XXV DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura: Isaia 55,6-9 

 Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

 

Siamo nell’ultimo capitolo del secondo Isaia (40-55), un profeta anonimo del tempo dell’esilio babilonese (VI sec. a. C.) i cui oracoli di consolazione sono stati aggiunti al libro di Isaia (VIII sec. a.C.). Il cap. 55 si conclude con una esortazione a cercare e invocare il Signore, la rinnovata promessa dell’alleanza e l’efficacia della parola di Dio.

     Nei versetti precedenti il nostro brano il profeta annuncia la nuova alleanza e la realizzazione delle promesse fatte a Davide, in un orizzonte universalistico che coinvolge i popoli e le nazioni: anche chi non conosce Israele accorrerà a rendergli onore a causa del Signore.

     L’oracolo si apre con il v. 6 che esorta gli esiliati a cercare il Signore, mentre è vicino e si fa trovare.

     È un tema caratteristico della profezia esilica quello della vicinanza del Signore, proprio in terra straniera, dove gli esuli temevano di averlo perduto. Gli ebrei avevano legato infatti la presenza del Signore al possesso della Terra, alla città santa e al Tempio: con la distruzione di quest’ultimo e la deportazione tutto sembrava compromesso, l’alleanza infranta e la salvezza irraggiungibile. Invece, proprio la condizione di smarrimento dell’esilio, assimilata dai profeti al deserto, è una condizione favorevole alla conversione e al ravvedimento.

     Il v. 7 invita ad abbandonare le vie e i pensieri iniqui e a ritornare al Signore: il verbo shûv indica la conversione, la metanoia. Il Signore avrà misericordia: la radice rhm indica le viscere materne del Signore che prova compassione per il popolo, senza che esso lo abbia in alcun modo meritato.

     Le «vie» e i «pensieri» ritornano al v. 8 per riaffermare con maggior forza la necessità della conversione: le vie e i pensieri degli uomini infatti (l’iniquo e l’empio del v. 7, ma anche tutto il popolo che si illude di essere nel giusto) non corrispondono alle vie e ai pensieri di Dio.

     La differenza sostanziale e la superiorità assoluta del progetto di Dio rispetto ai progetti umani sono pari alla distanza infinita tra terra e cielo (v. 9): non è semplicemente l’idea filosofica della trascendenza di Dio, ma la grandezza e la profondità del suo amore, della sua misericordia e del suo perdono, che l’uomo non riesce nemmeno a immaginare.

     L’efficacia della parola del Signore, che porta a compimento ciò che promette, viene riaffermata nei versetti seguenti.

 

Seconda lettura: Filippesi 1,20-24.27 

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.  Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.  Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo. 

 

La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

     Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo (cf. l,14ss.).

     Paolo sviluppa in questi versetti un’audace e paradossale contabilità della sua missione apostolica.

     I vv. 20c-22 pongono il problema.

     La «partita doppia» tra sofferenze e pericoli della persecuzione e glorificazione di Cristo si chiude in pari, anzi in attivo: Cristo sarà glorificato, sia che l’apostolo venga liberato e viva, sia che subisca la condanna e muoia.

     La morte, infatti, rappresenta per Paolo un guadagno perché significa essere ricongiunti a Cristo, che è la vita vera. Il discorso sembrerebbe qui chiuso con l’aspirazione al martirio: ma Paolo vi oppone un argomento altruistico. Per sé, egli sceglierebbe il martirio; ma la vita al servizio dei fratelli e del vangelo può dare frutti alla Chiesa, allora ecco che la scelta si fa più difficile.

     I vv. 23-24, centrali nella pericope, propongono con chiarezza l’alternativa: morire in Cristo (espresso con il verbo analysai, come una liberazione) sarebbe il meglio, ed è il desiderio di Paolo; ma vivere è più necessario per i fratelli.

     Gli ultimi tre versetti (25-27) risolvono la questione indicando la scelta di Paolo: «continuerò a rimanere in mezzo a voi». Ne segue, logica conseguenza, l’esortazione ai Filippesi perché si rendano degni del vangelo di Cristo: questo è il solo «vanto» (kauchema) riconosciuto valido dall’apostolo.

     L’opposizione vita/morte si compone in Cristo, che sarà comunque glorificato dall’apostolo, sia con una morte testimoniale sia con una vita dedicata alla predicazione.

 

Vangelo: Matteo 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzo giorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

     Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». 

 

Esegesi

     Siamo nella sezione del vangelo di Matteo dedicata al cammino verso la Passione (capp. 16-20).

     La sezione si apre con la confessione di fede di Pietro — tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente (16,15) — e prosegue con i tre annunci della Passione (16,21; 16,22-23; 20,18-19). Poco prima dell’ultimo annuncio l’evangelista inserisce la parabola degli operai dell’ultima ora, incorniciata da due detti quasi identici sugli ultimi che saranno primi e i primi che saranno ultimi (19,30; 20,16). Il tutto è a sua volta incastonato fra due brani che riguardano il discepolato e pongono il problema della ricompensa (cf. il salario della parabola) e della gerarchia (cf. l’ordine di priorità fra gli operai della prima e dell’ultima ora). Il brano che precede è la domanda di Pietro sulla ricompensa che spetta a chi ha «lasciato tutto» per seguire Gesù, e la risposta di Gesù (19,27-29); segue immediatamente il terzo annuncio della Passione, e la richiesta della madre dei figli di Zebedeo sui posti da assegnare nel regno.

     Nella parabola si possono distinguere tre parti.

1) la prima (vv. 1-7) racconta ciò che succede durante il giorno. Si tratta della giornata lavorativa tipica nella società agricola palestinese del tempo, che durava «dai primi raggi del sole fino al sorgere delle stesse» (cf. Sl 103/104,22-23). La suddivisione in 12 ore quindi, nella stagione estiva, comporta una durata dell’ora lavorativa ben superiore ai 60 minuti. Si susseguono quattro brani sul padrone di casa che esce cinque volte a cercare operai per la sua vigna. Nei primi tre abbiamo una contrattazione in cui si pattuisce un salario («Si accordò con loro per un denaro», la paga giornaliera normale, cf. Tob 5,15; «quello che è giusto ve lo darò»; «fece altrettanto»). Nell’ultimo brano si riferisce nei particolari il dialogo, ma non si parla di salario.          

     Si crea così una sospensione e un’attesa: anche il lettore si aspetta che gli altri ricevano di meno. Ciò anche perché rimane inespresso il motivo per cui a sera sono ancora disoccupati: non c’era lavoro a sufficienza o erano pigri? dov’erano, quando il padrone era uscito all’alba, alla terza, alla sesta e alla nona ora?

2) Al centro, il v. 8 crea il collegamento tra la parabola e ciò che precede e che segue: abbiamo il rovesciamento tra gli ultimi e i primi (che anticipa la risposta ai figli di Zebedeo), l’ordine inverso nella paga (la ricompensa rivendicata da Pietro). Il tutto a opera del «Signore della vigna» (il «padrone di casa» dei vv. 1 e 11), chiara metafora del regno dei cieli.

     La tensione, già creata con il v. 7, viene qui accentuata. È insolito, anche se non impossibile, che si assumano operai al termine della giornata; ancor più insolito che si inizi da costoro il pagamento, costringendo chi ha faticato fin dall’alba ad attendere e rinviare così il momento del riposo. Tanto più che la Legge prescriveva di pagare senza indugio i lavoratori a giornata, che non avevano altro mezzo per provvedere al cibo per sé e per la famiglia: «gli darai il salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole» (Deut 24,15).

     A questo punto ci aspettiamo che possa seguire qualcosa di ancora più strano. Era necessario del resto quest’ordine inverso, perché così i primi assistono al pagamento degli ultimi e possono attendersi di ricevere di più (v. 10).

3) Nell’ultima parte vengono messi in parallelo gli ultimi e i primi (vv. 9-10): «e venuti quelli dell’undicesima ora…», «e venuti i primi…». In seguito si riferisce il dialogo: la domanda dei primi operai (vv. 11-12) e la risposta del padrone (vv. 13-15).

     Il padrone rivendica a sé la sovrana libertà di disporre del proprio come vuole. Un denaro non era solo la paga consueta, era anche il necessario per vivere: ebbene, la volontà del padrone della vigna è che ciascuno abbia il necessario per vivere (il pane quotidiano), indipendentemente dai propri meriti. Il problema nasce quando si fanno dei confronti, e ci si erge a giudici pretendendo che la giustizia del Signore segua i nostri criteri.

     Alcuni elementi colpiscono particolarmente, e portano a comprendere che non di equità sociale o di diritti sindacali vuol parlare l’evangelista.

     Il padrone della vigna sottolinea l’opposizione giusto/ingiusto: «quello che è giusto ve lo darò» (v. 4); «non sono ingiusto con te» (v. 13). Si tratta evidentemente di una strana giustizia: «la si perde se l’uomo la reclama per sé con leggerezza, come un suo diritto ovvio, confrontando il proprio curriculum con quello degli altri e non concentra così lo sguardo sulla bontà del Signore davanti alla quale tutto quello che egli ha fatto e meritato svanisce. Così proprio l’incomprensibile bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non vuole liberarsi dei suoi concetti umani di merito e giustizia» – (EDUARD SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 367).

     Il padrone, che nella prima parte della parabola appare tanto premuroso e generoso da uscire ben cinque volte alla ricerca di disoccupati cui offrire lavoro, si rivela subito dopo, se non ingiusto (è pur vero che rispetta i patti), quanto meno capriccioso e brusco («prendi il tuo e vattene», v. 14a). Il contrasto viene sciolto dall’ultima domanda che il padrone rivolge non a tutti gli operai, ma a uno, chiamandolo «amico»: rivolta perciò al lettore del vangelo, a ciascuno di noi personalmente, suona alla lettera: «o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». La cattiveria sta nell’occhio dei primi, come Caino verso Abele, i fratelli verso Giuseppe: «Gli operai della prima ora non vogliono riconoscere che è stato un dono essere stati assunti: certo, hanno lavorato dodici ore, ma solo grazie all’invito del padrone di casa. Come la vita è un dono, regalata dal Padre, senza alcun merito da parte di chi la riceve» (ROLAND MEYNET, Una nuova introduzione ai vangeli sinottici, EDB, 2001, p. 249).

Meditazione 

     La dichiarazione divina trasmessa dal profeta «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8) trova una esposizione narrativa nella parabola evangelica secondo la quale gli operai che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del padrone ricevono una paga identica a quella di coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Nello scandalo patito dagli operai della prima ora vi è tutta la distanza tra il pensare e l’agire di Dio e il pensare e l’agire degli uomini.

     Questa distanza non dice il capriccio di Dio o il suo arbitrio, ma la sua misericordia. Ciò che gli operai della prima ora contestano al padrone è infatti di aver dato la stessa ricompensa agli ultimi arrivati come a loro che avevano patito il peso dell’intero giorno di lavoro. Letteralmente essi dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12). Il fare agli ultimi come ai primi abbatte le discriminazioni e i privilegi. Il Dio biblico, infatti, è il Dio della grazia. Esprime bene questo primato della misericordia e della grazia sulle logiche giuridiche un brano della Catechesi sulla santa Pasqua dello Pseudo-Giovanni Crisostomo: «Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato fin dalla prima».

     Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è «giogo soave e leggero» e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione.

     La distanza tra pensieri di Dio e pensieri umani è importante da salvaguardare perché impedisce l’operazione perversa di identificare i propri pensieri umani con quelli di Dio. Questa affermazione contesta la presunzione religiosa che proietta in Dio le proprie azioni e i propri pensieri e identifica le proprie parole su Dio con Dio e la propria volontà con quella di Dio. L’istanza espressa dal profeta è un invito all’umiltà del pensiero, in particolare del pensiero teologico, del pensiero che osa «pensare Dio».

     Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi. E l’invidia è definita come avere «l’occhio cattivo» (Mt 20,15). L’etimologia è illuminante: invidere, significa «non vedere», «vedere contro», ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: «perché lui sì e io no?»; «perché a lui come a me che meritavo di più?». L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile.

     Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli: si entra in un rapporto giuridico padrone-servi, e si esce dalla solidarietà con gli altri operai, gli altri uomini.

     Male della vita comunitaria ed ecclesiale è la mormorazione (Mt 20,11). Mormorando, gli operai della prima ora affermano che il padrone non aveva il diritto di comportarsi come si è comportato. La mormorazione non è una parola personale chiara che esprime un dissenso leale, ma movimento sotterraneo che aggrega diverse persone che si fanno forza vicendevolmente con il loro malumore per poi esprimersi in accuse e lamentele. La sua logica è la complicità, non la responsabilità.

 

Preghiere e racconti

Rattristati dalla felicità degli altri

È indiscutibile: noi siamo spesso rattristati dalla felicità degli altri. È uno degli aspetti del mistero del peccato, della ferita presente in ciascuno di noi, Vi sono persone che si rattristano quando vedono che gli altri si amano. Vi sono degli sventurati che non perdonano agli altri la loro giovinezza, la loro bellezza, la loro intelligenza. Vi sono nella Chiesa dei cristiani imbronciati e laboriosi che non perdonano a certi convertiti di essere stati soggiogati dalla grazia di Dio, apparentemente senza alcun sforzo e merito da parte loro… L’inizio della santità sarebbe riconoscere che, nonostante la disuguaglianza delle nostre vite, non ci manca nulla se Dio è con noi; e allora potremmo gioire della bontà di Dio che sembra amare maggiormente i nuovi arrivati nel suo amore.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio)

Lavorare nella vigna del Signore

Nella liturgia di oggi inizia la lettura della Lettera di San Paolo ai Filippesi, cioè ai membri della comunità che l’Apostolo stesso fondò nella città di Filippi, importante colonia romana in Macedonia, oggi Grecia settentrionale. Paolo giunse a Filippi durante il suo secondo viaggio missionario, provenendo dalla costa dell’Anatolia e attraversando il Mare Egeo. Fu quella la prima volta in cui il Vangelo giunse in Europa. Siamo intorno all’anno 50, dunque circa vent’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Eppure, nella Lettera ai Filippesi, è contenuto un inno a Cristo che già presenta una sintesi completa del suo mistero: incarnazione, chenosi, cioè umiliazione fino alla morte di croce, e glorificazione. Questo stesso mistero è diventato un tutt’uno con la vita dell’apostolo Paolo, che scrive questa lettera mentre si trova in prigione, in attesa di una sentenza di vita o di morte. Egli afferma: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). E’ un nuovo senso della vita, dell’esistenza umana, che consiste nella comunione con Gesù Cristo vivente; non solo con un personaggio storico, un maestro di saggezza, un leader religioso, ma con un uomo in cui abita personalmente Dio. La sua morte e risurrezione è la Buona Notizia che, partendo da Gerusalemme, è destinata a raggiungere tutti gli uomini e i popoli, e a trasformare dall’interno tutte le culture, aprendole alla verità fondamentale: Dio è amore, si è fatto uomo in Gesù e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del male donandole una speranza affidabile. San Paolo era un uomo che riassumeva in sé tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Non a caso Dio affidò a lui la missione di portare il Vangelo dall’Asia Minore alla Grecia e poi a Roma, gettando un ponte che avrebbe proiettato il Cristianesimo fino agli estremi confini della terra.

Oggi viviamo in un’epoca di nuova evangelizzazione. Vasti orizzonti si aprono all’annuncio del Vangelo, mentre regioni di antica tradizione cristiana sono chiamate a riscoprire la bellezza della fede. Protagonisti di questa missione sono uomini e donne che, come san Paolo, possono dire: “Per me vivere è Cristo”. Persone, famiglie, comunità che accettano di lavorare nella vigna del Signore, secondo l’immagine del Vangelo di questa domenica (cfr Mt 20,1-16). Operai umili e generosi, che non chiedono altra ricompensa se non quella di partecipare alla missione di Gesù e della Chiesa. “Se il vivere nel corpo – scrive ancora san Paolo – significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22): se l’unione piena con Cristo al di là della morte, o il servizio al suo corpo mistico in questa terra.

Cari amici, il Vangelo ha trasformato il mondo, e ancora lo sta trasformando, come un fiume che irriga un immenso campo.

(Benedetto XVI, Angelus, 18-09-2011).

Il tuo occhio è malvagio, perché io sono buono?

      La vigna sono i precetti e i comandi di Dio, il tempo della fatica, la vita presente; gli operai quelli che in modo diverso sono chiamati a compiere i precetti; quelli venuti al mattino, all’ora terza, alla sesta, alla nona e all’undicesima ora sono quelli che sono giunti [alla fede] in età diverse e si sono fatti onore. Ma ciò che è da indagare è se i primi, che si sono splendidamente distinti e sono stati graditi a Dio e che per tutto il giorno hanno brillato per le loro fatiche, si lasciano dominare da quel male estremo della malvagità che è dato dall’invidia e dalla gelosia.

Vedendo infatti che quelli avevano usufruito della stessa ricompensa, dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo» (Mt 20,12). E sebbene non ricevessero alcun danno e il loro compenso non fosse diminuito, si dispiacevano e si irritavano per i beni altrui, cosa che è propria dell’invidia e della gelosia. E il fatto più importante è che il padrone, che aveva preso le difese di quelli e si era giustificato dinanzi a chi aveva parlato in questi termini, lo condanna per la sua malvagità e la sua estrema invidia, dicendo: «Non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene! Io voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Forse il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?» (Mt 20,13-15). Che cosa si ricava da queste parole? Quella stessa cosa che possiamo vedere anche in altre parabole. Infatti il figlio stimato per la sua buona condotta viene presentato con gli stessi sentimenti quando vede che il fratello dissoluto riceve molti più onori di lui (cfr. Lc 15,28). Come quelli godettero di un bene maggiore ricevendo la ricompensa per primi, così anche quello veniva onorato di più per l’abbondanza dei doni e lo testimonia il figlio dalla buona condotta.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 64,3, PG 58,612-613).

Il ricco e il povero

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero. Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni. Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.” “Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto. “verso Oriente” rispose la donna, e scomparve.

Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità. E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé. “Mia cara, – disse il povero  sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me”.  La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.

Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.

Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato. “Non riceverai del denaro, – gli disse  ma tutto ciò che trovi scavando è tuo”.

Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro. Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza. Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce: “Mio signore, aprimi! Aprimi!”. Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse: “Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia”. Dopo di che scomparve. Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza  con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno. Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari. L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora. L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.

Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro. Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria. Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò. L’aperse subito. La Miseria  saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia.  “Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte”.

Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna. I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione. Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.

(da: Fiabe di Praga magica,  Arcana ed., 1993).

Quando sei chiamato, va’

Tu, quando sei chiamato, va’.

Sei chiamato a mezzogiorno? Va’ a quell’ora.

È vero che il padrone ti ha promesso un denaro anche se vai nella vigna all’ultima ora, ma nessuno ti ha promesso se vivrai fino alla prima ora del pomeriggio. Non dico fino all’ultima ora del giorno, ma fino alla prima ora dopo mezzogiorno.

Perché dunque ritardi a seguire chi ti chiama? Sei sicuro del compenso, è vero, ma non sai come andrà la giornata.

Vedi di non perdere, a causa del tuo differire, ciò che egli ti darà in base alla sua promessa.

(Agostino D’Ippona, Discorso 87, 6.8).

Non desiderare le cose altrui

“Se stai cercando di darti delle arie con chi sta in alto, scordatelo. Ti guarderanno dall’alto in basso comunque. E se stai cercando di darti delle arie con la gente che sta in basso, scordatelo lo stesso. Ti invidieranno e basta. Gli status-symbol non ti porteranno da nessuna parte. Solo un cuore sincero ti permetterà di stare alla pari con tutti.” […] “Fa’ il genere di cose che ti vengono dal cuore. Quando le farai, non ne resterai insoddisfatto, non sarai invidioso; non desidererai le cose altrui. Al contrario, sarai sommerso da quel che ti verrà in cambio.”

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 132-133).

Non andare via, Signore

Quando trovi chiusa la porta del mio cuore,

abbattila ed entra: non andare via, Signore.

Quando le corde della mia chitarra dimenticano il tuo nome,

ti prego, aspetta: non andare via, Signore.

Quando il tuo richiamo non rompe il mio torpore,

folgorami con il tuo dolore: non andare via, Signore.

Quando faccio sedere altri sul tuo trono,

o re della mia vita: non andare via, Signore.

(Rabindranath Tagore)

Il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 200

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXV DOM TEMP ORDINARIO (A)

Accompagnare la persona disabile nel tempo della malattia

Il percorso formativo offerto dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute e il Settore Catechesi per le persone disabili dell?Ufficio Catechistico Nazionale si propone di qualificare animatori attraverso la conoscenza delle dimensioni portanti della pastorale con le persone in situazione di disabilità e di malattia in strutture socio-sanitarie assistenziali (centri diurni per persone con disabilità semplice o pluridisabilità, strutture per anziani disabili, strutture per disabilità adulte).

Il corso è rivolto a sacerdoti, animatori pastorali religiosi e laici, ai membri di equipe pastorali dei centri e delle strutture per le diverse disabilità “adulte” e/o per anziani.

Programma            

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ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE

Prima lettura: Numeri 21,4b-9

In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero».  Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo.  Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita. 

 

La pericope giovannea ha fatto cenno al famoso episodio, verificatosi nel deserto e narrato in Nm 21. Non è un testo di facile comprensione, a causa di questa menzione dei serpenti e per il fatto che un serpente diventa poi il mezzo di salvezza dal morso velenoso. Seguendo il racconto, nel v. 4 si dice che gli ebrei partirono dal monte Cor e si diressero verso il Mar Rosso, per aggirare il paese di Edom: con questa traccia, possiamo dedurre che essi si trovassero nella regione settentrionale della penisola del Sinai, nella zona di Aqaba. Il popolo risentì della pesantezza del cammino, che fu all’origine della protesta riportata nel v. 5. In realtà, gli ebrei non erano nuovi al lamento e alla protesta, per cui Dio inviò dei serpenti velenosi (v. 6), che il testo ebraico chiama hannechashîm hasseraphîm, alla lettera «serpenti brucianti». In seguito al pentimento del popolo, Mosè s’interpose come intercessore (v. 7) tra esso e Dio, il quale ordinò al legislatore d’Israele il rimedio (vv. 8-9): neutralizzare i serpenti con l’immagine di un serpente.

     La chiave del senso del racconto è certamente nel significato da dare alla figura del serpente, che poteva avere nell’antichità un valore apotropaico (di scongiuro del male), di culto dei serpenti (forse praticato anche nel tempio di Gerusalemme prima dell’esilio babilonese, cf. 2Re 18,4) o, persino, di divinazione (la radice della parola ebraica nachash, serpente, ha anche il senso di divinare). Un’interpretazione «spirituale» è quella che troviamo nel Libro della Sapienza: «Quando infatti li assalì il terribile furore delle bestie e perirono per i morsi di tortuosi serpenti, la tua collera non durò sino alla fine. Per correzione furono spaventati per breve tempo, avendo già avuto un pegno di salvezza a ricordare loro i decreti della tua legge. Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti. Anche con ciò convincesti i nostri nemici che tu sei colui che libera da ogni male […]. Invece contro i tuoi figli neppure i denti di serpenti velenosi prevalsero, perché intervenne la tua misericordia a guarirli. Perché ricordassero le tue parole, feriti dai morsi, erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio, fossero esclusi dai tuoi benefici» (16,5-8.10-11).

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio  l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

L’inno della lettera ai Filippesi è tra i più noti testi del Nuovo Testamento, e rappresenta un momento di alta comprensione del mistero di Cristo. Al centro dell’inno si trova la menzione della croce, la quale segna il passaggio alla glorificazione. Tuttavia, la croce non sarebbe stata possibile senza l’obbedienza del Figlio, che si manifesta, per così dire, per gradi. Infatti, il testo insiste molto sulla «provenienza» di Gesù, che scende dal cielo, ossia si distacca (prendiamo le parole nel loro senso «spaziale») dalla sfera trascendente e, pur conservando la sua personalità divina, assume la carne umana. Egli non ritenne, dunque, la propria uguaglianza con Dio un ostacolo alla sua incarnazione, la quale costituiva, comunque, un «impoverimento» per lui, ma un arricchimento per noi («Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà»; 2Cor 8,9). Gesù, poi, avendo spogliato se stesso per assumere la condizione umana, che l’apostolo chiama «servile», condusse fino alle estreme conseguenze la sua obbedienza, al punto da morire non con una morte qualsiasi, ma più infamante, ossia sulla croce.

     Tale obbedienza, che sulla croce fa rifulgere il grande amore che il Figlio nutre per il Padre, viene da questi «ricompensata» con la glorificazione, l’esaltazione sopra tutti gli esseri celesti, terreni e sotterranei, sicché tutto e tutti devono piegare il ginocchio, sottomettersi, davanti al Cristo, che è testimone fedele della gloria rivelatrice e salvifica di Dio Padre.

 

Vangelo: Giovanni 3,13-17

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.  Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

 

Esegesi

     Il testo evangelico di questa festa fa parte del dialogo svoltosi tra Gesù e Nicodemo. Quest’ultimo, al v. 9, chiede come sia possibile rinascere, così come dice il testo greco, anothen — avverbio che vuol dire «di nuovo» e «dall’alto» —, ricevendo da Gesù un rimprovero, perché non si vuole accogliere la sua testimonianza, che proviene da chi, quale unica persona vivente sulla terra, è disceso dal cielo. Bisogna ammettere che, per chiarire in maniera esaustiva il senso dei versetti del brano di questa festa, si rivela opportuno dare uno sguardo a quelli precedenti, a partire dal v. 11, dove Gesù sottolinea che il suo parlare deriva dall’aver veduto, azione per la quale diventa un testimone affidabile.

     Purtroppo, la sua testimonianza non è accetta, al punto tale da non volerlo ascoltare nemmeno se parla di cose della terra. Il passaggio logico del v. 12, infatti, è importante: come può Gesù parlare di cose del cielo, dal momento che gli si nega credibilità se si riferisce alle cose della terra, che di quelle del cielo sono «segno»?

     Dunque, il punto di partenza sta in questa sorta di parallelismo tra la terra e il cielo, che esprime la condiscendenza divina nella rivelazione: si parla delle cose della terra «per analogia» a quelle del cielo, affinché quest’ultime siano più chiare. Un ultimo particolare richiama la nostra attenzione: nel v. 11 Gesù usa il plurale «noi parliamo», contrapposto a un «ma voi non accogliete». Nel «noi» è da vedere Gesù che associa anche la comunità dei credenti alla sua testimonianza, rispetto al «voi» di coloro che rifiutano oltre alla sua rivelazione, anche la testimonianza dei credenti.

     Tale rapporto prosegue nei vv. 13-15: da una parte c’è la terra, rappresentata dall’avvenimento del «salire al cielo» e da quanto Mosè fece nel deserto, quando innalzò il serpente; dall’altra il cielo, richiamato dal «discendere dal cielo» e dal Figlio dell’uomo che è innalzato. La sottigliezza del ragionamento giovanneo non ci deve sfuggire: Gesù allude ad un fatto non ancora avvenuto, ossia l’ascensione, come se già fosse stato realizzato, perché la comunità «post-pasquale» rilegga insieme all’evangelista l’insegnamento della sua vita pubblica alla luce del mistero di Pasqua, per cui nessuno, al di fuori del Figlio dell’uomo, può «ascendere» al cielo se non vi è disceso per incarnarsi; allo stesso modo, un fatto già avvenuto, Mosè che innalza il serpente nel deserto, ne richiama un altro, già presente alla mente dei credenti, ma non realizzato ancora da un Gesù durante la sua vita pubblica, ossia il Figlio dell’uomo innalzato. Benché la sua esperienza sia irripetibile e non confrontabile con alcun’altra, in tutto questo complesso di avvenimenti è coinvolto anche il popolo dei credenti, venuti dopo di lui ma anche prima di lui, come l’accenno a Mosè lascia presagire.

     Se i vv. 13-14 hanno in estrema sintesi colto il nocciolo del rapporto tra terra e cielo, per cui Gesù, il Figlio dell’uomo, emerge ancora di più quale centro della creazione (Gv 1,3: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui») e della storia (il mistero pasquale), a maggior ragione questo si manifesta nel giudizio, che il v. 15 accenna: «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». La parola «giudizio», per la verità, fa parte di quei vocaboli che poco piace alla nostra mentalità moderna, ma quello che ci consola è che il Vangelo insiste primariamente sulla dimensione positiva, il dono della vita eterna, come frutto della salvezza. Perciò, l’evangelista riprende quella che potrebbe essere una formula kerigmatica molto efficace, dove si riassume il traboccante amore di Dio Padre per l’umanità, che si spinge al punto da «dare» il suo Figlio unigenito, per chiamare alla fede e alla salvezza gli uomini e, così, farli entrare nella pienezza della vita, quella eterna.

     Anche se finora non abbiamo mai pronunciato la parola «croce», tuttavia essa fa da sfondo a tutto quanto è stato detto: che cosa prefigura il serpente innalzato su di un’asta da Mosè nel deserto? A che tipo di morte si riferisce Gesù quando pronuncia il verbo «innalzare» (Gv 12,32-33: «“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire»)?».

     Infine, che cosa vuol dire il verbo «dare» nel v. 16? A quest’ultimo proposito, non si può trascurare di ricordare come questa fugace quanto profonda allusione chiami in causa Gen 22, il celebre racconto della legatura (in ebraico, aqedah) d’Isacco, pronto per essere sacrificato dal padre Abramo. È al cospetto del Figlio dell’uomo innalzato sulla croce che ciascun essere umano viene posto davanti alla scelta di credere o non credere, di preferire la luce o la tenebra, di compiere le opere buone o quelle malvage. In definitiva, è di fronte al Figlio di Dio consegnato per noi che siamo invitati a optare per la vita o per la morte: in questo consiste il giudizio.

Meditazione 

     La celebrazione odierna, che affonda le sue radici a Gerusalemme nel IV secolo, è occasione per meditare sul paradosso della salvezza cristiana: uno strumento di morte diviene strumento di vita, «simbolo della salvezza» (Sap 16,6); la morte ignominiosa di uno solo diviene causa di salvezza per tutti (Mc 10,45; cfr. Ad Gentes 3: «Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la sua vita in riscatto di molti, cioè di tutti»; «pro multis, id est pro omnibus»); l’evento storico preciso, datato, della crocifissione di Gesù, diviene portatore di una salvezza che si estende a ogni tempo passato e futuro.

     Venerare la croce non significa adorare uno strumento di morte quale essa è, ma porsi al cospetto del mistero di amore che sulla croce si è manifestato e riconoscere che l’amore del Padre che ha donato il Figlio per la vita del mondo (Gv 3,16) e l’amore del Figlio che ha consegnato se stesso per gli uomini è ciò che opera la redenzione e la salvezza. L’amore divino e trinitario, trasmesso ai credenti mediante il dono dello Spirito (cfr. Rm 5,5), è al cuore della celebrazione odierna.

     La prima lettura mostra che l’immagine bronzea del serpente, dunque di ciò che morde e da la morte, innalzata da Mosè e guardata dai figli d’Israele, dona vita e guarigione (Nm 21,8-9). Guardare in faccia il nostro male, ciò che ci avvelena, il mostro interiore che ci abita (i serpenti di Nm 21,6 e 8 sono chiamati «serpenti brucianti» e in Is 30,6 appaiono come «draghi volanti») è operazione dolorosa, ma che rientra nel cammino spirituale di trasformazione della sofferenza mortifera in sofferenza vitale.

     Giovanni pone in rapporto di continuità l’innalzamento del serpente nel deserto a opera di Mosè e l’innalzamento di Gesù sulla croce (Gv 3,14-15). Nel passo di Numeri colpisce la somiglianza fra ciò che fa perire e ciò che salva. Ma anche il crocifisso è somigliante in tutto a un peccatore, è il peccato personificato (2Cor 5,21): vedere l’innalzato crocifisso e credere in lui, significa vedere un somigliante ai peccatori, ma anche il Dio che assume e porta il peccato del mondo; significa essere svegliati alla coscienza del proprio essere peccatori e alla confessione di fede in Colui che è venuto non per condannare, ma per salvare (Gv 3,17).

     La specificazione paolina contenuta nella seconda lettura per cui la morte di Gesù è stata una «morte di croce» (Fil 2,8), ne sottolinea l’aspetto di scandalo. Questo è «lo scandalo della croce» (Gal 5,11 ). La morte in croce del Messia lo proclama maledetto da Dio (Gal 3,13), scomunicato dal suo gruppo religioso, bandito dalla società civile. Croce dice infamia, disonore, ignominia. La morte di croce poteva essere augurata come macabra e somma ingiuria per i nemici, come mostra un graffito trovato sui muri di Pompei: «Che tu sia crocifisso». Dire morte di croce, significa dunque anche dire traversata degli inferi, raggiungimento del punto più basso nella scala dei valori umani e religiosi. È proprio questa discesa negli abissi dell’Ade simbolizzata dalla croce che evoca al meglio il carattere universale della salvezza di Dio. La croce, da simbolo disgraziato e tragico, diviene apertura alla più sconfinata speranza: il cielo non abita solo sulla terra, ma anche negli inferi. Questa è la croce a cui il cristiano può rivolgersi cantando: Ave crux, spes unica!

     Nella celebrazione odierna può trovare spazio anche una meditazione sul simbolo della croce. Diffuso in molte culture ben prima che nel cristianesimo, il simbolo cruciforme, con l’intersecarsi delle due linee rette che si estendono in quattro direzioni e partono da un punto centrale, è simbolo di orientamento nel mondo. Spesso associato all’albero, il simbolo della croce evoca la dimensione ascensionale verso l’invisibile, il celeste, il divino. L’uomo ritto in piedi con le braccia aperte disegna la figura della croce è fa sì che il simbolo della croce sia chiave ermeneutica che consente all’uomo di decifrare se stesso e il mondo e di situare se stesso nel mondo. Tutti questi significati, nella croce cristiana, sono assunti in Cristo e la rendono la realtà che è «veramente capace di farci conoscere Dio» (Lutero). 

Preghiere e racconti 

Guardare in faccia la croce

«La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?

Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.

Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.

Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.

Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 29).

La croce, volto dell’amore

Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).

La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini.

(CVMC, 14).

La croce, gonfalone di Cristo

Le quattro estremità della croce:

una tende verso il firmamento,

l’altra verso l’abisso,

la terza verso Oriente,

e l’altra verso Occidente.

E così, è davvero il segno

che Cristo tiene tutto in suo potere.

La croce è il vero gonfalone

del solo re da cui tutto dipende,

che bisogna a ragione seguire,

facendo la sua volontà,

più ci si dà da fare e più si ha.

E ogni uomo che voglia seguirlo

è sicuro di aver scelto la parte migliore.

(Peire Carena).

Il piccolo seme

“La croce -scriveva Simone Weil-  è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”. 

La via maestra della santa croce

Per molti è questa una parola dura: rinnega te stesso, prendi la tua croce e segui Gesù. Ma sarà molto più duro sentire, alla fine, questa parola: «Allontanatevi da me maledetti, nel fuoco eterno». In verità coloro che ora accolgono volenterosamente la parola della croce non avranno timore di sentire, in quel momento la condanna eterna.

Ci sarà nel cielo questo segno della croce, quando il Signore verrà a giudicare. In quel momento si avvicineranno, con grande fiducia, a Cristo giudice di tutti i servi della croce, quelli che in vita si conformarono al Crocifisso. Perché, dunque, hai paura di prendere la croce, che è la via per il regno?

Nella croce è la salvezza; nella croce è la vita; nella croce è la difesa dal nemico; nella croce è il dono soprannaturale delle dolcezze del cielo; nella croce sta la forza della mente e la letizia dello spirito; nella croce si assommano le virtù e si fa perfetta la santità. Soltanto nella croce si ha la salvezza dell’anima e la speranza della vita eterna.

Prendi, dunque, la tua croce, e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna. Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce ed è morto in croce per te, affinché tu portassi la sua croce, e desiderassi di essere anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto per lui, con lui e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria. Ecco, tutto dipende dalla croce, tutto è definito con la morte. La sola strada che porti alla vita e alla vera pace interiore è quella della santa croce e della mortificazione quotidiana. Va’ pure dove vuoi, cerca quel che ti piace, ma non troverai, di qua o di là, una strada più alta e più sicura della via della santa croce. Predisponi pure e ordina ogni cosa, secondo il tuo piacimento e il tuo gusto; ma altro non troverai che dover sopportare qualcosa, o di buona o di cattiva voglia: troverai cioè sempre la croce.

(Imitazione di Cristo).

Perché sia resa gloria a Dio

La croce è innalzata sulla terra non perché le si dia gloria; da che cosa potrebbe essere accresciuta la sua gloria dal momento che essa porta su di sé il Cristo crocifisso? La croce è innalzata perché sia resa gloria a Dio che su di essa è adorato e attraverso di essa è an-nunziato. […] Giustamente la chiesa, trovando la sua gioia nella croce del Signore riveste il suo abito di festa e appare in tutta la sua bellezza nuziale per onorare questo giorno. Giustamente questa grande folla è oggi radunata per vedere la croce e adorare Cristo che essa contempla innalzato sulla croce. Essa è offerta agli sguardi per essere esaltata ed è innalzata per essere rivelata. Qual è dunque questa croce? È quella che fino a poco fa era nascosta sul Calvario e ora è adorata in ogni luogo. Essa è causa della nostra gioia e noi la celebriamo; questo è il senso di questa festa. Era necessario, era necessario che questo legno che era nascosto e che ha dato la vita, diventasse visibile e fosse mostrato all’universo intero come una città collocata su un monte o una lampada posta sul candelabro (cfr. Mt 5,14-15). […] Quando adoriamo Cristo sulla croce, comprendiamo la grandezza della sua potenza e quante meraviglie ha operato per noi, come dice il divinissimo David: «Il nostro Dio, re eterno, ha operato la salvezza sulla faccia della terra» (Sal 73 [74], 12). […] Con la croce i discepoli di Cristo hanno lavorato la natura umana infeconda, come con un aratro. Hanno reso fertili e verdeggianti i campi della chiesa, hanno mietuto la messe di coloro che hanno creduto in Cristo. Dalla croce sono stati fortificati i martiri e con la loro morte hanno vinto quelli che li colpivano. Dalla croce Cristo è stato riconosciuto e la chiesa dei credenti, tenendo sempre aperte le Scritture, ci presenta Cristo, il Figlio di Dio, Dio in se stesso che proclama a gran voce: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Lc 9,23).

(ANDREA DI CRETA, Omelia 11 per L’Esaltazione della santa Croce, PG 97,1036-1045 passim).

Porta ogni giorno la croce del Signore

Se anche tu fossi

così sottile e sapiente

da possedere ogni scienza

e interpretare ogni lingua

e scrutare i segreti del cielo,

di tutto ciò non potresti gloriarti,

perché un dèmone, da solo,

seppe delle cose celesti,

e ora sa delle terrene,

più di tutti gli uomini.

E se anche tu fossi il più bello

e il più ricco tra tutti gli uomini

e facessi cose mirabili,

come mettere in fuga i dèmoni,

tutto ciò non ti appartiene,

e non puoi affatto gloriartene.

Solo delle nostre infermità,

di questo solo possiamo gloriarci,

portando ogni giorno

la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo.

(San Francesco D’Assisi).

Per crucem ad lucem

Io non vedo, Signore, la tua faccia;       

e, neppure, più su delle stelle,                

la tua Santa Casa inviolabile                  

posata sulle palme degli Angeli.                                                          

Ma vedo lassù, in questa notte,              

con gli occhi infantili d’una volta,           

lo stesso giardino azzurro,                      

tutto fiori d’oro,                                       

dal quale Tu, Cuore dei Cieli,                 

sei circondato e nascosto,                       

Quaggiù, tra veli d’ombra,                       

la terra s’è coricata;                                 

e mentre respira nel sonno,                     

parlotta come chi sogna,                         

sopra le scintillano, a miriadi,                

le sue lontanissime sorelle.

Ti adoro dunque, Signore,

per quel tuo gran giardino capovolto,

le cui tante rame fiorite

sono costellazioni e sistemi di mondi.

Anche noi, Signore,

tuoi ultimi angeli senz’ali,

impastati di fango

e anneriti di peccato,

abbiamo per luogo d’esilio

una sanguigna stella.

Ma vi s’incarnò il tuo Verbo;

e sull’orme della morte

rintracciata l’erta via della Vita,

con Lui, vacillando sotto la Croce,

possiamo ascendere fino a Te.

(D. Giuliotti).

Salve, o Croce, speranza di salvezza

Salve, o croce, segno indelebile

che sei nelle mani dell’Altissimo.

Salve, o croce, spirito di vita,

che sei nel cuore di quelli che in Te credono.

Salve, o croce, scettro degli angeli,

che doni la vita a ogni uomo. 

Salve, o croce, arma potente

donata a noi cristiani.

Salve, o croce, segno sacro

che scacci gli spiriti maligni.

Ci prostriamo davanti alla croce

del nostro Signore Gesù;

Croce, arma potente di Dio Padre.

Ci prostriamo davanti alla croce

del nostro Salvatore;

Croce, segno di salvezza che Egli ha portato.

Salve, o croce, segno della fede

donato alla Chiesa.

Salve, o croce, legno immortale

che doni la Vita,                                                              

Croce, su cui il Signore è stato inchiodato.                                   

Salve, o croce, speranza di salvezza.

(Preghiera copta).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIV DOM TEMP ORDINARIO ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE (A)

Dal percorso formativo per collaboratori della catechesi diocesana

La formazione è elemento decisivo nell’evangelizzazione e nella catechesi per cui è prioritario il compito dell’animazione e preparazione dei catechisti. Il Corso, tenutosi a Monopoli, è stato rivolto ai collaboratori degli Uffici Catechistici Diocesani, ai componenti delle équipe regionali e diocesane, agli incaricati della catechesi delle aggregazioni ecclesiali e a quanti hanno responsabilità formativa nei confronti dei catechisti di base. Il suo obiettivo è stato quello di qualificare i partecipanti nella conoscenza delle dimensioni portanti della catechesi italiana attuale, abilitandoli a collaborare nelle équipe diocesane di catechesi e a comunicare quanto appreso ai catechisti.

Ecco i materiali:

monopoli

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Lassi adhd

oppositivo provocatorio

Se vuoi costruire una nave.def. docx

Cambia l’oratorio: sempre meno preti, più cinema e musica e tra i ragazzi è boom

Crescono le strutture e le presenze in tutta Italia. Perché aggregano (“C’è vita oltre la play-station”), sono economici, creativi e creano posti di lavoro. Come quelli dei giovani animatori che sostituiscono i religiosi.

ASSISI –  Sono orgogliose, Valentina e Federica. Assieme all’amico Cristian, quest’anno hanno inventato un nuovo gioco, il “Calcetto ramazzato”. “Si gioca col pallone ma invece dei piedi si usa una scopa. E abbiamo organizzato anche la Dama umana”. Arrivano da Cerfignano, in Puglia. Età compresa fra i 16 ed i 18 anni. “Nel nostro paese di 1.600 abitanti alla festa organizzata dall’oratorio hanno partecipato quasi in mille, fra piccoli, ragazzi e ragazze e adulti. Insomma, c’erano tutti. 

E pensare che fino a cinque anni fa, quando non c’era l’oratorio, l’estate era solo una pausa vuota fra la fine delle scuole e l’inizio del nuovo anno fra i banchi”. “L’oratorio – dice il parroco, don Pasquale Fracasso – è diventato il cuore e il motore della parrocchia e non solo. Ci vengono anche le nonne, a preparare i pasti dei bambini. Da noi, se non ti inventi qualcosa, d’estate puoi solo guardare i turisti che vanno verso il mare”. 
Strano mondo, quello degli oratori. Ci trovi ragazzi come Simone, 16 anni, di Tor Bella Monaca a Roma, che ti spiega come “un giovane non può vivere solo di play-station. Anch’io ci giocavo, da piccolo. Ma poi all’oratorio scopri che il mondo vero è più bello e soprattutto più vivo. Ci trovi amici in carne e ossa, e se giochi a calcio o pallavolo non usi solo i pollici. Io ci sono quasi nato, in un oratorio: sono un utente e poi operatore di terza generazione. Mi diverto, soprattutto, ma mi sento anche utile. In un quartiere difficile come il nostro, c’è bisogno di molte mani, per cambiare le cose”. 
Non sono casi isolati, Simone e gli altri. Quest’anno i bambini e ragazzi accolti nel Grest (Gruppo estivo) e negli altri oratori sono stati 2 milioni, mezzo milione in più rispetto a due anni fa. Settemila le strutture aperte, 300mila gli animatori. Millecinquecento di loro sono ad Assisi, per il secondo happening nazionale, a discutere di “LabOratori di comunità”. Molte cose sono cambiate, in questi ultimi anni. E non è finita. 
“Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa… Ora mi annoio più di allora, nemmeno un prete per chiacchierar”. Le parole di “Azzurro” in fondo erano una profezia. “Abbiamo sempre avuto – dice infatti don Marco Mori, presidente del Forum degli oratori – i sacerdoti come responsabili. È forse l’ora di decidere che ci siano anche i laici a fare questa cosa. Ci vogliono figure preparate e responsabili, in grado di portare avanti questa storia che è ancora da scrivere”. 
In alcune realtà l’oratorio senza prete è già una realtà. “A Milano, secondo la tradizione – racconta don Samuele Marelli – i sacerdoti giovani non solo seguivano l’oratorio, ma ci abitavano anche. Dopo il Concilio è nata una corresponsabilità fra laici e presbiteri. Ora una fondazione cura la formazione dei “direttori laici di oratorio”, che hanno un contratto full time, con stipendi da 1.100, 1.200 euro al mese per 38 ore di lavoro”. 
Mille gli oratori nella diocesi milanese aperti tutto l’anno, 150 a Roma quelli organizzati almeno d’estate. Nella gran parte del Paese a guidare i ragazzi è però ancora il sacerdote, che non indossa più la talare – doveva tirarla su per tirare due calci al pallone o fare l’arbitro – ma resta guida e responsabile di ogni attività. 
“La sua presenza non è più necessaria – dice don Marco Mori – perché l’oratorio è cambiato. Un tempo si pensava che l’educazione dovesse arrivare dall’alto e il sacerdote era il fulcro di tutto. Ora vogliamo invece che gli stessi ragazzi diventino protagonisti, diventando operatori già a 14 o 15 anni. Il segreto del boom dell’oratorio? È diventato simpatico, fruibile, vicino ai ragazzi che vengono volentieri perché non “usano” un servizio già preparato ma sono chiamati a inventarlo. “Ci interessa il teatro” e allora lo facciamo assieme. Così per lo sport, i giochi, la musica, il cinema… Tutto questo alla luce del sole. Gli oratori sono nel centro dei paesi, le famiglie conoscono programmi e progetti. Certo, nella nostra crescita ha pesato anche la crisi economica. In estate se vai a un centro sportivo ti chiedono 250, 300 euro alla settimana, l’oratorio in media costa 30 euro, quaranta se è previsto anche il pasto”. 
Per i baby operatori si fanno incontri di formazione. Per i direttori senza tonaca c’è anche un corso di perfezionamento all’università di Perugia, dedicato a “Progettazione, gestione e coordinamento dell’oratorio”. Un anno di studio, riservato ai già laureati. “Tutto cambia”, dice Marco Moschini, docente di filosofia teoretica e direttore del corso. “Per insegnare alle elementari un tempo bastavano quattro anni di Magistrali e adesso serve una laurea quinquennale. Se lo guardi da fuori, l’oratorio sembra avere una gerarchia, con il responsabile, gli animatori e sotto ancora i bambini ed i ragazzi. È invece un solo universo, un unico progetto, che deve rapportarsi con esigenze sociali, ecclesiali e territoriali. È un presidio educativo e ha bisogno di figure specializzate. Accoglie gli individui e forma una comunità. Per questo è necessaria una progettazione didattica e serve anche una pedagogia dell’inclusione”. 
Il corso è iniziato due anni fa, 50 iscritti in media. “Quest’anno abbiamo anche 3 frati e 4 sacerdoti, ovviamente già laureati. Loro sono venuti per fare meglio un lavoro già sicuro, ma anche altri giovani hanno trovato un mestiere e anche uno stipendio”. Andrà avanti fino a domenica, l’happening. Canzoni, cori, preghiere, incontri con vescovi e cardinali, caccia alle idee da portare a casa. A salire per primi sul palco del grande teatro Lyrick sono stati i Big, Brother in God, fratelli in Dio. 
Cena con due panini e una pesca. Meglio l’oratorio, in cucina resistono ancora le nonne.
 
 
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Fino a poco tempo fa le freddure sarcastiche non gradite venivano liquidate come gag da oratorio: come se quei centri d’accoglienza diocesani rappresentessaro il prototipo negativo tout court: quante volte, allo stesso Renzi, sono state rimproverate «battute da oratorio»? Oggi, invece, con una realtà scolastica sempre meno aggregante. Nella solitudine dell’auto-reclusione internetica. In era da abbrutimento da playstation e di tramonto della comitiva del muretto, la dimensione aggregante dell’oratorio conquista sempre maggiore terreno sociale. Tanto che, dati alla mano, quelle strutture fondate nel XVI secolo a Roma da San Filippo Neri, che raccontano un capitolo importante della storia della Chiesa, risultano declinate sempre più efficacemente alla realtà metropolitana, e non come luoghi di proselitismo, ma centri comunitari il cui motore immobile è l’accoglienza. E allora, dalle grandi città alle piccole realtà di più piccole zone di frontiera, ad oggi gli oratori risultano i luoghi d’incontro più frequentati e richiesti, oltre che diffusi e innestati a vari livelli sul territorio, con stime davvero soddisfacenti: si calcola che siano circa settemila gli istituti capaci di coinvolgere nelle loro poliedriche attività due milioni di ragazzi e bambini dai sei anni all’adolescenza, gestiti da circa trecentomila operatori volontari, sempre più spesso coordinati da figure laiche: in molti casi, infatti, l’oratorio senza sacerdote è una realtà assodata e praticata.

È una parte significativa del futuro del Paese, dunque, quella che si raduna negli oratori. Oratori che, dalla Locride alla Lombardia, da Scampia all’Umbria, passando ovviamente per la capitale e dintorni, puntano su formule di socializzazione capaci di mescolare alchemicamente tradizione e globalizzazione, fino alle evoluzioni laboratoriali di ultima generazione che molto sconfinano nella formazione studentesca e parauniversitaria. Non solo calcetto e catechesi, insomma: ma una dimensione multiforme sempre più al passo coi tempi e sempre più radicata nel contesto urbano, chamata ad ovviare alle carenze di un welfare anacronisticamente lontano dalle esigenze civiche quotidiane e sordo alle nuove necessità giovanili. Un presente, allora, quello dell’oratorio, vissuto come comunità sociale prima ancora che squisitamente ecclesiale, che racconta una nuova storia – culturale, assistenziale ed associativa – tutta da scrivere.

«La Chiesa? Sia esperta in post-umanesimo»

«La sfida del postumanesimo contemporaneo mette in guardia la Chiesa dal pericolo di una riduzione umanistica della fede, che al contrario indica un uomo trascendente e chiamato a superarsi nella propria storia e oltre essa. In questo senso la Chiesa dovrà anche attrezzarsi per mostrare se stessa come esperta di postumanesimo e così parlare all’uomo di oggi illuminandone il destino alla luce dell’Evangelo». È il passaggio che conclude, sintetizzandone il senso, la relazione di monsignor Nunzio Galantino all’annuale Seminario Rosminiano di Stresa, dov’è stato invitato a parlare proprio di postumanesimo e personalismo rosminiano, in vista del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze del prossimo anno (9-13 novembre) che per tema avrà proprio «In Gesù Cristo un nuovo umanesimo». Un appuntamento che secondo il segretario generale della Cei «non potrà assumere la forma di una mera esperienza intellettuale, bensì produrre una conversione culturale ed esistenziale per dar vita a un vero e proprio rinascimento, tanto più necessario quanto meno in sintonia con le mode imperanti». Certo, la capacità di «pensare il nesso profondo fra la condizione umana e la natura dell’uomo» che è imposto dalla convinzione che «l’antropologia non può essere tenuta separata dall’ontologia» – anche perché «la questione dell’io e quella del Dio di Gesù Cristo sono in ultima analisi la stessa domanda» –, «non potrà avvenire se continueremo a denigrare il nostro tempo, le sue istanze e le sue stesse provocazioni, fra cui quella del postumanesimo o del transumanesimo». A mostrare alla Chiesa di oggi l’efficacia di questa apertura consapevole verso la cultura contemporanea, secondo Galantino, è proprio Rosmini, che seppe «cogliere nell’antropocentrismo del pensiero moderno una preziosa opportunità per la fede e la teologia». Per il segretario dell’episcopato italiano, «nonostante il nostro tempo sembri pervaso da una conoscenza caratterizzata prevalentemente dall’assemblaggio dei dati e delle informazioni – o forse proprio per questo – si rende urgente quella che Rosmini chiama “meditazione dell’uomo”, in uno spazio di libertà e di distanza, che la Chiesa può contribuire a custodire ed abitare». È proprio «questa capacità di “pensiero meditante”» che «incrocia lo stesso sapere scientifico e la tecnica senza demonizzarne i contenuti e gli esiti, senza sentirsi minacciato ed emarginato, ritenendo al contrario che le risorse non possono diventare minacce se non a partire da tendenze ideologiche e di dominio, spinte dalla tentazione del potere», un trend cui purtroppo assistiamo in ambiti come la biomedicina. Il cristiano – e la Chiesa con lui – al cospetto della cultura postumana caratteristica della nostra epoca non deve vivere complessi di inferiorità: infatti sa che «la rivelazione feconda la ragione nel tentativo non solo di pervenire alle verità fondamentali relative al senso dell’esistenza, bensì anche nello sforzo di costruire la città terrena, ponendo le fondamenta della civile convivenza dei popoli fra loro e di un popolo al suo interno». In questo senso il «riferimento cristocentrico» della Chiesa è «fondamentale» proprio perché propone «una visione dell’uomo in cammino» e chiama «l’esistenza a un continuo superamento» per poter raggiungere il proprio fine, che è la partecipazione alla vita divina». Di fronte «all’istanza-minaccia del postumano», aggiunge il vescovo di Cassano all’Jonio, non si pone «un’astratta natura umana, concepita in senso statico e impermeabile alla condizione umana, ma la persona». Un cristianesimo che, forte di questo fondamento culturale, vive nel mondo senza chiusure né ingenuità garantisce che «il personalismo» non diventi «mai un’ideologia, bensì solo e soltanto una prospettiva», consapevole che «la postmodernità» non è «fenomeno congiunturale» ma «epocale» e dunque esige «un discernimento per il quale abbiamo bisogno di un “nuovo pensiero”, ossia di categorie e prospettive diverse da quelle del passato»: «Attraverso una filosofia dinamica dell’essere – conclude Galantino – il lavoro degli intellettuali del nostro tempo potrà contribuire alla vigilanza sulla persona e alla sua custodia, nonché al suo sviluppo in un oltre che la trascende e ne rivela tutte le potenzialità, senza nulla distruggere o disperdere di quanto ci è stato donato».

Iniziative: missione famiglie, accendi la speranza

Evangelizzazione, musica, spettacoli, preghiera, catechesi, fraternità, giochi, stand e mercatini. C’è tutto questo alla “Missione Famiglie: accendi la speranza”, giunta alla quinta edizione, che si svolge dal 4 al 7 settembre presso la Parrocchia Santa Maria di Loreto a Castelverde, periferia est di Roma. Una missione che pone al centro la famiglia e l’evangelizzazione, in vista del Sinodo dei vescovi sulla famiglia di Ottobre. Ad essere coinvolti nell’organizzazione, infatti, una cinquantina di famiglie che daranno vita all’evento ‘con’ e ‘per’ le famiglie. L’iniziativa è stata benedetta anche da Papa Francesco che ha voluto inviare un messaggio a tutti i partecipanti e che verrà letto durante la celebrazione eucaristica di domenica 7 settembre. 

Ricco il programma delle cinque giornate, tra testimonianze, musical e dibattiti. Si parte giovedì 4 settembre con il concerto di musica cristiana della band “The only way”: sul palco saliranno sei giovani artisti, semifinalisti del “Good New Festival”. Seguirà la testimonianza di Beatrice Fazi, attrice, che racconterà la sua esperienza di conversione, fede, speranza e famiglia. “Sono molto felice di partecipare a questa iniziativa che servirà innanzitutto a me e alla mia famiglia a riprendere con più vigore il cammino di un altro inverno – afferma Beatrice Fazi – queste occasioni di condivisione sono fondamentali per riaccendere la speranza nei nostri cuori: ciò che ho sperimentato essere vitale nella mia storia è la relazione con gli altri e la consapevolezza di essere tutti in cammino verso un’unica meta”. Il 5 settembre sono in programma: un intervento di Federico Iadicicco, della rivista “Pro Vita” (sarà presente anche il fondatore Toni Brandi) e a seguire la catechesi di monsignor Giuseppe Tonello, Cancelliere del Vicariato di Roma.

Il 6 settembre è la giornata dei giovani. Monsignor Enzo Dieci, vescovo emerito del settore nord di Roma, che Papa Benedetto XVI ha inviato in Perù come vescovo ad gentes, incontrerà i giovani per parlare di missione ed evangelizzazione: come essere oggi testimoni di fede, fino agli estremi confini della terra, seguendo l’invito di Papa Francesco. La giornata si concluderà con una catechesi di don Fabio Rosini, responsabile dell’Ufficio Vocazioni del Vicariato di Roma.

“Oggi tutti cercano di rubarci il dono più prezioso che c’è, la Famiglia – afferma Maria Laura Sadolfo, una delle organizzatrici – e per questo noi andiamo contro corrente e ogni anno, alla fine del torpore estivo diciamo: Famiglia svegliati! vieni fuori, alzati rivestiti di luce, perchè viene la tua luce!”. 

L’ultima giornata, domenica 7 settembre, sarà caratterizzata dalla celebrazione presieduta da monsignor Marco Sozzi, inviato da monsignor Rino Fisichella , presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione. In serata, un gruppo di giovani darà vita al Musical sui 10 comandamenti realizzato in occasione dei 20 anni del percorso sui 10 comandamenti, iniziato nel 1993 da don Fabio Rosini, e scritto dai ragazzi del gruppo teatrale “Luci nella notte”.

I dieci consigli di Papa Francesco per essere felici

Papa Francesco ha rilasciato una lunga intervista al giornale argentino El Clarin (riportata in Italia da Vatican Insider). Un’occasione per Bergoglio per rilasciare particolari della sua infanzia e svelare il suo ‘portafortuna’ (una medaglietta del Sacro Cuore regatagli da una donna “che aiutava mia mamma a lavare la biancheria”). Tra le altre cose, nell’articolo – firmato dal giornalista Pablo Calvo, nato da un incontro avvenuto lo scorso 7 luglio a Santa Marta ed uscito in un numero speciale dedicato ai primi 500 giorni del pontificato del Santo Padre – è stato ripreso anche una sorta di decalogo: dieci consigli per vivere sereni.

1 – Vivi e lascia vivere

Il Papa ha spiegato che ognuno dovrebbe avere come guida questo principio, che a Roma è riassunto nell’espressione “Campa e lascia campare”. “Vai avanti e lascia che gli altri facciano altrettanto”.

2 – Donati agli altri

Le persone, ha spiegato il Papa, hanno bisogno di essere aperte e generose verso gli altri perché “se si chiudono in loro stesse corrono il rischio di diventare egoiste. E l’acqua stagnante diventa putrida in fretta”.

3 – Procedi con calma

Per spiegare questo punto, Papa Francesco ha usato il personaggio di un romanzo di Ricardo Güiraldes, in cui il protagonista – Don Segundo Sombra gaucho – guarda indietro e rilegge la sua vita: “Dice che in gioventù era un torrente pieno di pietre che si portava dietro tutto, da adulto era un fiume impetuoso, e in età avanzata si muoveva ancora, ma lentamente”. Ha detto che gli piace quest’ultima immagine, quella di una pozza d’acqua calma, perché rappresenta “la capacità di muoversi con gentilezza e umiltà, una calma nella vita”. Gli anziani hanno questa saggezza, “sono la memoria del popolo”.

4 – Preserva il tempo libero

Il Papa ha citato l’arte, la letteratura e il fatto di trovare del tempo per giocare con i propri figli. “Il consumismo ci ha portati all’ansia di perdere una sana cultura del tempo libero”. Ha detto che bisogna spegnere il televisore quando ci si siede a mangiare: anche se la televisione è utile per tenersi aggiornati, a tavola impedisce “di comunicare” con gli altri.

5 – Trascorri la domenica in famiglia

La domenica è un giorno di festa: “L’altro giorno, a Campobasso, sono stato a un incontro tra il mondo dell’università e il mondo operaio: tutti chiedevano la domenica non lavorativa. La domenica è per la famiglia”.

6 – Troviamo modi creativi per dare lavoro ai giovani

“Dobbiamo essere creativi con i giovani. Se mancano le opportunità, è facile che cadano nella droga. E tra i giovani senza lavoro il tasso di suicidi è molto alto. (..) Non è sufficiente dar loro da mangiare: bisogna inventare corsi di un anno da idraulico, elettricista, sarto. La dignità è data dal fatto di portare il pane a casa”.

7 – Prendiamoci cura della natura
Il degrado ambientale “è una delle più grandi sfide a cui siamo chiamati”.

8 – Dimentica in fretta le cose negative

“La necessità di parlar male degli altri indica una bassa autostima. Vale a dire: mi sento così poca cosa che invece di migliorare cerco di peggiorare il prossimo. Lasciar andare le cose negative in fretta è una cosa sana”.

9 – Rispetta il pensiero degli altri senza proselitismo

Le credenze altrui vanno rispettate: “Possiamo ispirare gli altri attraverso la testimonianza così che si cresca insieme, ma la cosa peggiore che ci possa essere è il proselitismo religioso, che paralizza: parlo con te per convincerti. No. Ogni persona dialoghi a partire dalla propria identità. La Chiesa si sviluppa per attrazione, non per proselitismo”.

10 – Lavora per la pace

“Viviamo in un tempo di molte guerre”, ha detto il Papa, e “la richiesta di pace deve essere gridata. La pace a volte dà l’impressione di essere qualche cosa di tranquillo, ma non è mai quiete: è sempre una pace attiva”.

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Nota pastorale sulla scuola cattolica

Sono trascorsi più di trent’anni dalla pubblicazione dell’ultimo documento della Chiesa italiana sulla scuola cattolica ed è sembrato giusto e doveroso che la Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università tornasse ad esprimersi sull’argomento con una nuova Nota pastorale dal titolo La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società.
In questi ultimi trent’anni è cambiata la società italiana, si è rinnovato il sistema scolastico con una serie di riforme, ma soprattutto è intervenuta la legislazione sulla parità scolastica che, nonostante i ben noti limiti, ha integrato le scuole cattoliche nell’unico sistema nazionale di istruzione.
Ci troviamo inoltre nel pieno del decennio dedicato dalla Chiesa italiana all’educazione e dunque era necessario soffermarsi sulla speciale realtà educativa della scuola cattolica. Per farlo, come è possibile notare fin dal titolo della Nota, è stata scelta la categoria della «risorsa».

Già negli Orientamenti pastorali per il decennio in corso si era parlato della scuola cattolica come «grande risorsa per il Paese» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 48). Oggi si ribadisce questo aspetto, qualificando la risorsa come «educativa» e assegnandole una specifica paternità: la scuola cattolica è una risorsa «della Chiesa locale».
Questo radicamento nella comunità cristiana locale vuole essere una sottolineatura della natura intimamente ecclesiale della scuola cattolica e suscitare quindi un duplice richiamo: alle scuole cattoliche, perché conservino e valorizzino la loro appartenenza ecclesiale, e alle comunità cristiane, affinché guardino con responsabilità e simpatia al ruolo educativo che la scuola cattolica svolge sul territorio.
Nel 1977 la Sacra Congregazione per l’educazione cattolica, per sottolineare il servizio educativo che ognuna doveva assicurare, aveva ricordato che una scuola cattolica deve essere anzitutto una scuola (La scuola cattolica¸ n. 25); e questa affermazione è puntualmente riportata nella Nota odierna. Ma si ha l’impressione che tutte le strutture scolastiche, per il fatto di appartenere a un gigantesco sistema nazionale (quasi nove milioni di alunni), siano oggi percepite come espressione di un unico organismo e perdano facilmente la loro identità particolare. E il paradigma statalista facilita enormemente questo processo. Le scuole cattoliche, invece, in quanto frutto di azione sussidiaria, cioè dell’iniziativa libera dei soggetti che vivono e animano il territorio, possono dare la prova di come ciascuna scuola abbia una sua specifica identità e sia il risultato dell’impegno educativo di una comunità.

Sul versante opposto, le Chiese locali tendono talvolta a trascurare le scuole cattoliche (o a non avvertirle come “proprie”), in quanto lo sguardo si sofferma quasi solo sul servizio scolastico offerto. La Nota intende riportare l’attenzione sul legame costitutivo e vitale tra la Chiesa locale e le singole scuole cattoliche che operano sul suo territorio. In una fase storica in cui, anche e soprattutto nel caso delle scuole statali, la scuola è vista principalmente come fonte di spesa su cui operare dolorosi ma indispensabili risparmi, si vuole ribadire che la scuola è una risorsa preziosa: una risorsa educativa e, nel caso delle scuole cattoliche, una risorsa offerta dalle Chiese locali all’intera società.
Dopo un lungo processo di riflessione ed elaborazione, conclusosi con l’approvazione del Consiglio Episcopale Permanente nel marzo scorso, la Nota pastorale viene oggi offerta a tutti, anche per rilanciare l’immagine della scuola cattolica in un momento di diffuse difficoltà.
Il documento si articola sostanzialmente in tre parti. Dopo una breve introduzione, la prima parte ha carattere descrittivo e presenta la complessa posizione della scuola cattolica oggi in Italia, nel contesto di un sistema educativo di istruzione e formazione che negli ultimi anni ha subito importanti trasformazioni. Non si può infatti comprendere la realtà della scuola cattolica se la si separa dalle dinamiche del sistema scolastico nazionale, cui la natura di scuola paritaria l’ha sempre più decisamente legata.

La seconda parte è quella di maggiore impegno teorico, pur nella sua estrema sinteticità. A partire dall’emergenza educativa, evidenziata con particolare lucidità da Benedetto XVI, si cerca di collegare la proposta culturale della scuola cattolica alla questione antropologica: non può esserci un progetto educativo senza un’idea di persona umana. Alle scuole cattoliche spetta da sempre il compito, impegnativo ma esaltante, di coniugare la cultura con la fede, assegnando alla testimonianza vissuta nella quotidiana relazione educativa un ruolo decisivo nella vita scolastica. È qui che si colloca l’identità ecclesiale e la dimensione comunitaria che ogni scuola cattolica è chiamata a sviluppare in maniera originale.
Il richiamo è molto forte per ogni comunità cristiana, dal suo vescovo ai singoli fedeli: «La scuola cattolica – dichiara la Nota – è inserita nel tessuto della Chiesa locale in modo così organico da potersi pensare che una Chiesa locale priva di scuole cattoliche abbia di che sentirsi più povera e più carente nella propria azione evangelizzatrice» (n. 13). Purtroppo l’esperienza ci dice che talvolta si verifica in alcuni ambienti della comunità cristiana «una incomprensibile disattenzione verso la scuola cattolica» (n. 22). Già trent’anni fa i vescovi avevano rilevato lo stesso problema e a maggior ragione sembra oggi necessario tornare a chiedere attenzione e condivisione per l’impegno – umano, spirituale, organizzativo, economico – che le Chiese locali assolvono in questo settore.
Purtroppo, sono note le difficoltà economiche in cui si dibattono le scuole cattoliche. La Nota torna più volte a denunciare l’ingiustizia di condizioni materiali che ostacolano l’esercizio di quella elementare libertà di scelta educativa che tutte le famiglie dovrebbero poter esercitare e che in particolare le più povere non hanno la possibilità di praticare. Più che ottenere semplici ma essenziali provvedimenti economici, appare indispensabile promuovere una cultura della parità e del pluralismo scolastico che attribuisca il corretto significato al principio costituzionale di sussidiarietà.

È sicuramente riduttivo impostare il problema in termini meramente economici, ricordando il cospicuo risparmio che deriva allo Stato dall’esistenza delle scuole paritarie: ciò che si auspica è un cambiamento di mentalità, che faccia riconoscere il valore di civiltà legato alla pluralità dell’offerta formativa e alla concreta libertà di scelta educativa delle famiglie. Una volta compreso questo valore, i sussidi economici verranno da sé.
È però fondamentale ricordare, come fa la Nota al n. 21, che una corretta impostazione del problema non può vedere la Chiesa – a livello locale e nazionale – preoccuparsi solo delle proprie scuole. Papa Francesco ce lo ha detto con la consueta semplicità e incisività nel grande incontro con la scuola italiana il 10 maggio scorso: «Io amo la scuola», tutta la scuola. È l’intero mondo della scuola che deve stare a cuore alla comunità cristiana per le infinite potenzialità educative in esso racchiuse. Anche le legittime rivendicazioni di equità nel trattamento delle scuole paritarie sono finalizzate sempre alla costituzione di un sistema nazionale di istruzione che assicuri realmente le stesse condizioni a tutti gli alunni.
Queste indicazioni trovano attuazione negli orientamenti pastorali contenuti nella terza parte del documento, in cui si chiede di attivare tutte le iniziative, anche di carattere meramente organizzativo, per rendere concreta l’attenzione per la scuola. Un aspetto sempre qualificante la scuola cattolica è la preparazione degli insegnanti: essi rimangono i primi testimoni e gli artefici immediati del progetto educativo di una scuola. Altro aspetto qualificante è l’insegnamento della religione cattolica, che meriterebbe di essere specificamente valorizzato e potenziato.

È forte poi l’esigenza di un’attenzione privilegiata ai più deboli. Le scuole cattoliche nascono proprio come scuole popolari per chi non poteva permettersi altre forme di istruzione e di emancipazione; erano un esercizio di carità e un’insostituibile occasione di recupero umano e sociale per le categorie più svantaggiate. Oggi, purtroppo e contraddittoriamente, sono percepite come scuole di élite, in quanto la loro frequenza è subordinata alla possibilità di pagare rette sempre più elevate. Nasce da qui l’invito a non disperdere una preziosa eredità dando luogo a tutte le possibili forme di sostegno affinché queste scuole siano aperte anche e soprattutto alle nuove forme di povertà e debolezza: disabili, immigrati, emarginati.
Con specifico riferimento a questo fondamentale aspetto viene ricordato infine il prezioso contributo della formazione professionale, che costituisce il necessario complemento del sistema di scuola cattolica. Gran parte degli enti che operano nel settore sono di ispirazione cristiana e forniscono un servizio in enorme espansione, che di fatto si rivolge ai giovani in maggiore difficoltà (alcuni centri, per esempio, arrivano ad avere oltre due terzi di allievi stranieri) offrendo loro una efficace occasione di crescita umana e di inserimento lavorativo. Pregiudizi di vario genere fanno considerare la formazione professionale un mondo a parte, anche amministrativamente separato dalla scuola tradizionale, ma le ultime riforme ne hanno integrato la realtà in quello che, proprio per questo motivo, ha assunto il nome di sistema educativo di istruzione e di formazione. È per questo che la Nota dedica il giusto spazio anche alla formazione professionale di ispirazione cristiana, integrandola nel più ampio sistema di scuola cattolica.
Nelle conclusioni la Nota si sofferma sulla qualità che ogni scuola cattolica deve perseguire. Le difficoltà economiche non devono far adottare soluzioni che riducano in qualche modo il livello del servizio educativo. Non si parla di efficientismo o di affanno per raggiungere i punteggi più alti negli indicatori oggi in uso per misurare la qualità delle scuole: la qualità di una scuola cattolica si misura anche, e soprattutto, per la sua capacità di accendere «la passione per la verità, l’amore, la giustizia, la solidarietà, la libertà, la legalità» (n. 37).
Con questa fiducia affidiamo le nostre riflessioni alla comunità cristiana e a tutte le scuole cattoliche italiane, nella speranza di ravvivare una sincera e costruttiva attenzione verso l’opera preziosa che le nostre scuole svolgono nella società italiana.
  

S.E. Mons. Gianni Ambrosio
(presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università)
 

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura: Ezechiele 33,1.7-9 

Mi fu rivolta questa parola del Signore:  «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.  Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.  Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu sarai salvato».

 

Se il Vangelo c’invita a essere custodi gli uni degli altri, a sua volta il testo del profeta Ezechiele indica nell’immagine della sentinella la caratterizzazione del proprio ruolo. Tale immagine, naturale in un contesto militare e in cui la guerra ha un posto importante nella vita quotidiana, come in una civiltà nella quale le mura della città erano appunto custodite da sentinelle, era immediatamente percepibile: la sentinella ha il compito di avvertire il popolo appena avvista il pericolo. Il profeta, da parte sua, non avvista i pur notevoli pericoli di eserciti nemici, bensì quelli ancora più insidiosi dell’allontanamento da Dio, dalla sua legge.

     Ciò che, però, il profeta Ezechiele afferma si rivela sorprendente perché egli non sarà sentinella nel senso che, avendo visto l’empio agire male, lo riprende di sua iniziativa. Al contrario, dovrà seguire un criterio ben preciso e determinato: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (33,7). Dunque, è Dio stesso che si preoccuperà di dare l’«allarme» alla sentinella-profeta! Dio, cioè, si renderà garante dell’oggettività del richiamo, che ha il solo scopo di conseguire la salvezza dell’empio, la cui vita, davanti agli occhi di Dio, non ha meno valore di quella del giusto, essendo Egli il creatore dell’una come dell’altra: «Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (33,8).

     Il profeta risulta perciò responsabile in caso di omissione del compito che Dio gli ha affidato: anche la vita dell’empio appartiene al Signore ed Egli non vuole certo sciuparla, perderla. Tuttavia, l’empio, da parte sua, conserva la responsabilità sulla propria vita e sul suo esito, qualora si ostini a non convertirsi: «Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (33,9). Si tratta del famoso principio della responsabilità personale, secondo il quale le colpe personali ricadono soltanto su chi le ha commesse. Di questo l’empio dev’essere altamente consapevole, sapendo comprendere e scorgere nel richiamo del profeta-sentinella l’occasione per approfittare dell’offerta di misericordia da parte di Dio.

 

Seconda lettura: Romani 13,8-10

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».  La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità. 

 

Fungere da sentinella, avvertendo con saggezza unita a fermezza circa i pericoli di determinati comportamenti, non è un compito tra i più gratificanti nell’ambito di una comunità, grande o piccola che sia. Bene lo sapevano i profeti dell’antichità come pure i profeti di oggi. Non si può negare, però, che anche questo rappresenti un vero servizio d’amore a vantaggio di un’umanità spesso disorientata. Ed è proprio sull’amore che l’apostolo Paolo invita a riflettere, insistendo su un particolare di non poco conto: l’osservanza della legge. Infatti, contrariamente a chi lo dipinge come abrogatore della legge, Paolo intende incoraggiare i cristiani di Roma a realizzare il fine proprio della legge, ossia l’amore.

     Esaminando i tre versetti del brano, iniziamo dalla prima affermazione, la cui formulazione può sembrare un po’ strana: «non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (13,8). Paolo ritiene che, se dev’esserci una qualche obbligazione tra fratelli di una comunità, questa non può che essere l’agape, l’amore, di cui ha già parlato abbondantemente in 12,9-21, esortando a essere sinceri nella carità e a non rendere a nessuno male per male, bensì a vincere il male con il bene.

     Nel versetto 9, poi, citando esplicitamente alcuni dei precetti mosaici e richiamando allusivamente gli altri, tira una conclusione che ben conosciamo, essendo tipica anche di altri passi del Nuovo Testamento, in particolare del Vangelo (Mc 12,28-31; Mt 22,34-40; Lc 10,25-28; Gv 13,34-35): «Infatti: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai”, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”». I tanti precetti della legge, cioè, in chi è giunto alla maturità della fede e dell’amore verso Dio, si rivelano riassumibili nel precetto dell’amore per il prossimo, il quale non ha bisogno di vietare, ma al contrario di spingere a fare di più per i fratelli. D’altronde, l’amore rende il cristiano più capace di vedere i bisogni di chi è il suo prossimo, non raramente anche di prevenirli.

     Infine, con il v. 10 si chiude la breve riflessione, ribadendo il rapporto tra amore e compimento della legge: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità». È utile sottolineare che quanto dice Paolo non costituisce una semplice parenesi, quasi un appello ai buoni sentimenti, ma un ritrovare nel nucleo stesso della rivelazione (la legge) le motivazioni profonde che insegnano l’agire di Dio agli uomini.

     La legge, quindi, secondo l’insegnamento paolino (cf. Romani e Galati), rimane efficace e necessario pedagogo che conduce a Cristo, giacché, in ultima analisi, colui che compie la legge si mette sulla medesima scia segnata dal Figlio di Dio, che ha interpretato la sua morte in croce come compimento della legge nell’amore. Una scia che porta alla croce, in quanto l’amore significa comunque rinunciare a se stessi per far posto a Dio e imitare la vita del Figlio.

 

Vangelo: Matteo 18,15-20

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

 

Esegesi 

     Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, rispondendo alla domanda riguardo ai fondamenti della vita di una comunità, ne presenta due di non trascurabile valore: la correzione fraterna e la preghiera in comune.

     Iniziamo dalla correzione fraterna, che viene esposta dall’evangelista in maniera abbastanza giuridica, come si deduce dal tipo di ragionamento seguito: a) v. 15, ossia la correzione in privato: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»; b) v. 16, la correzione in presenza di testimoni «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»; c) v. 17, correzione davanti all’assemblea come extrema ratio, prima dell’espulsione: «Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

     In realtà, tra i vari riferimenti del Nuovo Testamento alla correzione (Mt 7,4; Lc 6,41-42; Gal 6,1; 2Ts 3,15; 1Tm5,l; 2Tm 2,25; Tt 3.10; Gc 5,19-20), questo di Matteo è il più preciso, ma è anche quello che si rivela subito, allo stato dei fatti, il più irrealizzabile, se non nel contesto limitato di comunità come Qumran (presso la quale esisteva una disciplina precisa in proposito) e, successivamente, quelle monastiche (si pensi al capitolo delle colpe). Può darsi che nella comunità dell’evangelista, di carattere giudeocristiano, si agisse in questo modo, poiché tale prassi risente della tradizione biblica. Infatti, 18,16 cita esplicitamente Dt 19,15, mentre il concetto generale della correzione fraterna si trova in Lv 19,17: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui».

     Pur coscienti della problematicità storica di tale prassi nelle comunità antiche, non si può negare un dato: ogni membro della comunità si sente un po’ responsabile di chi gli sta a fianco, il che vuol dire che, per la salvezza del fratello e il buon nome della comunità stessa, egli ritiene proprio dovere intervenire nella correzione. Questa, poi, può addirittura giungere all’estremo dell’espulsione nei casi di perdurante ostinazione da parte di chi è stato corretto. Per confermare questo tipo di «potere» da parte della comunità. Gesù dice: «In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (18,18). Anche Dio accetta la decisione che la comunità, dopo aver attentamente ponderato ed esplorato ogni possibile strada di correzione, consideri non più discepolo l’ostinato e lo affidi alla misericordia divina affinché lo faccia ritornare sui propri passi.

     L’altro fondamento, quello della preghiera in comune, è strettamente legato a quanto abbiamo detto finora: soltanto una comunità che sa riunirsi nella concordia della preghiera e della professione di fede in Gesù Cristo può intercedere per coloro che hanno voltato le spalle al vero pastore dell’umanità. Anzi, ancora più radicalmente, il Vangelo afferma che basta essere in due, che, in accordo, possono chiedere qualsiasi cosa al Padre, perché egli la conceda. E quale cosa migliore si può chiedere al Padre se non che nessuno si perda di quelli che Egli ha chiamato?

Quando tutte le altre metodologie falliscono, non rimane che implorare dal Padre il suo onnipotente intervento per raddrizzare ciò che ha preso una cattiva piega

Meditazione

     La fede in Dio diviene responsabilità verso il fratello e questa si declina come ammonizione e correzione del fratello: questo il messaggio che unisce prima lettura e vangelo.

La correzione fraterna richiede un profondo senso di fede. Questo emerge dalle parole di Gesù secondo le quali essa deve esercitarsi nei confronti di chi «ha peccato», commettendo una colpa pubblica, non diretta in modo particolare contro l’altro. Il testo non dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te». In quel caso, rivelerà Gesù, vi è il perdono senza misura (Mt 18,21-22).

La maturità di fede consiste nel sentirsi feriti dal peccato in quanto tale, non soltanto dall’offesa personale.

     La correzione fraterna si oppone al silenzio complice, alla pigrizia di chi non vuole inimicarsi l’altro, ai meccanismi di autogiustificazione sempre pronti a trovare buoni motivi per non intervenire e non denunciare il male là dove è commesso. A livello ecclesiale la correzione corrisponde a una parola audace e profetica pronunciata a qualunque prezzo, perché di mezzo c’è il vangelo. Uno dei più frequenti peccati di omissione è il sottrarsi alla denuncia del male e del peccato, è il sottrarsi alla correzione fraterna.

     La capacità di correzione dice la libertà del credente. E anche la sua obbedienza radicale al vangelo e la sua appartenenza al Signore.

     L’autenticità dell’amore sgorgato dal vangelo si manifesta nella capacità di correggere colui che si ama. L’amore «spirituale», non psichico, vince la tentazione di tacere il peccato commesso dall’amico per timore di perderne l’amicizia. La correzione fraterna dice che l’amore cristiano deve essere vissuto all’interno della responsabilità per gli altri e per il mondo.

     La correzione fraterna va colta anche dal punto di vista di chi la riceve, che è sempre un fratello, un membro della comunità cristiana. Occorre molta umiltà e disponibilità a ricredersi e a ricominciare. L’autentica correzione fraterna non è un giudizio, e ancor meno una condanna, ma un evento sacramentale che fa regnare Cristo come terzo tra chi la esercita e chi la riceve. Essa richiede il coraggio della parola: coraggio che può nascere solo radicando la propria parola nella parola evangelica.

     I tre «gradi» del processo disciplinare nei confronti di chi ha peccato nella chiesa (Mt 18,15-17) indicano quantomeno imprudenza e la gradualità in cui si svolge il tentativo di accordare l’istanza evangelica con il rispetto del fratello peccatore al fine di recuperarlo. L’orizzonte della correzione è infatti quello espresso dal profeta Ezechiele, secondo cui Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11).

     La scomunica (Mt 18,17) appare come extrema ratio. E certamente la prassi storica delle comunità potrà e dovrà creare e inventare forme di intervento che cerchino in ogni modo di evitare l’allontanamento di un fratello. Impressiona, nella Regola di san Benedetto, la procedura prevista nei confronti di un fratello peccatore: «L’abate si comporti come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e, da ultimo, il cauterio dell’esclusione o delle battiture della verga, se vede che tutto il suo darsi da fare non serve a nulla, allora ricorra a ciò che è ancor più efficace: la preghiera sua e di tutti i fratelli per lui, affinché il Signore, che tutto può, operi la guarigione del fratello malato» (28,2-5).

     L’estensione ai membri della comunità, o almeno ai suoi responsabili, del potere di «sciogliere e legare», riservato al solo Pietro in Mt 16,19, dice l’importanza della corresponsabilità nell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. E ribadisce un principio importante della prassi sinodale: «Ciò che nel corpo ecclesiale concerne tutti, deve essere discusso e approvato da tutti».

     Se nella Chiesa vi è divisione e peccato, essa però trova la sua unità nel Nome del Signore: lì, fosse ben tra due o tre credenti, perché mai nel Nuovo Testamento la Chiesa dipende dal numero, si può creare la sinfonia (vb. symphonéo: v. 19) gradita al Signore e da lui ascoltata.

Preghiere e racconti 

Le sentenze dei padri del deserto

Per molti anni due uomini erano vissuti insieme senza mai litigare. Un giorno, uno disse: “E se litigassimo almeno una volta come fanno tutti?”. L’altro rispose: “Io non so come si fa a litigare… Il primo disse: “Ecco: io colloco un mattone fra noi due e io dico che è mio e tu dici che è tuo. È così che comincia un litigio. Collocarono quindi il mattone fra di loro. Uno disse: “È mio”. L’altro disse: “No, è mio”. Riprese il primo: “Sì  è tuo; prendilo e vattene. E si separarono senza riuscire a litigare.

(L. Regnault, Le sentenze dei padri del deserto)

Correzione con amore

«Rabbi Aronne arrivò un giorno nella città in cui cresceva il piccolo Mardocheo, il futuro Rabbi di Lechowitz. Il padre di questi gli condusse il ragazzo e si lamentò che non avesse costanza nello studio. “Lasciatemelo qui un poco”, disse Rabbi Aronne. Quando fu solo con il piccolo Mardocheo, strinse il bambino al suo cuore e in silenzio ve lo tenne vicino fino a che il padre tornò. “Gli ho fatto un discorsino” disse quindi Rabbi Aronne. “D’ora in poi la costanza non gli mancherà”. Quando il Rabbi di Lechowitz raccontava questa vicenda aggiungeva: “Ho imparato allora come si convertono gli uomini”».

(MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti,1985, 245).

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe un volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite ; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa . – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. E’ questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

L’amicizia e la correzione fraterna in S. Giovanni Crisostomo

«Più di noi stessi, se lo volete, voi potete beneficarvi a vicenda: passate più tempo insieme, conoscete meglio di noi le vostre relazioni reciproche, non vi sono nascoste le vostre mancanze vicendevoli, avete più franchezza, più amore, più consuetudine reciproca: questi non sono piccoli vantaggi per ammaestrare, anzi ne offrono una possibilità grande e opportuna; e più di noi potete rimproverare ed esortare. E non solo questo, ma io sono solo, e voi molti; e tutti potete, quanti siete, essere maestri. Perciò vi scongiuro: non trascurate questa grazia! Ciascuno ha una moglie, ha un amico, ha un servo, ha un vicino: questi ammonisca, quelli esorti. Non è un assurdo? Per il cibo si fanno banchetti e simposi, vi sono giorni stabiliti per riunirsi e quello in cui uno manca personalmente, viene compiuto dalla società, come ad esempio se si debba partecipare a un funerale, o a un banchetto, o si debba aiutare in qualcosa un prossimo. E, invece, per ammaestrare alla virtù non si fa nulla di ciò! Sì, vi scongiuro! Nessuno lo trascuri! Riceverà da Dio una grande ricompensa!

[…] «Ma non so parlare» si dice. Non c’è bisogno di saper parlare né d’eloquenza. Se vedi un tuo amico che si abbandona all’impudicizia, digli: «Ciò che fai è un’azione cattiva; non ti vergogni? Non arrossisci? È male!». Ma lui non sa che è male? si obietta. Certo, lo sa, ma la passione lo trascina. Anche gli ammalati sanno che una bevanda fredda fa loro male, e tuttavia c’è bisogno di chi glielo impedisca. Chi soffre, non sa facilmente dominarsi, se è ammalato. C’è bisogno di te, che sei sano, per curarlo; e se non riesci a persuaderlo a parole, osserva dove va e impedisciglielo, forse se ne vergognerà. «Ma che giova se agisce così per me, se solo per me se ne trattiene?». Non sottilizzare troppo: intanto distoglilo in qualsiasi modo dall’azione cattiva; si abitui a non precipitarsi in quel baratro sia per te, sia per qualsiasi altro impedimento: è già un guadagno. E quando si sarà abituato a non recarsi più là, allora, dopo che si sarà un po’ riavuto, potrai riavvicinarlo e insegnargli che bisogna evitare ciò per Dio e non per gli uomini. Non pretendere di correggerlo tutto in una volta, perché non ci riuscirai; bensì piano piano, un po’ alla volta.

E se lo vedi andare a bere, se lo vedi recarsi a banchetti dove ci si ubriaca, comportati nello stesso modo. Anzi, supplicalo di aiutarti a correggerti se vede che tu hai qualche difetto. In tal modo rivolgerà in sé il rimprovero, vedendo che anche tu hai bisogno di ammonizione, e che lo aiuti non perché sei il correttore di tutti, o il maestro, ma sei un amico e un fratello. Digli: Ho giovato a te ricordandoti qualcosa di utile; anche tu, se vedi in me qualche difetto, prendimi per i capelli e raddrizzami: se mi vedi irascibile, o avaro, frenami e legami con le tue ammonizioni. Questa è l’amicizia, così il fratello viene aiutato dal fratello e diventa una città fortificata (cf. Pr 18,19). Non è il mangiare o il bere insieme che crea l’amicizia: così l’hanno anche i ladri e gli assassini; ma se siamo amici, se veramente ci diamo pensiero l’uno dell’altro, ci dobbiamo anche accordare. E questo ci porta a un’amicizia utile e ci impedisce di precipitare nella geenna.

D’altra parte chi viene rimproverato non si turbi, siamo uomini e abbiamo difetti; e chi rimprovera non lo faccia pubblicamente, insultando e facendo mostra di sé, ma a quattr’occhi e con dolcezza; ha bisogno di tanta dolcezza colui che ammonisce, se vuole che sia ben accolto il suo discorso tagliente. Non vedete i medici, quando bruciano o quando tagliano, con quanta dolcezza applicano la loro terapia? E molto più lo deve fare chi ammonisce, perché il rimprovero è più violento del ferro e del fuoco, e fa sobbalzare. Per questo motivo anche i medici si esercitano molto per riuscire a incidere con calma, e lo fanno con dolcezza, in quanto è possibile, e incidono un poco e poi permettono di riprendere il fiato. Così si devono fare anche i rimproveri, perché chi viene ammonito non se ne sottragga. E se fosse necessario venire insultati e anche schiaffeggiati, non ricusiamolo; anche quelli infatti che subiscono un intervento urlano mille cose contro coloro che li operano, però essi non guardano a nulla di ciò, ma solamente alla salute dei pazienti. Così, anche nel nostro caso, si deve fare di tutto perché il rimprovero risulti utile, e si deve sopportare tutto guardando il premio che c’è preparato. È detto: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge del Cristo (Gal 6,2). Così, ammonendoci e sopportandoci a vicenda, potremo completare l’edificazione del Cristo».

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole . Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269). 

Correzione fraterna: la correzione evangelica          

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

Con grande misericordia e discrezione

      Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

Preghiera

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIII DOM TEMP ORDINARIO