La riforma del primo ciclo è in dirittura di arrivo

Come garantire la qualità dell’istruzione contenendo i costi? Questa è la grande sfida della nostra scuola.
Ma tale sfida presuppone un salto di qualità non solo da parte dei docenti, ma di tutta la comunità scolastica, che deve lavorare in sintonia con enti e istituzioni del territorio per andare incontro alle reali necessità del contesto in cui opera.
Infatti da anni alla scuola viene attribuita una forte responsabilità educativa e formativa che trova la sua ragione nell’elaborazione di pratiche didattiche innovative, nonché di progetti che portino gli alunni ad essere protagonisti del proprio sapere e saper essere.
L’obiettivo della scuola e quindi di ogni docente deve essere educare istruendo, individuare cioè un senso dentro la trasmissione dei saperi e delle competenze e rispondere alle domande di una specifica comunità.
Con l’avvio della riforma e l’abolizione delle compresenze si costituirà l’organico d’istituto e sul suo utilizzo si giocherà e si svilupperà la responsabilità dei dirigenti e dei docenti nell’ambito di un’autonomia sostanziale e non formale.
L’utilizzo dell’organico d’istituto dovrà allora essere indirizzato ad obiettivi comuni e realistici, non rispondere a logiche di tipo personalistico o di una singola classe, nel rispetto comunque della libertà di educazione e di metodologie didattiche del docente.
Il Collegio docenti potrà trasformarsi così da luogo di decisioni prese altrove in un gruppo di lavoro di professionisti, tesi ad individuare obiettivi, indicatori di risultato e quindi di qualità, a monitorare, valutare e correggere la propria azione educativa rispetto alla progettazione della risposta complessiva della scuola, sentendosi parte di una comunità e avvertendo una forte responsabilità collettiva.
Da quanto detto si capisce che la vera sfida della scuola è l’autonomia che, se è effettiva, deve diventare anche creativa: tiene conto dei bisogni emergenti degli alunni, della realtà territoriale e delle risorse finanziarie disponibili.
Oltre all’assegnazione dell’organico d’istituto è auspicabile una maggiore flessibilità nell’utilizzo dei fondi con l’assegnazione alle scuole di tutte le risorse di cui hanno diritto, senza nessun vincolo di spesa predefinito, per la realizzazione compiuta dell’autonomia.
Se la riforma “Gelmini” si pone l’obiettivo non solo di razionalizzare i costi, ma anche di migliorare la qualità d’insegnamento e favorire la libertà di scelta educativa della famiglia è indispensabile responsabilizzare le scuole e i docenti ridefinendo il profilo della loro professione e operando una revisione del loro stato giuridico.
da www.ilsussidiario.net _________________ Il Regolamento sulla riforma del primo ciclo è in dirittura d’arrivo e contiene novità rilevanti soprattutto sul piano organizzativo, che tuttavia vanno ad incidere anche sul piano educativo-didattico.
Per quanto riguarda la scuola primaria, in estrema sintesi, dall’anno scolastico 2009/2010, a partire dalle classi prime, le famiglie potranno scegliere fra due modelli base di 24 o 27 ore settimanali, che prevedono un unico maestro di riferimento oppure richiedere, sulla base dell’organico assegnato alla scuola, un modello orario di 30 ore con attività facoltative o di 40 ore (tempo pieno) con conferma dell’organico del T.P.
Si prevede la soppressione del modulo a più maestri e delle compresenze, mentre l’insegnamento dell’inglese e il sostegno non subiscono variazioni.
È chiaro che tutta la partita nella primaria verrà giocata sulla dotazione organica d’istituto, assegnata a ciascuna istituzione scolastica.
Quale che sia il modello orario che sarà prospettato alle famiglie (24-27-30-…) l’organico delle classi non a tempo pieno è determinato a 27 ore.
Tale quadro, che vede in un certo senso l’abbandono di consolidate abitudini, genera nei docenti una serie di perplessità che vanno a toccare sia lo svolgimento del loro lavoro quotidiano, sia il loro rapporto contrattuale di lavoro con il timore inoltre di non rendere un servizio di qualità e soprattutto di non poter svolgere un insegnamento basato sulla personalizzazione, tanto auspicato dalla riforma Moratti.

Il teologo protestante Reinhold Niebuhr maestro di Obama

Se il realismo di Niebuhr arriva alla Casa Bianca di Gianni Dessì In un colloquio di qualche tempo fa con David Brooks, uno dei più noti tra i commentatori politici conservatori del “New York Times”, il neoeletto presidente Obama ha ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori preferiti (1).
Niebuhr, figura poco nota in Italia, è stato un teologo protestante, insegnante di etica sociale alla Columbia University di New York, che ha avuto una grande influenza sulla cultura politica nordamericana almeno a partire dal 1932, anno nel quale pubblicò “Uomo morale e società immorale”, sino al 1971, anno della sua morte.
Al suo realismo politico si sono riferiti intellettuali e politici, conservatori e liberali.
Hans Morgenthau e George Kennan, i più noti tra i liberali conservatori che nell’immediato dopoguerra elaborarono quell’insieme di motivazioni che avrebbero costituito il riferimento intellettuale di molti americani negli anni della guerra fredda, della contrapposizione al blocco sovietico, si riferirono esplicitamente a Niebuhr e al suo realismo politico (2).
D’altra parte anche Martin Luther King, certamente non un conservatore, fu particolarmente sensibile alle critiche di Niebuhr all’ottimismo della cultura liberale e all’idea che la giustizia potesse essere realizzata attraverso esortazioni morali: egli riconobbe che doveva a Niebuhr la consapevolezza della profondità e della persistenza del male nella vita umana (3).
Obama, intervistato da Brooks, affermava di dovere a Niebuhr “l’idea irrefutabile che c’è il male vero, la fatica e il dolore nel mondo.
Noi dovremmo essere umili e modesti nel nostro credere di poter eliminare queste cose.
Ma non dovremmo usarlo come scusa per il cinismo e l’inattività”.
In poche espressioni vengono sottolineati alcuni aspetti essenziali delle posizioni di Niebuhr.
L’idea che dal mondo siano ineliminabili “il male vero, la fatica, il dolore” rimanda alla critica di Niebuhr all’ottimismo che egli riteneva uno dei tratti costitutivi del pensiero religioso e sociale americano; così l’idea che anche colui che agendo politicamente si trovi a lottare contro la presenza dell’ingiustizia e del male debba essere “umile”, rinvia alla consapevolezza che non è possibile eliminare il male dalla storia ed è pericolosa illusione crederlo.
D’altra parte tale persistenza del male non può essere scusa per “il cinismo e l’inattività”.
Viene delineata una posizione che intende evitare sia “l’idealismo ingenuo” sia il “realismo amaro” (nel linguaggio di Niebuhr: sia il sentimentalismo sia il cinismo).
Come nelle opere di Niebuhr si definisce questa prospettiva? Quali i suoi riferimenti storici e culturali? Luigi Giussani, in Italia, già dalla fine degli anni Sessanta aveva colto la rilevanza del realismo di Niebuhr nel pensiero teologico e, più in generale, nella cultura statunitense.
Giussani ricordava come nella formazione del pastore protestante avesse certamente svolto un ruolo l’esistenzialismo teologico europeo, ma una “netta originalità segna sin dagli inizi la sua produzione, la cui ispirazione e le cui tendenze chiave si formano e delineano nell’esperienza vissuta come pastore della luterana Bethel Evangelical Church di Detroit” (4).
Niebuhr, giovanissimo, si trovò a essere pastore di una piccola comunità di Detroit negli anni dello sviluppo della casa automobilistica Ford e della prima guerra mondiale, tra il 1915 e il 1928.
Di formazione liberale, egli sperimentò l’inadeguatezza dell’ottimismo antropologico di tale concezione e della sua declinazione sociale, quella del movimento del Social Gospel, nel comprendere la persistenza del male individuale e dell’ingiustizia.
Furono gli anni dell’autocritica alle proprie convinzioni liberali e ottimistiche.
Di fronte alle speranze di una moralizzazione della società attraverso la predicazione religiosa egli, in un appunto del 1927, constatava che “una città costruita attorno a un processo produttivo e che solo casualmente pensa e offre un’attenzione accidentale ai propri problemi è realmente una sorta di inferno” (5).
Tale autocritica trovò piena espressione nel libro “Uomo morale e società immorale”.
In esso, come ha scritto Giussani, la “realtà inevitabile del male […] è affermata e documentata contro ogni ottimismo che non veda l’impossibilità esistenziale del passaggio dalla coscienza del bene, che l’individuo ha, alla realizzazione di esso, impossibilità che specialmente nella sfera del collettivo si accusa in modo inesorabile” (6).
Il libro, del 1932, scritto durante gli anni nei quali Niebuhr subì l’influenza del marxismo, rappresentò negli Stati Uniti degli anni Trenta la denuncia forse più incisiva dell’ottimismo e del moralismo, da una parte, e dell’indifferenza e del cinismo, dall’altra, che avevano caratterizzato la società americana negli anni successivi alla prima guerra mondiale.
Nel breve periodo che va dal 1917, l’anno dell’entrata in guerra dell’America, al 1919, l’anno dei trattati di pace che penalizzarono fortemente le nazioni sconfitte, si consumò l’idealismo del movimento progressista e del presidente Woodrow Wilson.
Le motivazioni morali che Wilson e molti intellettuali progressisti avevano indicato come ragioni della partecipazione degli americani alla guerra erano state contraddette dall’esasperato realismo dei trattati di pace che esprimevano in modo palese la sanzione dei nuovi rapporti di forza tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte.
Nell’America degli anni Venti, proprio in reazione alle crociate ideali di Wilson, si affermò un’esigenza di ritorno alla normalità, che trovò espressione nell’elezione del presidente Warren Harding il quale a tale ideale aveva ispirato la propria campagna elettorale.
In realtà la società americana di quegli anni conobbe uno sviluppo economico mai visto, la diffusione della pubblicità e del consumo di massa, insieme a una forte polarizzazione tra ricchi e poveri.
Tale società appariva agli occhi di un attento osservatore come Niebuhr la sconfessione, o la riduzione a retorica, di ogni forma di moralismo ed era caratterizzata dall’emergere di atteggiamenti sempre più cinici e disillusi.
L’emendamento XVIII alla costituzione, che vietava la produzione, il trasporto e la vendita di alcolici sul territorio americano, può essere considerato emblematico di questa situazione: esso, approvato nel 1919, come simbolo della battaglia per la moralizzazione dei costumi, favoriva di fatto lo sviluppo di diverse forme di criminalità organizzata che proprio dal commercio illegale di alcolici traevano i maggiori profitti.
Niebuhr, in quegli anni, riteneva che una società più giusta non sarebbe stata la conseguenza di esortazioni morali o religiose, ma di concrete iniziative storiche e politiche, che proprio in quanto tali avrebbero dovuto confrontarsi con realtà poco elevate.
Egli, che dal 1928 aveva lasciato Detroit e aveva iniziato a insegnare alla Columbia University di New York, ricorderà come proprio le esigenze dell’insegnamento lo abbiano condotto ad approfondire la conoscenza di sant’Agostino.
In una intervista del 1956 affermava: “Mi sorprende, in un esame retrospettivo, notare quanto tardi io abbia iniziato lo studio di Agostino: ciò è ancora più sorprendente se si tiene presente che il pensiero di questo teologo doveva rispondere a molte mie domande ancora irrisolte e liberarmi finalmente dalla nozione che la fede cristiana fosse in qualche modo identica all’idealismo morale del secolo scorso” (7).
Il riferimento a sant’Agostino è stato centrale sia per quanto riguarda la consapevolezza delle ragioni che distinguono la fede dall’idealismo, sia per superare alcune aporie che Niebuhr aveva maturato nei primi anni della propria riflessione.
Il cristianesimo appare al giovane Niebuhr segnato da un aspetto, quello dell’assoluta gratuità, che si pone oltre ogni tentativo umano di realizzare gli ideali etici.
L’uomo può, con grande sincerità, impegnarsi per realizzare sfere di convivenza caratterizzate da quello che Niebuhr definisce “mutual love”, amore fondato sulla reciprocità: Cristo è invece testimone di un altro tipo di amore, definito “sacrifical love”.
Nel 1935 in “An Interpretation of Christian Ethics” egli aveva esplicitamente richiamato tale radicale differenza scrivendo: “Le esigenze etiche poste da Gesù sono d’impossibile compimento nell’esistenza presente dell’uomo […].
Qualunque cosa meno dell’amore perfetto nella vita umana è distruttivo della vita.
Ogni vita umana sta sotto un incombente disastro perché non vive la legge dell’amore” (8).
Nel 1940, riprendendo alcune di queste riflessioni e riferendole all’ambito politico, aveva sostenuto che una concezione “che aveva semplicemente e sentimentalmente trasformato l’ideale di perfezione del Vangelo in una semplice possibilità storica” aveva prodotto una “cattiva religione” e una “cattiva politica”, una religione in contrasto con il dato essenziale della fede cristiana, e una politica irrealistica, che rendeva le nazioni democratiche sempre più deboli (9).
D’altra parte, pur criticando il sentimentalismo e l’ottimismo della cultura liberale, egli constatava l’ineliminabile presenza della certezza del significato dell’esistenza, della sua positività, come tratto caratteristico di un’esistenza sana.
Questa certezza, scrive, “non è qualcosa che risulti da un’analisi sofisticata delle forze e dei fatti che circondano l’esperienza umana.
È qualcosa che è riconosciuto in ogni vita sana […].
Gli uomini possono non essere in grado di definire il significato della vita e malgrado ciò vivere attraverso la semplice fede la certezza che essa ha significato” (10).
L’opera nella quale tali diverse suggestioni trovano una sintesi è “The Nature and Destiny of Man”, pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943.
In essa si legge: “L’uomo, secondo la concezione biblica, è un’esistenza creata e finita sia nel corpo, sia nello spirito” (11).
La chiave per comprendere la natura umana è da una parte il riconoscimento della creazione: l’ottimismo essenziale che caratterizza un’esistenza sana è legato alla percezione di essere creato, voluto da Dio.
Dall’altra è la libertà umana, che, come segno posto da Dio nel cuore dell’uomo, come possibilità di aderire a tale intuizione o di rifiutarla, diviene assolutamente centrale.
L’uomo può (e Niebuhr sembra dire “inevitabilmente”) cercare soddisfazione nei beni creati e non in Dio.
Il male nasce quando l’uomo conferisce a un bene particolare un valore assoluto: è l’uso sbagliato della libertà – il peccato – che genera il male, non la sensibilità o la materialità.
La presenza di Agostino in questa che è l’opera maggiore e più sistematica di Niebuhr è evidente e costante: la concezione realistica della natura umana che Niebuhr propone rimanda esplicitamente alla concezione biblica e ai testi agostiniani.
In un saggio del 1953, “Augustine’s Political Realism”, incluso nel volume dello stesso anno “Christian Realism and Political Problems”, Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale.
Niebuhr inizia questo saggio offrendo una schematica definizione del termine realismo: esso “indica la disposizione a prendere in considerazione tutti i fattori che in una situazione politica e sociale offrono resistenza alle norme stabilite, particolarmente i fattori di interesse personale e di potere”.
Al contrario, l’idealismo, per i suoi sostenitori, è “caratterizzato dalla fedeltà agli ideali e alle norme morali, piuttosto che al proprio interesse”; cioè, per i suoi critici, da “una disposizione a ignorare o a essere indifferenti alle forze che, nella vita umana, offrono resistenza agli ideali e alle norme universali” (12).
Niebuhr precisa che idealismo e realismo in politica sono disposizioni, più che teorie.
In altri termini anche il più idealista degli individui dovrà inevitabilmente confrontarsi con i fatti, con la forza di ciò che è; anche il più realista dovrà confrontarsi con la tendenza umana a ispirare l’azione a valori ideali, a ciò che deve essere (13).
Niebuhr ritiene che sant’Agostino sia stato “per riconoscimento universale il primo grande realista nella storia occidentale.
Egli ha meritato questo riconoscimento perché l’immagine della realtà sociale, nella sua ‘Civitas Dei’, offre un’adeguata considerazione delle forze sociali, delle tensioni e competizioni che sappiamo essere quasi universali a ogni livello di comunità” (14).
Per il teologo protestante il realismo di sant’Agostino si lega alla sua concezione della natura umana, e in modo particolare al giudizio sulla presenza del male nella storia.
Infatti per sant’Agostino “la fonte del male è l’amor proprio, piuttosto che un qualche residuo impulso naturale che la ragione non ha ancora dominato”.
Il male non deriva quindi né dalla sensibilità né dalla materialità, che non sono contrapposte allo spirituale.
Il fare dei propri interessi materiali o ideali un fine ultimo è una caratteristica umana che ha a che vedere con la libertà e che si esprime in ogni livello dell’esistenza umana e collettiva, dalla famiglia alla nazione all’ipotetica comunità mondiale.
Il realismo di Agostino permette inoltre di rispondere all’accusa rivolta dai liberali a coloro che sostengono una concezione non ottimistica della natura umana: all’accusa cioè di considerare nello stesso modo e quindi di approvare qualsiasi forma di potere.
“Il realismo pessimistico – scrive Niebuhr – ha infatti spinto sia Hobbes sia Lutero a una inqualificabile approvazione dello stato di potere; ma questo soltanto perché non sono stati abbastanza realisti.
Essi hanno visto il pericolo dell’anarchia nell’egoismo dei cittadini, ma hanno sbagliato nel percepire il pericolo della tirannia nell’egoismo dei governanti” (15).
Il realismo di sant’Agostino, in altri termini, non cede al cinismo e all’indifferenza nei confronti del potere perché “mentre l’egoismo è naturale nel senso che è universale, non è naturale nel senso che non è conforme alla natura dell’uomo”.
Infatti “un realismo diviene moralmente cinico o nichilistico quando assume che una caratteristica universale del comportamento umano debba essere considerata anche come normativa.
La descrizione biblica del comportamento umano, sulla quale Agostino basa il suo pensiero, può rifuggire sia l’illusione sia il cinismo perché essa riconosce che la corruzione della libertà umana può rendere universale un modello di comportamento senza farlo diventare normativo” (16).
L’idea di un realismo che sia in grado di evitare l’indifferenza, il cinismo e l’approvazione incondizionata di qualsiasi forma di potere, così come il sentimentalismo, l’idealismo e le illusioni nei confronti della politica e dell’esistenza umana, emerge con forza da questa rilettura che Niebuhr propone di sant’Agostino.
A questa prospettiva – che, come ricordava Niebuhr, esprime una disposizione più che una teoria – sembra riferirsi Obama.
NOTE (1) C.
Blake, “Obama and Niebuhr”, in “The New Republic”, 3 maggio 2007.
(2) Cfr.
R.C.
Good, “The National Interest and Political Realism: Niebuhr’s ‘Debate’ with Morgenthau and Kennan”, in “The Journal of Politics”, n.
4, 1960, pp.
597-619.
(3) C.
Carson, “Martin Luther King, Jr., and the African-American Social Gospel”, in Paul E.
Johnson (ed.), “African American Christianity” University of California Press, Berkeley 1994, pp.
168-170.
(4) L.
Giussani, “Grandi linee della teologia protestante americana.
Profilo storico dalle origini agli anni Cinquanta”, Jaca Book, Milano 1988 (I edizione 1969), p.
131.
(5) R.
Niebuhr, “Leaves from the Notebook of a Tamed Cynic”, The World Publishing Company, Cleveland 1957 (I edizione 1929), p.
169.
(6) L.
Giussani, “Teologia protestante americana”, cit., p.
132.
(7) R.
Niebuhr, tr.it., “Una teologia per la prassi”, Queriniana, Brescia 1977, p.
55.
(8) R.
Niebuhr, “An Interpretation of Christian Ethics”, Scribner’s, New York 1935, p.
67.
(9) R.
Niebuhr, “Christianity and Power Politics”, Scribner’s, New York 1952 (I edizione 1940), pp.
IX-X.
(10) Ibid., p.
178.
(11) R.
Niebuhr, “The Nature and Destiny of Man.
A Christian Interpretation.
Vol.
I, Human Nature”, Scribner’s, New York 1964 (I edizione 1941), p.
12.
(12) R.
Niebuhr, tr.it., “Il realismo politico di Agostino”, in G.
Dessì, “Niebuhr.
Antropologia cristiana e democrazia”, Studium, Roma 1993, pp.
77-78.
(13) Riprendo questa terminologia da Alessandro Ferrara, “La forza dell’esempio.
Il paradigma del giudizio”, Feltrinelli, Milano 2008, pp.
17-33.
Una terza grande forza, oggetto del libro, è quella di “ciò che è come dovrebbe essere”.
(14) R.
Niebuhr, tr.it., “Il realismo politico di Agostino”, cit., p.
79.
(15) Ibid., p.
85.
(16) Ibid., p.
88.
La rivista sulla quale – per ora solo nell’edizione italiana – è uscito il saggio di Gianni Dessì su Reinhold Niebuhr: > 30 Giorni __________ L’articolo di p.
Robert Imbelli su “L’Osservatore Romano” del 28 gennaio 2009, di commento al discorso di insediamento di Obama: > Per un vero patto di cittadinanza.
Obama, Lincoln e gli angeli
__________ Una presentazione del libro dell’arcivescovo di Denver, Charles Chaput, “Render Unto Caesar”, pubblicato poco prima delle elezioni presidenziali: > Come far politica da cattolici.
Il promemoria di Denver
(13.8.2008) __________ Un’analisi della geopolitica vaticana, con una particolare attenzione alla sua componente “realista”: > Tra Venere e Marte, la Chiesa di Roma sceglie tutti e due (12.12.2005) __________ L’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è stato salutato dalla Santa Sede con espressioni di fiducia.
Su “L’Osservatore Romano” del 28 gennaio il sacerdote e teologo newyorkese Robert Imbelli ha commentato positivamente il discorso inaugurale del nuovo presidente, in una nota in prima pagina dal titolo: “Per un vero patto di cittadinanza.
Obama, Lincoln e gli angeli”.
Tuttavia le righe finali della nota facevano balenare un timore.
Imbelli accostava il discorso di Obama a quello di Abraham Lincoln del 1861, che terminava con una preghiera affinché prevalessero “gli angeli migliori della nostra natura”.
E proseguiva: “Questa resta la speranza e la preghiera dell’America.
Ma noi preghiamo anche affinché non vengano trascurati gli angeli dei bambini concepiti, ma ancora non nati.
Preghiamo affinché i vincoli d’affetto della nazione raggiungano anche loro.
Affinché non vengano esclusi dal patto di cittadinanza”.
Imbelli è lo stesso che ha recensito con favore su “L’Osservatore Romano”, la scorsa estate, il libro “Render Unto Caesar” dell’arcivescovo di Denver, Charles J.
Chaput: un appello ai cattolici americani perché il loro “dare a Cesare”, cioè il servire la nazione, consista nel vivere integralmente la propria fede nella vita politica.
L’arcivescovo Chaput, prima e dopo le elezioni presidenziali, è stato uno dei più decisi nel criticare il cedimento pro aborto di tanti cattolici e cristiani americani.
E i primi passi della nuova amministrazione hanno confermato i suoi timori.
In un’intervista al settimanale italiano “Tempi” del 5 febbraio, alla domanda se Obama sia “un protestante da caffetteria”, lui che “dice di essere cristiano ma è considerato il presidente più favorevole all’aborto di sempre”, Chaput ha risposto: “Nessuno può giustificare l’aborto e al tempo stesso proclamarsi cristiano fedele, ortodosso, protestante o cattolico che sia.
[…] Penso però che il cristianesimo protestante, vista la sua grande enfasi sulla coscienza individuale, è più portato ad essere una ‘caffetteria’ di credenze”.
Sta di fatto che, tra i primi atti della sua presidenza, Obama ha autorizzato i finanziamenti federali alle organizzazioni che promuovono l’aborto come mezzo di controllo delle nascite nei paesi poveri.
Inoltre, ha annunciato il suo sostegno al Freedom of Choice Act, che toglierà i limiti all’aborto, e il finanziamento all’utilizzo delle cellule staminali embrionali.
* * * Ciò non toglie che Obama sia, tra i presidenti americani, uno dei più espliciti nel dichiarare il fondamento religioso della propria visione.
In ripetute occasioni ha anche fatto i nomi dei suoi autori di riferimento, noti e meno noti: da Dorothy Day a Martin Luther King, da John Leland ad Al Sharpton.
Tra quelli da lui citati, ce n’è uno che ha un’importanza particolarissima: è il protestante Reinhold Niebuhr (1892-1971), professore alla Columbia University e poi allo Union Theological Seminary di New York.
Niebuhr fu anzitutto teologo, e di prima grandezzza, ma i suoi studi hanno inciso anche nel campo politico.
È considerato un maestro del “realismo” nella politica internazionale, i cui massimi esponenti negli Stati Uniti, nella seconda metà del Novecento, sono stati Hans Morgenthau, George Kennan, Henry Kissinger.
Ispirarsi o no a Niebuhr – e alla sua interpretazione e attualizzazione della “Città di Dio” di sant’Agostino – è decisione che orienta in modo determinante la visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Ad esempio, niente è più distante dalle posizioni di Niebuhr del pacifismo.
Ma è l’insieme del pensiero di questo grande teologo che è utile approfondire.
È quanto fa, nel saggio che segue, il massimo esperto italiano di Niebuhr, Gianni Dessì, docente di filosofia e di storia delle dottrine politiche all’Università di Roma Tor Vergata.
Il saggio è uscito pochi giorni fa sull’ultimo numero dell’edizione italiana di “30 Giorni”, il mensile cattolico forse più letto dai vescovi di tutto il mondo, nelle sue edizioni in più lingue.
“30 Giorni” è diretto dall’anziano senatore Giulio Andreotti – più volte presidente del consiglio e ministro degli esteri – e si occupa spesso di politica internazionale secondo una linea che si potrebbe definire “realista moderata”: una linea che coincide con quella tradizionale della diplomazia vaticana.

Grazie Eluana

Il dibattito pubblico sulla sorte della sfortunata Eluana Englaro ha investito e grandemente coinvolto dal punto di vista emotivo i giovani del nostro Paese.
Scontro istituzionale a parte, si è trattato, e si tratta, di uno dei momenti più alti del confronto di idee, valori, visioni della vita e della morte, che si sia realizzato in Italia da decenni a questa parte, paragonabile per intensità al dibattito sviluppatosi durante il rapimento e dopo l’uccisione di Aldo Moro, ricostruito da Alfredo Vinciguerra in un indimenticato instant book del 1978 (Questo Paese non si salverà…).
E’ verosimile che l’eco di questo dibattito abbia raggiunto le aule delle scuole secondarie superiori, e noi ci auguriamo che – anche nel quadro della sperimentazione di nuovi contenuti e metodi per l’insegnamento della disciplina “Cittadinanza e Costituzione” – un numero significativo di docenti abbia ritenuto di utilizzare a fini didattici la discussione in corso.
Non, però, per sostenere la “verità” assoluta di questa o quella tesi in campo, ma per metterle tutte a confronto in modo sereno e con i necessari approfondimenti.
La lettura dei giornali di questi giorni, densi di editoriali e di interventi di notevole qualità, potrebbe fornire spunti importanti.
Se questo civile confronto, sempre rispettoso della libertà di giudizio dei discenti, potrà svilupparsi nelle nostre scuole, sarà giusto esprimere un sentimento di gratitudine per Eluana, il cui triste destino avrà fornito alla scuola italiana una grande opportunità per dare un significato moralmente elevato e pedagogicamente efficace al nuovo modo di intendere l’Educazione civica nel nostro tempo.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS lunedì 9 febbraio 2009

In cerca del padre

L’evoluzione della nozione di paternità in Occidente nell’arco temporale che va dalla Rivoluzione francese ad oggi è l’oggetto di questo studio.
Una vicenda dai molti protagonisti e dalle numerose sfaccettature, risultato di piani complessi che variamente s’intersecano, a volte in anticipo altre in ritardo, alternando momenti di sintonia a stridenti contrapposizioni, l’ultima delle quali è forse solo agli inizi.
La vicenda prende le mosse dall’impostazione romanistica che sino al Novecento, in assenza di indicazioni biologiche, ha cercato di risolvere l’incertezza della paternità affidandone l’individuazione all’ordinamento giuridico, che poggiava sulla volontà implicita o esplicita dell’uomo di essere padre, in uno schema sostanzialmente proprietario.
Solo nel corso del xx secolo le analisi ematologiche prima e quelle sul Dna poi, sono state in grado di fornire elementi precisi, rendendo possibile superare l’antica presunzione giuridica.
Si è trattato tuttavia di un punto d’arrivo ben presto superato, poiché le nuove tecniche di fecondazione assistita, attraverso l’inseminazione eterologa, hanno costretto a ridefinire la nozione di paternità a prescindere dal mero dato biologico.
Ciò ha determinato un paradossale ritorno all’antico, riattribuendo al diritto – pur su basi nuove – il compito di individuare il padre.
Già questa sintesi mostra le difficoltà di ricostruire un percorso in cui ambivalenze e contraddizioni sono in costante agguato, poiché ogni nuovo tassello risolve un problema ma ne crea di nuovi.
E ciò, se è vero in generale, risulta amplificato nella vicenda della paternità che investe il momento più intimo e fondante delle relazioni umane.
Fortemente radicata sul piano affettivo e domestico, la paternità è un termometro significativo dei mutamenti sociali, in cui si intersecano vissuti personali, disposizioni legali ed evoluzione scientifica in una dialettica elicoidale, fonte di drammi e di progresso.
È una storia di esistenze concrete, di uomini che hanno avuto figli, negandoli o amandoli, dimenticandoli o rincorrendoli.
Ma è anche la storia di quei bambini, e degli adulti che diventeranno; delle donne che li hanno partoriti e delle relazioni – spesso drammatiche – che hanno avuto con quei padri.
(…) Nella vicenda il piano giuridico è stato sempre presente in tutte le sue sfaccettature.
Il ruolo che il diritto ha esercitato si è però trasformato nel tempo, passando dalla funzione di attribuire o di negare la paternità, a quella più modesta di registrarla.
E quale debba essere il suo ruolo oggi è questione aperta.
Il passaggio non è stato facile.
Il diritto non ha rinunciato di buon grado al suo compito.
Né molti padri, reali e concreti, sono riusciti ad accettare e interiorizzare la rivoluzione copernicana di una paternità completamente sfuggita al loro controllo, e, quindi, alla loro volontà.
Quanto alle conoscenze scientifiche, il dato di partenza, millenni prima dell’età contemporanea, era davvero scoraggiante: come ha scritto Marco Cavina, “la preistoria non conosceva i padri, anzi si potrebbe forse dire che la storia dell’uomo prenda inizio con la scoperta del padre” (estraneità non facilmente accettata, tanto che l’uomo tentò di rimediare ricorrendo, ad esempio, alla pratica della couvade).
Una volta riconosciuto il ruolo maschile, sorse il problema di “quale maschio” avesse concorso a “quale nascita”, un problema che ha caratterizzato la storia di tutte le civiltà patriarcali.
Se nel Novecento i progressi scientifici hanno impostato su basi completamente nuove la ricerca del padre, oggi tutto questo sembra essere messo irreparabilmente in crisi dalla fecondazione eterologa.
Nella misura in cui scienza e Dna risultano prescindibili, diventa preminente la questione del ruolo, il fatto cioè che l’uomo si comporti come un padre.
Peraltro, nemmeno quest’enfasi sul ruolo parrebbe una novità, trattandosi – ancora una volta – di un ritorno all’antico.
(…) Va da sé che, nella misura in cui si supera il dato biologico e genetico, il discorso sulla paternità indicata dalla natura e rivelata dalla scienza – a prescindere dalla volontà dell’uomo – salta completamente.
Se si ricorre al seme altrui per diventare padre, per rendere il proprio compagno padre o per dare un padre al figlio, è evidente che la volontà diventa il deus ex machina dell’intero processo: è dall’incontro tra la scienza medica e la volontà dei soggetti coinvolti che nasce un bambino.
(…) Siamo davvero davanti ad uno snodo molto delicato: orientarsi tra una paternità biologica e una paternità di decisione e di affetti non è più una questione astratta.
E se è vero che viviamo in società in cui la scelta e la volontà acquistano un peso sempre più notevole in termini di vita e di morte, di nascita e di salute, occorre vedere se saremo in grado di assumerne, in termini innanzitutto sociali, le conseguenze.
(…) Le pagine che seguono mettono in luce l’evoluzione sottesa all’implicito interrogativo del titolo: In cerca del padre intende evocare una duplicità di piani, richiamando un nodo esplicito ed immediato – chi sia il padre del nato – e uno più nascosto e vitale – cosa faccia di un uomo un padre.
Già da queste prime considerazioni emerge tutta la complessità della figura in età contemporanea.
Ad esemplificare il quadro, ci può aiutare un passaggio del romanzo di Philip Roth, Patrimonio.
L’autore ascolta una telefonata tra il suo anziano genitore Hermann (“non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare”) e l’amica Lil.
“Sentii che le diceva: “Philip è come una madre, per me”.
Rimasi sorpreso.
Credevo che avrebbe detto “come un padre”, ma la sua descrizione era, in realtà, più sottile delle mie banali aspettative, e al tempo stesso molto più flagrante, impassibile e invidiabilmente, spavaldamente schietta”.
Questo passaggio coglie il nocciolo del nostro tema.
di Giulia Galeotti (©L’Osservatore Romano – 8 febbraio 2009  GALEOTTI GIULIA , In cerca del padre.
Storia dell’identità paterna in età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009, ISBN: 8842086584, pagine 277, euro 20.
L’atto di definire il vincolo che lega un uomo alla sua discendenza è stato per secoli materia di diritto.
Fino al Novecento, infatti, l’impossibilità di stabilire con certezza chi fosse il padre biologico di un nascituro ha reso determinante l’azione giuridica del riconoscimento.
Solo nel corso del XX secolo i progressi della scienza medica sono intervenuti a sovvertire una prassi: le analisi ematologiche, prima, e poi, in maniera definitiva, gli studi sul DNA hanno reso possibile accertare senza ombra di dubbio l’identità paterna.
La scienza ha soppiantato così il diritto in una funzione delicata e gravida di conseguenze, anche simboliche, sull’impianto stesso della società.
Oggi assistiamo a un’ennesima transizione, al punto che si potrebbe parlare di “terza fase” della paternità; il forte sviluppo delle tecniche di fecondazione assistita, sempre più sofisticate ed efficaci, sta rendendo obsoleto un concetto di paternità basato sul dato naturale e biologico.
Con un paradossale ritorno all’antico, si riattribuisce al diritto, sia pure su basi nuove, il compito di individuare il padre.
Tra scienza, prassi sociale e vicende giuridiche, Giulia Galeotti indaga l’evoluzione di un concetto delicato e multiforme, gravido di conseguenze (anche simboliche) sull’impianto stesso della società.

La vita umana è bella Anche se avvolta dal mistero della sofferenza

La vita umana è bella Anche se avvolta dal mistero della sofferenza  Cari fratelli e sorelle, la Giornata Mondiale del Malato, che ricorre il prossimo 11 febbraio, memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes, vedrà le Comunità diocesane riunirsi con i propri Vescovi in momenti di preghiera, per riflettere e decidere iniziative di sensibilizzazione circa la realtà della sofferenza.
L’Anno Paolino, che stiamo celebrando, offre l’occasione propizia per soffermarsi a meditare con l’apostolo Paolo sul fatto che, “come abbondano le sofferenze del Cristo in noi, così per mezzo di Cristo abbonda anche la nostra consolazione” (2 Cor 1, 5).
Il collegamento spirituale con Lourdes richiama inoltre alla mente la materna sollecitudine della Madre di Gesù per i fratelli del suo Figlio “ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata” (Lumen gentium, 62).
Quest’anno la nostra attenzione si volge particolarmente ai bambini, le creature più deboli e indifese e, tra questi, ai bambini malati e sofferenti.
Ci sono piccoli esseri umani che portano nel corpo le conseguenze di malattie invalidanti, ed altri che lottano con mali oggi ancora inguaribili nonostante il progresso della medicina e l’assistenza di validi ricercatori e professionisti della salute.
Ci sono bambini feriti nel corpo e nell’anima a seguito di conflitti e guerre, ed altri vittime innocenti dell’odio di insensate persone adulte.
Ci sono ragazzi “di strada”, privati del calore di una famiglia ed abbandonati a se stessi, e minori profanati da gente abietta che ne viola l’innocenza, provocando in loro una piaga psicologica che li segnerà per il resto della vita.
Non possiamo poi dimenticare l’incalcolabile numero dei minori che muoiono a causa della sete, della fame, della carenza di assistenza sanitaria, come pure i piccoli esuli e profughi dalla propria terra con i loro genitori alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Da tutti questi bambini si leva un silenzioso grido di dolore che interpella la nostra coscienza di uomini e di credenti.
La comunità cristiana, che non può restare indifferente dinanzi a così drammatiche situazioni, avverte l’impellente dovere di intervenire.
La Chiesa, infatti, come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est, “è la famiglia di Dio nel mondo.
In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario” (25, b).
Auspico, pertanto, che anche la Giornata Mondiale del Malato offra l’opportunità alle comunità parrocchiali e diocesane di prendere sempre più coscienza di essere “famiglia di Dio”, e le incoraggi a rendere percepibile nei villaggi, nei quartieri e nelle città l’amore del Signore, il quale chiede “che nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno” (ibid.).
La testimonianza della carità fa parte della vita stessa di ogni comunità cristiana.
E fin dall’inizio la Chiesa ha tradotto in gesti concreti i principi evangelici, come leggiamo negli Atti degli Apostoli.
Oggi, date le mutate condizioni dell’assistenza sanitaria, si avverte il bisogno di una più stretta collaborazione tra i professionisti della salute operanti nelle diverse istituzioni sanitarie e le comunità ecclesiali presenti sul territorio.
In questa prospettiva, si conferma in tutto il suo valore un’istituzione collegata con la Santa Sede qual è l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, che celebra quest’anno i suoi 140 anni di vita.
Ma c’è di più.
Poiché il bambino malato appartiene ad una famiglia che ne condivide la sofferenza spesso con gravi disagi e difficoltà, le comunità cristiane non possono non farsi carico anche di aiutare i nuclei familiari colpiti dalla malattia di un figlio o di una figlia.
Sull’esempio del “Buon Samaritano” occorre che ci si chini sulle persone così duramente provate e si offra loro il sostegno di una concreta solidarietà.
In tal modo, l’accettazione e la condivisione della sofferenza si traduce in un utile supporto alle famiglie dei bambini malati, creando al loro interno un clima di serenità e di speranza, e facendo sentire attorno a loro una più vasta famiglia di fratelli e sorelle in Cristo.
La compassione di Gesù per il pianto della vedova di Nain (cfr.
Lc 7, 12-17) e per l’implorante preghiera di Giairo (cfr.
Lc 8, 41-56) costituiscono, tra gli altri, alcuni utili punti di riferimento per imparare a condividere i momenti di pena fisica e morale di tante famiglie provate.
Tutto ciò presuppone un amore disinteressato e generoso, riflesso e segno dell’amore misericordioso di Dio, che mai abbandona i suoi figli nella prova, ma sempre li rifornisce di mirabili risorse di cuore e di intelligenza per essere in grado di fronteggiare adeguatamente le difficoltà della vita.
La dedizione quotidiana e l’impegno senza sosta al servizio dei bambini malati costituiscono un’eloquente testimonianza di amore per la vita umana, in particolare per la vita di chi è debole e in tutto e per tutto dipendente dagli altri.
Occorre affermare infatti con vigore l’assoluta e suprema dignità di ogni vita umana.
Non muta, con il trascorrere dei tempi, l’insegnamento che la Chiesa incessantemente proclama: la vita umana è bella e va vissuta in pienezza anche quando è debole ed avvolta dal mistero della sofferenza.
È a Gesù crocifisso che dobbiamo volgere il nostro sguardo: morendo in croce Egli ha voluto condividere il dolore di tutta l’umanità.
Nel suo soffrire per amore intravediamo una suprema compartecipazione alle pene dei piccoli malati e dei loro genitori.
Il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo ii, che dell’accettazione paziente della sofferenza ha offerto un esempio luminoso specialmente al tramonto della sua vita, ha scritto: “Sulla croce sta il “Redentore dell’uomo”, l’Uomo dei dolori, che in sé ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell’amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi” (Salvifici doloris, 31).
Desidero qui esprimere il mio apprezzamento ed incoraggiamento alle Organizzazioni internazionali e nazionali che si prendono cura dei bambini malati, particolarmente nei Paesi poveri, e con generosità e abnegazione offrono il loro contributo per assicurare ad essi cure adeguate e amorevoli.
Rivolgo al tempo stesso un accorato appello ai responsabili delle Nazioni perché vengano potenziate le leggi e i provvedimenti in favore dei bambini malati e delle loro famiglie.
Sempre, ma ancor più quando è in gioco la vita dei bambini, la Chiesa, per parte sua, si rende disponibile ad offrire la sua cordiale collaborazione nell’intento di trasformare tutta la civiltà umana in “civiltà dell’amore” (cfr.
Salvifici doloris, 30).
Concludendo, vorrei esprimere la mia vicinanza spirituale a tutti voi, cari fratelli e sorelle, che soffrite di qualche malattia.
Rivolgo un affettuoso saluto a quanti vi assistono: ai Vescovi, ai sacerdoti, alle persone consacrate, agli operatori sanitari, ai volontari e a tutti coloro che si dedicano con amore a curare e alleviare le sofferenze di chi è alle prese con la malattia.
Un saluto tutto speciale è per voi, cari bambini malati e sofferenti: il Papa vi abbraccia con affetto paterno insieme con i vostri genitori e familiari, e vi assicura uno speciale ricordo nella preghiera, invitandovi a confidare nel materno aiuto dell’Immacolata Vergine Maria, che nel passato Natale abbiamo ancora una volta contemplato mentre stringe con gioia tra le braccia il Figlio di Dio fatto bambino.
Nell’invocare su di voi e su ogni malato la materna protezione della Vergine Santa, Salute degli Infermi, a tutti imparto di cuore una speciale Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 2 Febbraio 2009 (©L’Osservatore Romano – 8 febbraio 2009) Vanno potenziate le leggi in favore dei bambini malati e delle loro famiglie “Occorre affermare con vigore l’assoluta e suprema dignità di ogni vita umana”, che “è bella e va vissuta in pienezza anche quando è debole ed avvolta dal mistero della sofferenza”.
È quanto ribadisce Benedetto XVI nell’annuale messaggio in occasione della Giornata mondiale del malato, che si celebra l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes.

Tempo di iscrizioni

La CM n.
4 del 15 gennaio 2009 fornisce istruzioni per le iscrizioni alle scuole di ogni ordine e grado nel prossimo anno scolastico 2009-10.
Come è noto, la scadenza per queste operazioni era stata spostata in avanti, al 28 febbraio, da una nota ministeriale del 4 dicembre scorso, quando ancora si pensava di poter avviare la riforma del secondo ciclo nel prossimo anno scolastico e quindi si concedeva una proroga per far meglio circolare le informazioni relative al nuovo secondo ciclo.
La riforma è slittata (per il secondo ciclo) ma la proroga è rimasta e si è rivelata utile anche per il primo ciclo, dove sono comunque molte le novità.
Il prossimo anno scolastico recepirà infatti i cambiamenti introdotti dalle ultime disposizioni di legge, tra cui il cosiddetto maestro unico, l’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, il ridimensionamento degli organici, gli anticipi nell’iscrizione alla scuola primaria e dell’infanzia.
Proprio per questi motivi la circolare è stata oggetto di ricorsi da parte di associazioni e sindacati che contestano l’inserimento di materie non ancora formalmente definite sul piano normativo (i regolamenti sul primo ciclo e sulla rete scolastica devono ancora uscire e se ne conosce solo una versione provvisoria).
Tuttavia il Ministero ha ritenuto di poter anticipare le istruzioni necessarie, nella previsione dell’entrata in vigore dei regolamenti in tempo utile per l’avvio del nuovo anno, al quale occorre iscriversi con largo anticipo.
La scadenza delle iscrizioni è un passaggio importante anche per l’Irc, dato che il Concordato del 1984 prevede che la scelta se avvalersi o non avvalersi di questo insegnamento debba essere compiuta proprio all’atto dell’iscrizione.
L’Intesa del 1985 ha poi aggiunto che si deve intendere l’iscrizione non d’ufficio, poiché, per ovvie ragioni di continuità, la scelta operata all’inizio di un ciclo produce i suoi effetti fino al termine del corso, anche se è possibile modificarla ogni anno.
In effetti, in relazione alla scelta dell’Irc si registrano ancora irregolarità dovute alla richiesta ripetuta di operare una scelta non dovuta, alla accettazione di domande al di fuori dei termini previsti, alla contestuale scelta sull’Irc e sull’attività alternativa: tutte procedure irregolari che però, in buona o cattiva fede, le scuole continuano a praticare.
In relazione all’Irc la CM 4 contiene uno specifico paragrafo che ripete sostanzialmente le istruzioni già presenti nella circolare dell’anno precedente.
Basta rispettare scrupolosamente queste indicazioni per evitare errori o irregolarità.
Riepiloghiamo perciò quanto dice la circolare: 1.      la scelta sull’Irc va fatta all’atto dell’iscrizione non d’ufficio su richiesta della scuola, utilizzando l’apposito modulo D; 2.      la scelta compiuta al primo anno di ciascun ciclo può essere modificata ogni anno, entro la stessa scadenza (28 febbraio), ma su iniziativa degli interessati e non su richiesta della scuola; 3.      la scelta è compiuta dai genitori nelle scuole dell’infanzia e del primo ciclo, dagli studenti (anche se minorenni) nel secondo ciclo; 4.      per coloro che non si sono avvalsi dell’Irc la scelta delle attività alternative va compiuta ogni anno all’inizio delle lezioni (settembre) mediante l’apposito modulo E; 5.      la scelta delle attività alternative comprende quattro opzioni (attività didattica, studio individuale assistito, studio individuale non assistito, uscita da scuola) e vale per l’intero anno.
Qualche equivoco è sorto a causa della dizione impropria usata dalla CM 4 nel paragrafo dedicato agli istituti comprensivi, dove si dice che nel passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di I grado l’iscrizione «è disposta d’ufficio, fatto salvo, ovviamente, il diritto di scelta delle famiglie relativamente all’Irc e al modello di tempo scuola».
È evidente la contraddizione con quanto invece disposto nello specifico paragrafo sull’Irc, dato che, se l’iscrizione è d’ufficio, non deve essere rinnovata la scelta sull’Irc.
Negli istituti comprensivi si tende a considerare d’ufficio anche il passaggio da un ordine all’altro di scuola, ma è sempre possibile cambiare istituto, nel qual caso l’iscrizione non è più d’ufficio e va ripetuta la scelta sull’Irc.
D’altra parte, chi non frequenta istituti comprensivi deve comunque effettuare tutta la procedura d’iscrizione (compresa la scelta sull’Irc) nel passaggio alla secondaria di I grado.
Quindi, ciò che rimane, pur nel quadro di una iscrizione d’ufficio, è solo la facoltà dei genitori di modificare la scelta compiuta all’inizio del ciclo primario.

Il dibattito sul caso Englaro

Eluana, Napolitano non firma il decreto Il governo approva ddl in tempo record Berlusconi: «Seduta straordinaria del Senato, potrebbe non essere tardi».
Il Vaticano: «Ci hanno ascoltato» UDINE – Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che obbliga alimentazione e idratazione per soggetti non autosufficienti.
Il testo recepisce le linee del decreto approvato venerdì mattina dal governo ma su cui il presidente Napolitano non ha apposto la firma.
Alla riunione, presieduta dal premier Berlusconi, hanno partecipato il sottosegretario Gianni Letta, i ministri Altero Matteoli, Andrea Ronchi, Giorgia Meloni e Stefania Prestigiacomo.
Assenti per motivi “logistici” i ministri della Lega, che però hanno chiamato il presidente del Consiglio per esprimere il proprio sostegno all’iniziativa.
Il ddl è stato immediatamente inviato al Senato e Berlusconi non esclude che il via libera possa arrivare a breve: «Dipende da loro.
I gruppi sono già in stretto contatto».
Il presidente Napolitano ha autorizzato la presentazione alle Camere del disegno di legge.
BERLUSCONI: APPELLO A SCHIFANI – «Abbiamo preso atto del rifiuto del capo dello Stato ma abbiamo ribadito l’urgenza del provvedimento – ha detto Berlusconi al termine del vertice di governo -.
Ci siamo riuniti e abbiamo approvato un disegno di legge che recepisce il testo del decreto».
Il premier ha detto che la risposta del Parlamento arriverà in breve tempo: «Il governo – ha spiegato – ha rivolto un accorato appello al presidente del Senato per una immediata convocazione del Senato in seduta straordinaria.
Credo che convocherà subito una riunione dei gruppi e poi i gruppi decideranno quando potersi riunire.
Se ci sarà la volontà di fare presto, noi crediamo ci possa essere una risposta da parte del Parlamento in pochissimo tempo».
«Potrebbe non essere troppo tardi per Eluana – ha aggiunto Berlusconi -.
Per una persona normale è possibile stare due o tre giorni senza bere, rivolgetevi a Pannella».
«Siamo pronti a lavorare anche sabato e domenica per approvare la norma ‘salva-Eluana’» ha detto il presidente dei senatori dell’Udc Giampiero D’Alia.
L’ITER PARLAMENTARE – In realtà, salvo accelerazioni, il ddl inizierà il suo iter lunedì, dopo la conferenza dei capigruppo (prevista alle 12) che decide l’assegnazione del testo, presumibilmente alla commissione Sanità dove è già in atto la discussione sul testamento biologico.
A quel punto il presidente della commissione Antonio Tomassini convoca l’ufficio di presidenza per disporre le procedure necessarie e verifica se esiste una volontà politica concorde per accelerare l’esame del provvedimento che, se approvato in sede deliberante, non dovrebbe passare in Aula.
Nel caso non dovesse riscontrarsi un clima di concordia politica fra le diverse forze, sulla base dell’art.
72 della Costituzione, o il governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto dei commissari possono richiedere il passaggio in Aula.
Si tratterebbe di una decisione strategica cui la maggioranza potrebbe fare ricorso perché, una volta in Aula, è possibile contingentare i tempi e far decadere eventuali emendamenti.
SCONTRO ISTITUZIONALE – La vicenda di Eluana Englaro, dopo l’avvio della procedura di graduale abbandono delle terapie nella clinica La Quiete di Udine, ha assunto il risvolto di un gravissimo scontro istituzionale dopo che il presidente Napolitano si è rifiutato di firmare il decreto legge del governo.
Il conflitto è esploso a metà giornata, quando il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge per bloccare i medici nonostante la contrarietà del presidente della Repubblica.
Dopo il via libera, Giorgio Napolitano ha però confermato la propria posizione: non firmerà il provvedimento.
La decisione del Consiglio del ministri è stata invece accolta positivamente dal Vaticano: «Una scelta coraggiosa».
Diversa la posizione del presidente della Camera: Gianfranco Fini ha espresso «preoccupazione» per il no del Consiglio dei ministri all’invito di Napolitano, mentre un altro esponente di An, Ignazio La Russa, ha sottolineato che «si apre un problema serio.
Ora la soluzione è quella del ddl da approvare in tempi rapidi».
Critiche dall’opposizione: per il leader del Pd Veltroni Silvio Berlusconi vuole «un incidente istituzionale» e si è macchiato di «un comportamento totalmente irresponsabile».
ISPETTORI NELLA CLINICA – E mentre i legali della famiglia Englaro hanno assicurato che si andrà avanti con la procedura, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha inviato gli ispettori a Udine.
Un fatto che non preoccupa i legali della famiglia Englaro, come spiegato dall’avvocato Giuseppe Campeis: «Stiamo operando al di fuori del servizio sanitario nazionale, in quanto si tratta di un servizio appaltato tra l’associazione ‘Per Eluana’ e la casa di riposo».
«Il decreto legge emanato dal governo Berlusconi non ha la firma del capo dello Stato per cui come tale noi andiamo avanti con il protocollo – ha aggiunto Campeis -.
Se non ci saranno fatti nuovi e se non avverranno altri impedimenti, si proseguirà».
Circa il fascicolo aperto dalla Procura di Udine, l’avvocato ha precisato che «c’è già stato un chiarimento da parte del procuratore generale di Trieste per cui noi andiamo avanti nella legalità».
Beppino Englaro, il padre di Eluana, rilascia un unico commento: «Sono sconvolto, è un tormento senza fine, non riesco neppure a pensare e riflettere e preferisco continuare a restare nel silenzio».
Leggi il testo della lettera di Napolitano al governo IL CONSIGLIO DEI MINISTRI – Lo strappo tra governo e Quirinale si è consumato dopo la lettera del presidente della Repubblica al Consiglio dei ministri.
«Non sussistono le ragioni di necessità e di urgenza», ha spiegato nella missiva Giorgio Napolitano, esprimendo perplessità anche sulla nuova bozza riformulata dal ministero del Welfare e che conterrebbe, secondo quanto annunciato dal governo, i rilievi del presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida; questi però ha negato con fermezza: «Hanno strumentalizzato le mie parole, disconosco nella maniera più assoluta qualunque mia partecipazione alla stesura del testo di un decreto legge che non ritengo nemmeno di commentare».
Il via libera dal Consiglio dei ministri al provvedimento è arrivato ugualmente.
Una decisione adottata all’unanimità dopo una lunga discussione (la Prestigiacomo era orientata all’astensione, ma sarebbe stata convinta a votare sì).
Berlusconi ha incassato anche il sostegno dell’Udc: Casini ha telefonato al premier per esprimere il suo consenso all’iniziativa del governo.
LA RUSSA: «QUASI VOTO DI FIDUCIA» – Al momento della votazione in Consiglio dei ministri sul varo del decreto Berlusconi «ha quasi posto il voto di fiducia».
Lo ha detto il ministro della Difesa La Russa.
«Prestigiacomo non ha preso la parola e alla fine, quando si votava, ha dato l’impressione di volersi astenere.
Il presidente del Consiglio le ha detto che preferiva una non astensione: su questa questione ha quasi posto il voto di fiducia.
Qualcuno aveva espresso problemi di opportunità, io tra questi, ma non c’erano stati interventi contrari».
E sulla differente posizione di Fini: «Sì, ha espresso una posizione diversa, ma non era in Consiglio dei ministri a dover votare in un modo o nell’altro e a dover dare una valenza politica alla questione su chi deve decidere riguardo alla necessità e all’urgenza.
Decisione che spetta al governo».
Guarda il video della conferenza stampa «PRESUPPOSTI DI URGENZA» – Il premier, in conferenza stampa, ha spiegato che nel caso di Eluana «sussistono i presupposti di necessità e urgenza, presupposti che sono affidati alla responsabilità del governo: poi spetta al Parlamento decidere se confermare o meno questi presupposti».
«Eluana è una persona viva – ha aggiunto Berlusconi – respira, le sue cellule cerebrali sono vive e potrebbe in ipotesi fare anche dei figli.
È necessario ogni sforzo per non farla morire».
Il premier ha poi criticato l’atteggiamento di Napolitano: «Con la sua lettera si introduce una innovazione: il capo dello Stato in corso d’opera del Cdm può intervenire anticipando la decisione sulla necessità e urgenza di un provvedimento.
Per questo abbiamo deciso all’unanimità di affermare con forza che il giudizio è assegnato alla responsabilità del governo.
Se il capo dello Stato non firmasse e si caricasse di questa responsabilità nei confronti di una vita, noi inviteremmo immediatamente il Parlamento a riunirsi ad horas e approvare in due o tre giorni una legge che anticipasse quella legge che è già nell’iter legislativo».
A una specifica domanda di un giornalista, Berlusconi ha comunque assicurato che i rapporti con il presidente della Repubblica restano «cordiali» e che non sta pensando assolutamente all’impeachment.
NAPOLITANO NON FIRMA – Poco dopo, però, Napolitano ha confermato di non voler firmare il decreto.
Il presidente, si legge in un comunicato, «ha preso atto con rammarico della deliberazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto legge relativo al caso Englaro.
Avendo verificato che il testo approvato non supera le obiezioni di incostituzionalità da lui tempestivamente rappresentate e motivate, il presidente – conclude la nota – ritiene di non poter procedere alla emanazione del decreto».
Napolitano ha ricevuto l’appoggio di Fini: «Desta forte preoccupazione – ha dichiarato il presidente della Camera – che il Consiglio dei ministri non abbia accolto l’invito del capo dello Stato, ampiamente motivato sotto il profilo costituzionale e giuridico, a evitare un contrasto formale in materia di decretazione d’urgenza».
L’analisi – Napolitano, sfidato, ha risposto.
Lo strappo lascerà i segni di Marzio Breda
PLAUSO DEL VATICANO – All’esecutivo arriva invece il plauso del Vaticano.
Approvando il decreto legge sul caso di Eluana Englaro, ha affermato monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia accademia per la vita, «il governo ha fatto un gesto di grande coraggio, che sarà apprezzato dalla grande maggioranza di tutti i cittadini».
«Pur nella differenza delle competenze che abbiamo – conclude Fisichella – ci rallegriamo che le istanze che abbiamo portato avanti in questi mesi sono state ascoltate e accolte».
Il Vaticano critica Napolitano: «Sono costernato che in tutte queste diatribe politiche si ammazzi una persona – ha affermato il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio giustizia e pace – e sono profondamente deluso (dalla decisione del presidente di non firmare il decreto, ndr)».
AVANTI LA PROCEDURA – Intanto, nella clinica friulana dove si trova Eluana Englaro, la “fase due” della procedura per la riduzione della nutrizione è iniziata.
La conferma arriva dall’avvocato Franca Alessio, curatrice di Eluana: «Penso che tutto si stia svolgendo come previsto.
Il protocollo prevede che dopo tre giorni cominci lo stop all’alimentazione – ha aggiunto il legale -.
I tre giorni sono passati e non intervenendo fatti nuovi si procede come previsto».
Nella clinica sono attesi sabato gli ispettori inviati dal ministro Sacconi per verificare alcune caratteristiche della struttura.
I medici, coordinati dall’anestesista Amato De Monte, vanno avanti con il protocollo concordato tra La Quiete, l’Azienda Sanitaria 4 Medio Friuli e l’associazione «Per Eluana», in attuazione del decreto della Corte di Appello di Milano.
Venerdì sera due consulenti della Procura di Udine hanno controllato e verificato la congruità dell’operato dell’equipe medica.
Per sabato è prevista una nuova riduzione, l’ultima domenica: poi termineranno nutrizione e idratazione artificiali.
Corriere della Sera 6 febbraio 2009 IL CASO ENGLARO La natura e il suo corso di Ernesto Galli Della Loggia E così alla fine il governo è intervenuto in prima persona con un provvedimento d’urgenza nella vicenda di Eluana Englaro.
È giusto comprenderne le indubbie motivazioni di carattere umanitario, ma non per questo si può passare sotto silenzio il vulnus che il governo stesso, se questa sua decisione avesse avuto corso, avrebbe inferto alle regole dello Stato costituzionale di diritto.
Un cui principio fondamentale, come fin dall’inizio ha giustamente ricordato il presidente Napolitano, è che l’esecutivo non può emanare decreti con lo scopo di modificare o rendere nullo quanto deciso in via definitiva da un tribunale.
E se Napolitano ha mantenuto questa sua opposizione fino al punto di rifiutarsi di controfirmare il decreto uscito dal Consiglio dei ministri, non si può che apprezzare la coerenza e la fermezza del capo dello Stato.
Il che non vuole affatto dire però, si badi bene, che ciò che in questo caso i giudici hanno stabilito non lasci nell’opinione pubblica (e certamente, e fortunatamente, non solo in quella cattolica) profonde e giustificatissime perplessità.
Le quali, data la materia di cui si tratta, possono arrivare talvolta a prendere perfino la forma di un vero sentimento di rivolta morale.
A suscitare forti dubbi è proprio il fondamento stesso della decisione finale presa dalla magistratura e cioè l’asserita volontà (ricostruita ex post su base totalmente indiziaria; ripeto: totalmente indiziaria) di Eluana; la quale, si sostiene, piuttosto che vivere nelle condizioni in cui da diciotto anni le è toccato di vivere, avrebbe certamente preferito morire.
L’altissima opinabilità di questa ricostruzione è dimostrata dal semplice fatto che in precedenza per ben due volte (Tribunale di Lecco nel 2005, Corte d’appello di Milano nel 2006) le conclusioni dei giudici erano andate in direzione opposta a quella successiva: allora, infatti, essi sostennero che non esistevano prove vere e affidabili per stabilire la reale volontà della ragazza, intesa come «personale, consapevole e attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa».
Poi la sentenza terremoto della Corte di cassazione; prove simili non furono più ritenute necessarie: per decidere della vita e della morte di Eluana, stabiliscono i giudici, basta adesso tener conto «della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» (si sta parlando, lo si ricordi sempre, di una persona che all’età dell’incidente aveva diciotto anni).
Ed è precisamente sulla base di questa direttiva emanata dai giudici supremi che la Corte d’appello di Milano cambia nel 2008 il proprio orientamento e quelli che prima erano indizi generici si tramutano in prove della personalità di Eluana «caratterizzata da un forte senso d’indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni ».
Dunque si proceda pure alla sua eliminazione.
Mi sembra appropriato il commento di un giurista di vaglia, Lorenzo D’Avack, sull’Avvenire di giovedì: «Giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport, diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale ».
C’è o non c’è, mi chiedo, motivo di qualche perplessità? Tanto più che contemporaneamente, come fa notare sempre d’Avack, la stessa Cassazione, in un caso di rifiuto delle cure da parte di un Testimone di Geova, stabilisce, invece, che a tale rifiuto i medici devono sì ottemperare, ma solo se esso è contenuto «in una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».
Ma guarda un po’! Torno a chiedermi: c’è o non c’è motivo di qualche perplessità, forse anzi più d’una? Detto ciò della ricostruzione della volontà di Eluana — che pure, non lo si dimentichi, allo stato attuale è premessa assolutamente dirimente per qualunque decisione da prendere—resta un’ultima questione, quella del «lasciar fare alla natura il suo corso», come si dice da parte di chi pensa che si possa tranquillamente far morire la giovane.
Un’ultima questione, cioè un’ultima domanda: davvero l’espressione «lasciar fare alla natura il suo corso» può arrivare a significare il divieto di idratazione e di alimentazione di un corpo umano? Davvero «far fare alla natura il suo corso» può voler dire far spegnere una persona per mancanza d’acqua? La coscienza di ognuno di noi risponda come può e come sa.
Ma per tutto questo tempo, in realtà, il corpo di Eluana Englaro non ha ricevuto solo liquidi e alimenti; esso è stato anche costantemente sottoposto ad una penetrante protezione farmacologica senza la quale assai probabilmente non avrebbe mai potuto sopravvivere così a lungo.
È proprio da qui si potrebbe forse partire per immaginare quale soluzione dare in futuro ad altri casi analoghi.
Una soluzione, questa volta legislativa, che proprio il decreto di ieri del governo mette in modo ultimativo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, e che potrebbe fondarsi sul concetto di divieto di accanimento terapeutico, ormai pacificamente accolto nelle nostre leggi.
Tale divieto, com’ è noto, si sostanzia in un obbligo di non fare, di non procedere alla somministrazioni di cure allorché è ragionevole pensare che esse non possano in alcun modo servire alla guarigione o a qualche miglioramento significativo delle condizioni del paziente; limitando in questi casi l’opera del medico solo al sollievo dal dolore.
Si tratta peraltro—ed è questo un aspetto decisivo—di un obbligo/ divieto che per valere non ha bisogno di essere convalidato da alcuna decisione particolare del malato, dal momento che fa parte del codice deontologico di tutti coloro che esercitano la professione medica.
Ebbene, non riesco a vedere una ragione valida per cui nel divieto di accanimento ora detto non possa essere fatto rientrare la non somministrazione di farmaci a chi, come è il caso di Eluana Englaro, si trova da tempo in condizioni di stato vegetativo persistente al quale quelle medicine stesse non possono arrecare alcun giovamento ma al massimo assicurarne l’indefinita prosecuzione.
Non produrre la morte di alcuno negandogli l’idratazione e l’alimentazione.
Togliere invece ogni medicamento.
Questo sì mi sembrerebbe un vero «lasciar fare alla natura il suo corso»: rimettendosi al caso o ai disegni imperscrutabili da cui dipendono le nostre vite.
Corriere della Sera 07 febbraio 2009  NOTIZIE CORRELATE La bozza del decreto Papà Beppino: «Mia figlia oggetto di violenza inaudita» Eluana, Napolitano non firma il decreto Il governo approva ddl in tempo record Scontro tra Napolitano e Berlusconi Governo vara disegno di legge record l Papa: dignità per la vita umana, anche quando è debole e sofferente Udine, i medici: «Andiamo avanti» A Eluana azzerati alimenti e acqua Caso englaro: lo scontro istituzionale Napolitano: ecco perché non firmerò Il testo della lettera che il capo dello Stato ha inviato a Berlusconi prima che il CdM approvasse il decreto Signor Presidente, lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale.
Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti.
I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche.
Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente.
Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge – piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica – appare soluzione inappropriata.
Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art.
77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso.
Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente.
Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo.
Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo.
Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art.
77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori (si indicano nel poscritto i più significativi esempi in tal senso).
Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare.
Poscritto Con una lettera del 24 giugno 1980, il Presidente Pertini rifiutò l’emanazione di un decreto-legge a lui sottoposto per la firma in materia di verifica delle sottoscrizioni delle richieste di referendum abrogativo; il 3 giugno 1981, sempre il Presidente Pertini, chiamato a sottoscrivere un provvedimento di urgenza, richiese al Presidente del Consiglio di riconsiderare la congruità dell’emanazione per decreto-legge di norme per la disciplina delle prestazioni di cura erogate dal Servizio Sanitario Nazionale.
Nel caso specifico, uno degli argomenti addotti dal Capo dello Stato consisteva nel rilievo della contraddizione tra la disciplina del decreto-legge emanando e “un indirizzo giurisprudenziale in via di definizione”; con lettera 10 luglio 1989 al Presidente del Consiglio De Mita, il Presidente Cossiga manifestò la sua riserva in ordine alla presenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza ai fini dell’emanazione di un decreto-legge in materia di profili professionali del personale dell’ANAS e affermò: “Ritengo, pertanto, che, allo stato, sia opportuno soprassedere all’emanazione del provvedimento, in attesa della conclusione del dibattito parlamentare sull’analogo decreto relativo al personale del Ministero dell’interno”; in quella stessa lettera e successivamente nella lettera al Presidente del Consiglio Andreotti del 6 febbraio 1990, il Presidente Cossiga richiamò all’osservanza delle specifiche condizioni di urgenza e necessità che giustificano il ricorso alla decretazione di urgenza, ritenendo legittimo da parte sua – in caso di non soddisfacente e convincente motivazione del provvedimento – il puro e semplice rifiuto di emanazione del decreto – legge; con un comunicato del 7 marzo 1993, il Presidente Scalfaro, in rapporto all’emanazione di un decreto-legge in materia di finanziamento dei partiti politici invitò il Governo a riconsiderare l’intera questione, ritenendo più appropriata la presentazione alle Camere di un provvedimento in forma diversa da quella del decreto-legge.
06 febbraio 2009 Giovanni Reale: «Farla sopravvivere è andare contro natura» Il filosofo cattolico: la Chiesa e il governo politicizzano una cosa metapolitica di Daniela Monti «Ma ancora non c’è nulla di deciso, vero?», chiede Giovanni Reale.
«Il decreto del governo è un errore, si oppone all’idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell’uomo.
E lo dico da cattolico».
«Napolitano ha fatto il suo dovere di Presidente, ha richiamato l’attenzione sulla sostanza della Costituzione.
Un uomo saggio.
Almeno uno».
«Sopravvivenza a prezzo di vita».
Quando entra nel merito della vicenda di Eluana Englaro, cita il francese Jean Baudrillard.
Da 17 anni, per Reale, Eluana Englaro sopravvive a prezzo della vita.
«La tesi portata avanti da molti uomini della Chiesa, e ora anche del governo, è sbagliata e va corretta — dice il filosofo —.
Nel caso di Eluana vedo un abuso da parte di una civiltà tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura.
Si è perduta la saggezza della giusta misura.
La Chiesa, e il governo insieme a lei, sono vittime di questo paradigma culturale dominante».
Racconta di sua madre.
«Era all’ospedale con il cancro, i medici volevano riempirla di tubi.
“Potremmo prolungarle la vita di qualche mese”, dicevano.
Io ero frastornato.
È stata lei a decidere: lasciatemi morire a casa, nel mio letto.
In quel periodo stavo traducendo il Fedone di Platone e anche lì, con parole diverse, ho ritrovato il senso di quel desiderio di mia madre.
Quando Socrate deve bere la cicuta, qualcuno gli suggerisce: “C’è ancora qualche ora, attendi finché il sole non sia tramontato”.
Ma non ha senso aggrapparsi alla vita quando ormai non ce n’è più».
Se mi trovassi nella condizione di non aver più speranze di guarigione, aggiunge Reale, «non avrei dubbi su cosa scegliere».
Anche la Chiesa condanna l’accanimento terapeutico.
Ma un sondino per l’alimentazione è accanimento terapeutico? Su questo ci si divide.
«La Chiesa dice molte cose sagge.
Per esempio: si può rinunciare all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo.
Ed è proprio questo il caso di Eluana: qui non c’è stata proporzione e non c’è nessuna ragionevole speranza di esito positivo.
E allora? Perché questo accanirsi contro di lei?».
Reale, da credente, rivendica la libertà di coscienza dei cattolici sul caso di Eluana.
Di più: dice che la libertà di coscienza «è un preciso dovere morale» e si affida a un’altra citazione, questa volta un aforisma di Gomez Davila: «Ciò che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse».
«Ecco — riprende — molte critiche che vengono dall’interno sono costruttive.
Io critico il paradigma culturale che vorrebbe tenere in vita Eluana contro la natura, e la fede con questo non ha nulla a che fare, la fede è al di sopra della cultura, il suo compito è fecondare la cultura stessa».
Se il diritto alla vita perde la precedenza su tutti gli altri valori, sa anche lei quale potrebbe essere il prossimo passo: parlare in termini meno ideologici di eutanasia.
«Errore.
Io non lascio aperto nessuno spiraglio all’eutanasia.
Non dico: fammi morire.
Ma: lasciami morire come ha stabilito la natura.
Né io, né tu.
La natura.
Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino.
Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina.
Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura.
È un’affermazione identica a quella che si dice abbia fatto Giovanni Paolo II: lasciatemi tornare alla casa del padre.
Il secondo aveva fede, il primo no.
Per Welby era andare nella notte assoluta, per il Papa nella vita.
Ma dal punto di vista umano è la stessa condivisibile richiesta».
A complicare il caso di Eluana c’è la questione della ricostruzione della sua volontà presunta.
«Chi più del padre e della madre ama quella ragazza? Mi sembra che nessuno più di loro abbia il diritto di dire che cosa avrebbe voluto fare la figlia, ora che lei non è più in grado di esprimersi».
Giovanni Reale in più occasioni, durante questa intervista, usa il «noi»: «Noi pensiamo che la vita di Eluana sia artificiale».
«Secondo noi questo sistema che si è sostituito alla natura per un tempo così spaventosamente lungo è aberrante».
Reale parla per sé, ma la sua non è una voce isolata.
Attorno al diritto all’autodeterminazione e all’idea di libertà di coscienza dei cattolici si è costituito un gruppo di filosofi: da Vito Mancuso a Roberta De Monticelli, da Vittorio Possenti a, appunto, Giovanni Reale, le «intelligenze più acute del cattolicesimo italiano», come li ha definiti Luigi Manconi su L’Unità.
Che succede ora: nella Chiesa si arriverà a una sintesi? «Gettiamo semi, non tocca a noi raccogliere frutti.
Speriamo li diano.
Ma l’errore che con Eluana stanno facendo religiosi e uomini di governo è di cadere nella politicizzazione di qualcosa che con la politica non c’entra niente, che è metapolitico».
Corriere della Sera 07 febbraio 2009 Sul caso Eluana, il governo potrebbe varare un decreto legge volto ad impedire l’esecuzione della sentenza della Corte d’appello di Milano, a sua volta giudicata corretta dalla Cassazione.
Il provvedimento, secondo quanto sostiene l’Ansa, contiene un solo articolo dal titolo: «Disposizioni urgenti in materia di alimentazione ed idratazione».
Questo è il testo: «In attesa dell’approvazione di una completa e organica disciplina legislativa in materia di fine vita l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere rifiutate dai soggetti interessati o sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi».
«E’ un omicidio, quel decreto è un dovere»    «Lo Stato ha il diritto di proteggere la vita di ogni suo cittadino»  Intervista al cardinale Camillo Ruini di Aldo Cazzullo  Cardinal Ruini, quali sono i suoi sentimenti in queste ore decisive per la sorte di Eluana Englaro? «Sofferenza.
Non ho mai conosciuto Eluana, ma prego per lei ogni giorno.
Preoccupazione.
Speranza.
E impegno a fare tutto il possibile.
Innanzitutto, per far sapere quali sono le sue reali condizioni: chi è informato bene, di solito non ha più dubbi.
È stato importante che la suora che l’ha assistita sia andata in tv a raccontare la sua esperienza con Eluana.
Non ha senso attribuire all’Eluana di oggi, dopo quel tragico incidente, le aspirazioni e i desideri di prima.
Eluana è stata sfortunata.
Ha perduto molto.
Ora ha bisogno di poco, è protesa verso quel poco, con poco può vivere senza soffrire.
Non colpiamola una seconda volta.
Non togliamole anche questo poco».
Lasciarla morire equivale a un omicidio? «Lasciarla morire, o più esattamente — per chiamare le cose con il loro nome — farla morire di fame e di sete, è oggettivamente, al di là delle intenzioni di chi vuole questo, l’uccisione di un essere umano.
Un omicidio.
Purtroppo inferto in maniera terribile, senza che nessuno possa essere certo che Eluana non soffrirà».
È giusto che il governo sia intervenuto con un decreto? E il capo dello Stato avrebbe dovuto firmarlo? «Non ho ancora avuto modo di conoscere il testo del decreto del governo e della lettera del capo dello Stato, ma conosco le obiezioni secondo le quali questo decreto sarebbe una prevaricazione nei rapporti tra i poteri dello Stato.
Di prevaricazioni però in questa vicenda se ne sono già fatte molte.
A cominciare dai giudici che hanno applicato una legge che non esiste e che, soprattutto, non hanno tenuto conto della situazione reale di Eluana.
Ad ogni modo, ritengo che lo Stato abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di proteggere la vita di ogni suo cittadino».
Una legge sul testamento biologico ora è necessaria? E come andrebbe impostata? «Preferisco parlare di legge sulla fine della vita.
La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto, non è un appartamento o una somma di denaro.
La legge dovrebbe evitare sia l’eutanasia sia l’accanimento terapeutico.
Ma è ovvio che la nutrizione e l’idratazione non possono essere lasciate alla decisione dei singoli, perché toglierle significa provocare la morte.
Se eutanasia significa morte “dolce”, “buona”, la fine di Eluana sarebbe peggio dell’eutanasia: Eluana morirebbe di fame e di sete.
La sua sarebbe una morte pessima».
Il padre, Beppino Englaro, ha avuto parole dure su quella che considera un’ingerenza della Chiesa.
Ha torto? «Il rispetto è dovuto a tutti, ma il rispetto massimo è dovuto al signor Englaro, che vive questa terribile esperienza di persona.
Nessuno di noi può sindacare su come reagiscono i genitori toccati così profondamente dal dolore.
Ho conosciuto genitori che si ribellavano di fronte a quella che ritenevano un’ingiustizia divina, e altri che la accettavano.
Ricorderò sempre il giorno in cui fui testimone di un incidente stradale a Regnano, sulle colline di Reggio Emilia.
Stavo guidando.
Davanti a me, un giovane cadde dalla moto.
Non andava forte, ma c’era ghiaia sulla strada e perse il controllo, la moto gli cadde addosso.
Mi fermai, gli diedi l’estrema unzione, ma era già morto.
Gli abitanti del paese mi dissero: la madre è malata di cuore, vada lei a darle la notizia.
Mi feci carico del duro compito.
Quella donna, una contadina, rimase a lungo in silenzio.
Poi mi guardò e disse: “La Madonna ha sofferto di più”…».
(Il cardinale si interrompe, commosso).
Parlavamo dell’ingerenza.
«Non ingerenza, ma adempimento della missione della Chiesa.
Come ha detto con una formula molto efficace Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor hominis, “sulla via che conduce da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno”.
Ogni essere umano è degno di rispetto e amore; tanto più gli innocenti, gli inconsapevoli, i colpiti dal destino».
L’ha colpita il gesto delle suore che erano pronte ad accogliere Eluana e occuparsi di lei negli anni a venire? «Mi ha toccato profondamente, ma non mi ha sorpreso.
Ho avuto molte esperienze in merito.
Penso alle suore delle case di carità di Reggio Emilia, che ora sono anche qui a Roma.
Donne che accolgono persone in condizioni gravissime e le accudiscono con dedizione totale e con gioia.
E molti sono i volontari che le affiancano».
Quali casi ha conosciuto di persona? «Ad esempio, famiglie che hanno figli cerebrolesi dalla nascita, incoscienti eppure non indifferenti, perché in modo istintivo percepiscono le correnti di affetto.
Ci sono genitori che rifiutano figli così, ma ci sono altri che li accettano.
La vita di quei ragazzi, che talora ho visto diventare adulti, non è meno preziosa.
Non posso accettare l’idea che la loro vita valga meno della mia o di qualsiasi altra».
Quali sensibilità ha colto sulla vicenda nell’opinione pubblica, credente o non credente? I sondaggi indicano che in molti sostengono le ragioni di Beppino Englaro.
«Io non ho fatto sondaggi, ma ho discusso in varie occasioni con la gente comune.
All’inizio l’interesse era minore, e in tanti consideravano giusto che fosse il padre a decidere.
Ma non appena vengono informati sulle reali condizioni di Eluana, in pochissimi restano favorevoli a lasciarla morire.
Uno dei miei interlocutori si è proprio arrabbiato: “Ma perché i giornali non scrivono queste cose?”».
E lei come ha trovato i giornali? «In buona parte schierati.
Mentre le tv lo sono state meno, hanno dato spazio anche alle nostre ragioni, come già accadde per il referendum sulla procreazione assistita».
Diceva delle sue discussioni con la gente comune.
«Il fattore che la orienta non è tanto quello religioso.
Non ci sono i credenti di qua e i non credenti di là.
L’impressione è che ci siano piuttosto gli informati e i non informati.
L’esperienza mi ha insegnato inoltre che i malati, per quanto gravi, sperano sempre di continuare a vivere».
In un’intervista a Giacomo Galeazzi della «Stampa», l’arcivescovo Casale, schierandosi con papà Englaro, dice: «Anche Giovanni Paolo II ha richiesto di non insistere con interventi terapeutici inutili».
«Penso di aver conosciuto bene Giovanni Paolo II, e ho vissuto quei giorni in stretto contatto con il suo segretario Don Stanislao Dziwisz, mio carissimo amico.
So bene dunque il senso delle ultime parole del Papa, “lasciatemi andare”.
Quando non c’è più niente da fare, il credente sa che, con la morte, per lui la vita non finisce, ma in un certo senso comincia.
Sia credenti sia non credenti possono dire “lasciatemi andare” in modo eticamente legittimo, ma per un credente queste parole indicano anche una speranza, significano “lasciatemi tornare alla casa del Padre”.
Chi ha un’esperienza anche piccola del modo in cui Giovanni Paolo II viveva il suo rapporto con Dio non ha dubbi al riguardo».
Lei era capo dei vescovi quando si visse il dramma di Piergiorgio Welby.
Diverso da quello di Eluana perché il malato era cosciente e aveva chiesto di morire.
Ripensandoci oggi, non era possibile un atteggiamento diverso da parte della Chiesa? Ad esempio concedere i funerali? «È vero, quel caso era molto diverso.
Non solo Welby era cosciente; era molto più dipendente dalla tecnologia per continuare a vivere.
Nel mezzo della prova, lui scelse di porre fine alla sua vita.
Una scelta che Eluana non ha mai fatto.
Quanto alla mia decisione, la Chiesa non può consentire — tanto più quando un caso ha rilevanza pubblica — che si rivendichi nello stesso tempo l’appartenenza al cattolicesimo e l’autonomia nel decidere sulla propria vita.
Non si può dire: “Io sono cattolico, e decido io”».
Può un cattolico, tanto più un vescovo, negare la Shoah? È una semplice opinione personale in contrasto con quanto sostiene la Chiesa, o è un dato incompatibile con la presenza della Chiesa stessa? «A questa domanda ha già risposto la Santa Sede, con la nota della Segreteria di Stato pubblicata sull’Osservatore Romano secondo la quale, per essere ammesso alle funzioni episcopali, Williamson deve “prendere in modo inequivocabile e pubblico le distanze dalla sua posizione sulla Shoah”.
Se non lo fa, non può fare il vescovo».
Come giudica l’invito del cancelliere Angela Merkel al Papa a fare chiarezza sul negazionismo dei lefebvriani? «Quanto meno superfluo.
Basta ricordare o rileggere quanto disse Benedetto XVI ad Auschwitz, domenica 28 maggio 2006, con parole che toccarono profondamente tutti i presenti, me compreso».
La vicenda Englaro le pare collegata alla denuncia del vuoto di valori e del relativismo etico, temi-chiave del pontificato di Ratzinger? «Uno dei caratteri del magistero di Benedetto XVI e della teologia di Joseph Ratzinger è la denuncia del relativismo etico o, per usare la formula da lui coniata, della dittatura del relativismo.
In Italia, e ancor più in altri Paesi dell’Occidente, esiste un’emergenza educativa, che rappresenta un’ipoteca sul nostro futuro e ha le sue radici nella mentalità diffusa, secondo la quale non esistono più punti di riferimento che precedano e possano illuminare le nostre scelte.
Quando non siamo più d’accordo su cos’è l’uomo, quando l’uomo viene ricondotto totalmente ed esclusivamente alla natura, salta ogni differenza qualitativa, viene meno lo specifico umano, cadono o cambiano radicalmente i parametri educativi.
Si aprono così le porte al nichilismo, che nasce, come ha spiegato bene il suo primo sostenitore, Federico Nietzsche, con la “morte di Dio”.
La Chiesa italiana è pronta a un grande sforzo sull’educazione, collaborando con altri soggetti per il futuro del Paese, e pubblicherà in merito un “rapporto-proposta”.
Stiamo lavorando inoltre ad un grande evento internazionale per il dicembre prossimo a Roma, dove arriveranno alcuni tra i più importanti studiosi del mondo a confrontarsi sul tema di Dio e del suo significato per la nostra vita, anche in rapporto con la scienza».  Corriere della sera 07 febbraio 2009

V Domenica del tempo ordinario anno A

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7 Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».
Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è desti-nato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).
Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al ver-setto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope.
Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili.
Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fonda-mentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dal-l’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui.
Il «vedere» di Giobbe e di Dio.
Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente al-ternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio.
«L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1).
Il paragone della vita è il servizio militare (cf.
Gb 14,14) duro, sen-za possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato.
A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf.
Gb 14,6) e lo schiavo.
La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf.
Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dal-lo schiavo (Gb 7,2).
Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).
Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti.
Egli insiste sull’insonnia.
La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica.
Le ore della notte sembrano intermina-bili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo con-forto.
La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf.
3,6, 9,25).
Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf.
19,20; Ab 3,16).
La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo.
Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio, come il responsabile ultimo della vita.
A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita u-mana.
Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, per-ché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale.
Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10).
L’immagine del vedere è molto insi-stente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).
Il Salmo 146 (147), di cui è riportata la prima parte, ci presenta Dio Signore della storia e del cosmo; è un inno di lode e di ringraziamento.
È interessante l’accostamento del grido di Giobbe che si chiede che valore abbia la vita provata dal dolore e un inno che esalta la potenza, la fedeltà, la giustizia e la misericordia di Dio.
Secondo la dinamica biblica dob-biamo tenere insieme dialetticamente questi elementi apparentemente inconciliabili.
Dio è padrone del cosmo tanto che chiama le stelle per nome (Sal 147, 4); è fedele alle sue pro-messe e «ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi di Israele» (Sal 147, 2); è giusto, ma al tempo stesso è misericordioso e pieno di tenerezza verso le creature tanto che «sostiene gli umili, ma abbassa fino a terra gli empi» (Sal 147, 6).
Spesso, però, l’esperienza sembra contraddire in pieno questa presentazione dell’opera divina, i conti non tornano: gli empi prosperano e i giusti sono pieni di guai.
Allora ai momenti di lode si alternano quelli della domanda insistente a Dio, perché non taccia, ma risponda ai nostri angosciati interrogati-vi, come fa Giobbe e lo stesso Gesù che rivolge a Dio sulla croce la domanda del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23 Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato.
Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero.
Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.
Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense ma-teriali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa.
Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire.
Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi.
E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce.
Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf.
1Ts 2.9).
Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predi-care.
Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, sen-za nessuna imposizione.
Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno.
Paolo dunque proclama di essersi mes-so in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto del-le loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22).
Il Van-gelo non va predicato e basta.
Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo ac-cettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).
Vangelo: Marco 1,29-39 In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei.
Egli si avvicinò e la fece al-zare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati.
Tutta la città era riunita davanti alla porta.
Guarì molti che erano af-fetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non per-metteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, usci-to, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava.
Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce.
Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!».
Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E an-dò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Esegesi La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guari-gione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf.
Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf.
Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf.
Mt 4,23).
Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo fami-liare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.
Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf.
1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.
Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione.
I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suo-cera, che del resto rimane nell’anonimato.
Il verbo puresso avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.
Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano».
In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda al-la febbre di lasciarla.
La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre.
Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.
Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».
Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neu-tro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».
«Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.
Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due ter-mini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».
Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34).
È ricorren-te in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità.
Vengono tacitati i de-moni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37).
Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9).
Soltanto con la ri-surrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente.
Tale teoria risale a W.
Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formu-lata da questo autore.
Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo.
Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare.
Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35).
Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la pre-ghiera di Gesù.
Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21).
Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12).
Mentre è un’al-tra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf.
Lc 9, 28-29).
A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).
Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che se-guiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio.
Possiamo pensa-re, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’o-pera finora compiuta secondo il volere del Padre.
Tale opera è predicare.
I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf.
Mc 1,15).
Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).
«E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf.
1,34; 7,29; 16,9).
È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predica-zione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno del-la vicinanza del regno di Dio (cf.
Mt 12,28).
Meditazione Di fronte a ogni sofferenza che sfigura il volto dell’uomo, di fronte alla solitudine e alla impotenza generate dal dolore, non sappiamo cosa pensare.
Rifiutiamo ogni sorta di giu-stificazione e finiamo per dibatterci in un groviglio di interrogativi che, alla fine, giungono a chiamare in questione Dio stesso e a domandargli ragione del dolore, dell’ingiustizia, della assurdità del male che viviamo o vediamo attorno a noi.
Rimbalziamo così a Dio quella domanda che Lui stesso aveva fatto all’uomo, quando si era nascosto al suo sguar-do, dopo il peccato: Adamo, dove sei?…
Dio dove sei?.
È questo in fondo il dramma di Giobbe, di cui la liturgia della Parola di questa domenica ci offre un piccolo squarcio.
«Notti di af-fanno mi sono state assegnate…
i miei giorni svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,3.6): così Giobbe percepisce l’inutilità della sua vita.
Ma ha il coraggio di rivolgersi a Dio facendogli memoria della sua responsabilità di fronte all’uomo e alla sua sofferenza.
Dio stesso ha creato l’uomo così debole e allora? «Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,7).
Sulle labbra di Giobbe la preghiera si trasforma spesso in grido di ribellione, in accusa nei riguardi di un Dio che sembra contraddire il suo progetto, sembra disinteressarsi del-l’uomo.
Giobbe è l’uomo credente che ha il coraggio di porre a Dio le domande più bru-cianti e, in certo qual modo, scandalose; che ha il coraggio di chiedere conto a Dio della re-altà dell’uomo.
La via che Giobbe percorre è una via non solo difficile, ma pericolosa; può aprirsi alla speranza, ma può precipitare nella disperazione.
Infatti non è un cammino che matura attraverso risposte, ma una via che, da interrogativo a interrogativo, ha la possibi-lità di giungere, per pura grazia, a una luce: è cioè la scoperta che proprio una situazione di dolore, di debolezza, di male può essere occasione suprema, evento unico dell’incontro della libertà di Dio con la libertà dell’uomo.
Quel ricordati che Giobbe rivolge a Dio, lascia proprio intravedere questa possibilità di incontro: è la nostalgia di un volto che si desidera contemplare, un volto che guardi le sofferenze dell’uomo e se ne prenda cura.
Attraverso il testo del vangelo, un momento della lunga giornata di Gesù a Cafarnao, è come se Dio venisse incontro al desiderio di Giobbe.
Quel volto di Dio che l’uomo desidera incontrare nel suo dolore, è vicino nel volto umano di Gesù.
E proprio all’inizio del suo racconto Marco insiste su questo volto di Gesù: attraverso la sua potente parola, che è con-solazione e salvezza, Gesù sfida il male e la sofferenza in tutte le sue forme, fino a rag-giungere quel male che tiene schiavo l’uomo distruggendone la relazione con Dio, il pecca-to.
E l’uomo desidera e cerca questo volto e questa parola di salvezza.
Infatti Marco ci pre-senta tutta una folla di uomini e donne che si accalcano alla porta della casa di Simone, in cui Gesù si trova con i suoi discepoli.
E Gesù «guarì molti che erano affetti da varie malat-tie e scaccio molti demoni» (Mc 1,34).
Nell’accalcarsi della folla, nel premere di questa u-manità sofferente attorno a Gesù, davanti alla porta della casa di Simone, Marco ci offre così una immagine viva di questo incontro tra il volto di Dio e l’uomo che soffre.
Tutti i malati, tutta la città, tutti vogliono incontrare Gesù.
Cosi l’evangelista esprime l’entusia-smo, ma anche il bisogno universale di salvezza: tutti in qualche modo si trovano in una situazione di povertà, di indigenza, di smarrimento, di sofferenza.
Tutti sentono che Gesù può dire loro qualcosa, può fare qualcosa per loro.
Notiamo infine, che tutta questa folla di sofferenti si trova di fronte a quella ‘porta’ che immette nel luogo dove Gesù si trova as-sieme ai suoi discepoli.
L’immagine della casa di Simone può essere colta come simbolo della Chiesa: essa diventa il luogo della accoglienza, la mediazione dell’incontro con Gesù di ogni uomo che ha bisogno di essere guarito e liberato.
Ma l’immagine della porta, come spazio di passaggio e di comunicazione, richiama sempre la possibilità di una chiusura: essa può diventare un ostacolo a questa incontro con il volto di Cristo.
Marco, nei versetti 30-31, riporta anche un particolare intervento di Gesù in favore del-l’uomo sofferente: la guarigione della suocera di Simone.
Due versetti soltanto, ma capaci di comunicare la dinamica dell’incontro dell’uomo schiavo del male con il volto di Dio.
Il ge-sto che Gesù compie, scandito in tre verbi, è rivelativo di ciò che realmente si opera in una guarigione.
Gesù si avvicina a quella donna sofferente, la accoglie nella sua povertà e debolezza.
E il chinarsi stesso di Dio su tutte le miserie dell’umanità, è l’espressione plastica di quelle vi-scere di misericordia che con forza esprimono la reazione di Gesù di fronte all’umanità sofferente e sfinita.
Là dove spesso l’uomo si allontana dal fratello, Dio invece si avvicina e si china su di esso (cfr.
Lc 10,34: «gli si fece vicino»).
Gesù prende per mano quella donna.
Il toccare di Gesù esprime certamente un contatto liberatorio.
Ma sottolinea anche la necessità di un incontro personale, quasi fisico, tra l’uomo schiavo del male e la persona di Gesù.
È dunque un incontro personale, irrepetibi-le, una comunione che apre a nuova vita.
Gesù fa alzare quella donna.
È il movimento che sottolinea il passaggio da una situazio-ne di impotenza e di immobilità, di morte, alla ripresa di una nuova vita, alla possibilità di riprendere un cammino.
E Marco descrive questo gesto con un termine che evoca la resur-rezione.
Ciò che Gesù ha fatto è un segno: è anticipazione della vittoria sulla morte.
Il mi-racolo non è spettacolo, ma è rivelazione: provoca l’uomo a uscire da una lettura troppo materiale della propria vita, da una superficialità, e lo apre a una visione più profonda, a un orizzonte vasto rivelandogli il volto di Gesù.
Ciò che compie la donna guarita è profondamente significativo in quanto fa emergere l’autentico modo con cui una persona può rispondere a una liberazione donata: si mise a servirli.
Essere liberati per servire: in questo si rivela la forma concreta della sequela di Cri-sto.
Questa donna, come i discepoli, come il cieco di Gerico, è stata liberata e questa libera-zione è una chiamata a seguire Gesù.
Li serviva: è dunque uno stile che si acquista, una si-tuazione di vita che ha inizio: Gesù ci fa risorgere per incamminarci sulla strada del servi-zio.
Quando, nel dolore, abbiamo la grazia di incontrare il volto di compassione di Cristo (ed è questa la vera liberazione), allora non rimaniamo più ripiegati su noi stessi, immobi-lizzati nella nostra sofferenza.
Ci alziamo e ci mettiamo a servire l’uomo sofferente, diven-tando noi stessi icona del volto misericordioso di Dio.
Amare le domande, vivere le risposte Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato.
A questo proposito, rileggo spesso il con-siglio del poeta Rainer Maria Rilke: “..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle.
Il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.
Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.
(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).
Diventare l’amato – Spezzato La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a di-stanza, ignorarla, aggirarla o negarla.
La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non do-vrebbe esserci.
È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.
Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se fa-vorirla può sembrare a prima vista masochismo.
Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore.
Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “es-sere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa.
Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.
(Henri J.M.
NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).
Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.
Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.
La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.
“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in u-n’intervista telefonica.
“Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.
Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.
Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.
Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura.
“Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per con-tribuire alla società”.
Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.
La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006.
Il porpo-rato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.
“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’.
Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato.
“Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.
“Ora penso ‘Perché non io?’.
Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.
Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.
Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.
Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina.
Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946.
E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955.
E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991.
Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006.
La prospettiva della sofferenza e della morte Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speran-za di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione.
È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.
Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà.
È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare.
Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi.
Gesù è il «Dio che soffre con noi».
Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologica-mente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario.
Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non e-sporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri.
È per que-sto che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica me-glio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.
L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare que-ste sofferenze in un mezzo di liberazione.
Probabilmente conosci bene le obiezioni solleva-te da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio.
Come può Dio amare davve-ro il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inuti-le? I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivi-de le loro sofferenze.
In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà.
E loro compagno nella sofferen-za.
Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino.
Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta.
È solidale con lo-ro.
Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).
«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano» Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39).
Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto.
E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amore-volmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).
Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).
È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento.
Anzi, non solo torna la salu-te, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata.
Per dirla con linguaggio figurato, le membra che ave-vano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf.
Rm 6,19).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commen-to al Vangelo di Marco.
Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol.
1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p.
61-63).
Dammi coraggio Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.
Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.
Non darmi alleati nella lotta della vita…
eccetto la forza che mi proviene da te.
Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.
Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo; ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.
Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone; quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita, bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.
Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.
Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta: i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.
(Rabindranath Tagore) Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’in-giustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dub-bio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritro-va, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Il dubbio

Il dubbio – scritto e diretto da John Patrick Shanley Il tema è uno dei più scottanti: le supposte molestie sessuali da parte di un prete nel mondo cattolico statunitense, proprio là dove si sono levate, negli ultimi anni, una incredibile quantità di denunce contro i sacerdoti locali, tanto da far scoppiare una crisi che non è ancora stata del tutto riassorbita.
Ma il film Il dubbio – scritto e diretto da John Patrick Shanley, interpretato magistralmente dai premi Oscar Meryl Streep e Philip Seymour Hoffman – affronta il tema, così scottante, con pudore e delicatezza, facendo capire, soprattutto, come in questi casi sia veramente difficile scoprire la verità.
Perché, in assenza naturalmente di confessioni, la ricerca della verità si basa sull’interpretazione di un gesto che può anche essere solo di amicizia e di sostegno per un ragazzo particolarmente debole.
Un gesto che può far parte del modo di essere di una personalità di prete estroversa, ma proprio per questo capace di suscitare l’affetto e l’interesse dei parrocchiani.
Nel film, infatti, lo scontro si svolge fra due figure di religiosi straordinariamente diverse: un prete irlandese appunto espansivo e allegro, da una parte, e dall’altra una suora, direttrice della scuola annessa alla parrocchia, gelida e apparentemente solo ligia alle regole, priva di calore umano.
Entrambi si impegnano per proteggere un ragazzo nero di famiglia povera, debole e bisognoso di aiuto, ma in modo completamente diverso.
E se, all’inizio, siamo portati a stare dalla parte del prete allegro e affettuoso, che vuole dare protezione al ragazzo, poi il film ci porta a pensare, attraverso lo sguardo della suora, che forse non si tratta solo di protezione, e che chi difende veramente il ragazzo dalle molestie del prete è, invece, proprio la direttrice.
In mezzo ai due, la figura della madre, talmente debole da accettare qualsiasi cosa pur di vedere il figlio promosso e possibilmente accettato in una scuola superiore, per garantirgli la fuga da un mondo duro e violento – quello del padre – al quale non è adatto.
Tante, e diverse, sono le ragioni, tanti i comportamenti possibili, in una società che vede affrontarsi un uomo in apparenza più forte, e una donna, che teme sempre inganno e sopraffazione da parte degli uomini, anche se preti.
Vediamo così contrapporsi due modi diversi di vivere la fede, e quindi l’educazione dei ragazzi: uno più moderno e permissivo, allegro e affettuoso – ma forse bacato all’interno – e un altro severo, disciplinato, poco propenso al concedere gratificazioni, ma attento alla difesa della dignità dei ragazzi.
Non sapremo mai, alla fine, se il prete è veramente colpevole: anche se molto sembra testimoniare contro di lui, il dubbio finale della superiora accusatrice riapre ogni questione.
Il film è molto bello proprio perché fa capire come sia facile sospettare, e leggere ogni azione come conferma di un sospetto, quando a suffragare il dubbio sia la differenza tra visioni diverse della fede e dell’educazione, financo una certa antipatia personale.
E come il ruolo di educatore e la vicinanza con i ragazzi – indispensabile per seguirli e comprenderli, per difendere i più deboli e aiutarli ad affrontare la vita – possa facilmente scivolare in rapporti troppo personali, troppo affettuosi.
Ed è estremamente significativo che proprio dalla cultura americana, attraversata drammaticamente in anni recenti dal fenomeno degli abusi sessuali di una piccola parte del clero, sia venuta una riflessione così attenta, così profonda, sul tema del sospetto e della denuncia, che ne rivela la complessità e, insieme, la difficoltà di chiarire e di raggiungere la verità.
È un film che invita a controllare i sospetti, a passarli a un severo vaglio di coscienza, in modo da purificarli da antipatie personali, competizioni, divergenze nel modo di concepire il lavoro e la missione religiosa, perché arrivare alla verità è un risultato purtroppo difficile da raggiungere su questioni così spinose.
Ed è facile rovinare delle vite, e al tempo stesso danneggiare la Chiesa, pur di credersi nel giusto.
di Lucetta Scaraffia (©L’Osservatore Romano – 6 febbraio 2009)

Le parole e i giorni

GIANFRANCO RAVASI,  Le parole e i giorni.
Nuovo breviario laico,  Mondadori, Milano, 2008, pp.
416, euro 19 Gianfranco Ravasi trae spunto dal vasto serbatoio culturale della cultura mondiale per il suo nuovo lavoro ‘Le parole e i giorni.
Nuovo breviario laico’.
L’autore commenta, infatti, le tante testimonianze che intellettuali, scrittori e filosofi di tutti i tempi hanno lasciato ai posteri.
Sulla falsariga del precedente ‘Breviario laico’, interpreta le parole di William Shakespeare, Lev Tolstoj, Catullo, Simone Weil, Confucio e Albert Einstein.
Brani che si presentano innervati nel Cristianesimo delle Sacre Scritture, il ‘grande codice’ della civilta’ occidentale.
L’autore presenta ‘una piccola guida per aiutare a ritagliare un perimetro quotidiano di contemplazione e di meditazione, libero dalle ortiche della banalita’ e della superficialità’.Un perimetro quotidiano che contribuisce a ritagliare, ‘un’oasi di silenzio’ con cui disinnescare le fatiche di sempre.
”Per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione.
La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino.
Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li ha privati”.
Non è un autore spirituale o un filosofo, non è un predicatore e neppure un credente a aver scritto queste righe.
È stato, invece, uno scrittore agnostico e “indifferente” come Alberto Moravia a offrire questa considerazione nella raccolta di saggi L’uomo come fine, apparsa nel 1964.
Suggestiva è l’immagine della diga: in un mondo come il nostro così obbediente all’idolo della produttività e dell’azione, è necessario far risalire il livello dell’acqua purificatrice, fecondatrice e dissetante nel bacino della coscienza.
Nell’era tecnologica, ove impera il fare e il dire, sembra quasi provocatorio proporre una sosta di riflessione, un’oasi di silenzio, una dieta del parlare.
È significativo che Moravia rimandi a un'”energia” da riconquistare: l’anemia morale di molti uomini e donne del nostro tempo nasce proprio da una carenza di vitalità interiore.
“Per compiere grandi passi” annotava un altro scrittore, l’ottocentesco Anatole France “non dobbiamo solo agire ma anche pensare e sognare, non solo pianificare ma anche credere”.
Ebbene, questo libro intende essere come una piccola guida che aiuti a ritagliare in ognuno dei 366 giorni di un anno (compreso, quindi, il bisestile) un perimetro quotidiano di meditazione e di contemplazione, libero dalle ortiche della banalità e della superficialità.
Idealmente vogliamo con queste pagine ripetere l’esperienza fatta nel 2006 quando abbiamo proposto un primo Breviario laico che aveva allora registrato un sorprendente successo editoriale.
La parola “breviario” evoca un orizzonte religioso e fin sacrale, secondo un’antica tradizione liturgica cristiana.
Certamente le riflessioni che seguiranno recano l’impronta di quel “grande codice” di riferimento della civiltà occidentale che è il cristianesimo con le sue Scritture sacre.
Tra l’altro, a comporre e a proporre tali spunti di moralità e di interiorità è pur sempre un ecclesiastico, anzi, un vescovo.
Eppure l’aggettivo che qualifica questo “breviario” di pensieri quotidiani è, a prima vista, antitetico: “laico”, nell’accezione comune odierna (non in quella tradizionale e storica), è sinonimo di areligioso, agnostico, persino di ateo.
Vorremmo, allora, che le pagine de Le parole e i giorni fossero aperte anche a chi non varcherà mai la soglia di una chiesa, ma ha dentro di sé il fiorire delle domande, la vivacità della ricerca, il desiderio dell’introspezione (ha ragione, infatti, Puccini quando fa cantare al Principe ignoto della Turandot: “Ma il mio mistero è chiuso in me…”).
Forse il programma di questo volume potrebbe essere codificato in una delle Massime e riflessioni del grande Goethe: “La felicità suprema del pensatore è sondare il sondabile e venerare in pace l’insondabile”.
E il metodo potrebbe essere formalizzato con uno dei Pensieri di un altro grande, Pascal: “L’uomo è visibilmente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo compito; e tutto il suo dovere è pensare come sì deve”.
La “laicità” delle riflessioni proposte – nel senso più vasto dei termine – è assicurata anche dalla molteplicità delle voci che ogni giorno interverranno: esse appartengono a culture differenti, a epoche storiche distanti, a religioni diverse o anche a nessuna religione.
Ognuna ha, però, un messaggio, un’intuizione, un pensiero da comunicare, attorno al quale è possibile far fiorire una meditazione breve, un’illuminazione intima, un fremito della coscienza.
Il caleidoscopio delle citazioni si compone, dunque, in un mosaico dai mille colori e forme, al cui interno, però, si intravede un profilo: è quello dell’uomo che pensa e che ama e che quindi vive in modo vero e autentico.
Un po’ come suggerisce la tradizione indù: “Se hai due pezzi di pane, danne uno ai poveri.
Vendi l’altro e compera dei giacinti per nutrire con la loro bellezza la tua anima”.
(©L’Osservatore Romano – 5 febbraio 2009)