolo del secondo Isaia è rivolto ai deportati a Babilonia, nella prospettiva del ritorno in patria e della ricostruzione, grazie alle concessioni del re persiano Ciro, intorno al 538 a.C. I capitoli attribuiti a questo profeta (Is 40,55) incominciano proponendo gli intensi e molteplici richiami della parola di Dio, che annuncia e prepara il cambiamento della situazione (Is 40,1-11). Poi si diffondono sull’opera militare e politica di Ciro e su quella profondamente spirituale del Servo di JHWH. Adesso con la conclusione costituita dal capitolo 55, sollecitano tutti a dare ascolto e collaborazione attiva alla parola di Dio, sicuri dei suoi splendidi frutti. I tre versetti del brano liturgico sintetizzano questa sollecitazione, con paragoni facili e incisivi.

— Il versetto 1 invita a procurarsi i beni materiali, da quelli necessari di acqua e grano a quelli sovrabbondanti di vino e latte, pur senza denaro e senza spese. Con espressioni simili, la Sapienza invita ad ascoltare la parola di Dio, saggia e feconda di vita (Pr 9,5.11). Il profeta intende la stessa cosa. Ma sembra anche imitare le grida dei venditori per reclamizzare la loro merce, che stanno all’origine del paragone. Ciò gli permette di evidenziare i benefici anche materiali, che per i deportati erano il ritorno in patria e la ricostruzione, e di polemizzare con gli spacciatori di merci false.

— Il versetto 2 riferisce esplicitamente il paragone degli acquisti all’impegno di ascoltare la parola di Dio. Lo fa prima mettendo in guardia dallo spendere per ciò che non è pane e che non sazia e poi con l’invito «ascoltatemi», per avere le cose buone e i cibi succulenti. Le allusioni sono a predicatori di altri messaggi, magari di pessimismo e di rassegna-zione alla deportazione, comunque in contrasto con quello del profeta.

— Il versetto 3, ormai fuori dai paragoni, insiste sul rapporto tra parola di Dio e vita. Ripete per tre volte: «Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete». E assicura le conseguenze concrete: «Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide». Questo rapporto avvicina l’oracolo all’invito di Gesù: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Lo pone in linea col messaggio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Vangelo). Ed esclude l’interpretazione spiritualista data da qualcuno al versetto precedente, quasi escludesse la ricerca del pane materiale per dedicarsi solo al cibo spirituale. Per Isaia, come per Gesù, la parola di Dio è fonte di vita piena, per lo spirito e per il corpo.

 

Seconda lettura: Romani 8,35.37-39 

Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?  Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.

 

Qui è proposta la parte finale dell’inno di lode all’amore di Dio che conclude il capitolo ottavo della lettera ai Romani, tutto dedicato alla trasformazione dell’uomo e del creato grazie alla redenzione operata da Cristo. In riferimento al suo contesto, si può trovare in essa un collegamento con la tematica principale delle altre letture, sotto due aspetti.

     Da una parte l’inno esprime la più completa ed entusiasta fiducia nell’amore che Dio ha per noi. Tale senso ha la domanda iniziale: «Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Assolutamente niente può intaccare la fedeltà di Dio che ha impegnato verso di noi la sua paterna misericordia, manifestata nel dono supremo di Cristo e della sua opera. Paolo fa un dettagliato elenco degli ostacoli possibili, dal nostro punto di vista: vanno dalle sofferenze personali, interne ed esterne, alle catastrofi di flagelli naturali, come la fame e la nudità, e della cattiveria umana, come la persecuzione e le violenze, fino alle opposizioni di potenze superiori che agiscono nel cosmo e nella storia. Nessuna creatura può prevalere su Dio. All’elenco possiamo certamente aggiungere le difficoltà a costruire, ieri e oggi, un mondo riconciliato, quale è prospettato nel contesto di questi versetti, e una comunità umana nella solidarietà e nella condivisione, come propongono la prima lettura e il Vangelo. Anche di queste difficoltà è più forte l’amore col quale Dio ci ama.

     Dall’altra parte l’inno esprime il nostro impegno a corrispondere: «in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati ». L’apostolo è ottimista ed entusiasta anche sotto quest’aspetto. Ma sa bene, e lo ha detto altrove pure in questa lettera, che gli ostacoli all’amore di Dio vengono proprio da noi. Per questo prospetta il nostro impegno quasi come una sfida. Bisogna lasciarsi amare da Dio, in ogni circostanza, e avere il coraggio, con la sua grazia, di affrontare qualsiasi situazione per quanto difficile. Con questi atteggiamenti, i cristiani del tempo di Paolo hanno fermentato e trasformato la società pagana. Solo con essi è possibile liberare anche la società attuale dalle presunzioni dei vari ateismi e dalle catastrofi provocate dagli egoismi, dalle violenze e dalle sopraffazioni reciproche. I cristiani ne dovrebbero essere convinti per primi e impegnarsi a darne testimonianza dentro alla vita sociale, sebbene tanto complessa e difficile.

 

Vangelo: Matteo 14,13-21

In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».

     E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.  Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

 

Esegesi 

     La moltiplicazione dei pani e dei pesci è l’unico miracolo raccontato da tutti e quattro gli evangelisti. Il motivo è perché ha prefigurato e preparato l’istituzione dell’Eucaristia. E l’Eucaristia, bisogna aggiungere, è il primo germoglio che nasce dalla seminagione della parola, per organizzare la vita umana secondo il regno di Dio e la sua giustizia. Matteo fa risaltare questo, raccontando il prodigio al centro del Vangelo, dopo i discorsi in parabole (Mt 13), missionario (Mt 10) e della montagna (Mt 5-7), quando Gesù provoca i suoi discepoli e le folle a passare dalle parole ai fatti, in forza della fede. Riferisce prima la situazione, poi il dialogo per affrontarla e infine il miracolo.

     La situazione (vv. 13-14). Gesù è in pericolo di vita, dopo che Erode ha ucciso il Battista, e per sottrarsi si apparta in un luogo deserto. Là trova una grande folla, affamata del nutrimento dello spirito e anche del corpo, per la quale prova una «compassione viscerale», cioè profondamente partecipata, come verso quelle che in precedenza gli erano apparse «stanche e sfinite, come pecore senza pastore» (Mt 9,36). Allora aveva provveduto formando il gruppo dei dodici apostoli, collaboratori della sua opera. Adesso guarisce i malati e si fa aiutare a procurare anche il cibo materiale. In questa viva partecipazione di Gesù, Matteo vede gli atteggiamenti del Messia liberatore dall’oppressione e dalle deportazioni (Mt 4 14-16), che si addossa le nostre miserie di ogni genere (Mt 8,17), per guarirle alla maniera misericordiosa e delicata del Servo di JHWH (Mt 12,17-21).

     Il dialogo (vv. 15-18). Affronta decisamente la necessità del cibo materiale. Focalizza lo scopo del miracolo ed è la chiave per intenderne il significato e i successivi sviluppi. I discepoli propongono in sostanza a Gesù il disimpegno: «congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare».  Gesù, al contrario domanda anche a loro un impegno a prima vista impossibile: «voi stessi date loro da mangiare». Hanno solo cinque pani e due pesci. Ma, proprio perché discepoli, hanno qualcos’altro di fondamentale da donare a questa folla e al mondo, nel procurarsi il cibo e il vestito: la fiducia in Dio Padre e il senso della condivisione nel suo nome. Con l’ordine: «Portatemeli qui», chiede i pani e i pesci, ma insieme anche la loro presenza e partecipazione. Non intende affatto uno sbrigativo e miracolistico: lasciate fare a me!                          

     Il miracolo (vv. 19-21). Effettivamente poi Gesù intreccia il suo operato con la richiesta di collaborazione a tutti, nel più profondo affidamento a Dio. Ai discepoli, avute le risorse disponibili, domanda di darsi da fare personalmente con lui nel servire la gente. Alla folla ordina di sedersi sull’erba, «a gruppi», specifica Marco (Mc 6,39), perché non ha da starsene soltanto passiva. In quella posizione, infatti, realizza un minimo di ordine che consente di seguire quello che fa lui e di accorgersi di chi è vicino nella stessa necessità, per incominciare a solidarizzare. Nel provvedere convenientemente al cibo e alle necessità materiali, bisogna sempre prima di tutto uscire dalla confusione e dalle chiusure nelle preoccupazioni egoistiche. Da questo inizio si può seguire Gesù in tutti i suoi gesti che l’evangelista scandisce come lo saranno poi nell’Eucaristia: alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. In questo modo quel miracolo è stato la preparazione di quello permanente dell’Eucaristia, con il quale i cristiani sono chiamati a contribuire per rendere sempre possibile il miracolo, universalmente e perennemente urgente, della solidarietà e dello sviluppo nella pace.

Meditazione

     La comunione e l’alleanza sono sancite da un banchetto, segno di convivialità e di celebrazione della vita. La promessa di Dio dell’«alleanza eterna» (Is 55,3) è accostata all’invito a partecipare al banchetto che suggella il sacrificio di comunione che normalmente accompagna la stipulazione dell’alleanza (prima lettura). Gesù dona cibo abbondante e sazia una folla numerosa condividendo il poco a disposizione (vangelo).

     La gratuità del cibo, sottolineata nella prima lettura («comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte»: Is 55,1) come nel vangelo, dove il banchetto imbandito da Gesù è frutto di condivisione e si oppone alla richiesta dei discepoli di congedare le folle perché possano andare a comprarsi da mangiare (Mt 14,15), rientra nella dimensione escatologica che il banchetto riveste ed è espressione di un’istanza di giustizia e fratellanza da cui nessuno può restare escluso. Riprendendo le espressioni di Ap 21,4, che evocano la situazione della Gerusalemme celeste istituendo un confronto con la condizione storica e terrena e delineandola come situazione in cui non vi sarà più morte, né  lutto, né lamento, né affanno, noi potremmo aggiungere anche: «non ci sarà più fame». Ma sperare un mondo dove non esista più la piaga della fame e dove non si muoia più per fame, ha il prezzo dell’impegno quotidiano, qui e ora, per dar da mangiare agli affamati, per debellare le cause strutturali che riducono alla fame intere popolazioni.

     Prima di aver a che fare con l’eucaristia, i nostri testi hanno a che fare con l’umanissimo atto di mangiare. Mangiare è un’arte. «Gli animali si pascono; l’uomo mangia; solo l’uomo intelligente sa mangiare» (Anthelme Brillat-Savarin). Il testo di Isaia inizia con un invito: a mangiare si è chiamati. È il nostro corpo che ci chiama a mangiare. Ma poi, giacché gli uomini mangiano insieme, il banchetto è segnato da un invito che altri ci ri-volgono. E mangiare significa anche attendersi e condividere (ciò a cui Paolo richiama i cristiani di Corinto: 1 Cor 1,21-22.33-34).

     Il cibo che sfama non è solo quello costituito da «grasse vivande e vini eccellenti» (Is 25,6), ma quello delle relazioni umane. Relazioni evocate negli imperativi di Is 55,2-3: «Porgete l’orecchio e venite a me».

     La pericope evangelica inizia con l’annotazione che Gesù parte su una barca e si ritira in disparte, in un luogo deserto, dopo aver appreso la notizia della morte di Giovanni Battista (Mt 14,13). Gesù cerca la solitudine per prendere una distanza dall’evento dell’esecuzione del Battista e poter così leggere la propria responsabilità di fronte al vuoto lasciato da Giovanni. E gli eventi, ovvero le folle che lo seguono a piedi dalle città e si presentano a lui quando sbarca a riva, gli suggeriscono la risposta: «egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,14). Dalla sua sofferenza per la morte del Battista Gesù passa a vedere la sofferenza delle folle e soprattutto dei malati e degli infermi. E se ne prende cura. Entrato in contatto con la sua sofferenza, Gesù sa vedere la sofferenza delle folle e la sua compassione diviene cura, azione terapeutica. Diviene risposta umile e fattiva al male del mondo.

     La sua assunzione di responsabilità nei confronti delle folle contrasta apertamente con l’atteggiamento dei discepoli che vorrebbero che Gesù licenziasse la gente per consentire loro di andare ad acquistarsi viveri (Mt 14,15). Gesù dice: «voi stessi date loro da mangiare» e il comando contesta la deresposabilizzazione verso il bisognoso e suscita l’obiezione dei discepoli che vedono nella loro povertà l’impedimento ad assolverlo (Mt 14,17: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!»). Questa la reazione scandalizzata dei discepoli – e di noi con loro – in nome del buon senso, della razionalità e dell’efficienza. Nella risposta di Gesù (Mt 14,18) la povertà non solo non è un impedimento, ma è la condizione che manifesta la potenza della condivisione e dell’azione di Dio. La povertà della chiesa è la condizione della sua efficacia evangelica: essa svela la sua fede che consente alla potenza di Dio di agire.

Preghiere e racconti

L’aiuto verso i nostri fratelli

“Un uomo bussò alla porta di un amico per chiedergli un favore: ‘Puoi prestarmi quarantamila denari? Devo saldare un debito’.

L’altro chiese alla moglie di prendere tutti i loro risparmi e gli oggetti di valore: il piccolo tesoro, però, si rivelò insufficiente. Chiesero aiuto ai vicini e, alla fine, fu raccolta la somma necessaria.

Quando l’uomo se ne fu andato, la donna notò che il marito stava piangendo.

‘Perché sei triste?’ Gli domandò. ‘Per il fatto che ci siamo indebitati con i vicini e non sai se saremo in grado di onorare il nostro debito?’.

‘No, affatto. Piango perché nutro un grande affetto per quell’amico, eppure non mi sono mai preoccupato per lui. Mi è ritornato alla mente soltanto quando si è presentato alla nostra porta per chiedere un prestito’.

Andate, dunque, e raccontate la storia di ciò che è accaduto questo pomeriggio. E ricordate che dobbiamo aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedano.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 174-175)

Il pane

Il pane gioca tanti ruoli! Nel pane abbiamo imparato a riconoscere un mezzo di comunione fra gli uomini, a causa del pane da spezzare insieme. Nel pane abbiamo imparato a riconoscere l’immagine della grandezza del lavoro, a causa del pane da guadagnare con il sudore della fronte. Nel pane abbiamo imparato a riconoscere il veicolo essenziale della pietà, a causa del pane che si distribuisce nell’ora della miseria. Il sapore del pane condiviso non ha uguale.

(A. de Saint-Exupéry, Pilota di guerra)

Dare

Date poca cosa se date le vostre ricchezze.

È quando date voi stessi che date veramente.

Che cosa sono le vostre ricchezze se non ciò che custodite e nascondete nel timore del domani?

E domani, che cosa porterà il domani al cane troppo previdente che sotterra l’osso nella sabbia senza traccia, mentre segue i pellegrini alla città santa?

E che cos’è la paura del bisogno se non bisogno esso stesso?

Non è forse sete insaziabile il terrore della sete quando il pozzo è colmo?

Vi sono quelli che danno poco del molto che possiedono, e per avere riconoscimento, e questo segreto desiderio contamina il loro dono.

E vi sono quelli che danno tutto il poco che hanno.

Essi hanno fede nella vita e nella sua munificenza, e la loro borsa non è mai vuota.

Vi sono quelli che danno con gioia e questa è la loro ricompensa.

Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo rimpianto è il loro sacramento.

E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito.

Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell’aria la sua fragranza.

Attraverso le loro mani Dio parla, e attraverso i loro occhi sorride alla terra.

È bene dare quando ci chiedono, ma meglio è comprendere e dare quando niente ci viene chiesto.

(K. GIBRAN, Il profeta).

Una compassione immensa

Gesù si ritira, ma le folle non si allontanano da lui neppure in questa circostanza. Lo seguono, attaccate a lui, e non sono spaventate neppure da quel che è successo a Giovanni. Così grande è il loro affetto, così grande il loro amore che vince ogni cosa e rimuove ogni difficoltà. Perciò ricevettero subito la ricompensa. Dice il vangelo: «Sceso dalla barca, Gesù vide una grande folla e provò compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,14). Anche se grande era il loro attaccamento a lui, tuttavia quello che egli faceva oltrepassava la ricompensa meritata da un qualunque zelo. Perciò l’evangelista indica come causa di simili guarigioni la compassione, una compassione immensa. Gesù guarisce tutti. E non chiede fede in questo caso, perché venendo a lui, abbandonando le città, cercandolo con cura e rimanendo con lui nonostante la fame, mostrano la loro fede. […] Anche se il luogo è deserto, è presente colui che nutre il mondo; anche se il tempo è passato, parla con voi colui che non è sottomesso al tempo. […] Gesù ordina che le folle si stendano sull’erba per insegnare loro ad amare la sapienza. Non voleva infatti nutrire soltanto i corpi, ma anche educare l’anima. Per mezzo di quel luogo, col fatto che non dava loro nient’altro se non pane e pesce, metteva davanti a tutti le stesse cose, le faceva diventare comuni e non offriva all’uno niente di più che all’altro, insegnava l’umiltà, il dominio di sé, l’amore, e ammoniva ad avere la stessa disposizione d’animo gli uni verso gli altri e a considerare tutto comune. […] Impariamo dunque anche noi a stare vicini a Gesù, ma non perché ci ha dato doni materiali, per non essere rimproverati come i giudei. Infatti dice il Signore: «Mi cercate non perché avete visto dei prodigi, ma perché avete mangiato i pani e vi siete saziati» (Gv 6,26). Per questo non compie continuamente questo prodigio, ma soltanto due volte, in modo che siano ammaestrati a non essere schiavi del ventre, ma a cercare sempre i beni spirituali. A questi beni teniamoci sempre stretti anche noi e cerchiamo il pane celeste e, ricevutolo, scacciamo ogni preoccupazione materiale. Se quelli, infatti, lasciarono casa, città, parenti e ogni altra cosa e rimanevano nel deserto, nonostante la fame, senza allontanarsi quanto più noi accostandoci a tale mensa mostriamo una maggior sapienza e amiamo i beni spirituali cercando poi quelli materiali.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a Matteo, om. 49,1-3, PG 58,497-500).

Il povero acrobata

La Madonna, con il Bambino Gesù fra le braccia, aveva deciso di scendere in Terra per visitare un monastero. Orgogliosi, tutti i monaci si misero in una lunga fila, presentandosi ciascuno davanti alla Vergine per renderle omaggio. Uno declamò alcune poesie, un altro le mostrò le miniature che aveva preparato per la Bibbia e un terzo recitò i nomi di tutti i santi. E così via, un monaco dopo l’altro, tutti resero omaggio alla Madonna e al Bambino.

All’ultimo posto della fila ne rimase uno, il monaco più umile del convento, che non aveva mai studiato i sacri testi dell’epoca. I suoi genitori erano persone semplici, che lavoravano in un vecchio circo dei dintorni, e gli avevano insegnato soltanto a far volteggiare le palline in aria.

Quando giunse il suo turno, gli altri monaci volevano concludere l’omaggio perché il povero acrobata non aveva nulla di importante da dire e avrebbe potuto sminuire l’immagine del convento. Ma anche lui, nel profondo del proprio cuore, sentiva un bisogno immenso di offrire qualcosa a Gesù e alla Vergine.

Pieno di vergogna, sentendosi oggetto degli sguardi di riprovazione dei confratelli, tirò fuori dalla tasca alcune arance e cominciò a farle volteggiare: perché era l’unica cosa che egli sapesse fare.

Fu solo in quell’istante che Gesù Bambino sorrise e cominciò a battere le mani in braccio alla Madonna. E fu verso quel monaco che la Vergine tese le braccia, lasciandogli tenere per un po’ il bambinello.

(Paulo Coelho, L’alchimista, prefazione).

La tavola del Signore

Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uomo, della natura e della cultura, il pane esprime il bisogno, ciò che davvero è necessario per vivere. Non a caso la parola «pane» indica cibo essenziale e non superfluo: quando diciamo che «non c’è pane», evochiamo fame e carestia, cosi come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’evidenza che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame. Una corsa, quella cui assistiamo oggi – dalle sponde meridionali a quelle settentrionali del Mediterraneo – che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinquemila anni fa. Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o meno a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo quando è spezzato e condiviso.

 E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino. Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il dono accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritempra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche. Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici alimenti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadino e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei granai, il rumore della mola e il pigiare nei tini … E ora sono lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.

 Forse anche per questo, come ha giustamente osservato Predrag Matvejevié, «la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o simili». Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua.

 Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore». È cosi che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

     (Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 42-44).

Signore, non sono capace…

Credo, Signore, che sarei capace di compiere una volta,

qualche atto straordinario. Un’azione che impegnerebbe tutto me stesso,

se fossi sconvolto da una sventura, colpito da un’ingiustizia,

se uno dei mie cari fosse in pericolo…

Ma ciò che mi umilia e spesso mi scoraggia,

è che non sono capace di donare la mia vita pezzo a pezzo,

giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto,

donare, sempre donare… e darmi!

Questo non posso farlo e tuttavia

è certamente ciò che tu mi chiedi…

Ogni giorno mille frammenti di vita da donare,

in mille possibili gesti d’amore,

che più non si vedono tanto sono abituali,

e più non si notano tanto sono banali,

ma di cui tu mi dici di aver bisogno per mettere insieme un’offerta

e perché un giorno io possa dire in verità:

Ai miei fratelli io ho donato tutta la mia vita.

E ciò che desideri, Signore, ma non ne sono non posso farlo, lo so, ed ho paura.

Figliolo, io non ti chiedo di riuscire sempre, ma di provarci sempre.

E soprattutto ascoltami, ti chiedo di accettare i tuoi limiti,

di riconoscere la tua povertà e di farmene dono,

perché donare la propria vita non vuol dire donare soltanto le proprie ricchezze,

ma anche la propria povertà, i propri peccati.

Fa’ questo, figliolo, e con i pezzi di vita sciupata,

da te sottratti a tutti coloro che aspettano,

colmerò i vuoti, dandoti in cambio la durata,

perché nelle mie mani la tua povertà offerta,

diventerà ricchezza per l’eternità.

(Michel Quoist)

La tavola dell’umanizzazione

Allora come oggi, se è degna di tal nome, la tavola si accende quando ci sono invitati. Invitare qualcuno  parenti, amici, conoscenti…  è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell’altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente. Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive “poco”, mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell’invitare che nell’essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l’atto in sé è ricompensa. Non è un caso che anche nel Vangelo, uno degli insegnamenti di Gesù che ridimensiona l’assoluto della reciprocità  oggi tanto di moda quando ci fa comodo  riguarda proprio l’invito a tavola: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio”.

Poter dire in verità “la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei” significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi  nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un “salotto” che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l’amicizia gratuita. Quando c’è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, così che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro…

Chi mi ha educato mi diceva sempre che è la tavola il luogo in cui ci esercitiamo a vivere la fede, la speranza, l’amore. La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri. In questa scuola di umanizzazione tre elementi legano il pasto dall’inizio alla fine: il pane, le bevande e la parola. Ma è la parola che costituisce il legame più profondo fra tutti gli attori del pasto: è la parola che narra gli alimenti diversi che giungono in tavola, è la parola che unisce i presenti e gli assenti, i commensali e gli altri, è la parola che mette in relazione il passato con il presente, aprendoli al futuro. La parola a tavola può essere davvero strumento di comunione, mezzo privilegiato per conferire senso al pasto, per valorizzare il gusto degli alimenti, per suscitare l’arte dell’incontro.

Stare a tavola insieme è un linguaggio universale tra i più determinanti e decisivi per l’umanizzazione di ciascuno di noi. A tavola, piccoli e grandi, vecchi e giovani, genitori e figli, siamo tutti commensali, tutti con lo stesso diritto di parola e con lo stesso diritto al cibo che arricchisce la tavola. Davvero stare a tavola è molto più che saper nutrirsi: è saper vivere.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi, Torino, 2010, 45-47). 

Preghiera

Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.

Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.

Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1 Re 3,5.7-12

In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».  Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».  Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».

 

Nella scena rievocata in questo brano (1 Re 3,3-15) ci troviamo agli inizi del regno di Salomone, quando ancora non si ha nessun indizio della perversione che secondo il racconto biblico successivo caratterizzerà il resto della sua vita (1 Re 11). Qui il giovane re ci viene presentato come un modello di uomo saggio, che chiede come supremo dono da Dio il giusto discernimento per poter governare bene il suo popolo. La saggezza di Salomone, caratterizzata altrove anche per una vasta conoscenza di carattere enciclopedico (cf 1 Re 5,9-14), viene qui qualificata come capacità di comprendere i propri limiti, e nello stesso tempo di sentire la necessità dell’aiuto del Signore per «distinguere il bene dal male» (v. 9).

     Ciò è possibile col dono del «cuore docile» (lett. in ebraico «cuore che ascolta»), definito poi come «un cuore saggio e intelligente» (v. 12). Così, non si tratta tanto di una saggezza quantitativa, ma qualitativa. È interessante notare come la sapienza preferita in questa preghiera da Salomone sia contrapposta agli altri beni di carattere più mondano che pure sono considerati importanti nell’Antico Testamento: vita lunga, ricchezza e, specialmente per un re, morte dei nemici.

     Proprio diverse, rispetto a questo ultimo punto, erano state le raccomandazioni di Davide al figlio prima della morte (1 Re 2,5-9). Inoltre, Salomone ha riconosciuto prima la fedeltà del Signore alla promessa fatta a Davide, per cui ringrazia il suo Dio per aver ereditato il trono di suo padre (v. 6).

 

Seconda lettura: Romani 8,28-30

Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.     

 

In questi tre brevi versetti anche Paolo ci offre un suo abbozzo del tema del regno di Dio, più caratteristico dei vangeli sinottici. Egli ci vede coinvolti in esso, in quanto corrisponde al «disegno» di Dio per noi. Giunto alla conclusione della sua esposizione della storia della salvezza che costituisce l’argomento della Lettera ai Romani, Paolo contempla in anticipo il suo compimento nella glorificazione finale insieme a Cristo, dopo che si sono percorse le tappe intermedie della elezione, della chiamata e della giustificazione. Tenendo presente tutto questo, egli può dire prima che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il suo disegno».

     Nel v. 28 abbiamo in Paolo uno dei pochi casi in cui il verbo amare ha Dio come oggetto e l’uomo come soggetto (gli altri casi si hanno in 1 Cor 2,9; 8,3; Ef 6,24). Ma anche in questo caso non si deve dimenticare che ci troviamo inseriti in un processo nel quale l’iniziativa è esclusivamente di Dio che chiama. Del resto prima Paolo ha parlato chiaramente dell’amore con cui Dio ci ha preceduto facendoci dono del suo Spirito: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). Questo concetto è ancora ribadito in 1 Giov 4,10: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati».

 

Vangelo: Matteo 13,44-52

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi  va, pieno di gioia, vende tutti i suoi  averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci.

  Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 

Esegesi 

     Possiamo distinguere in questo brano evangelico tre brevi sezioni:

     1) Il tesoro nascosto e la perla preziosa (vv. 44-46)

     La forza evocatrice di queste due brevi parabole balza immediatamente agli occhi attraverso le due qualifiche abbastanza simili che le riassumono emblematicamente: tesoro, (perle) preziose. Queste due condizioni mettono in moto l’interesse di chi è capace di apprezzarle. Ma il contesto umano presupposto alle due immagini è diverso. Il tesoro na-scosto è scoperto per caso da chi lavora un campo non proprio per conto di estranei, mentre le perle preziose riguardano un mercante che lavora professionalmente per cercarle. Nell’un caso come nell’altro, ciò che conta è il capire che si è di fronte ad un’occasione da non perdere.

     Le due parabole, nella loro brevità, sono formulate in una maniera parallela, giacché in entrambi i casi si ripetono i quattro verbi fondamentali: trova/trovata, va, vende tutti i suoi averi, compra. Solo nel primo caso, trattandosi di una scoperta non prevista, si accentua il senso della sorpresa aggiungendo «pieno di gioia». In realtà, le situazioni evocate dalle due parabole sono un po’ diverse e servono bene a sottolineare due atteggiamenti spirituali differenti nei confronti del regno di Dio. Nel caso del contadino che lavora come salariato, c’è la sorpresa per una scoperta non prevista, ma ciò nonostante egli sa essere abbastanza tempestivo nel prendere le decisioni giuste per non perdere l’occasione di un insperato vantaggio. Nel mercante di perle preziose questa disposizione è più esplicita e in qualche modo più scontata.

     Anche di fronte al regno di Dio il nostro segreto desiderio di scoprirlo può presentare prima dell’incontro diversi gradi di consapevolezza, i quali conducono comunque ad un certo punto al passo decisivo dell’impegno personale e di una svolta di vita.

     2) La rete gettata nel mare (vv. 47-50)

     A proposito di questa parabola si deve ripetere quanto abbiamo osservato per quella che parlava del grano e della zizzania. Anche qui si parla di un elemento negativo, i pesci cattivi o scadenti da gettare via, i quali però non costituiscono l’oggetto principale di tutta l’operazione, ma solo una condizione necessaria per la realizzazione della finalità specifica della pesca, la raccolta dei pesci buoni. Usando lo stesso simbolo, suggerito allora dal suo mestiere. Gesù aveva detto a Pietro: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).

     La conclusione della parabola (vv. 49-50) è simile a quella precedente relativa alla spiegazione aggiunta alla parabola del grano e della zizzania (vv. 41-42): angeli, fornace ardente, pianto e stridore di denti.

     3) Il vero scriba (vv. 51-52)

     Gli scribi, esperti della Scrittura ebraica e della tradizione, rappresentano in Matteo una categoria di persone che, accanto ai sommi sacerdoti e ai farisei, sono menzionati molte volte in modo negativo e polemico, in quanto sono incapaci di comprendere la novità del messaggio di Gesù. Solo qui e in Mt 23,34 («Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città») sembra che vengano visti in senso positivo. Ma nel nostro passo si dice chiaramente che si tratta di uno scriba convertito, che è divenuto «discepolo del regno dei cieli». Così il riscatto della sua figura avviene attraverso il suo superamento, per ribadire che il vero scriba è ormai quello che si fa discepolo, in analogia con quanto si è detto in Mt 11,11 : «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è il più grande di lui». Ma nello stesso tempo si sottolinea un elemento di continuità tra l’antica e la nuova economia in armonia con quanto è stato detto ancor prima: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per compimento» (Mt 5,17).

     Se lo scriba offre qui un modello positivo che si può adattare al discepolo, è in forza di una qualità che gli era riconosciuta come caratteristica: la riflessione sui sacri testi della tradizione che può essere integrata con le osservazioni tratte dalla vita di ogni giorno; di tale atteggiamento si ha un esempio molto significativo proprio nelle parabole.

     In realtà, questo detto sullo scriba-discepolo suggella per Mt tutto il suo capitolo delle parabole, quasi a voler suggerire l’analogia che c’è tra il procedimento del discorso parabolico e l’attività esegetica dello scriba, che diventa feconda quando non si cristallizza sulle conoscenze del passato, ma si sa aprire agli orizzonti dischiusi dalla nuova rivelazione di Dio anche attraverso gli eventi della vita quotidiana.

 

Meditazione 

     La sapienza fa l’unità tra prima lettura e vangelo. Sapienza di Salomone che si esprime nel suo pregare, nel suo chiedere a Dio un cuore capace di ascolto, ovvero il discernimento per giudicare e governare, sapienza di Gesù che si esprime nel suo parlare in parabole ma anche sapienza dei protagonisti delle parabole del tesoro e della perla (Mt 13,44-45) che emerge nel loro discernimento e nella loro pronta decisione, e infine sapienza dello scriba divenuto discepolo del Regno che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). La sapienza non è manichea, non elimina l’antico a esclusivo favore del nuovo e non resta ostinatamente attaccata all’antico per timore del nuovo, ma fa del nuovo la reinterpretazione dell’antico e dell’antico il fondamento del nuovo.

     La sapienza è l’arte di orientarsi nella vita, l’arte di governare il timone della nave: «l’uomo sapiente terrà saldamente il timone» (Pr 1,5 LXX). È l’arte del traghettatore, di chi governa, di chi istruisce. Ma è anzitutto l’arte di chi governa se stesso. Arte che si ottiene mediante la faticosa conoscenza di sé: «Il vero inizio per crescere in virtù è conoscere se stesso. Colui che si conosce è il solo padrone di sé e, senza avere un regno, è veramente un re» (Ronsard). È l’arte di cui oggi, nello smarrimento e nel disorientamento in cui viviamo, abbiamo grande bisogno. «Tu il tesoro, Tu la perla preziosa; o Signore, Tu hai incontrato me, non io ho trovato Te; Tu hai conquistato e afferrato me, non io ho acquistato Te; o mio Tu, io sono tuo». Questa antica invocazione suggerisce che il vero soggetto delle parabole di Mt 13,44-46 non è il mercante che ha acquistato la perla e nemmeno il bracciante che ha acquistato il campo che prima ha lavorato, ma proprio il tesoro, la perla preziosa: essi sono la luce che da nuovo senso e orientamento alla vita e in nome e in vista di cui si può vendere tutto, abbandonare tutto.

     E si può lasciare tutto nella gioia. La radicalità cristiana è autentica se sigillata dalla gioia. Anzi, la gioia è costitutiva di tale radicalità, perché questa va vissuta come grazia e nel rinnovarsi di una quotidiana gratitudine. Noi siamo grati di essere nella gioia.

     L’esperienza di chi trova il tesoro e vende tutto per esso è in realtà l’esperienza di chi sente la parola di Dio che gli dice: «Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo; io do uomini e popolazioni in cambio di te» (Is 43,4). È questo amore il segreto della gioia della radicalità di una vita cristiana, è questo amore il bene prezioso da custodire e salvaguardare, è questo amore del Signore e per il Signore che può rinnovare vite tentate da vecchiezza, stanchezza, insensibilità, cinismo, indifferenza. A noi che nella preghiera diciamo al Signore: «Sei tu il mio Signore, nessun bene per me al di fuori di te» e «Sei tu il mio unico bene» (Sal 16,2) e ancora «In te, o Dio, gioisce il mio cuore, esulta il mio intimo» (Sal 16,9), è chiesto di metterci alla prova se Cristo abita in noi (cfr. 2Cor 13,5). E questo perché noi abitiamo là dov’è il nostro tesoro: è il tesoro che ci colloca, che ci situa. Se Cristo abita in noi, noi dimoriamo in Cristo e allora possiamo gioire di gioia indicibile nel cammino verso il Regno. C’è solo da riscoprire ogni giorno la preziosità del dono ricevuto combattendo la tentazione del banale, dello scontato, del «tutto è dovuto».

     Sia l’uomo che ha trovato la perla nel campo sia il mercante che ha trovato la perla di gran valore sono accomunati, nel loro agire coraggioso, forse anche folle e poco prudente («vendere tutto per acquistare una sola cosa»), dell’osare la propria gioia. La preziosità di una cosa e di una persona è relativa alla gioia che suscita in noi. La scelta dei due protagonisti delle parabole, così assimilabile alla radicalità cristiana (cfr. Mt 19,21: «Vendi i tuoi beni e dalli ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi»), avviene nella gioia procurata dalla scoperta, prosegue nella gioia di procurarsi il bene prezioso, e custodisce nella gioia anche il momento della vendita di tutto, della privazione di ciò che si possedeva. Ma soprattutto, è promessa di gioia anche per il futuro. A differenza di ciò che avviene al giovane ricco che resta nella tristezza (Mt 19,22).

 

Preghiere e racconti

La perla

La perla di gran prezzo

giace nascosta giù nel profondo.

Come un pescatore di perle,

anima mia, tuffati,

tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo e cerca!

 Può darsi che non trovi nulla

la prima volta,

Come un pescatore di perle, anima mia,

senza stancarti, persisti e persisti ancora,

tuffati profondo, sempre più profondo,

e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

si prenderanno gioco di te

e tu ne sarai rattristata.

Ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di gran prezzo

è proprio nascosta là

nascosta proprio in fondo.

E’ la tua fede

che ti aiuterà a trovare il tesoro,

è essa che permetterà

che ciò che era nascosto

sia finalmente rivelato.

Tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.

(Swami Parmánanda).

Trovare-andare-vendere-comprare

«Un uomo» e «un mercante» nei loro confronti compiono le stesse azioni: trovare-andare-vendere-comprare. Diverse invece  sono le strade attraverso le quali incontrare il tesoro, raggiungendo la propria piena autorealizzazione: per il primo si tratta di «fortunata scoperta», per il secondo di un faticoso cammino di ricerca. A tutti e due viene comunque chiesto totalità e radicalità. Non basta aver trovato, occorre andare-vendere-comprare. E questo è quanto si chiede a tutti. Ciò che si deve vendere è tutto quello che si possiede, poco o molto che sia. Il Vangelo richiede un distacco totale, non per spirito di sacrificio, ma per la preziosità del bene trovato. E si vende tutto senza rimpianti. In fondo, essere santi è un vero affare perché si trova la piena realizzazione di sé… in modo inaspettato o a lungo cercato. In ogni caso, si tratta di una occasione unica. È folle allora non chi va-vende-compra ma esattamente chi agisce in modo diverso.

La realizzazione di sé, quale pienezza di vita, è frutto dell’aver trovato, dell’esperienza di un incontro che allarga il cuore. Per questo il vero cristiano non dice: «Ho lasciato», ma: «Ho trovato». Non dice: «Ho venduto il campo», ma: «Ho trovato un tesoro». L’uomo che si autorealizza nel fascino della santità parla molto non di ciò che ha lasciato, ma di ciò che ha trovato. Dinanzi al tesoro o alla perla preziosa tutto il resto perde valore: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,8).

(CISM, Protesi verso il futuro…per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003).

Dal perdere al trovare

Il discepolo è provocato ad assumere un duplice atteggiamento: da una parte, svincolarsi pian piano da tutto ciò che lo tiene legato e gli impedisce di seguire in piena libertà il Signore e, dall’altra, sperimentare che, tutto ciò che deve abbandonare, è pur sempre poca cosa nei confronti di ciò che gli viene donato.

«In certi momenti il Vangelo è duro, impopolare, perché duri sono i cuori degli uomini – i nostri, a volte, più di quelli degli altri -, bisognosi di essere ricondotti sulla via della vita per aprirsi al dono di una vita nuova e più piena umanità».

(CEI, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, 35).

Per ora, nascondi il tuo tesoro         

Hai trovato un tesoro: il tesoro dell’amore di Dio. Sai ora dov’è, ma non sei ancora pronto a  possederlo pienamente. Tanti affetti continuano ad agitarti. Per possedere pienamente il tuo tesoro, dovresti nasconderlo nel campo dove l’hai trovato, andare lietamente a vendere ogni cosa  che possiedi e poi tornare a comprare il campo.       

Puoi essere davvero felice di aver trovato il tesoro: ma non devi essere così ingenuo da pensare di possederlo già. Soltanto quando avrai rinunciato a ogni altra cosa, il tesoro potrà essere completamente tuo. Aver trovato il tesoro ti pone in una nuova ricerca del tesoro stesso. La vita spirituale è una ricerca lunga e spesso ardua di quello che hai già trovato. Puoi cercare Dio soltanto quando lo hai già trovato. Il desiderio dell’illimitato amore di Dio è il frutto dell’essere stati toccati da quell’amore.

Dato che trovare il tesoro è soltanto l’inizio della ricerca, devi stare attento. Se esponi il tesoro ad altri senza possederlo pienamente, potrai far del male a te stesso e persino perdere il tesoro. Un amore appena trovato ha bisogno di essere nutrito in uno spazio tranquillo e intimo. La sovraesposizione lo uccide. Per questo devi nascondere il tesoro e spendere le tue forze nel vendere la tua proprietà, affinché  tu possa comprare il campo dove lo hai nascosto.

Questa è spesso un’impresa dolorosa, perché il senso di chi sei è così intimamente legato a tutte le cose che possiedi: successo, amici, prestigio, denaro, titoli, e così via. Ma tu sai che nulla se non il tesoro stesso può veramente soddisfarti.

Trovare il tesoro senza essere ancora pronto a possederlo pienamente ti renderà inquieto. È l’inquietudine della ricerca di Dio. È la via verso la santità. È la strada per il regno. È il cammino verso il luogo in cui potrai riposare.

(H. J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 148-149).

I frutti nuovi insieme agli antichi

II tesoro «nel quale si trovano nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3) è la Parola di Dio che sembra nascosta nella carne di Cristo, oppure le sante Scritture nelle quali riposa la conoscenza del Salvatore […]. Le belle perle sono la Legge e i Profeti e la conoscenza dell’Antico Testamento, ma esiste una perla unica, la più preziosa, la conoscenza del Salvatore, il mistero della sua passione, il segreto della sua risurrezione. E quando il mercante l’ha scoperta come l’apostolo Paolo disprezza come immondizia e spazzatura tutti i misteri della Legge e dei Profeti e tutte le antiche osservanze, nelle quali era vissuto in maniera irreprensibile, per guadagnare Cristo.

Non che la scoperta della nuova perla sia la condanna di quelle antiche, ma perché, paragonata a questa, ogni altra gemma ha minor valore […]. «Avete capito tutte queste cose?. Gli risposero: Sì?». Questo discorso si indirizza specialmente agli apostoli ed è a loro che viene detto: «Avete capito tutte queste cose?» (Mt 13,51). Vuole che non si accontentino di ascoltare come il popolo, ma che capiscano perché saranno loro i maestri. «Per questo ogni scriba ammaestrato in ciò che riguarda il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Gli apostoli, gli scribi e i segretari del Salvatore, che scrivevano sulle tavole dei loro cuori di carne le sue parole e i suoi precetti, conoscevano i misteri del regno dei cieli. Le ricchezze del padrone di casa li rendevano potenti, perché attingevano nel tesoro della loro conoscenza cose nuove e cose antiche. E così tutto quello che predicavano nel vangelo, lo confermavano con la testimonianza della Legge e dei Profeti. Da qui le parole della sposa nel Cantico dei cantici: «Mio amato, ho custodito i frutti nuovi insieme agli antichi» (Ct 7,13 Vg).

(GIROLAMO, Commento a Matteo 2,13,44-46.51-52, SC 242, pp. 288-292).

Le prove di Dio nella nostra vita

Ho spesso pensato che la causa più comune del tumulto intimo negli esseri umani sia il conflitto di desideri, in quanto le nostre aspettative più alte e i nostri desideri più profondi sono sempre in lotta con la realtà. Il fatto è che concepiamo i nostri desideri, facciamo i nostri progetti, e poi speriamo che ci sia una bella strada spianata che conduce dritti alla realizzazione; purtroppo, però, spesso questo successo non rientra nel copione. Incespichiamo e non riusciamo nell’intento, perdiamo la lotta che con tutte le nostre forze desideriamo vincere, e dobbiamo rinunciare alle cose che vorremmo così tanto tenere. Davanti a tale considerazione, mi sono chiesto di frequente come sarebbe se io desiderassi solo la volontà di Dio, se prendessi Gesù sul serio, se avessi realmente la benedizione di essere povero di spirito, se le mie mani fossero aperte e protese in segno di disponibilità all’abbandono, se … “è davvero meglio la Perla di Grande Valore oppure darla via?”.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 97-98)

Racconto

«Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese. Il monaco gliela diede immediatamente. Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.

Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore. Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”»

(Anthony de Mello)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVII DOM TEMP ORDINARIO (A)

L’ospite inatteso

“Grazie di aver pensato a L’ospite inatteso. Il titolo resta suggestivo: parla di una presenza che lo studente, nell’età fervida dell’adolescenza, presagisce e, nei momenti migliori, addirittura attende. Il testo che ti proponiamo tende a sostenere e ad alimentare l’attesa. Nella nostra intenzione la parola chiave è ricerca, scandita con coerenza e rispetto dei ritmi scolastici in momenti successivi. Il primo momento incrocia l’esperienza; aiuta l’adolescente a decifrarla: riteniamo che sia motivo di soddisfazione ripercorrere il proprio vissuto ed esplorarlo. Il secondo momento dilata l’orizzonte delle conoscenze: suscita il confronto, induce a riflessione, tende a consentire allo studente l’elaborazione di una propria opinione motivata. Il terzo momento porta al confronto con le fonti, scelte con accuratezza; semplici dapprima, man mano più impegnative sia nel riferimento sia nella presentazione, fino a sollecitare negli ultimi anni un’interpretazione rigorosa dei temi fondamentali per l’apprendimento della disciplina.

L’ospite inatteso è nato nell’ambito della ricerca universitaria, di sua natura impegnata a una verifica esigente delle metodologie di riferimento: la Facoltà di Scienze dell’Educazione (sic!), di cui l’Istituto (sic!) fa parte, privilegia per l’IRC il processo ermeneutico per garantire le competenze specifiche della Disciplina. La collaborazione di molti amici – e forse anche la tua – in questi ultimi anni ci ha consentito di mettere a punto una strategia pedagogico-didattica costantemente vagliata e verificata in ambito concreto scolastico, soprattutto nelle scelte dei documenti qualificanti del processo di apprendimento.

Ci auguriamo di incontrare la tua piena soddisfazione. E un’ultima importante annotazione: ci risulta prezioso il dialogo con te a conferma puntuale dell’impatto educativo e a verifica sul campo delle scelte operate”.

(Dalla «Premessa»-prologo del libro, pp. 5-6).

 

Le caratteristiche e la struttura del testo

VOLUME UNICO IN DUE PARTI: il testo si compone di un volume unico ed è suddiviso in due parti:

1. primo biennio; 2. secondo biennio e quinto anno.

1. Il PRIMO BIENNIO consente l’approccio alle problematiche adolescenziali che riguardano la conoscenza di sé, la relazione con gli altri, il senso dell’esistenza. Esse portano lo studente al confronto con la dimensione religiosa, quella cristiana e cattolica in particolare. La proposta didattica fa proprio il vissuto dell’adolescente.

2. Il SECONDO BIENNIO individua i principali nuclei tematici della religione cristiana, Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, le Religioni, e li interpreta con rigore in una prospettiva di confronto col contesto pluridisciplinare e con una metodologia interdisciplinare.

Il QUINTO ANNO stimola la responsabilità morale. I grandi temi dell’esperienza morale sono pensati come naturale espansione della consapevolezza matura che lo studente va acquistando.

 

 NUCLEI TEMATICI: ciascuna delle due parti si suddivide in nuclei tematici, che elaborano i principali temi della religione cristiana e puntano alla maturazione di una specifica competenza religiosa identificata con riferimento alle nuove Indicazioni Nazionali.

• Nuclei del primo biennio: L’identità degli adolescenti, Quale Dio?, La storia di un incontro, Gesù di Nazareth, La Chiesa, Chiamati a responsabilità

• Nuclei del secondo biennio e del quinto anno: Dire Dio + Espansioni morali, Gesù salvezza dell’uomo + Espansioni morali, Chiesa. un popolo in cammino + Espansioni morali, Le religioni nelle società e nelle culture

 

UNITÀ DI APPRENDIMENTO: ciascun nucleo tematico si sviluppa in Unità di apprendimento.

• Le Unità del primo biennio si strutturano nei seguenti passaggi: La mia esperienza, Per capirci, Per orientarci, Il racconto, Integrazioni online

• Le Unità del secondo biennio e del quinto anno si strutturano nei seguenti passaggi: La mia esperienza, Quale interpretazione?, Ritorno alle fonti, Il racconto, Verifica e valutazione, Integrazioni online.

 

Il percorso didattico

FASI DELLE VARIE UNITÀ: la prospettiva pedagogico didattica che il testo assume si svolge secondo fasi che si ripetono nelle varie unità:

• LE DOMANDE ESISTENZIALI: a partire dalle domande soggiacenti all’esperienza di vita dello studente, si avvia un processo di apprendimento che intende far emergere la domanda esistenziale che lo studente spesso inconsapevolmente porta in sé;

• UNA DOMANDA MIRATA: gli interrogativi si precisano e divengono una domanda circostanziata e mirata;

• LA COSTRUZIONE DELLA RISPOSTA: il processo è accompagnato dal docente e sostenuto dal testo, ma deve essere compiuto dallo studente lavorando insieme ai suoi compagni;

• UNA DOCUMENTAZIONE ADEGUATA: attraverso il confronto con la documentazione offerta dal testo e arricchita dal docente e dalla ricerca personale, ciascuno studente costruisce la sua risposta fondata e motivata;

• LA COMPETENZA RELIGIOSA: la risposta viene confrontata con l’esperienza di vita attraverso un compito autentico, per verificare e valutare se lo studente ha maturato un livello di competenza religiosa capace di rispondere alle provocazioni della vita reale.

PERNI DEL PROCESSO DIDATTICO. Sono quattro, in sintesi:

1. ESISTENZIALE: si parte dalle esperienze qualificanti che caratterizzano la condizione di vita che lo studente attraversa: relazione, identità, orientamento, senso, affettività ecc.

2. ERMENEUTICO: si avvia un processo di svelamento e consapevolezza.

3. COSTRUTTIVO: lo studente costruisce la risposta attraverso il lavoro su documenti religiosi.

4. COLLABORATIVO: il lavoro di costruzione della risposta viene fatto insieme ai compagni in un confronto aperto e creativo.

 

Nei Materiali per il Docente: suggerimenti per la programmazione didattica, documenti utili all’approfondimento, schede di verifica e pagine per l’utilizzo del ricco materiale multimediale in dotazione.

 Sono inoltre disponibili i seguenti contenuti digitali nell’eBook+:

• 32 filmati dedicati ai seguenti argomenti:

◦ la liturgia nei luoghi santi attraverso la testimonianza dei Francescani di Gerusalemme;

◦ ecumenismo, attualità religiosa e pluralismo; archeologia e cultura;

◦ attività missionarie e di testimonianza

• Pagine digitali integrative per i principali argomenti del testo

• Schede interattive dedicate agli Apostoli, con letture audio integrali, gallerie d’immagini e percorsi iconografici

• Schede interattive dedicate alla Cappella degli Scrovegni con commento artistico, storico e teologico

• Schede interattive dedicate agli affreschi della Cappella Sistina e ai rapporti tra l’immagine e la Parola

• Schede interattive dedicate ad arte, letteratura, musica e cinema in rapporto con i percorsi di pellegrinaggio

• Video sulla storia del Tempio di Gerusalemme e sulla città ai tempi di Gesù, con ricostruzioni in 3D

• Schede interattive sulla vita di Cristo attraverso i capolavori dell’arte

 

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Sapienza 12,13.16-19

Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.

     Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con  tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona  speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento. 

 

Questo brano della Sapienza ci orienta a vedere anche l’elemento negativo della zizzania nell’orizzonte positivo della misericordia di Dio, che si specifica qui come sua «indulgenza». In questo libro, il più recente degli scritti dell’AT, si rievoca la storia dell’esodo e della conquista del Canaan, ma rileggendo, a distanza di tempo, gli antichi racconti bellici

in chiave più «pacifista». In questo cambio di atteggiamento si osserva l’influsso culturale dell’ellenismo cosmopolita e fin troppo aperto alle diverse tradizioni religiose. L’autore, forzando a senso unico l’antico racconto delle spietate battaglie di Giosuè, le interpreta come un atto di indulgenza di Dio verso i cananei, che non vennero distrutti tutti imme-diatamente ma con una certa gradualità: «anche con loro, perché uomini, fosti indulgente, mandando loro le vespe come avanguardia del tuo esercito, perché li distruggessero a poco a poco… colpendoli a poco a poco, lasciavi posto al pentimento, sebbene tu non ignorassi che la loro razza era perversa» (Sap 12,8.10). Su questo esempio immediatamente precedente si basa poi la considerazione di carattere generale contenuta nella pericope liturgica, che culmina nella bella confessione di fede «ci governi con molta indulgenza» (v. 18b). E subito dopo, nel v. seguente, si sottolinea il doppio fine pedagogico di questa indulgenza divina. In primo luogo, c’è in vista l’educazione dello stesso popolo di Dio che deve imparare ad «amare gli uomini» (lett. «ad essere fìlanthropos); ma in secondo luogo c’è pure l’intenzione di provocare al pentimento (metanoia) lo stesso popolo cananeo del quale si sono ricordati prima i vizi, che rendevano impura la terra santa (Sap 12,3-6.11).

 

Seconda lettura: Romani 8,26-27 

Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.

 

Paolo parla qui della condizione dei cristiani, che pur godendo ancora soltanto degli inizi della redenzione, hanno tuttavia in sé il dono dello Spirito, che rende i credenti capaci di adeguare i loro desideri ai disegni di Dio. Il dono dello Spirito è il vero inizio del regno di Dio nel cuore degli uomini, di cui i credenti costituiscono una parte che anticipa il suo allargamento al resto dell’umanità. Noi stessi, come credenti, siamo consapevoli della nostra debolezza, che viene soccorsa sì dallo Spirito, ma solo attraverso i suoi «gemiti», che segnalano una situazione non ancora soddisfacente né pervenuta al suo compimento. Così ci ritroviamo nella prospettiva dell’attesa e della pazienza propria del brano evangelico.

 

Vangelo: Matteo 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».

  Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».

  Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

 

Esegesi 

     Questo brano evangelico è aperto e chiuso dalla parabola del grano e della zizzania, prima con la sua esposizione, e poi con la sua spiegazione aggiunta alla fine. In tutto possiamo distinguervi cinque parti.

     1) Il grano e la zizzania (vv. 24-30)

     Ancora una volta, come abbiamo visto per la parabola del seminatore domenica scorsa, si deve fare attenzione a quale sia il particolare più saliente attorno a cui ruota tutta la parabola. Dobbiamo escludere che si voglia mettere sullo stesso piano, a parità d’importanza, il grano e la zizzania. Questo secondo elemento negativo ha un valore secondario, in quanto serve solo a far emergere una circostanza che consiglia di attendere sino al tempo della mietitura per raggiungere in forma ottimale il fine desiderato di riporre il raccolto nel granaio. La presenza della zizzania non può ostacolare la maturazione del grano seminato nel campo.

     Questa parabola è esclusiva di Mt. Il termine zizzania (plur. da zizanion) da cui deriva l’italiano «zizzania», è noto nella grecità solo dal Vangelo di Matteo, che lo usa soltanto in questa parabola. Si traduce anche con «loglio» ed è simile alla spiga di grano finché questa è verde. Usando lo stesso simbolo, Gesù dirà ancora in 15,13: «Ogni pianta che non è stata piantata dal Padre mio celeste sarà sradicata». Da parte sua Paolo inviterà a rimettersi al futuro giudizio del Signore: «Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1Cor 4,5).

     2) Il granello di senape (vv. 31-32)

     A differenza della parabola precedente, che ci potrebbe fuorviare nel dare un peso eccessivo all’aspetto negativo che può ostacolare lo sviluppo del regno di Dio nel cuore dell’umanità, questa del granello di senape presenta soltanto l’aspetto positivo di questa realtà misteriosa. Bisogna soltanto sottolineare che il dinamismo di questa crescita non è autonomo da Dio, ma dipende sempre dalla sua grazia, che lui lascia agire in modo discreto ed imprevedibile al centro della storia.

     3) Il lievito (v. 33)

     Questa parabola, anche se si passa dall’attività agricola all’ambiente domestico, è simile alla precedente, in quanto si parla ancora dello sviluppo del regno di Dio, che permea gradualmente la pasta dell’umanità. Ma tenendo conto che una parabola evidenzia solo un aspetto del regno di Dio, forse vale la pena di sottolineare più l’aspetto della profonda penetrazione di questo dono nella storia che non la progressione quasi scontata e naturale del suo avanzamento. Il dono di Dio deve essere sempre rinnovato, e dobbiamo avere la consapevolezza di ricominciare ogni giorno daccapo nell’accoglierlo di nuovo, senza troppe illusioni sul nostro passato che ce ne possa garantire il possesso. Che la senape diventi un grande albero è un’espressione iperbolica che rientra nello stile parabolico, mentre il riferimento agli uccelli si riferisce alla visione di Dan 4,9, dove essi rappresentano i popoli sottomessi dell’impero di Nabucodònosor. Ma qui l’immagine ha un carattere più familiare, e non politico, in quanto indica l’accoglienza generosa di cui anche i piccoli possono dar prova.

     4) Perché Gesù parla in parabole (vv. 34-35)

     La motivazione data qui sull’uso del discorso parabolico sembra diversa da quella, negativa, fornita sopra, nei vv. 13-15 (vedi: domenica XV). Anche se ci si rapporta ancora alla folla, in quanto distinta dai discepoli, il ricorso alle parabole non è più per nascondere la rivelazione del regno di Dio di fronte agli estranei, ma per manifestarla anche a loro, oltre che ai discepoli. Infatti si cita il Sal 78,2, dove questo passo introduce una rievocazione della storia nazionale rivolta ad Israele, invitato a saper trarre le dovute lezioni dal suo passato. Il testo del passo è un po’ trasformato, per passare da un orizzonte nazionale a quello più universale indicato con la «fondazione del mondo». In realtà gli elementi naturali che costituiscono l’ordinamento del mondo si prestano a servire, attraverso le immagini utilizzate nelle parabole, come veicolo di una verità superiore, qual è il regno di Dio rivelato da Gesù.

     5) Spiegazione della parabola della zizzania (vv. 36-43)

     Un esame attento di Mt 13 ci rivela un testo non omogeneo che ha avuto una sua lunga gestazione nella tradizione orale e poi nella stessa redazione di ogni evangelista. Ancora una volta, come abbiamo visto per l’altro caso della spiegazione della parabola del seminatore (vedi: domenica XV), ci troviamo di fronte ad una composizione della comunità cristiana, che attualizza per se stessa la parabola di Gesù, forzando un po’ il suo significato iniziale per adattarle alle sue condizioni più recenti. Ora si vuole raccomandare di avere pazienza con il miscuglio di buoni e cattivi che si trova a convivere nella stessa comunità cristiana o anche, per la comunità di Matteo, con i problemi derivanti dalla coesistenza della Chiesa con Israele. Così l’accento si sposta, dalla certezza dell’esito finale che sarà per volere di Dio, certamente positivo, all’esortazione morale di vivere con pazienza e indulgenza le difficoltà della vita presente.

 

Meditazione 

     La mitezza di Dio nel suo agire con gli uomini (prima lettura), mitezza narrata dal padrone del campo nella parabola della zizzania (vangelo), costituisce un elemento unificante prima lettura e vangelo.

     Costitutiva dell’agire di Dio, la mitezza è essenziale anche agli uomini e all’agire ecclesiale. Essa non appare tanto come debolezza o impotenza, ma come volontà e capacità di dominare la propria forza, di governarla, di addomesticarla, di orientarla. La mitezza di Dio appare come pazienza, attesa dei tempi dell’uomo, fiducia accordata all’uomo: «Dopo i peccati, tu concedi il pentimento» (Sap 12,19). La mitezza appare ancora come non esclusione, non estirpazione, capacità di non dare giudizi ultimativi e senza scampo, ma come capacità di convivere con il negativo (parabola della zizzania). La mitezza, come capacità di mettere limiti alla propria forza, appare metodo di convivenza che si oppone alla logica della società tecnologica che ha come fine il proprio accrescimento e autopotenziamento e che ritiene ammissibile e perfino doveroso tutto ciò che è tecnicamente fattibile.

     La parabola della zizzania ha una dimensione ecclesiologica. La chiesa di Matteo è un corpus mixtum, nel senso che vi fanno parte dei cristiani provenienti dal giudaismo e dal paganesimo, ma anche nel senso che in essa vi sono forti e deboli, semplici e istruiti, persone maggiormente sante e altri che più facilmente cadono preda del peccato e del vizio. E questa, in verità, è la realtà di ogni comunità cristiana. Come già del gruppo dei Do-dici riunito attorno a Gesù. Così, la chiesa appare una scuola di pazienza e un’occasione di esercizio della mitezza.

     Gesù proclama «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35), e nel far questo enuncia il necessario scandalo che resterà fino alla fine del mondo: la presenza della zizzania accanto e in mezzo al buon grano; la presenza della divisione e dell’inimicizia che traversa il campo che è il mondo, ma che traversa anche le chiese, le comunità cristiane, e il cuore di ogni uomo. E accanto a questo c’è anche lo scandalo della pazienza di Dio che lascia che il male cresca insieme al bene, che l’empio prosperi accanto al giusto. Gesù non strappa la zizzania, non recide il fico improduttivo (Lc 13,8-9), non caccia Giuda dal gruppo dei Dodici, anzi, egli si inchina, si prostra davanti a colui che si è fatto suo nemico personale, si fa suo servo lavandogli i piedi, non interviene trattenendolo dal suo peccato, ma lo lascia fare, continuando a chiamarlo amico. Ed ecco che le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, cioè il segreto della storia umana agli occhi di Dio, diviene rivelazione nella croce di Cristo. Scandalo del male nella storia e scandalo della pazienza di Dio si sintetizzano nell’ingiusta morte di croce del Figlio di Dio. Ecco il mistero del Regno, le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo: la croce divina, quella croce che l’apologeta Giustino vedeva già inscritta nella creazione.

     L’annuncio del giudizio, presente nella spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,39-43), è ancorato su una predicazione che proclama la misericordia e propugna una prassi ecclesiale quotidiana di pazienza verso i peccatori. L’orizzonte del giudizio escatologico, che incombe sul singolo credente e sulla chiesa nel suo insieme, è ciò che consente al cristiano e alla chiesa di mettere in pratica nell’oggi la pazienza che il vangelo richiede. E di lottare contro la tentazione dell’impazienza di anticipare il giudizio già nell’oggi. L’impazienza consiste nel presumere di sapere già oggi chi è il cattivo e chi il buono, qual è il grano e quale la zizzania (piante che si assomigliano molto), e nel pretendere di eliminare questa per lasciare solo quello.

     Le parabole del grano di senape e del lievito (Mt 13,31-33) presentano lo sviluppo vitale straordinario che sgorga da un seme minuscolo seminato per terra (e per gli antichi il seme seminato muore) e da un po’ di lievito che, nascosto nella pasta, la fa fermentare tutta. Siamo di fronte al mistero pasquale, al mistero della morte feconda di Cristo.

Preghiere e racconti

La parabola del grano di senape e la Chiesa

«La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr. Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. […] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506). 

Il piccolo seme di senape

«…quando il piccolo seme ruzzolò dalle mani del vecchio contadino in mezzo ai grossi grani di frumento echeggiò tra le zolle una risata impercettibile. Chissà com’era capitato lì quel semino ridicolo! Neppure le vecchie erbe del fossato lo conoscevano. L’avena, già alta, propalò al vento il suo parere: “Divento gialla se ne uscirà una fogliolina sola”.

Il piccolo seme si sentì avvilito da quelle voci di disprezzo, che il vento sparpagliava dappertutto; ma non si rattrappì, né si rassegnò ad essere soltanto un piccolo seme nero per sempre. Qualcosa doveva esser pure capace di fare! Sognò di crescere alto fino a sovrastare anche il granoturco…”Chissà se l’avena diventerà gialla per davvero”, pensò. Voleva riuscirci a tutti i costi! Lasciò che i grossi semi di frumento si crogiolassero pigramente a deriderlo; egli affondò subito le radici nel terreno umido e succoso… Fu un inverno faticosissimo per lui. Venne l’estate ed i viandanti additavano meravigliati una pianta alta e vasta, dominante sulla distesa del grano.

Passò anche il Signore, la vide, indovinò l’enorme fatica del piccolo seme nell’inverno e volle premiare con una sua parola la sua fiducia in se stesso: “Guardate il seme di senape, è il più piccolo dei semi, eppure cresce come un albero, sì che i passeri si abbandonano sicuri sui rami robusti”. E il piccolo seme, là sotto, moriva di gioia». 

Vigiliamo e siamo sobri

Il Signore dichiara apertamente di essere il seminatore del buon seme, che in questo mondo, come in un campo, non smette di seminare nei cuori degli uomini la parola di Dio come un buon seme affinché ciascuno di noi, in proporzione al seme seminato in se stesso da Dio, produca frutti celesti e spirituali.

Ma egli insegna anche che il nemico, il diavolo per soffocare in noi il seme di Dio vi semina sopra la zizzania della cattiveria e dell’ingiustizia. Dice infatti: «Mentre gli uomini dormivano, venne il nemico e seminò la zizzania in mezzo al grano e se ne andò» (Mt 13,25). Il Signore mostra che il diavolo semina la zizzania sugli uomini che dormono, cioè su quelli che per negligenza, oppressi dalla loro infedeltà come dal sonno dell’inerzia, dormono sui divini precetti. Di costoro l’Apostolo dice: «Quelli che dormono, infatti, dormono di notte e quelli che sono ebbri sono ebbri di notte. Noi invece evitiamo di dormire come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,7.6). Le vergini stolte, di cui leggiamo nel vangelo, erano sicuramente oppresse dal sonno dell’inerzia e dell’infedeltà; non avevano preso l’olio nei loro vasi e non poterono dunque andare incontro allo sposo (cfr. Mt 25,1-12). Perciò è somma preoccupazione di questo nemico del genere umano, del diavolo, seminare la zizzania sopra il buon grano. Ma chi, scacciato da sé il sonno dell’infedeltà sarà sempre e fedelmente vigilante per il Signore, non potrà essere sorpreso da tale seminatore notturno.

(CROMAZIO DI AQUILEIA, Commento a Matteo 51,1, Scrittori dell’area santambrosiana, pp. 324).

Sotto ogni cuore c’è il volto e il cuore di Dio Amore

“Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo. Per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all’amore, perché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è il volto e il cuore di Dio Amore “.

(P. MAZZOLARI).

La Chiesa, mescolanza di forti e di infermi, di buoni e di cattivi

Tale è quindi la composizione della Chiesa, mescolanza di forti e di infermi, di buoni e di cattivi, di peccatori ipocriti e di peccatori scandalosi: l’unità della Chiesa contiene tutto e approfitta di tutto. I fedeli vedono negli uni tutto ciò che si deve imitare e in tutti gli altri ciò che si deve superare con coraggio, riprendere con energia, sopportare con pazienza, aiutare con carità, ascoltare con condiscendenza, guardare con tremore. E coloro che restano in piedi e coloro che cadono servono allo stesso modo alla Chiesa: i suoi fedeli vedono in questi ultimi l’esempio della loro vigliaccheria e negli altri la convinzione, sono da tutto stupiti, da tutto edificati., da tutto confusi, da tutto incoraggiati, sia dai colpi della grazia sia dai colpi del rigore e della giustizia.

 (J.B. Bossuet, Lettere a una signorina di Metz)

Il peccatore e il santo

Il peccatore e il santo sono due giunti essenziali, complementari reciprocamente complementari, che agiscono l’uno sull’altro e la cui articolazione costituisce tutto il segreto del cristianesimo.         

(Ch. Péguy, Un nuovo teologo: Fernand Laudet) 

Il peccato della Chiesa

Capita spesso di imbattersi in cristiani i quali pensano che le espressioni anti-evangeliche presenti nella loro Chiesa siano da addebitare in gran parte all’istituzione, sotto tutte le sue forme. Pensano quindi che, per liberare il carisma e la santità del popolo cristiano, se ne dovrebbe continuamente diffidare. Anzi, probabilmente si dovrebbe proclamare la morte della Chiesa-istituzionale, così come si è proclamata la morte di Dio nell’ateismo purificatore…

      Ma sarebbe troppo facile fare dell’istituzione abusiva o poco adeguata il capro espiatorio del peccato del corpo ecclesiale, popolo di peccatori. Il peccato della Chiesa si radica spesso nella mancanza di alta tensione mistica ed evangelica. Essenzialmente, nella mancanza di fede, nella mancanza di passione per l’avventura della santità secondo le beatitudini evangeliche… Potranno contestare il peccato della Chiesa solo i cristiani che la desiderano santa e hanno già fatto una qualche esperienza di una Chiesa più fedele al vangelo, in forza del loro personale impegno mistico e missionario; coloro che soffrono nel loro essere cristiani a causa delle malformazioni del Corpo con il quale sono solidali.

(P.A. Liégé, La Chiesa di fronte al suo peccato)

L’erbaccia del male

L’erbaccia del male,

dice Dio,

vedo bene che prolifera!

Il suo vigore vi spaventa?

Non abbiate più paura:

io mandato mio figlio.

Ma non sperate che strappi,

né che bruci:

ad ogni giorno la sua pena.

Lo mando a seminarvi

il buon grano;

lavorate per portare frutto.

Quanto ai rovi,

al loglio?

Quanto al male?

Abbiate pazienza:

io sono lento all’ira!».

(A. Haquin – R. Lejeune, Venga il tuo regno)

La pazienza

La pazienza è l’arte di vivere l’incompiutezza e la parzialità. La pazienza è necessaria per chi vive nella storia l’attesa del Regno: essa si declina come pazienza nei confronti di Dio, della chiesa e di se stessi. Nei confronti di Dio, perché Dio non ha ancora adempiuto, per sempre e per tutti, le promesse di guarigione dei ciechi e degli zoppi, dei muti e dei sordi, le promesse di salvezza dal male, dal peccato, dalla morte; nei confronti della chiesa, perché la comunità cristiana spesso si mostra inadempiente rispetto alle esigenze evangeliche; nei confronti nostri, perché scopriamo in noi inadeguatezze e difformità rispetto alla nostra vocazione. La pazienza è «forza nei confronti di se stessi» (Tommaso d’Aquino), capacità di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione. E questo grazie al fatto che la pazienza è sguardo in grande (makrothymía) sulla realtà, su Dio, sulla chiesa, su noi stessi. La pazienza è grandezza d’animo e si concretizza nell’amore: «l’amore pazienta» (1 Cor 13,4).

Preghiera

Signore Gesù, tu che sei buono, semini pieno giorno nel campo della Chiesa, in ciascuno di noi, amore, pace e gioia. Ma poi, il nemico, il tenebroso, viene a seminare la zizzania: pensieri, desideri, sentimenti ostili, tradimenti segreti che fanno scendere la notte anche nel nostro cuore.

Donaci lo Spirito di vigilanza per non lasciarvi invadere dal maligno; rendici forti e umili per sostenere ogni tentazione e per riprendere dopo i nostri cedimenti. Fa’ che non pretendiamo dagli altri una perfezione che noi stessi non abbiamo; donaci occhi che sappiano vedere nel campo oltre la zizzania anche il buon grano; donaci un cuore che sappia amare come te nell’umile pazienza, senza stancarsi mai. 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER APPROFONDIRE:

XVI DOM TEMP ORDINARIO

Seminario di studio: Educare è orientare

La Rivista Orientamenti Pedagogici (OP) compie 60 anni dalla prima pubblicazione. Per celebrare l’evento, la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana (UPS), in collaborazione con Edizioni Centro Studi Erickson e la Facoltà di Scienze dell’EducazioneAuxilium, promuove il Seminario di studio dal titolo “Educare è Orientare“. Il convegno ha luogo il 25 ottobre 2014 nella sede dell’UPS.

Il titolo del Seminario prende spunto dall’editoriale del primo numero della Rivista firmato dal direttore don Pietro Braido in cui si affermava che “Educare è orientare“. Orientare veniva inteso come aiuto e guida all’elaborazione di un personale progetto di vita, ma soprattutto come base e sostegno per il potenziamento della persona nelle qualità individuali che consentono di affrontare positivamente le sfide della vita, dello studio e del lavoro e così poter realizzare le proprie aspirazioni. In altre parole l’orientamento andava considerato come dimensione fondamentale di ogni processo educativo e formativo. In questa prospettiva andavano rilette anche le sue due declinazioni: come orientamento scolastico e come orientamento professionale.

Il Seminario è rivolto a Psicologi, pedagogisti, educatori professionali, insegnanti, e studenti interessati al tema dell’educazione come orientamento. Intervengono con i loro apporti: Pina Del Core (Preside della Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, Roma), Anna Maria di Fabio (Docente di Psicologia dell’orientamento professionale, Università di Firenze), Giorgio Sangiorgi (Presidente Società per l’Orientamento, Università di Cagliari), Speranzina Ferrario (Responsabile nazionale del Piano per l’orientamento permanente del MIUR), Maria Assunta Zanetti (Presidente C.OR. Centro Orientamento, Università di Pavia), Anna Grimaldi (Dirigente Isfol), Massimo Margottini(Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre), Arduino Salatin(Preside dello IUSVE di Venezia e Vice Presidente Invalsi), Lauretta Valente (Presidente del Ciofs-FP), Alessandro Ferraroli (Presidente Cospes) e Michele Pellerey (Emerito di Didattica generale, Università Pontificia Salesiana).
Il Seminario sarà aperto dal saluto del Rettore, prof. Carlo Nanni e dall’introduzione del moderatore del Seminario prof. Michele Pellerey. Seguono quattro relazioni di base:prof.ssa Pina Del Core: “Concetto e pratiche di orientamento: uno sguardo ai passati sessant’anni“; prof.ssa Anna Maria Di Fabio: “L’orientamento e il potenziamento (empowering) della persona: la dimensione educativa e formativa“; prof. Giorgio Sangiorgi: “L’orientamento e le transizioni esistenziali fondamentali nella scuola e nel lavoro“; dott.ssa Speranzina Ferraro: “Le linee nazionali per l’orientamento“. Il programma del pomeriggio offre alcune riflessioni sull’esperienza del prof. Massimo Margottini (“L’orientamento a livello universitario“), della dott.ssa Anna Grimaldi(“L’orientamento nel sistema di istruzione e formazione italiano“), e del prof. Arduino Salatin (“L’uso del web nell’orientamento“).

Segue la Tavola rotonda dal titolo “Educare è orientare: quale formazione per gli educatori?” moderata dalla prof.ssa Pina Del Core. Vi prendono parte prof.ssa Maria Assunta Zanetti, la prof.ssa Lauretta Valente e il prof. Alessandro Ferraroli. Presiede e conclude il prof. Michele Pellerey.

La giornata di studio è stata progettata come conclusione di un’annata della rivista dedicata, a sessant’anni della sua prima pubblicazione, alla stessa tematica: Educare è orientare. La finalità fondamentale dell’iniziativa è rivolta a una rilettura delle tendenze presenti nella pratica e nella riflessione critica in merito allo sviluppo di tale dimensione educativa e formativa. Ciò risulta sempre più urgente di fronte alle sempre più sollecitanti e per molti versi drammaticamente impegnative trasformazioni della società e del mondo del lavoro. Basti pensare alle ricadute, anche sul piano delle scelte personali, dovute ai fenomeni di globalizzazione e di innovazione tecnologica e comunicativa.

Al termine del Seminario verrà rilasciato un attestato di frequenza. Per le iscrizioni si può accedere alla pagina web: http://formazione.erickson.it/corsi_convegni/educare-orientare/. Per altre informazioni su costi e dettagli ci si può rivolgere alla segreteria universitaria di facoltà: 06-87290426.

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 55,10-11

 Così dice il Signore: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».

 

L’ottimismo soggiacente a questa immagine della terra resa fertile dalla pioggia e dalla neve, è in sintonia con l’interpretazione positiva della parabola del seminatore proposta nel Vangelo. Questi due versi così pieni di speranza, chiudono il messaggio salvifico del Secondo Isaia (Is cc. 40-45) immediatamente prima della conclusione contenuta nei vv. 12-13 seguenti. Tutto il discorso di questo profeta, che annuncia e prepara la fine imminente dell’esilio babilonese (587-538 a.C.), fa un uso abbondante di immagini legate alla vegetazione, proiettata per contrasto nello scenario desolato del deserto che separa Babilonia dalla Palestina. Il deserto si deve riempire di piante e di corsi d’acqua (cf 41,18-19), per alleggerire i disagi degli esuli che, come in un nuovo esodo, fanno ritorno in patria.

     Ma l’immagine usata nel nostro piccolo brano, ha ormai dimenticato le sperdute distese del deserto, per far riferimento al piccolo pezzo di terra coltivato della Palestina, che ha bisogno della pioggia e della neve perché il contadino che l’ha prima seminato possa vedere coronati i suoi sforzi. L’efficacia di questa irrigazione naturale per il raccolto è qui l’immagine della stessa parola di Dio che, scendendo dall’alto come promessa di salvezza, è stata annunciata dal profeta ad un popolo sfiduciato ed incredulo. In una visione di fede, la natura tutta, come la storia, è subordinata alla volontà di Dio, che le ordina alla salvezza dell’uomo.

     Il tema della vegetazione viene ripreso, con toni ancora più lirici, nel salmo responsoriale (Sal 65,10-14), che ci riporta un inno di ringraziamento per il raccolto che è stato abbondante grazie alle piogge che il Signore ha mandato nella terra. Egli ha benedetto ogni fase dei lavori agricoli a partire dal momento in cui tracciavano i solchi con l’aratro. Ma anche i pascoli hanno fruito della sua benedizione. Ora nella terra d’Israele «tutto canta e grida di gioia» (v. 14). 

Seconda lettura: Romani 8,18-23

Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per  entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.  Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 

 

È dalla X Domenica che leggiamo brani della Lettera ai Romani, la quale ci accompagnerà fino alla XXIV Domenica: essa ci presenta in compendio tutta la storia della salvezza secondo la più tipica visione di S. Paolo. Il brano di oggi, che tratta del compimento escatologico della salvezza, crea un forte contrasto con il senso di gioiosa compiutezza che si riscontra nel Salmo responsoriale. Non siamo più a goderci i frutti del raccolto della terra, ma ad attendere il rivestirsi di gloria dell’intera creazione, che geme e soffre nelle doglie del parto. Perciò ci troviamo in una condizione di caducità e di gemito.

     Questo aspetto negativo è ricordato solo in funzione della speranza della compiutezza della nostra salvezza, che comprende pure la redenzione del nostro corpo, e perciò la liberazione da tutti i disagi legati alla nostra condizione corporale. La nostra redenzione si è compiuta ancora, in uno stadio germinale, con il dono dello Spirito.

 

Vangelo: Matteo 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

  Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.  Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”.

  Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

 

Esegesi

     Il c. 13 del Vangelo di Matteo raccoglie sette parabole sul mistero del regno dei cieli. È  un insegnamento che Gesù offre a una folla innumerevole, pur nella consapevolezza che pochi lo accoglieranno: le prime reazioni alla sua missione lo lasciano già presagire. La domanda che pongono i discepoli (v. 10) e la risposta di Gesù (vv. 11-17) ribadiscono ulteriormente il significato di questa parabola che apre la serie. Attraverso le immagini del seme e del terreno, infatti, è rappresentata la vicenda della parola di Dio, che come un seme ha un immenso potenziale di vita, ma può svilupparlo solo a misura dell’accoglienza che riceve. La forma parabolica somiglia all’involucro coriaceo di certi semi: protegge il significato dell’insegnamento di Gesù, perché «a colui che non ha» il desiderio sincero di comprendere e convertirsi sia «tolto anche quello che ha»: l’ascolto disimpegnato, l’interesse superficiale di un momento (vv. 10-13). Eppure Dio, nella sua gratuità, supera l’ostinazione che indurisce il cuore dell’uomo: il seminatore della parabola getta ovunque la sua semente, senza risparmio e senza calcolo; la «parola del Regno» (v. 19) va comunque annunziata (vv. 3s. e 14s.) e proposta alla collaborazione di ciascuno. E questa incomincia con un ascolto attento, intenso, disponibile alla Parola, così che essa possa penetrare profondamente nel cuore e risanarlo (v. 15b). Il centro dell’essere umano, infatti, può essere malato: durezza, superficialità, molteplicità di interessi egoistici sono i mali messi in luce dall’immagine dei terreni in cui il seme non potrà svilupparsi (vv. 19-22). Ma quando

la Parola è accolta da un cuore buono, giungerà sicuramente ad effetto e porterà il suo frutto di grazia, in misura variabile a seconda della corrispondenza di ciascuno al dono di Dio (v. 23).

Meditazione

     Che sia paragonata alla pioggia e alla neve che fecondano la terra e consentono ai semi di fruttificare (prima lettura) o al seme seminato dal seminatore che da frutto in proporzioni diverse (vangelo), la parola di Dio manifesta un’efficacia che non è assolutamente dell’ordine della magia, ma che richiede la sinergia dell’uomo.

     Il testo di Is 55,10-11 afferma che la parola uscita dalla bocca di Dio non ritornerà al Signore «senza effetto». Vi è un iter della parola di Dio che è compiuto quando essa, dopo essere stata pronunciata da Dio, ritorna a Dio. Ed essa vi ritorna in forma di lode e ringraziamento, di supplica e invocazione, di preghiera personale e comunitaria, di orazione e di liturgia. Non a caso la preghiera dei Salmi, risposta umana alla parola di Dio, è inglobata dal Canone biblico nella Scrittura che contiene e trasmette la parola di Dio. Analogamente al dinamismo dell’incarnazione, la parola di Dio ritorna a Dio in forma di parola umana, avendo suscitato una parola umana. La parola di Dio è davvero tale quando è ascoltata e celebrata, quando è riconosciuta e diviene fonte di dialogo. Concretamente, la parola di Dio, che è anche storia ed evento, una volta riconosciuta e discreta nella realtà, suscita una risposta orante a Dio. La preghiera e la liturgia compiono la parola di Dio.

     La parabola del seminatore (Mt 13,3-9) diviene, nella spiegazione (Mt 13,18-23), un insegnamento sull’ascolto, sulla responsabilità umana che la parola di Dio suscita. E l’ascolto della parola di Dio appare come un lavoro, una vera e propria ascesi.

     I tre tipi di terreno in cui il seme resta infruttuoso, mentre rivelano ostacoli e resistenze che l’ascolto della parola incontra nel cuore umano, indicano anche delle disposizioni spirituali che aiutano la parola a radicarsi e a fruttificare. Sono gli elementi fondamentali dell’ascesi dell’ascolto.

     L’interiorizzazione. Il seme seminato lungo la strada e mangiato dagli uccelli prima ancora che possa germogliare simboleggia l’ascolto superficiale, cioè senza interiorizzazione, assunzione ed elaborazione profonda della parola stessa. Senza questo lavoro interiore la parola non può diventare principio vitale che guida l’uomo nel suo vivere (Mt 13,4.19).

     La perseveranza. Il seme caduto su terreni petrosi denuncia un tipo di ascolto infruttuoso perché non accompagnato dalla necessaria perseveranza. È rivelativo di «colui che ascolta la parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha radice in se stesso ed è in-costante; venendo una tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si scandalizza». Matteo dice che quest’uomo è próskairos, cioè «uomo di un momento», incapace di far divenire storia la sua fede, di sottoporre la fede alla prova del tempo. Essendo senza radice, egli non sa resistere nelle difficoltà e nelle persecuzioni che la parola stessa provoca (Mt 13,5.20-21).

     La lotta spirituale. Il seme seminato tra le spine e rimasto soffocato rinvia all’uomo che, pur avendo ascoltato la parola, rimane sedotto da altre parole, dalle tentazioni mondane, dalla ricchezza, dai «piaceri della vita» (come aggiunge Lc 8,14). Insomma è colui che non sa porre in atto la necessaria lotta interiore e spirituale per trattenere la parola, per combattere i pensieri e le tentazioni, e così si lascia distrarre e sedurre dagli idoli (Mt 13,7.22).

     Le resistenze alla parola di Dio sono le resistenze alla conversione (Mt 13,15), alla fatica del cuore che, per accogliere la parola, deve lasciarsi purificare dalla parola stessa. Noi temiamo la purificazione e lo spogliamento prodotti in noi dall’accoglienza del seme della parola, così come i terreni non profondi, sassosi, o infestati dai rovi (Mc 4,1-9.13-20) non accolgono la semente perché per farlo dovrebbero lasciarsi dissodare dai sassi, ripulire dai rovi, arare e sarchiare (cfr. Is 5,1-7).

     L’ascolto della parola di Dio avviene sempre all’interno della dinamica pasquale, nel quadro di una morte e di una resurrezione. Non a caso, l’antica esegesi cristiana vedeva nel seme caduto sulla terra buona e che porta frutto nella misura del cento i martiri, cioè coloro che lasciano dispiegare pienamente in sé il dinamismo pasquale. 

Preghiere e racconti

Qualche seme germoglierà e illuminerà il cammino

“Un contadino si diresse verso i campi per seminare. Ma accadde che rovesciò una parte delle sementi lungo il cammino, e subito arrivarono gli uccelli a banchettare.

Poi, per l’accanimento della sfortuna, un’altra parte fu versata in una pietraia: germogliò quasi subito, perché c’era soltanto un velo di terra sopra i sassi. Quando il sole divenne cocente, le piccole gemme seccarono, poiché non avevano radici.

Un’altra parte ancora scivolò tra i rovi e, crescendo, fu soffocata dalla malerba, che gli impedì di produrre alcunché.

L’ultima semente fu sparsa su una terra grassa e feconda. Attecchì e diede molti frutti – e un seme ne produsse trenta, un altro sessanta e un altro ancora cento.

Ecco perché dovete spargere le vostre sementi in tutti i luoghi nei quali vi troverete a passare : qualche seme germoglierà e illuminerà il cammino delle generazioni a venire.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 175)

Perché occorre seminare in se stessi

Uno di questi grandi maestri anonimi, però, è stato per me un vicino di casa, Pinot […] Aveva un bellissimo orto in un terreno che in seguito dovette cedere per fare spazio alla costruzione della cantina sociale del paese: Pinot ogni mattina scendeva nell’orto a lavorare per poi tornare a casa verso le undici con ortaggi e verdure che servivano per il pranzo e la cena. […] Quell’uomo semplice e buono mi ripeteva sempre: «Ricordati che per fare un orto ci vuole acqua, letame, ma soprattutto una ciuènda! » Sì, per l’orto non basta che ci siano gli elementi che fanno crescere una pianta, ci vuole anche la ciuènda, la recinzione fatta di canne – più tardi sostituite dalla rete metallica – e di pali che protegge l’appezzamento di terra dagli animali che minacciano di devastarlo: cani, conigli, a volte il cinghiale, più raramente anche altre persone attratte dall’idea di poter raccogliere senza aver seminato. Così, alla fine dell’inverno e anche ogni volta che si apriva qualche varco, aiutavo Pinot a riparare la ciuènda e più che i segreti della coltivazione degli ortaggi imparavo una lezione di vita perché l’orto è una grande metafora della vita spirituale: anche la nostra vita interiore abbisogna di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. L’orto, come lo spazio interiore della nostra vita, è luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Solo così, nell’attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti a suo tempo.

Mi sono quindi appassionato molto presto all’orto, soprattutto alle piante aromatiche: prezzemolo, basilico, borragine, erba cipollina, menta, timo, maggiorana, rosmarino… Piantavo talmente tante piante di rosmarino, che Pinot si lamentava, perché sottraevano terreno agli ortaggi: «Basta rosmarini, quelli non si mangiano!».           

Io però ero già allora affascinato e sedotto dai profumi e dagli aromi che emanano da quelle pianticelle: umili erbe che, utilizzate con discernimento e sapienza, sanno rendere gloriose con la loro gratuità le pietanze più sostanziose. Così, a quattordici anni chiesi in dono a mio padre di affittare per me un fazzoletto di terra dove potessi avere il «mio» orto. Venni esaudito e da allora non sono mai riuscito a vivere senza accudirne uno: arrivato a Bose per iniziare una vita monastica, ho subito avviato un orto – che ora altri conducono, ricavandone frutti meravigliosi in ogni stagione -, e anche oggi continuo a tenere un orticello vicino alla mia cella, interamente dedicato alle erbe aromatiche. Non riusci-rei a vivere senza quest’orto che non solo da gusto ai cibi, ma mi insaporisce l’anima. […]            Sono momenti in cui ripenso sovente con gratitudine a Pinot, che mi insegnò tramite l’orto ad avere un sano rapporto con le «cose»: non mi spiegava solo a piantare, seminare, far crescere, ma mi aiutava anche a capire perché occorre seminare in se stessi, coltivare se stessi, far crescere se stessi e attendere i frutti.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 94-96).

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern).

L’importante e’ seminare

Semina, semina:

l’importante è seminare

-poco, molto, tutto-

il grano della speranza.

Semina il tuo sorriso

perché splenda intorno a te.

Semina le tue energie per affrontare le battaglie della vita.

Semina il tuo coraggio per risollevare quello altrui.

Semina il tuo entusiasmo,

la tua fede

il tuo amore.

Semina le più piccole cose,

il nonnulla.

Semina e abbi fiducia:

ogni chicco arricchirà

un piccolo angolo della terra

(Ottaviano Menato).

Il piccolo seme piantato in un suolo fertile

La fecondità della nostra piccola vita, una volta riconosciuta e vissuta come la vita di colui che è Amato, va oltre qualunque cosa si possa immaginare. Uno dei più grandi atti di fede è credere che i pochi anni che viviamo su questa terra sono come un piccolo seme piantato in un suolo molto fertile.

Perché questo seme porti frutto, deve morire. Noi spesso vediamo o sentiamo solo l’aspetto finale della morte, ma il raccolto sarà abbondante anche se noi non ne siamo i mietitori.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 101)

Il seminatore uscì a seminare

Ecco, il seminatore uscì a seminare (Mt 13,3). Per qual motivo uscì? Per distruggere la terra piena di spine? Per punire gli agricoltori? No, affatto; uscì per coltivare la terra, per prendersi cura di essa e seminare la parola della fede […]. Il Signore diceva questa parabola per mostrare che dispensava a tutti la sua parola con generosità. Come infatti il seminatore non distingue il terreno sottostante, ma getta semplicemente il seme senza fare distinzioni, così anche lui non distingue tra il ricco e il povero, tra il sapiente e l’ignorante, tra chi è negligente e chi è pieno di zelo, tra chi è coraggioso e chi è vile, ma parla a tutti e compie quanto dipende da lui, sebbene preveda ciò che accadrà.

Così si comporta in modo che si possa dire: «Che cosa dovevo fare che non abbia fatto?» (Is 5,4). I profeti parlano del popolo come di una vigna: «Il mio amato possedeva una vigna» (Is 5,1 ) e: «Ha divelto una vite dall’Egitto» (Sal 79 [80], 9). Gesù invece ricorre al paragone della semina […]. Ma da cosa deriva, dimmi, che sia andata perduta la maggior parte della semina?

Non a causa di colui che gettava il seme, ma della terra che l’accoglieva, cioè di colui che non presta ascolto. E perché non dice che parte l’accolsero i negligenti, e andò perduta; parte i ricchi e la soffocarono; parte gli sciocchi e l’hanno abbandonata? Perché non vuole colpirli severamente per non gettarli nella disperazione, ma lascia la riprovazione alla coscienza degli ascoltatori. Questo non si è verificato soltanto per la semina, ma anche per la rete, poiché anch’essa portò molte cose inutili. Dice questa parabola per preparare i discepoli e ammonirli a non scoraggiarsi anche se la maggior parte di quelli che accolgono la parola si perdono. E difatti questo accadde anche al Signore; colui che certamente sapeva in anticipo che questo sarebbe accaduto, non si astenne dal seminare. Ma, si potrebbe osservare, come può essere ragionevole seminare sulle spine, sul terreno sassoso, sulla strada? Nel caso dei semi e della terra non sarebbe ragionevole; nel caso invece delle anime e degli insegnamenti questo merita lode. A ragione il contadino potrebbe essere rimproverato di comportarsi così perché non è possibile che il terreno sassoso diventi terra, né che la strada non sia più strada, né che le spine non siano spine, ma nel caso degli esseri dotati di ragione non è così. È possibile infatti che il terreno sassoso si trasformi e divenga terra fertile e che la strada non sia più calpestata e non sia esposta a tutti i passanti, ma diventi terreno pingue e che le spine siano eliminate e i semi abbiano la massima libertà di crescere. Se non fosse possibile, il Signore non seminerebbe. Se non in tutti è avvenuto il cambiamento, non è stato a causa del seminatore, ma a causa di quelli che non hanno voluto cambiare, perché egli ha fatto quanto era in lui e se quelli hanno abbandonato la sua opera, non è responsabile colui che ha mostrato tale bontà nei confronti degli uomini.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 44,2-3, PG 57,467-468).

Risonanza della tua Parola

La tua Parola, o Dio,

è lampada ai miei passi

luce alla mia strada.

(Sal 118,105)

La tua Parola

hai detto

è lampada ai miei passi

e luce al mio sentiero.

Il seme caduto in buon terreno

significa colui che ode la parola

e l’accoglie

ed essa dà frutto.

(Mt 13,23)

La tua Parola

hai detto

è seme che fruttifica

quando il cuore è un terreno

libero e buono.

Come pioggia o neve

che scendendo dal cielo

non vi fanno ritorno senza aver irrorato

e fecondato la terra,

tale è la mia Parola.

(Is 55,10)

La tua Parola

hai detto

è come pioggia o neve

che irrora e fa

germogliare

e non ritorna al Padre

senza compiere quello

per cui fu mandata.

Viva è la Parola di Dio

ed efficace, più tagliente

d’una spada a due tagli.

(Eb 4,12)

La tua Parola

hai detto

è spada affilata

che penetra nel profondo

e lacera per guarire.

Ecco, verranno giorni,

 dice il Signore Dio

in cui manderò la fame nel paese

non fame di pane, né sete di acqua

ma d’ascoltare la Parola del Signore.

(Am 8,11)

La tua Parola

hai detto

molto più dell’acqua disseta,

molto più del pane sfama.

Canto è diventato per me

la tua Parola

mentre vado pellegrinando (Sal 118,54).

La tua Parola

hai detto

è canto per il cuore

lungo la strada

del mio pellegrinare.

La tua Parola

io l’ho capito,

Signore

è il cuore dell’essere

e la sua rivelazione.

Fa’ ch’io diventi

povera e vuota

per accoglierla,

pura e silenziosa

per darne RISONANZA.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

Qui potest capere, capiat

Guardate, guardate Dio che attraversa la terra come un seminatore e prende il suo cuore a due mani e lo getta su tutta la superficie della terra!… Si direbbe che per lo più egli getta ad occhi chiusi, a caso e al vento, questa semente che gonfia il suo grembiule. Qui potest capere, capiat. Qui habet aures audiendi, audiat. C’è la pietra, c’è il terreno indurito dal passaggio dei passanti; ci sono i rovi e le altre erbacce, ci sono gli uccelli del cielo, ci sono le intemperie! Pazienza! Ma c’è anche la buona terra e quell’orecchio nella profondità del nostro essere che è un utero, quell’interesse, quell’appropriazzione, quella conservazione.

(P. Claudel, Io credo in Te).

Io ti saluto, Parola

Io ti conosco, Parola,

così pazientemente costruita,

con i tuoi archetti

più tenaci delle nostre voci.

Io ti saluto, Parola,

liberata dall’essere detta,

che ci trae fuori da noi stessi

come cervo fuori dalle selve.

Io ti circondo, Parola,

ti voglio preda e docile;

tu maturi blu e libera

e mi inventi a tua volta.

Se, geloso della tua cima,

io ti salgo, Parola,

la mia ombra provvisoria

si annulla a ogni svolta.

(A. Chedid, Controcanto).

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca)

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

Preghiera

Perché la tua parola, o Signore, non cada ai bordi del cammino

e Satana la sradichi dai nostri cuori,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, non cada sul suolo indurito

e l’incostanza ci vinca alla prima tentazione,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, non cada in mezzo alle

spine e gli affanni e le ricchezze ci seducano,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, cada in un cuore che sa ascoltare

e produca in noi frutti abbondanti,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, cada in un cuore che sa conservare e meditare

e ci renda esecutori obbedienti della tua volontà, noi ti preghiamo.

(COMUNITA’ ECUMENICA DI BOSE, Davanti a  Dio, Torino, Gribaudi, 1977). 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XV DOM TEMP ORDINARIO (A)

Strenna 2015

COME   DON  BOSCO, CON I GIOVANI, PER I GIOVANI!

Giunti a questo mese di giugno, alla fine degli impegni educativo-scolastici in  un  emisfero, mi si chiede che, come è avvenuto in precedenza, presenti un’anticipazione o abbozzo di quale sarà la Strenna del 2015, tema che verrà poi sviluppato ed approfondito in una lettera circolare alla fine del presente anno. Volentieri offro questo abbozzo, col desiderio che possa servire in tutta la Famiglia Salesiana per quel che vuol essere: solo un’anticipazione o una indicazione di quanto a suo tempo verrà consegnato alle nostre sorelle, le Figlie di Maria Ausiliatrice, com’è tradizione, e a tutta la Famiglia Salesiana.

Lo schema di tale abbozzo è il seguente:

1. Una bella eredità spirituale.

2. La Strenna come Parola di UNITÀ per tutta la Famiglia Salesiana.

3. Come Don Bosco: con il suo cuore pastorale e la sua scelta educativa, coinvolti nella Trama di Dio.

4. Un carisma, quello salesiano, al servizio della comunione evangelizzatrice.

5. Con i giovani, per i giovani! Specialmente i più poveri.

6. Nel bicentenario della nascita di Don Bosco.

7. Con Maria, la più insigne collaboratrice dello Spirito Santo.

1.   UNA BELLA EREDITÀ  SPIRITUALE 

Qualifico come ‘bella esperienza spirituale’ la nostra tradizione familiare della Strenna, perché si tratta di qualcosa che è sempre stata molto a cuore a Don Bosco. I primi messaggi – a mo’ di Strenna – raccolti nella nostra tradizione, risalgono alla decade del 1850. Nelle Memorie Biografiche[1] leggiamo che un espediente usato da Don Bosco era quello di scrivere, ogni tanto, un bigliettino, facendolo arrivare a colui cui voleva dare un consiglio. Alcuni di questi bigliettini sono stati conservati e sono messaggi molto personali, che invitano ad una buona azione o a porre rimedio a qualcosa che non va bene. Ma oltre a questo, fin dai primi anni dell’Oratorio, Don Bosco aveva cominciato a consegnare, verso la fine dell’anno, una Strenna a tutti i suoi giovani in generale e un’altra a ciascuno in particolare. La prima, quella generale, consisteva solitamente nell’indicare alcuni modi di procedere e degli aspetti da tenere presenti per il buon andamento dell’anno che stava per cominciare. Quasi ogni anno Don Bosco continuò a dare tali Strenne.

L’ultima Strenna – l’ultima per Don Bosco e per i suoi figli – è formulata in una situazione molto speciale. La troviamo presentata anche nelle Memorie Biografiche[2]. Don Bosco, sentendo che stava arrivando il momento finale, fece chiamare Don Rua e Mons.Cagliero, e con le poche forze che gli rimanevano, diede alcune ultime raccomandazioni per loro e per tutti i Salesiani. Benedisse le case di America e i molti confratelli che risiedevano in quelle terre, benedisse tutti i cooperatori italiani e le loro famiglie e, infine, chiese loro che gli promettessero di amarsi come fratelli… e che raccomandassero la comunione frequente e la devozione a Maria Santissima Ausiliatrice.

Raccogliendo queste parole di Don Bosco, Don Rua nella sua terza circolare descrive quel momento e quelle parole, e aggiunge che «questo potrebbe servire come Strenna del nuovo anno da inviare a tutte le case salesiane. Desiderava che fosse per tutta la vita e dette la sua approvazione perché servisse realmente come strenna per il nuovo anno»[3].

2.  LA  STRENNA  COME  PAROLA  DI  UNITÀ  PER  TUTTA  LA  FAMIGLIA  SALESIANA

La nostra Famiglia Salesiana si caratterizza per il fatto di essere, in primo luogo, una famiglia carismatica[4], in cui il Primato di Dio-Comunione costituisce il cuore della mistica salesiana.

In questa comunione riconosciamo la diversità, e allo stesso tempo l’unità che ha la sua sorgente nella consacrazione battesimale, nel condividere lo spirito di Don Bosco e nella partecipazione alla missione salesiana al servizio dei giovani, specialmente dei più poveri[5].

Per questo in ogni Strenna sottolineiamo questo aspetto della comunione, che è prioritario nella nostra Famiglia. Nella misura in cui una Strenna può aiutare le programmazioni pastorali dei diversi rami e gruppi, è benvenuta, ma la sua finalità non è questa, non è quella di giungere ad essere un programma di pastorale per l’anno, ma piuttosto di essere un messaggio creatore di unità e di comunione per tutta la nostra Famiglia Salesiana, in un obiettivo comune. 

3.  COME  DON  BOSCO: CON IL  SUO  CUORE  PASTORALE  E  LA  SUA AZIONE  EDUCATIVA, COINVOLTI NELLA TRAMA DI DIO

Il cuore di Gesù, Buon Pastore, contrassegna tutto il nostro agire pastorale e costituisce un riferimento essenziale per noi. Allo stesso tempo, ne troviamo la concretizzazione, ‘alla maniera salesiana’, in Don Bosco plasmato nel singolare spirito di Valdocco, o in quello similare di Mornese, o in quel che è più tipico ad ogni gruppo della nostra Famiglia Salesiana. Ma sappiamo che il punto di confluenza primo e per tutti è il carisma di Don Bosco suscitato dallo Spirito Santo, per il bene della Chiesa. È quel che chiamiamo carisma salesiano, che abbraccia e accoglie tutti e tutte.

 In Don Bosco “la felice espressione (che fu il suo programma di vita) ‘Basta che siate giovani perché io vi ami assai’ è la parola e, prima ancora, l’opzione educativa fondamentale del Santo”[6]. Sappiamo bene che per i suoi ragazzi e i suoi giovani “Don Bosco svolge un’impressionante attività con le parole, gli scritti, le istituzioni, i viaggi, gli incontri con personalità civili e religiose; per essi, soprattutto, manifesta un’attenzione premurosa, rivolta alle loro persone, perché nel suo amore di padre i giovani possano cogliere il segno di un amore più alto”[7].

“Secondo gli stessi criteri e col medesimo spirito egli cerca di trovare una soluzione anche ai problemi della gioventù femminile. Il Signore suscita accanto a lui una Confondatrice: santa Maria Domenica Mazzarello, con un gruppo di giovani colleghe già dedicate, a livello parrocchiale, alla formazione cristiana delle ragazze. Il suo atteggiamento pedagogico suscita altri collaboratori – uomini e donne – ‘consacrati’ con voti stabili, ‘cooperatori’, associati nella condivisione degli ideali pedagogici e apostolici”[8]. A tutto questo si aggiunge il fatto di  essere il promotore di una speciale devozione a Maria, Ausiliatrice dei Cristiani e Madre della Chiesa, e la sua cura ed affetto costante per i propri ex-allievi.

E al centro di tutto questo agire e della sua visione c’è, come vero motore della sua forza personale, la ‘carità pastorale’. Quella carità pastorale che per Don Bosco, proprio perché si sentiva coinvolto nella Trama di Dio, significava amare il giovane, qualunque fosse il suo stato o situazione, per condurlo alla pienezza di quell’essere pienamente umano che si è manifestato nel Signore Gesù e che prendeva concretezza  nella possibilità di vivere come onesto cittadino e come figlio di Dio.

È questa la chiave del nostro essere, vivere e attuare il carisma salesiano. Se arriviamo a sentire nelle nostre viscere, nel più profondo di ciascuno/a di noi, quel fuoco, quella passione educativa che portava Don Bosco a incontrarsi con ogni giovane a tu per tu, credendo in lui, credendo che in ciascuno vi è sempre un seme di bontà e del Regno, per aiutarli a dare il meglio di se stessi ed avvicinarli all’incontro col Signore Gesù, staremo certamente concretizzando nella nostra vita il meglio del carisma salesiano, secondo le nostre modalità e possibilità.

4. UN  CARISMA, quello salesiano, “AL  SERVIZIO  DELLA  COMUNIONE  EVANGELIZZATRICE” (EG, n.130)

Già parecchie volte ho detto, sia in momenti familiari che in altri più pubblici, che il carisma salesiano non è proprietà nostra, né dei salesiani e nemmeno di tutta la Famiglia Salesiana.

Questa convinzione profonda esprime con tutta chiarezza il Papa Francesco nella Evangelii gaudium, quando dice che lo Spirito Santo arricchisce tutta la Chiesa nella sua missione evangelizzatrice con diversi carismi che “sono doni per rinnovare ed edificare la Chiesa. Non sono un patrimonio chiuso, consegnato ad un gruppo perché lo custodisca; piuttosto si tratta di regali dello Spirito integrati nel corpo ecclesiale […] e quanto più un carisma volgerà il suo sguardo al cuore del Vangelo, tanto più il suo esercizio sarà ecclesiale. È nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si rivela autenticamente e misteriosamente fecondo”[9].

Credo veramente che il carisma salesiano è certamente uno di quei doni con cui lo Spirito Santo ha arricchito la Chiesa affinché, con lo sguardo fisso all’essenza del Vangelo, e nella comunione ecclesiale prima, e internamente alla Famiglia Salesiana poi, possiamo essere un regalo prezioso per i giovani.

Per questo, Vangelo, cuore pastorale per i giovani, e comunione sono garanzia di Identità e di Fedeltà per noi, Famiglia di Don Bosco, Famiglia Salesiana.

5.  CON  I  GIOVANI, PER  I  GIOVANI! … specialmente  i più poveri

5.1   Diciamo CON I GIOVANI!, fratelli e sorelle della nostra Famiglia Salesiana, perché il punto di partenza del nostro fare carne e sangue (INCARNARE) il carisma salesiano  è quello di STARE CON I GIOVANI, stare con loro e in  mezzo a loro, incontrarli nella nostra vita quotidiana, conoscere il loro mondo e amarlo, stimolarli ad essere protagonisti della loro vita, risvegliare il loro senso di Dio, incitandoli a porsi delle mete alte, a vivere la vita come la visse il Signore Gesù.

5.2   E diciamo CON I GIOVANI!, cari fratelli e sorelle della nostra Famiglia Salesiana, perché se quel che riempie i nostri cuori ,accogliendo la chiamata vocazionale del Signore Gesù, è la predilezione pastorale per i ragazzi e le ragazze, per i giovani, ciò si manifesterà in noi, come in Don Bosco, come una vera e propria ‘passione’ nel cercare il loro bene, impegnandovi tutte le nostre energie, tutto il fiato e la forza che abbiamo.

5.3   PER I GIOVANI!… SPECIALMENTE I PIÙ  POVERI.

Mi sono permesso di dire in varie occasioni  che quando Papa Francesco parla di andare alla periferia, dirigendosi a tutta la Chiesa, noi veniamo interpellati in modo molto vivo e diretto, perché ci sta chiedendo di stare con i giovani nella periferia, lontani quasi da tutto, esclusi, quasi senza opportunità.

Allo stesso tempo voglio dire che questa periferia è qualcosa di tipicamente nostro come Famiglia Salesiana, perché la periferia è qualcosa di costitutivo del nostro DNA salesiano. Cos’è stata la Valdocco di Don Bosco se non una periferia della grande città? Che cosa è stata Mornese se non una periferia rurale? Occorrerà che il nostro esame di coscienza personale e come Famiglia Salesiana si confronti con questo forte richiamo ecclesiale, che fa parte a sua volta dell’essenza del Vangelo. Sarà necessario esaminarci circa il nostro essere con i giovani e per loro, specialmente per gli ultimi…, ma non occorrerà cercare verso dove orientarci, la nostra ‘stella polare nella navigazione’, perché negli ultimi, nei più poveri, in quelli che più hanno bisogno di noi, risiede l’elemento più specifico del nostro DNA come carisma salesiano.

5.4  PERCHÉ  I GIOVANI, SPECIALMENTE I PIÙ POVERI, SONO UN DONO PER NOI

È stato il Rettor Maggiore don Juan E. Vecchi a scrivere che “i giovani poveri sono stati e sono tuttora un dono per noi”[10]. E certamente non possiamo pensare che Don Vecchi stia difendendo la povertà; ma è certo che se stiamo con i giovani e in mezzo a loro, sono essi, sono esse, i primi che ci fanno del bene, che ci evangelizzano e ci aiutano a vivere veramente il Vangelo in quel che è più tipico del carisma salesiano.

Oso dire, come già mi sono espresso in altra occasione, che sono i giovani, le giovani, e specialmente quelli più poveri e bisognosi, coloro che ci salveranno aiutandoci ad uscire dalla nostra routine, dalle nostre inerzie e dai nostri timori, a volte più preoccupati  di conservare le nostre sicurezze che di tenere il cuore, l’udito e la mente aperti a ciò che lo Spirito ci può chiedere.

6.  NEL BICENTENARIO DELLA NASCITA DI DON BOSCO

In un evento, come quello del Bicentenario della nascita di Don Bosco, che ci lancia tutti in un cammino di fedeltà  a quella stessa chiamata che egli sentì, ascoltò e che tradusse in vita.

In un anno in cui la festa per quel dono che è Don Bosco per la Chiesa e per la sua Famiglia non ci lascerà centrati in noi stessi, autoreferenziali  e autocompiaciuti, ma ci lancerà, con maggior forza se possibile, verso la missione.

Si tratta di un anno di festa, in cui siamo invitati a vivere ed esprimere la nostra celebrazione come vera Famiglia.

7.  CON  MARIA, LA PIÙ  INSIGNE COLLABORATRICE DELLO SPIRITO SANTO

 Concludo tenendo presenti le parole del Papa San Giovanni Paolo II, nella conclusione della citata Lettera “Iuvenum patris”, in cui ci invita ad avere sempre davanti a noi Maria Santissima, “come la più alta collaboratrice dello Spirito Santo”.

Il Papa ci invitava a guardare Maria e ad ascoltarla quando dice “Fate quello che Egli vi dirà”, evocando l’episodio delle nozze di Cana (Gv 2,5).

In un bel frammento finale il Papa dice, dirigendosi agli SDB di quel momento, ma in un contesto che è molto adeguato per tutta la nostra Famiglia Salesiana oggi: “A Lei io affido voi e insieme con voi affido tutto il mondo dei giovani, affinché essi, da Lei attratti, animati e guidati, possano conseguire, con la mediazione della vostra opera educativa, la statura di uomini nuovi per un mondo nuovo: il mondo di Cristo, Maestro e Signore [11].

La forza di questo desiderio e di queste parole che ci dedica il Papa di allora è tale che penso che non si possa aggiungere altro che un ‘Amen!’, così sia, facendo assegnamento sulla Grazia che ci viene dal Signore, l’intercessione di Maria Ausiliatrice e il cuore di Buon Pastore di tutti i membri della nostra Famiglia Salesiana.

 

Il Signore ci conceda la sua benedizione. 

Roma, 18 giugno 2014.



[1] Cfr. MB III, p. 616-617

[2] Cfr. MB XVIII, p. 502-503

[3] Ibidem

[4] Cfr. Carta di Identità della Famiglia Salesiana, art. 5

[5] Cfr. Carta di Identità della Famiglia Salesiana, art. 4

[6] Giovanni Paolo II, Iuvenum patris (lettera nel centenario della morte di San Giovanni Bosco), n. 4

[7] Ibidem, n.4

[8] Ibidem, n.4

[9] Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 130

[10] ACG 359, p. 24

[11] IuvenumPatris n. 20

Il tema della Strenna 2015: “Come Don Bosco, con i giovani, per i giovani”

Dire Don Bosco è dire giovani. Quasi non è immaginabile evocare la storia del Santo senza la compagnia dei giovani. Don Rua, suo primo successore ebbe a dire di lui: “Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù…”. È con questa radice e sorgente che Don Ángel Fernández Artime, X Successore di Don Bosco, ha annunciato il tema della sua prima Strenna, quella dell’anno Bicentenario della nascita del Fondatore, che va dritta al cuore della missione: “Come Don Bosco, con i giovani, per i giovani”.

La Strenna ancora una volta è offerta dal Rettor Maggiore come successore di Don Bosco e quindi come padre di tutta la Famiglia Salesiana che, pur nella distinzione e diversità dei gruppi, trova ulteriore stimolo per ritrovarsi e vivere con un comune obiettivo che è la condivisione della missione salesiana al servizio dei giovani, specie dei più poveri.

La comunione della Famiglia Salesiana non è fine a se stessa, né si deve consumare al suo interno, ma deve essere un dono nella Chiesa: il carisma salesiano è un dono per tutta la Chiesa, similmente a tutti i carismi offerti dallo Spirito Santo per la missione evangelizzatrice, così come richiamato anche da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium.

Don Fernández Artime non dimentica di fare memoria della sorgente del dinamismo apostolico che sosteneva Don Bosco e che deve sostenere ogni membro della Famiglia salesiana: la carità pastorale che ha nel cuore di Gesù il modello fondamentale. In questa icona trova riferimento l’azione educativa salesiana chiamata a lasciarsi coinvolgere nella trama di Dio.

Il Rettor Maggiore insiste nel dare attenzione e privilegiare i giovani, specie i più poveri e invita a fare propria con specifico impegno la chiamata di Papa Francesco ad avere a cuore la periferia: “la periferia è costitutiva del nostro DNA salesiano”.

Valdocco e Mornese, con il loro specifico, furono periferia e oggi dire periferia significa individuare “la stella polare nella navigazione”, in quanto gli ultimi e i più poveri, ribadisce Don Fernández Artime, sono “lo specifico del nostro DNA come carisma salesiano”.

In quest’orizzonte, avendo in comune il carisma educativo di Don Bosco, i membri della Famiglia salesiana sono testimoni dell’amore di Dio e vogliono essere un dono per i giovani; ma devono essere altrettanto convinti anche che, come affermato da Don Juan Vecchi, i giovani poveri sono a loro volta un dono che stimola a camminare e a superare i rischi della mediocrità, per andare oltre le proprie sicurezze, per restare aperti allo Spirito Santo.

Su tutte queste buone intenzioni, e perché i propositi diventino realtà, conclude il Rettor Maggiore annunciando la Strenna per il 2015, non può mancare la Grazia e la benedizione del Signore, con l’intercessione materna di Maria, “la più insigne collaboratrice dello Spirito Santo”.

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