Marzo

L’ideologia di una guerra santa così come si presenta in alcuni libri dell’Antico Testamento fa trasparire un’evoluzione che è parallela all’evoluzione religiosa della fede ebraica.
Una dottrina della guerra sembra risalire all’epoca della conquista e dell’insediamento in Palestina delle tribù di Israele, raccontate nei Libri di Giosuè e dei Giudici.
Gli ebrei andavano in guerra con il loro dio nazionale Yahweh.
I loro successi militari erano la prova della Sua superiorità rispetto alle altre divinità.
L’esaltazione religiosa della conquista popolare caratterizza questa fase che viene abbandonata con l’affermazione della monarchia e la conseguente creazione di un esercito del Regno.
Questa epoca premonarchica fu indicata come modello dal grande movimento di riforma religiosa di cui furono protagonisti i profeti, e le guerre di Israele furono interpretate come le guerre di Yahweh.
Così, le sconfitte che subiva il popolo ebraico furono messe in relazione al tradimento dell’Alleanza e all’adorazione di divinità straniere.
Il Libro del Deuteronomio contiene una vera codificazione della guerra, soprattutto nel capitolo 20 che è interamente dedicato a questo tema.
Vi si afferma che Yahweh «marcia al fianco di Israele»; è da ciò che il popolo eletto deriva la certezza della propria vittoria (Dt 20,2-4).
2 Quando sarete vicini alla battaglia, il sacerdote si farà avanti, parlerà al popolo 3 e gli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici.
Il vostro cuore non venga meno.
Non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, 4 perché il Signore, vostro Dio, cammina con voi, per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi.
La presenza costante di Yahweh al fianco del popolo ebraico è l’aspetto essenziale della guerra santa: i guerrieri non devono mai temere il loro nemico perché Yahweh può intervenire in mille modi, anche miracolosi (Gs 10,11).
Fra le diverse prescrizioni legate alla guerra nell’Antico Testamento suscita stupore la pratica dell’herem che consisteva nel fare voto di distruggere interamente le cose e i beni di determinati nemici, in caso di vittoria (Nm 21,2; Gs 6,21).
Il Deuteronomio indica anche quali sono i popoli per i quali bisogna applicare l’herem (Dt 20,16-18).
20 Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe.
Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città.
21 Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l’ariete e l’asino.
(Gs 6,20-21).
Alla fine, quando la disfatta dell’ultimo regno di Israele fu consumata, la prospettiva del castigo lasciò spazio alla speranza e all’attesa della grande guerra escatologica: furono i profeti a sviluppare, accanto a una concezione positiva della guerra santa, anche una negativa, in cui le sconfitte erano comprese come un castigo per il popolo ebraico.
Questa nuova interpretazione è legata alla precedente perché, in un caso come nell’altro, Yahweh è presente nella guerra e castiga coloro che si scostano dalla retta via.
L’aspetto tragico del conflitto è presente in tutti i profeti, ma soprattutto in Geremia ed Ezechiele che furono contemporanei alla caduta di Gerusalemme e del suo tempio.
Il culmine di quella tensione conduce, poco per volta, alla prospettiva escatologica.
L’interpretazione della guerra da parte dei profeti sfocia nell’idea del “giorno di Yahweh”, il “giorno del Signore”, quello in cui Dio manifesterà la sua onnipotenza punendo coloro che si sono allontanati da lui (Is 2,10-12).
10 Entra fra le rocce, nasconditi nella polvere, di fronte al terrore che desta il Signore, allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra.
11 L’uomo abbasserà gli occhi superbi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo in quel giorno.
12 Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo; 13 contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, 14 contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, 15 contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato, 16 contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso.
17 Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.
18 Gli idoli spariranno del tutto.
(Is 2,10-18) Un ultimo sviluppo dell’interpretazione della guerra, che ritroviamo solamente in alcuni profeti, sarà la presa di posizione risolutamente pacifista che nega qualsiasi valore alle armi, intravedendo la sopravvivenza di Israele solo nel ritorno alla vera religione (Os 14,2; Is 31,1-3; 22,8-11; 30,15).
1 Guai a quanti scendono in Egitto per cercar aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo di Israele e senza cercare il Signore.
2 Eppure anch’egli è capace di mandare sciagure e non rinnega le sue parole.
Egli si alzerà contro la razza dei malvagi e contro l’aiuto dei malfattori.
(Is 31,1-2) Si tratta di una concezione che ha certamente poco a che fare con il moderno pacifismo, e ancor meno con la non-violenza: qui si afferma sostanzialmente il primato delle qualità spirituali sulla forza materiale, e la piccolezza dei mezzi umani di fronte alla volontà divina.
Con Ezechiele ci si incammina nella direzione della speranza di un ritorno a tempi di pace e all’annuncio di una grande guerra legata alla fine dei tempi.
36 Quando vi avrò purificati da tutte le vostre iniquità, vi farò riabitare le vostre città e le vostre rovine saranno ricostruite.
34 Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà di nuovo coltivata 35 e si dirà: La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden, le città rovinate, desolate e sconvolte, ora sono fortificate e abitate.
36 Le nazioni che saranno rimaste attorno a voi sapranno che io, il Signore, ho ricostruito ciò che era distrutto e coltivato di nuovo la terra che era un deserto.
(Ez 36,33-37) Questa tendenza apocalittica proseguirà nei secoli successivi, e troverà il suo pieno sviluppo a partire dal II secolo a.C.
nei testi dell’apocalittica giudaica di cui il Libro di Daniele è un esempio.
Le visioni escatologiche che vi sono contenute sono direttamente legate ai turbamenti sociali e politici di quell’epoca; una delle idee centrali che esse veicolano è l’attesa del Messia: è in questo contesto che nascerà il cristianesimo.
Dopo la caduta del Tempio e la Diaspora il giudaismo ha molto poco considerato il problema della guerra.
La rilettura della Legge e la sua attualizzazione divenne l’occupazione fondamentale dei rabbini e della comunità ebraica e l’impossibilità politica, per duemila anni, di condurre una qualunque forma di guerra portò a una reinterpretazione totale del suo significato.
Con il genocidio perpetuato dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale, un altro personaggio biblico è venuto a imporsi nella coscienza giudaica, quello di Giobbe, l’uomo giusto e innocente che diventa vittima delle peggiori calamità.
Così, confrontandosi con lo sterminio, il giudaismo trova, nella storia biblica, non tanto una risposta alle sue domande, quanto il modello che pone la medesima domanda.
Alcuni pensatori ebrei, come André Neher, hanno così espresso l’interrogativo supremo: «Così come Geremia ebbe il coraggio di identificare in Nabucodonosor un servitore di Dio, allo stesso modo la generazione di Auschwitz avrà lo stesso coraggio di riconoscere in Auschwitz un’aggressione divina?».
La non violenza praticata nel cristianesimo primitivo derivava naturalmente dall’esempio di Gesù e dal comandamento mosaico: «Non uccidere».
L’omicidio era quindi profondamente proibito e ogni omicida era escluso dalla comunità cristiana.
Un simile rifiuto di uccidere era naturalmente incompatibile con il mestiere del soldato e il problema della legittimità del servizio militare dal punto di vista cristiano risale a quest’epoca.
I primi tre secoli della storia della Chiesa si pongono nella prospettiva inaugurata da Cristo stesso: l’ostilità delle autorità alla predicazione cristiana si è perpetuata fino all’editto di Costantino (313) e fu segnata da un’opposizione continua dello stato romano verso la nuova religione, opposizione degenerata spesso in aperta persecuzione.
L’atteggiamento dell’apostolo Paolo fu duplice: da un lato invitava a sottomettersi all’autorità dello stato, nella misura in cui questo partecipava all’ordine del mondo voluto da Dio; dall’altro, lo stato era un fenomeno passeggero al quale non ci si poteva interamente piegare.
La posizione legalista di Paolo si trova espressa in un celebre passo della Lettera ai Romani.
1 Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite.
Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio.
2 Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio.
E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna.
3 I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male.
Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4 poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene.
Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male.
(Rm 13,1-4) Il rispetto dell’autorità civile deve essere interpretato come un aspetto dell’atteggiamento generale dei cristiani, che è di rispetto per gli altri; non si tratta di sottomissione cieca al potere.
La legittimità del potere dello stato è solo in funzione della sua capacità di fare il bene.
Paolo, come Gesù, riconosce l’esistenza di un’autorità terrena che non deve essere rovesciata con la violenza e, malgrado le persecuzioni, fu la posizione seguita da tutti i vescovi fino alla conversione di Costantino.
Suvvia, egregi governatori: sarete ancora più egregi presso il popolo se gli immolerete i cristiani.
Orsù, coraggio, tormentateci, torturateci, condannateci, stritolateci: la vostra iniquità è la prova della nostra innocenza! Dio permette che noi soffriamo tutto questo…
Eppure a nulla giova la vostra squisita crudeltà, anzi è un’attrattiva per la nostra religione.
Più siamo mietuti da voi, più cresciamo: il sangue dei cristiani è un seme! (Tertulliano, Apologetico, 50) Anche se l’ostilità anticristiana era generale e periodicamente un editto imperiale scatenava tutte le atrocità contro di essi, si vedono ancora i vescovi e gli apologeti cristiani cantare le lodi dell’imperatore e proclamare la fedeltà dei cristiani alla pace romana.
L’adesione all’impero non poteva essere completa fintanto che questo continuava a celebrare i culti pagani; il giorno in cui l’imperatore si convertì, il cristianesimo da religione perseguitata divenne religione riconosciuta e protetta.
Il legalismo assunse allora un altro aspetto e si assistette all’unione del potere temporale e delle istituzioni religiose.
Fu così che la confusione tra Dio e Cesare, nettamente respinta da Gesù, si trovò personificata nell’imperatore Costantino.
L’alleanza tra Chiesa e stato trasformerà profondamente la prima: il legalismo temperato di Paolo diventerà bramosia di potere, l’eroismo dei martiri sarà sostituito con l’intolleranza e la persecuzione contro i pagani.
L’analisi dei conflitti internazionali mette in evidenza, tra gli altri elementi, anche l’importanza che riveste l’identità culturale dei popoli nella quale si integra l’identità religiosa.
La manifestazione violenta dei sentimenti religiosi diviene a volte uno strumento di lotta contro l’oppressione, la volontà di ritrovare la propria identità.
Lo scatenamento delle passioni comporta grandi pericoli ed è portatore delle peggiori follie omicide.
Ma la dimensione religiosa nella sua essenza, non ha niente a che vedere con questo scatenamento delle passioni, anzi è all’opposto, e non ha niente a che vedere con la guerra.
Religione significa, o dovrebbe significare, “pace”.
Questo è il suo unico oggetto, il messaggio centrale di tutte le religioni a cui bisogna continuamente ritornare.
Questa pace è il vero spazio del religioso, questo è il suo vero campo d’azione anche se è stato a lungo fuorviato (e lo è tuttora) sui campi di battaglia.
La caratteristica dell’ebraismo è lo studio della Torah, del cristianesimo è la fede in Cristo risorto, dell’islam la sottomissione ad Allah, dell’induismo è l’unione con Brahma, del buddismo il Risveglio alla propria natura universale.
In nessun caso si tratta mai di uccidersi.
In questa sede, e nel prossimo mese, cercheremo di evidenziare alcuni elementi centrali nella riflessione sul rapporto tra le religioni e la guerra che permettano di leggere, alla luce della storia e dei testi sacri delle principali religioni, gli eventi contemporanei.
La prima parte è dedicata all’ebraismo e al cristianesimo; il mese prossimo considereremo l’islam, l’induismo e il buddismo.
Il pacifismo della morale evangelica e la non-violenza dei martiri cristiani, pertanto, non sopravvissero a lungo al matrimonio tra Chiesa e stato.
La contraddizione evidente con tutte le violenze commesse nei secoli successivi nel nome di Cristo, non può che stupire chi osserva l’epopea del cristianesimo: conversioni forzate, inquisizione, crociate, guerre di religione costellano la storia dei cristiani la cui missione era proclamare la Buona Novella.
Certamente il cristianesimo non fu la sola religione che si servì della spada come strumento della fede, e la storia dei santi come san Francesco e san Vincenzo de’ Paoli, o il periodo di pace instaurato dalla Chiesa nell’alto Medioevo, stanno lì a ricordarci che il cristianesimo non era sinonimo di distruzione.
Tuttavia la violenza nella storia di questa religione stupisce più delle altre perché si oppone radicalmente all’insegnamento del suo fondatore.
Associata allo stato, la Chiesa fu presa, così, nell’ingranaggio infernale della giustificazione teologica delle azioni commesse dal potere temporale.
Essa stessa divenne la fonte di una nuova violenza, nella sua certezza di essere la sola detentrice di una verità valida per tutta l’umanità.
Ai conflitti tradizionali, si aggiunse la guerra alle divinità pagane e la caccia agli eretici.
Alcuni teologi giunsero fino a elaborare una teoria della “guerra giusta”: il principale promotore di questa fu sant’Agostino.
Egli, formatosi alla più elevata filosofia del suo tempo, dovette misurarsi con la difficoltà di conciliare la guerra con le Sacre Scritture.
Fortemente legato al precetto di “amare i propri nemici”, Agostino considerava l’atto di uccidere, anche solo per difesa, come un peccato; opponeva al regno di questo mondo un Regno spirituale (la Città di Dio), l’unico degno di vera attenzione da parte degli uomini.
Provava una profonda avversione per ogni guerra: Che tutti coloro che riflettono con dolore a questi mali così orribili e così crudeli, riconoscano che la guerra è una calamità; e se qualcuno li accetta o li pensa senza provare dolore morale, la sua sorte è più triste ancora, perché egli ha perduto ogni sentimento umano.
Eppure, al di là del suo pacifismo, Agostino fu costretto a constatare il pericolo reale e concreto rappresentato dalle invasioni barbariche che si apprestavano a distruggere la civiltà romana e le istituzioni della Chiesa (egli morì a Ippona assediata dai Vandali).
Doveva forse consigliare all’insieme dei cristiani di rifiutarsi di prendere le armi? Questa soluzione gli parve impossibile e intraprese quindi la strada della giustificazione della guerra, almeno sotto una certa forma.
Il primo punto della sua dottrina consiste nel distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste.
Egli definisce «giuste le guerre che vendicano le ingiustizie quando quel popolo o quello stato a cui la guerra deve essere fatta non ha punito i misfatti dei suoi o non ha restituito ciò che è stato sottratto attraverso le ingiustizie».
Questa affermazione sottintende che, in ogni caso, le guerre difensive debbano essere giustificate.
Il secondo punto consiste nel ritenere la guerra come un mezzo per ottenere la pace; qualsiasi tipo di pace, è da lui così definita: «La pace è la tranquillità nella giustizia».
Questa posizione implica la moderazione nella conduzione della guerra: «Siate dunque pacificatori nella vostra guerra affinché la vostra vittoria conduca coloro che avete vinto a comprendere l’utilità della pace».
Bisogna quindi ricorrere alla guerra solo in caso di grande necessità, come estrema ratio.
La giustificazione della violenza conobbe, in seguito, un successo che Agostino non poteva immaginare.
Grazie a essa le conversioni forzate e gli abusi dell’Inquisizione poterono avvalersi dell’autorità del maestro di Ippona.
Per primo, egli aveva enunciato il famoso principio: Compelle intrare!, cioè “costringili ad entrare!”.
Senza saperlo, Agostino aveva dunque inaugurato per la Chiesa la lunga tradizione del ricorso al braccio secolare contro coloro che voleva punire.
La sua teoria della guerra giusta sarà il fondamento della teoria della guerra per tutto il Medioevo.
Successivamente, il diritto della guerra evolverà nella direzione del diritto generale, senza riferimento diretto alla dottrina cristiana.
Nel XVI secolo il domenicano spagnolo Francesco De Vittoria studierà il problema della guerra a partire dal diritto di ogni nazione, mentre un secolo più tardi, con Grozio, il problema della guerra sarà esaminato sotto l’angolatura del diritto internazionale.
Nel secolo scorso, in occasione delle due guerre mondiali, si è registrata la strenua opposizione dei due pontefici dell’epoca.
Benedetto XV definì la Prima Guerra «la più fosca tragedia della follia umana», mentre Pio XII nel tentativo di scongiurare la Seconda Guerra, così si pronunciava il 24 agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace.
Tutto può esserlo con la guerra».
Benché Gesù abbia affermato «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17) la morale evangelica appare spesso ben lontana dalla morale dell’Antico Testamento.
È senza dubbio nel Discorso della Montagna che la morale evangelica raggiunge la più perfetta formulazione.
3 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
(Mt 5,3-12) Gesù riprende antichi comandamenti dando loro un nuovo vigore, ricercando lo spirito dietro la lettera: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,21-22).
Gesù non esita a modificare le codificazioni della Legge che appaiono incompatibili con il suo insegnamento: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Mt 5,38-40).
Inoltre, insiste senza sosta sull’amore del prossimo, fino all’estremo dell’amore per i nemici: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,43-44).
Tutte queste parole di Gesù evocano un insegnamento che esalta l’umiltà, la bontà, la pace e che esclude per i suoi seguaci il ricorso alla violenza e alla guerra.
Eppure, altri versetti dei Vangeli mostrano Gesù sotto tutt’altro aspetto.
Anche volendo ignorare alcuni passi di chiara portata apocalittica, ne troviamo altri in aperta contraddizione con la visione delle Beatitudini, come il seguente: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34).
Numerosi cristiani, lungo i secoli, non hanno esitato a servirsi di passaggi come questo dei Vangeli per trasgredire la morale del Discorso della Montagna.
Non bisogna però dimenticare che Gesù si esprime in un contesto sociale di forte agitazione, in cui la violenza politico-religiosa covava sotto la cenere, in cui le antiche profezie erano caricate di valenze distruttrici, e in cui le folle che lo seguivano vedevano in lui essenzialmente un liberatore nazionale.
Gesù, comunque, non esita a scontrarsi con i mercanti del Tempio, con gli scribi e i farisei, con i ricchi e gli ipocriti, con tutti coloro che rifiutano l’amore e la giustizia contenuti nella Legge che pretendono di osservare.
Si mostra anche intransigente con i suoi discepoli: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).
Tuttavia, riletti nella prospettiva dell’epoca, certi passaggi non sono in contraddizione con l’insegnamento fondamentale che Gesù propone e che esclude ogni violenza contro il prossimo.
La conferma di questa lettura sta nella sua accettazione delle sofferenze e della morte, senza cercare alcun ricorso alle armi, ma morendo con parole di perdono nei confronti dei suoi carnefici.
1.
Perché possiamo parlare di “guerra santa” nell’esperienza del popolo ebraico del periodo premonarchico? 2.
Quale differente atteggiamento nei confronti della guerra si riscontra nel Libro di Ezechiele rispetto alla concezione precedente? 3.
Quale Libro dell’Antico Testamento è stato maggiormente considerato nel pensiero ebraico successivamente ad Auschwitz e perché? 4.
Perché possiamo parlare, alla luce dei Vangeli, di “pacifismo cristiano”? 5.
Quando, e che cosa ha determinato nella Chiesa, lo smarrimento di questo ideale? 6.
Quali sono i punti fondamentali della teoria della “guerra giusta” secondo Agostino”?

8 MARZO 2009

E qualche battuta, tra il vero e il faso su di noi, ci farà sorridere di certo.
Eccole: 1.
Qual e’ la differenza fra le donne di 8, 18, 28, 38 e 48 anni? Quelle di 8 anni le si mettono a letto e si racconta loro delle storie; quelle di 18 anni si raccontano loro delle storie e si mettono a letto; quelle di 28 anni non hanno bisogno che si racconti loro delle storie per metterle a letto; quelle di 38 anni vi raccontano delle storie e vi portano a letto; a quelle di 48 bisogna che le raccontiate delle storie per evitare di andarci a letto.
2.
Potremo dire di avere raggiunto la parità tra i sessi quando donne mediocri occuperanno posizioni di responsabilità.
(Francois Giroud) 3.
Cosa vuol dire quando una donna e’ fuori della cucina? Che la catena e’ troppo lunga.
4.
Una donna affascinante e’ l’inferno dell’anima, il purgatorio del portafoglio, ed il paradiso degli occhi.
(Fontenelle) 5.
Una donna e’ come un buon libro: divertente, ispira, istruisce.
Talvolta ci sono troppe parole, ma se la rilegatura e le decorazioni sono belle e’ irresistibile.
Vorrei potermi permettere una biblioteca.
(Marcus Long) 6.
Le donne sarebbero più affascinanti se si potesse cadere fra le loro braccia senza cadere nelle loro mani.
(Ambrose Bierce) 7.
Era così piatta che di reggiseno non aveva la prima, ma la retromarcia.
(Giorgio Faletti) 8.
Quando la donna che t’ama ti loda, non t’insuperbire: loda se stessa.
9.
Se una donna desidera un diadema di diamanti, vi spiegherà che e’ per evitarvi di comperarle un cappello.
(Jerome K.
Jerome) 10 Dopo tanto discorrere resta dubbio se le donne preferiscano essere prese, comprese o sorprese.
(Gesualdo Bufalino) 11.
Le donne non hanno mai niente da dire.
Ma lo sanno dire così bene! (Oscar Wilde).
12.
Le donne sono straordinarie con la loro mania di far dormire gli altri nel modo in cui loro gli rifanno il letto.
(Samuel Beckett) La prima donna italiana a prendere la penna con intenti letterari fu Compiuta Donzella, una musica fiorentina del 1200, di cui ci restano tre sonetti.
Da Compiuta ad oggi, molte grandi donne italiane si sono avvicinate alla scrittura, ognuna per un motivo e con un intento differente.
I risultati sono stati i più disparati.
Nel percorso che presento, vi sono alcune tra le scrittrici italiane più significative, nella speranza che, attraverso le loro vite, spesso difficili, e le loro opere, sia possibile comprendere anche li diversi momenti che ha attraversato, nel tempo, la società italiana.
Senza strombazzature e botti pirotecnici.
Naturalmente, di ognuna indicherò solo il periodo storico, fermandomi agli Anni Settanta, altrimenti… 1347-80 S.
Caterina da Siena 1450 Antonia Pulci Alessandra Macinghi Strozzi Isotta Nogarola Cassandra Fedele Laura Cereta Gaspara Stampa 1450 – 1500 Lucrezia detta Imperia Vittoria Colonna Tullia d’Aragona Chiara Matraini Laura Battiferri Amannati Veronica Franco Isabella di Morra 1530 Olympia Morata 1550 Moderata Fonte Isabella Andreini Lucrezia Marinella 1600 – 1700 Maria Clemente Ruoti Faustina Maratti Zappi Luisa Bergagli fine 1700 Diodata Saluzzo Roero Gaetana Agnesi Eleonora Fonseca Pimentel Cristina Tivulzio Belgioioso 1850 – 1900 Matilde Serao Caterina Percoto Contessa Lara Vittoria Aganoor Pompilj Grazia Deledda Neera Maria Messina 1900 Amalia Guglielminetti Ada Negri Sibilla Aleramo Futurismo: Rosa Rosà Gianna Manzini Anna Banti Neorealismo: Fausta Cialente Alba de Cespedes Elsa Morante SECONDA GUERRA MONDIALE Natalia Ginzburg II° DOPOGUERRA Antonia Pozzi Amelia Rosselli Giulia Niccolai Margherita Guidacci Maria Luisa Spanzani ANNI ’70 Amanda Guiducci Gina Lagorio Dacia Maraini ……….
Invece le annotazioni che seguono sono preziose per coloro che intendono meglio approfondire i loro studi sul contributo femminile nei vari campi del sapere: Indirizzi: A Celebration of Women Writers: Un sito dedicato alle donne scrittrici, con elenchi suddivisi per epoca e per paese.
Interessante per ricerche specialistiche, dato che compaiono nomi di scrittrici provenienti anche dai paesi più piccoli.
African Women’s Bibliographic Database Un database – suddiviso per paese e per zona – specifico sulle donne africane: dalla situazione sociale alla letteratura, agli studi di genere.
American Women History Un database sulla storia delle donne americane: libri, riviste, tesi, con un indice per soggetto.
E-book by Women Writers – University of Virginia Sito dell’Università della Virginia che offre un elenco di donne scrittrici, soprattutto per il periodo 1800-1900.
I libri sono stati riportati in versione html, e possono quindi essere letti direttamente.
Early Modern Women Database Database delle biblioteche dell’Università del Maryland, suddiviso per temi, paesi, e tipi di documenti cercati.
Feminist Science Fiction, Fantasy and Utopia Sito che offre molto materiale sulla fantascienza e sul genere fantasy scritto da donne e da un punto di vista femminista: bibliografia suddivisa in ordine alfabetico, riviste, documentari e film.
Feminist Studies Collections: Women in History Sito della Stanford University (California) molto ricco di materiale sugli Women’s Studies: amplia soprattutto la parte dedicata alla storia delle donne, con link a siti specifici.
Medieval Feminist Index Questo sito offre la possibilità di consultare giornali, libri, articoli, saggi, riviste sulle donne, la sessualità e il genere nel Medio Evo.
Sito serio, collegato alle Università di Notre Dame, Yale, Princeton, Berkley e Toronto.
SOSIG Women and Education Questo sito, che fa parte dello UK Resource Discovery Network, offre una serie di link che si occupano del campo di Women’s and Gender Studies da vari punti di visti: ogni link viene ampliamente descritto e presentato.
WMST-L File Collection Sito contenente molto materiale suddiviso per tema: dai libri alla storia, dalla sessualità al linguaggio.
The World Wide Web Virtual Library Women’s History Reference Offre molti dati interessanti per quanto riguarda gli Women’s Studies: dallle riviste ai link alle università di tutto il mondo che si occupano di questo campo.
Women’s EuroMap Sito del Centro di Women’s Studies di Anversa, Belgio.
Vuole essere una “guida” ai siti di particolare interesse per gli Women’s Studies nella rete.
Si focalizza soprattutto sull’Europa.
Women’s Studies Database Database dell’Università del Maryland: bibliografie, saggi e informazioni utili per i posti di lavoro vacanti nell’area di Women’s Studies.
Women’s studies information sources Sito dell’Università di York (Inghilterra), con un database specifico, una lista di riviste che si occupano di Women’s e Gender Studies e la possibilità di consultare la biblioteca via internet.
Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso(Pablo Neruda) Non si può ancora affermare che la nostra società dia alle donne la possibilità di svolgere contemporaneamente i propri compiti di madri, di mogli e anche di altri lavori.
Questo e’ quello che occorre ancora ottenere e- sinceramente- impegnarsi per onorare la lotta intrapresa dalle donne più di cent’anni fa.
Mi imbarazza, ma ci sono troppe giovani donne che non sanno il perché di questa “memoria”- non festa- quindi un minimo di vicenda bisogna proporla.
E poi desidero offrire due o tre cose che sfuggono a tanti, ma che vale la pena di conoscere, visto che ci possiamo “abbracciare” come umanità in ricerca con Internet.
Nel 1908 Preceduta da una marcia di 15.000 donne nel 1908 per il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’ottenimento del diritto al voto, la prima festa della donna si è svolta il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti d’America.
La sua istituzione internazionale risale al 1910 nel corso della seconda Conferenza dell’Internazionale Socialista svoltasi a Copenaghen nella Folkets Hus (Casa del Popolo) chiamata poi “ungdomshuset”.
Qui più di 100 donne rappresentanti di 17 paesi scelsero di istituire una festa per onorare la lotta femminile per l’ottenimento dell’uguaglianza sociale.
Dal 1912 la festa vuole ricordare anche un grave incendio avvenuto nel 1911 a New York, nella Triangle Shirtwaist Company dove morirono 140 donne in prevalenza italiane ed ebree.
Nel febbraio del 1913 anche le donne russe parteciparono alla loro prima festa con l’intento di dichiarare la loro posizione contro la guerra, ma si ritrovarono a manifestare il 23 febbraio 1917 (l’8 marzo del calendario giuliano) per la morte di circa 2 milioni di soldati russi scomparsi in guerra.
Le proteste continuarono per vari giorni fintanto che lo Zar fu costretto ad abdicare ed il governo dovette concedere il diritto al voto anche alle donne.
Da quell’anno la festa viene celebrata in una data fissa, mentre precedentemente era onorata l’ultima domenica di febbraio.
In Italia, nel secondo dopoguerra, la giornata internazionale della donna fu ripresa e rilanciata dall’UDI (Unione Donne Italiane) associando nel contempo alla data dell’8 marzo l’ormai tradizionale fiore della mimosa.

il digiuno quaresimale

Il digiuno – come il nutrimento – ha una grande importanza nella Bibbia e nelle tradizioni ebraica, cristiana e musulmana, in quanto esprime in modo straordinario la relazione fra corporeità e spiritualità, il rapporto di fede tra la creatura e la bontà e la misericordia di Dio.
Il Creatore onnipotente, che dà il cibo a ogni vivente, chiede all’uomo e alla donna una risposta consapevole, in quanto creati a sua immagine; perciò anche l’assunzione del cibo – come l’astinenza da esso – non sono privi di un profondo senso simbolico e spirituale.
Una veglia in attesa della risurrezione di Nicola Gori Una veglia prolungata nell’attesa della risurrezione: è l’immagine che le comunità cristiane d’Oriente usano per spiegare il significato del digiuno.
Come nella tradizione orientale i monaci vegliavano per tre giorni la salma di un loro confratello defunto, allo stesso modo i fedeli devono praticare il digiuno come attesa della risurrezione della carne.
Ne abbiamo parlato in questa intervista con il gesuita Robert Taft, professore emerito di liturgia orientale al Pontificio Istituto Orientale.
Vi sono caratteristiche comuni tra la tradizione del digiuno nelle diverse Chiese orientali cattoliche e ortodosse? La tradizione del digiuno è la stessa sia nelle Chiese orientali cattoliche sia in quelle ortodosse.
La tradizione ortodossa prescrive che in modo progressivo, cominciando due settimane prima dell’inizio della quaresima, ci si prepari al digiuno.
La prima settimana è chiamata la settimana del digiuno dalla carne: alla fine di essa non si mangia più carne per tutta la quaresima.
La seconda settimana che precede la quaresima è detta dei latticini, perché alla fine della settimana ci si deve astenere dai latticini.
Durante i primi sette giorni della quaresima – detti del grande digiuno – si dovrebbe osservare un’astinenza molto severa.
Bisogna però distinguere un po’ l’usanza monastica da quella dei laici.
Nei monasteri si mangia solo un pasto al giorno, nel pomeriggio, osservando l’astinenza da tutti i cibi proibiti.
Per i laici il digiuno è più vicino a quella che in Occidente si chiama astinenza.
Ci sono indicazioni particolari riguardo alla quantità di cibo consentita? Non c’è una prescrizione specifica per la quantità di quello che si mangia.
Non si possono bere alcolici o mangiare carne o latticini, ma si possono mangiare i cibi permessi in quantità necessaria per nutrirsi.
Questa antica pratica adesso è osservata soprattutto nei monasteri.
È importante ricordare che la liturgia celebrata nei mercoledì e nei venerdì di quaresima è una liturgia pomeridiana, perché nell’antichità anche ricevere la Comunione significava rompere il digiuno.
Digiunare voleva dire non mangiare nulla.
Era un’astinenza totale fino a sera, quando era permesso un pasto.
Come praticavano il digiuno i Padri del deserto? Nelle diverse tradizioni locali dell’ortodossia e delle Chiese cattoliche orientali ci sono usanze differenti.
Lo stesso vale per i Padri del deserto.
In genere, mangiavano soltanto una quantità minima di pane e di acqua.
Era un digiuno quasi permanente.
Siamo peccatori, per questo occorre digiunare per fare penitenza.
Il Vangelo dice metanoèite, che normalmente viene tradotto in “fate penitenza”: non nel senso di fare qualcosa che ci costa sacrificio, perché metanoia vuole dire cambiare mentalità, convertirsi.
Allora questa conversione è sempre in senso escatologico.
Il digiuno, soprattutto in questo periodo, è un tipo di veglia prolungata nell’attesa della venuta del Signore, proprio come nell’antichità si vegliava la salma di un monaco o di una monaca, perché questa era un’espressione liturgica della fede nella risurrezione dei morti.
Questo vuol dire veglia: una vigilia in attesa, nella speranza della risurrezione dei morti.
Tra i fedeli delle comunità orientali la pratica del digiuno è sufficientemente seguita? Normalmente, durante la prima settimana della quaresima e anche la grande settimana – quella che in occidente si chiama la settimana santa – il digiuno più severo è seguito da quasi tutti i fedeli, almeno nell’ortodossia.
Nel cattolicesimo c’è stata una moderazione nella pratica del digiuno nel periodo del dopo Vaticano II.
Nel rito latino la gente non ha sempre compreso a fondo che, nell’intenzione delle riforma post-conciliare, l’idea della moderazione era legata all’invito a fare altre cose importanti nella vita cristiana, cioè dare l’elemosina ai poveri, fare del bene al prossimo, chiedere perdono per le offese.
(©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home] ”Ciò è particolarmente evidente in alcuni momenti fondanti dell’esperienza d’Israele, come è per il digiuno dei quaranta giorni che Mosè compie sul Sinai, prima di ricevere la santa Torah, e con essa l’alleanza di salvezza per il popolo ebraico” ci spiega monsignor Pier Francesco Fumagalli, dottore della Biblioteca Ambrosiana e profondo conoscitore dell’ebraismo (dal 1986 al 1993 è stato segretario della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo, di cui oggi è consultore).
“Anche la regina Ester, nel momento del massimo pericolo per il popolo minacciato di sterminio – aggiunge – digiuna e prega prima di presentarsi a intercedere presso il re Assuero suo sposo.
Nel libro di Giona gli abitanti di Ninive e persino gli animali indicono un digiuno e si coprono di sacco e cenere, per implorare il perdono e allontanare i castighi divini minacciati dal profeta”.
Questo costante collegamento tra misericordia, peccato e salvezza, si è mantenuto e approfondito lungo i millenni nella tradizione ebraica, il cui calendario tuttora comprende il digiuno di Ester (13 di Adar), quello dei primogeniti prima di Pasqua (14 di Nisan) e il solenne digiuno dell’Espiazione o Kippùr (10 di Tishri).
Nella tradizione cristiana il digiuno recepisce sostanzialmente questi medesimi valori dell’ebraismo, anche se lungo i due millenni del cristianesimo – ammette Fumagalli – “dolorose polemiche hanno spesso offuscato la coscienza di questo debito spirituale”.
“Gesù stesso – ricorda in proposito – prima dell’inizio della sua vita pubblica segue un digiuno di quaranta giorni nel deserto, e i cristiani ne seguono l’esempio, secondo la dottrina della imitatio Christi, orientandosi a ricevere il dono della salvezza nella Pasqua di risurrezione, dopo un periodo di quaranta giorni o quaresima”.
La principale differenza – al di là delle varianti normative specifiche – consiste “nel riferimento cristocentrico tipico della fede cristiana, che però paradossalmente diventa anche la radice di ciò che i cristiani possono imparare dalla tradizione religiosa del popolo ebraico di ieri e di oggi”.
In questo rapporto unico che in Cristo lega l’innesto cristiano sulla “santa radice” di Israele “sta tutta la forza e la necessità di riferirsi costantemente all’eredità dei padri e delle madri della fede, da Abramo e Sara fino all’epoca contemporanea”.
Ci sarebbe da chiedersi cosa possono i cristiani imparare dagli ebrei nella pratica del digiuno.
“Innanzitutto – secondo Fumagalli – la fortissima tensione di speranza escatologica e di purificazione dal peccato in vista del dono divino di piena redenzione sostengono la comunità ebraica unita nel digiuno e nella preghiera, come si vede in modo particolarmente solenne e pubblico nel Kippùr”.
Per il cristiano, perciò, “che rischia talora di limitare il proprio orizzonte escatologico a una speranza già totalmente realizzata nella Pasqua di Cristo, con il conseguente impoverimento dell’attesa messianica e dell’impegno verso il futuro salvifico divino, forse il dono maggiore che l’ebreo può offrire in questo campo è l’esempio di un’ardente, inestinguibile sete di perdono e di comunione fraterna”.
(mario ponzi) (©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home]

II Domenica di Quaresima (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La Trasfigurazione del Signore Chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni, Milano Nella tradizione cristiana, la Trasfigurazione è sempre stata letta nella chiave del mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo e come mistero centrale anche per la vita dell’uomo, in quanto anticipo di ciò che le energie della risurrezione compiranno nella nostra carne mortale: la nostra divinizzazione.
L’umanità di Gesù è realmente il luogo vivo in cui l’uomo diventa Dio, perché, da quando il Verbo ha preso un corpo, Egli è in relazione umana con il Padre e con tutti gli uomini.
“In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
E Paolo aggiunge, nel versetto successivo: “Voi avete in lui parte alla sua pienezza”.
Ormai è abolita la distanza tra la materia e la divinità.
Nel corpo di Cristo, la nostra carne è in comunione con il Signore della vita, senza confusione, ne separazione.
Di ciò che il Verbo ha inaugurato con la sua incarnazione e manifestato a partire dal battesimo con i suoi miracoli, la trasfigurazione fa intravedere la pienezza: il corpo del Signore Gesù è il sacramento che dona la vita di Dio agli uomini.
Nella misura in cui la nostra umanità acconsente ad unirsi all’umanità di Gesù, partecipa della natura divina (cf 2Pt 1,4).
Cristo nelle vesti bianche rigonfie, mosse dallo Spirito, si trova inserito nella tradizionale mandorla blu scura che indica due cose: anzitutto, che Cristo si rivela come Dio dunque è inaccessibile alla nostra mente, il mistero non si può scrutare; secondariamente, che Cristo nella luce del monte Tabor è la vera luce, il vero sole, tanto da oscurare i raggi del sole cosmico.
Le tenebre del mondo, anche quelle che sommergeranno Cristo nella passione, non resistono davanti all’assolutezza della sua luce.
La trasfigurazione, in realtà, è quella degli apostoli, che per un istante hanno ricevuto la grazia di vedere l’umanità del Cristo come un corpo di luce, grazia di contemplare la gloria del Signore nascosta sotto la sua kenosis.
Dopo questa breve irruzione dell’Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la vita quotidiana.
«Per mostrare la trasformazione dei mortali assunti nella tua gloria, o Salvatore, al momento del tuo secondo e tremendo avvento, sul monte Tabor ti sei trasfigurato.
Elia e Mosè parlavano con te; tu chiamasti tre dei tuoi discepoli, ed essi vedendo, o Sovrano, la tua gloria, per il tuo fulgore restarono sbigottiti.
O tu che un tempo su costoro hai fatto brillare la tua luce, illumina le anime nostre».
(Orthros della trasfigurazione nel rito bizantino).
Il Tabor e il Getsemani Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).
L’immagine tra luce e ombra La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione.
Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili.
Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata.
La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce.
Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte.
Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata.
L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti.
Tutto il resto deve essere svelato e illuminato.
Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre.
[…] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa.
La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile.
I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori.
Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato.
Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini.
Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore.
L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati.
È piuttosto essa a illuminare.
La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori.
L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie.
Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra.
E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra.
In ogni caso la rivelazione non è il riflettore.
La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo.
I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce.
È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E.
AFFINATI et al., Saper sperare.
Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Una sola tenda Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole.
Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno.
Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso.
Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.
Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21).
Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto.
Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva.
[…] Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui.
San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano.
Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia.
Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto.
Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui.
Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui.
Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia.
Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione.
Credeva fosse bene ciò che diceva.
Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola».
Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo.
All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi.
Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.
(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp.
576-578) Riconoscere Cristo Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte.
C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle.
Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità.
Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge.
Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.
La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura.
Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro.
Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.
(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).
Ancora e sempre sul monte di luce Cristo ci guidi perché comprendiamo il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo) Lectio – Anno B Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18 In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi.
Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.
Aspetti di esegesi Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito.
Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2).
Abramo esegue il volere divino.
«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).
La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8).
L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.
Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio.
All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza.
È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà.
Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).
Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento.
I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).
«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20).
La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21).
L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.
Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19).
In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio.
La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).
Seconda lettura: Romani 8,31-34 Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13).
Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.
Aspetti di esegesi «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).
L’insieme è un inno di fiducia.
Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente.
Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto.
L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande.
Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi.
Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso.
La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote.
Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi.
La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.
Vangelo: Marco 9,2-10 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Esegesi Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20).
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro.
È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.
Aspetti di esegesi Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù.
Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio.
Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.
Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23).
Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione.
La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione.
Gesù rimane identico mostrandosi glorioso.
Lo splendore di Gesù è celeste.
La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina.
I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.
«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4).
Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie.
Essi discorrono con Gesù.
Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati».
Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6).
È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.
«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7).
La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre.
La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.
Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo.
«E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).
Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione.
L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato.
I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”.
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).
Meditazione Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita.
In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito.
Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio.
E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana.
Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato.
Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino.
Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio.
È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.
Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli.
È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù.
Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33).
La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino.
È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29).
Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.
Notiamo solo alcuni elementi del racconto.
Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’.
Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio.
Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù.
In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).
Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte.
E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte.
Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.
Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3).
Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo.
Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza.
Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore.
È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).
Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena.
E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto.
Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4).
C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola.
E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge.
Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio.
Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola.
E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).
Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze.
La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5).
L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo.
E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia.
Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro.
Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32).
Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.
Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare.
Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme.
Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8).
Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua.
Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino.
Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31).
Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta.
Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

la mostra “Nigra sum sed formosa”

Per gli storici dell’arte la regina di Saba è la donna bellissima che, accompagnata dalle sue ancelle e dai suoi scudieri, si inginocchia come in trance, presa da premonizione, di fronte al legno del ponte sul fiume Siloe, legno destinato a diventare un giorno la croce di Cristo.
Ed è la regale ospite desiderata e a lungo attesa accolta da re Salomone in una reggia che assomiglia al tempio dell’Alberti a Rimini o al palazzo di Luciano Laurana e di Francesco di Giorgio a Urbino.
Sto parlando, naturalmente, del ciclo affrescato da Piero della Francesca ad Arezzo.
Per Jacopo da Varagine che inventò la storia affascinante e piena di colpi di scena della scomparsa e agnizione della Croce di Cristo (vero e proprio thriller archeologico alla Indiana Jones), per i francescani che quella storia moltiplicarono negli affreschi delle loro chiese a stupore ed edificazione dei credenti, la regina di Saba era importante.
Ed era importante anche per l’iconografo (forse l’umanista Ambrogio Traversari) che suggerì a Lorenzo Ghiberti il celebre pannello della Porta d’Oro nel Battistero fiorentino di San Giovanni, dove si vede l’incontro di Salomone con la regina africana.
Correva l’anno 1439, il Concilio aveva riunito a Firenze i dignitari della Chiesa di Roma e delle Chiese d’Oriente e quella iconografia era una promessa di pacificazione fra i cristiani.
La regina di Saba era ed è ancora importante, in maniera del tutto speciale, per la gente d’Etiopia.
La storia era conosciuta in Occidente e soprattutto a Venezia fino dal Medioevo.
Lassù, fra le montagne e gli altopiani dell’Africa più remota e inaccessibile, circondato dall’Islam, c’era un popolo cristiano che praticava la fede degli apostoli.
Non solo, c’era un re che aveva per emblema il leone di Giuda e che diceva di discendere dal seme di Salomone.
Il cristianesimo etiope è un sontuoso ieratico relitto che si è conservato immune da influssi culturali esterni e da ogni contaminazione.
Il sovrano d’Etiopia, il negus neghesti (re dei re) è stato fino a ieri, fino all’ultimo imperatore Hailé Selassié, l’autocrate dei credenti e il custode di una leggendaria ortodossia giudaico cristiana.
Tutta la civiltà religiosa letteraria e artistica dell’Etiopia ha nella regina di Saba la sua pietra angolare.
Il poema epico nazionale, il Kebra Negast (la gloria dei re) databile all’inizio del xiv secolo, racconta che re Salomone e la regina di Saba si amarono, che dalla loro unione nacque una regale discendenza, che la sapienza giudaica e l’Arca dell’Alleanza, al sicuro dagli infedeli musulmani e dagli eretici cristiani, riposano sugli altopiani d’Etiopia, protette dalla spada e dalla lancia del Negus.
Molto antica e molto nobile è la civiltà letteraria e artistica dell’Etiopia cristiana, affascinante nella produzione artigianale a destinazione religiosa – argenti, icone, codici miniati – nei monasteri ancestrali, nelle città sante che replicano i luoghi di Gerusalemme, come la mirabile Lâlibalâ che porta il nome del sovrano che la edificò fra xii e xiii secolo.
Ancora sorprende e imbarazza che gli italiani, negli anni Trenta del secolo scorso, abbiano potuto umiliare e devastare tutto questo con una feroce e stolida guerra coloniale di cui oggi non possiamo che vergognarci.
Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano.
Conviene quindi chiuderlo subito.
Consola invece sapere che alla regina di Saba e alla civiltà etiopica gli italiani di oggi dedicano una mostra.
Curatori sono Giuseppe Barbieri dell’ateneo Veneziano, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, l’architetto Mario Di Salvo.
Con loro ha lavorato un folto e prestigiosissimo comitato scientifico internazionale all’interno del quale spicca il nome di Stanislaw Chojncki patriarca dei moderni studi sull’arte etiopica.
Perché un’impresa scientifica ed espositiva così impegnativa e così inusuale è stata concepita a Venezia? Perché Venezia, fra tutte le nazioni dell’antica Europa, è stata quella che ha mantenuto i maggiori e più fruttuosi rapporti con il regno d’Etiopia e che più di ogni altra ha influito nella sua storia artistica.
Si chiamava Nicolò Brancaleon il pittore veneziano che giunse in Etiopia circa l’anno 1481.
Si firmava in latino in icone arrivate fino a noi, fondò una scuola pittorica che ebbe seguito e fortuna fino al XVIii secolo.
Gli ambasciatori portoghesi che lo incontrarono nel 1520 parlano di lui come di un uomo che abitava in Etiopia da circa quarant’anni, che parlava perfettamente la lingua della nuova patria dove amava farsi chiamare Mercurio, e che era diventato ricco, potente, onorato.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Mercoledì 4 è stata presentata in Vaticano la mostra “Nigra sum sed formosa” che sarà aperta dal 13 marzo al 10 maggio all’università Ca’ Foscari di Venezia.
Pubblichiamo l’intervento del direttore dei Musei Vaticani.
“Nigra sum sed formosa”, il versetto celebre del Cantico dei Cantici, è il titolo di questa mostra coltissima e raffinata che subito chiarisce nel sottotitolo il suo obiettivo: “Sacro e Bellezza nell’Etiopia Cristiana”.
Che la sposa del Cantico dei Cantici sia figura della Chiesa o mistico emblema della Vergine Maria – come hanno pensato e scritto gli antichi esegeti cristiani – o che, più realisticamente, sia la bellissima regina africana che va incontro all’amato re Salomone, protagonista della mostra è lei, Saba; la regina che è venuta dalle profondità dell’Africa, che ha incontrato la Legge, ha profetizzato l’Incarnazione, ha dato gloria e splendore alla nazione etiopica.

don Enzo di Nomadelfia

La formazione In realtà, il nome di battesimo di don Enzo era Luigi.
Ma don Zeno glielo cambiò in ricordo di un giovane seminarista ucciso dai nazifascisti.
Da allora per tutti è stato solo don Enzo.
Luigi Bertè – questo il suo cognome all’anagrafe – nasce il 3 aprile 1913 a Ponte dell’Olio, in diocesi e provincia di Piacenza.
A 3 anni e mezzo rimane orfano di madre.
Il padre – un operaio con idee socialiste – si sposa una seconda volta per dare una madre ai figli: don Enzo ricorderà la fatica nell’accettare la nuova figura materna, ma proprio questa esperienza lo renderà sensibile alla proposta di don Zeno.
La famiglia è povera e il padre non può permettersi di pagare neppure la retta minima del seminario di Piacenza.
I superiori del seminario riescono a farlo entrare nel Collegio Alberoni della città, a tutto provvede il lascito del fondatore dell’Istituto.
Per rendersi conto del prestigio dell’istituzione basti ricordare che allievi del Collegio e suoi compagni di studio sono i futuri cardinali Casaroli, Oddi, Samorè, Tonini.
Ordinato sacerdote il 13 marzo 1937, Luigi viene inviato come cappellano nella parrocchia di Morfasso (Piacenza), in una comunità con una forte tradizione e sensibilità cristiana, assecondata dallo zelo pastorale di un parroco energico, don Erminio Squeri.
L’incontro Il parroco – che invitava nella sua parrocchia vari sacerdoti per ritiri, tridui, ecc.
– nel maggio del 1942 invita anche don Zeno Saltini.
All’inizio il giovane Luigi, formato al Collegio Alberoni, è urtato dal modo di fare del prete carpigiano.
Pensa che sia stato un errore invitarlo.
Ma quando, più per dovere di coscienza, che per convinzione va ad ascoltare il primo discorso fatto ai giovani, ne rimane conquistato.
E cerca di parlare personalmente con don Zeno.
Il parroco, che ha intuito il desiderio del suo collaboratore, cerca di evitarlo, ma nell’ultimo giorno di permanenza, don Zeno e don Luigi parlarono per undici ore, dalle sei di sera alle cinque del mattino.
L’incontro lo sconvolge, tanto che don Luigi vorrebbe seguire don Zeno, il quale però lo invita a una maggiore riflessione.
Durante il viaggio di ritorno da Piacenza don Zeno gli scrive: “Carissimo, ho sempre presente la nostra notturna conversazione.
Se il Signore ti chiama, non dormirci sopra.
Se nell’eroico cammino qualche Piccolo Apostolo cade, diserta o tradisce, gli altri, nel nome di Gesù proseguono.
Ho sempre notato che il vacillare in questa chiamata tra le miserie più misere della vita moderna, è un cadere.
Tutti quelli che sono entrati nell’orbita del nostro apostolato, sono stati chiamati decisamente e hanno fatto strappi violenti.
Tra i Piccoli Apostoli di vocazione e gli altri, c’è in comune uno schianto…
Vittime i primi dell’Amore, vittime gli altri dell’abbandono; ma tutti vinti, atterrati, risorti.
Addio, oppure arrivederci nella nuova vita, condivisa tra lacrime, lotte, vittorie anche”.
Nella diocesi di Carpi Don Enzo ottiene – con grandi difficoltà – l’incardinazione nella diocesi di Carpi e arriva a San Giacomo Roncole il 21 luglio 1942.
È il primo sacerdote che abbraccia definitivamente la causa e l’opera di don Zeno.
Nel febbraio 1943 altri sacerdoti si uniscono a don Zeno e formano l’Unione dei Sacerdoti Piccoli Apostoli.
Dopo l’8 settembre 1943, don Zeno parte con alcuni giovani per attraversare il fronte e su don Enzo ricadono le responsabilità dell’Opera Piccoli Apostoli, diffusa in varie parrocchie del modenese.
In quei mesi don Enzo, oltre a produrre personalmente alcune carte d’identità false per gli ebrei, tiene i collegamenti con i sacerdoti dell’Opera che creano una rete di solidarietà per la resistenza e per i perseguitati.
Tra i sacerdoti basterebbe ricordare don Arrigo Beccari, don Ennio Tardini, don Ivo Silingardi i quali, per essere riusciti a far arrivare in Svizzera un centinaio di ebrei, furono arrestati.
Don Enzo fa centinaia di chilometri in bicicletta per tenere unita l’Opera, per visitare i confratelli imprigionati a Bologna, per evitare i lavori forzati in Germania ai giovani rimasti.
Alla fine dovrà lui stesso nascondersi perché ricercato.
La fame, i sacrifici e i pericoli vissuti in quegli anni gli procurano uno stato di prostrazione fisica che durerà a lungo.
Fino al 1950 don Enzo rimane parroco di San Giacomo Roncole, anche per mantenere aperti i contatti con i creditori, mentre don Zeno e i Piccoli Apostoli si trasferiscono nell’ex campo di concentramento di Fossoli, dove nasce Nomadelfia.
Nel 1950 don Zeno lo invia a Zambla Alta, in provincia di Bergamo, in una casa di Nomadelfia utilizzata come sanatorio per i giovani arrivati in precarie condizioni fisiche a causa della malnutrizione.
Vi rimane fino al 5 febbraio 1953, un anno dopo il decreto del Sant’Uffizio che impose a don Zeno di lasciare Nomadelfia.
Anche don Enzo – come tutti gli altri sacerdoti – dovrà allontanarsi da Nomadelfia e nei mesi successivi si dedicherà ad aiutare don Zeno nella sistemazione di alcune situazioni difficili che si erano venute a creare dopo lo scioglimento.
A Grosseto Nel novembre del 1953 don Zeno ottiene la laicizzazione pro gratia, richiesta allo scopo di poter continuare a seguire Nomadelfia.
Anche don Enzo e altri sacerdoti vorrebbero percorrere questa strada per condividere le sorti dei figli che hanno accolto insieme a don Zeno, ma non è possibile.
Si prospetta allora il tentativo di realizzare una nuova forma diocesana di convivenza e collaborazione fraterna fra sacerdoti, d’accordo con il vescovo di Grosseto, Paolo Galeazzi.
Idea che anticipava e superava le attuali “unità pastorali” perché prevedeva una comunione di beni tra sacerdoti, che erano vissuti in Nomadelfia, ma che tuttavia viene bloccata dall’intervento del Sant’Uffizio.
Il vescovo, viene deciso, può accogliere questi sacerdoti nella sua diocesi, dove c’è scarsità di clero, ma deve tenerli uno lontano dall’altro.
Alcuni sacerdoti ritornano nel modenese, altri rimangono.
A don Enzo viene assegnata una piccola parrocchia povera e abbandonata, Poggi del Sasso, in cui mancava tutto.
Per don Zeno è la parrocchia adatta a un sacerdote di Nomadelfia.
E don Enzo, lontano dalla sua Nomadelfia, vive con il popolo e riesce a far costruire la chiesa e la canonica.
Nel 1962, dopo la “seconda prima messa” di don Zeno, quando cioè gli viene permesso di riprendere il ministero sacerdotale, qualche sacerdote riesce a tornare a Nomadelfia, ma don Enzo dovrà attendere il 13 ottobre 1969, quando il nuovo vescovo, Primo Gasbarri, gli concede di lasciare la parrocchia.
A fianco del fondatore Dal 1969 al 1981 don Enzo è accanto a don Zeno, che lo porta spesso con sé a condividere i tentativi di lanciare progetti per il futuro di Nomadelfia.
Ma don Enzo dovrà anche sostituire don Zeno per lunghi periodi presso le famiglie che vivono a Subiaco e a La Verna.
Non ci sono impegni particolari, date da ricordare: don Enzo lavora nell’ombra, approfondisce.
Ma sta accanto a don Zeno.
Non può essere con don Zeno quando Giovanni Paolo II assiste a una “Serata” di Nomadelfia a Castel Gandolfo il 12 agosto 1980.
È malato come lo è tante volte.
Ma il 15 gennaio 1981, mentre don Zeno sta morendo, con alcuni figli di Nomadelfia incontra, in maniera imprevista e senza preavviso, Giovanni Paolo II e pregano insieme per il fondatore di Nomadelfia.
Il secondo successore di don Zeno Qualche mese dopo la morte di don Zeno, come è previsto, viene eletto il successore: un sacerdote che porti avanti tale difficile eredità.
Il primo successore è il più giovane don Ennio Tardini, un altro dei sacerdoti della prima ora.
Sembra che per don Enzo si aprano i tempi dello studio e della riflessione per trasmettere alle nuove generazioni la genuinità di quanto lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa in don Zeno.
Ma don Ennio muore in un incidente stradale il 17 novembre 1984.
La pesante eredità ricade su don Enzo, che nel febbraio 1985 è eletto come secondo successore di don Zeno e per diversi anni è contemporaneamente anche parroco di Nomadelfia.
Cosa hanno rappresentato questi anni per Nomadelfia? La scomparsa di due personalità energiche e – si potrebbe dire – vulcaniche come don Zeno e don Ennio lasciano a Nomadelfia un sacerdote con toni più dimessi.
Ma è una personalità per niente secondaria: la sua tenacia, la sua perseveranza portano Nomadelfia a ottenere l’approvazione della Costituzione da parte della Santa Sede nel 2000, dopo aver avuto la gioia di accogliere Giovanni Paolo II, il 21 maggio 1989, nella piccola parrocchia di Nomadelfia.
E questa personalità e la sua sofferenza intanto fanno crescere il popolo, perché Nomadelfia diventa sempre più la condivisione fraterna di una vita, come ha scritto nel suo breve testamento: “Mi permetto di ricordare ai volontari che se non si sforzano ogni giorno di vivere l’Unum invocato da Gesù nell’ultima cena non esiste la nostra fraternità, e non esiste Nomadelfia, perché la nostra fraternità deve permeare i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni: senza Unum si ricade nella vecchia civiltà”.
La fede di don Enzo, il suo legame con la Chiesa e con don Zeno, sono stati la roccia sicura per i nomadelfi in questi anni nel tentativo di realizzare la civiltà dell’amore.
E rappresentano anche il punto di partenza per l’avvenire.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Sono stati celebrati nella mattina di mercoledì 4 dal vescovo di Grosseto, Franco Agostinelli, i funerali di don Enzo di Nomadelfia – secondo successore di don Zeno Saltini alla guida della comunità sorta nel dopoguerra per dare famiglia agli orfani e ai bimbi abbandonati – morto alle prime ore di lunedì 2.
Oltre un migliaio di persone hanno partecipato al rito nella chiesa della cittadella toscana ricordando con commozione, affetto e gratitudine la paternità spirituale esercitata per ventiquattro anni da don Enzo.
Nel corso delle esequie – concelebrate dal vescovo di Carpi, Elio Tinti, e di Jesi, Gerardo Rocconi – è stata data lettura del telegramma, a firma del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, con il quale Benedetto XVI, inviando la benedizione apostolica, ricorda la figura dello “zelante sacerdote” scomparso, che negli anni ha seguito le “profetiche orme” di don Zeno.
Assicurando anche un “particolare ricordo nella preghiera”, Benedetto XVI ha incoraggiato i membri della comunità di Nomadelfia a “proseguire uniti” l’impegno della “vita fraterna” e della “testimonianza evangelica”.
Un messaggio è stato inviato inoltre dal cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero – dicastero da cui dipende la comunità di Nomadelfia – il quale anche ha ricordato “l’infaticabile zelo sacerdotale” di don Enzo, “servo buono e fedele”, che ha “contribuito alla realizzazione dell’autentica famiglia cristiana, nell’adesione all’ideale evangelico di don Zeno”.

Dieci anni di scuola statale in Italia

Più alunni, meno prof e precari ecco la foto della scuola italiana di Salvo Intravaia Mai così “precaria”, almeno nell’ultimo decennio.
E’ la scuola italiana descritta dall’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione dal titolo “10 anni di scuola statale”.
I ponderoso volume contiene migliaia di dati e si riferisce al decennio (dal 1998/1999 al 2007/2008) che probabilmente ha visto il maggior numero di riforme sulla scuola.
A fronte di un incremento degli alunni si è registrato un calo dei docenti stabili, quelli di ruolo, e un vero e proprio boom del precariato.
Ma non solo: le classi si sono riempite grazie all’ingresso degli alunni stranieri ha permesso alla popolazione scolastica italiana di crescere.
Il decennio viene contrassegnato anche da una svolta: la corsa ai licei e il crollo degli istituti tecnici.
E ancora: il progressivo spopolamento delle scuole del Sud a vantaggio degli istituti settentrionali.
In due lustri, la popolazione scolastica è cresciuta quasi del 3 per cento ma non è stato così in tutte le zone del Paese.
Nelle regioni del Nord le scuole hanno dovuto fare posto a 352 mila alunni in più vedendo crescere gli alunni del 13 per cento.
Al Sud le classi si sono svuotate inesorabilmente: in pochi anni, la popolazione scolastica si è assottigliata del 6 per cento.
Dieci anni fa, il Sud poteva contare su un milione di alunni in più rispetto al Nord, adesso il vantaggio è di appena 350 mila alunni.
Con ogni probabilità, a fare la differenza sono stati gli alunni stranieri.
Il loro numero è cresciuto di 6 volte e se non fosse stato per la loro presenza gli alunni italiani sarebbero diminuiti del 3 per cento.
Il decennio 1999/2008, nonostante abbia registrato un incremento della popolazione scolastica, ha visto calare il numero dei docenti di ruolo (del 3,4 per cento) e più che raddoppiare (da 64 mila a 141 mila) il numero dei supplenti impegnati dietro la cattedra.
Dieci anni fa, si contava un precario ogni 12 insegnanti, oggi ce n’è uno ogni 6.
Anche per questa ragione l’ex ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, mise in cantiere un piano per stabilizzare 150 mila precari, messo in soffitta dall’attuale governo.
Oggi, le classi sono più affollate di dieci anni fa, soprattutto nei licei.
Gli scientifici hanno vissuto un decennio di grazia: più 27 per cento.
Stesso discorso per i classici e per i licei socio-psico-pedagogici (gli ex istituti magistrali) dove gli alunni sono cresciuti di un quinto.
E in misura minore anche gli istituti professionali hanno visto aumentare gli alunni (più 13 per cento).
Il tutto a scapito dell’istruzione tecnica, fiore all’occhiello del boom economico degli anni sessanta, che ha perso quasi il 7 per cento dei suoi alunni.
A conti fatti oltre 65mila studenti.
Repubblica (4 marzo 2009) Il ministero dell’istruzione ha messo in linea la pubblicazione “10 anni di scuola statale: a.s.
1998/99-a.s.
2007/08 – Dati, fenomeni e tendenze del sistema di istruzione ” che riporta e commenta le principali serie storiche del sistema di istruzione, rilevando dati dell’ultimo decennio sugli alunni, le classi, gli organici, il personale, le scuole.
I numerosi dati, riportati ed elaborati in tabelle e grafici, oltre che nei valori complessivi, sono riportati per settore scolastico e per territorio geografico e regioni.
Si tratta di un lavoro notevole, particolarmente interessante per capire fenomeni, tendenze e prospettive del sistema di istruzione.
Tra i tantissimi dati che meritano attenzione e valutazione anche da parte dei decisori politici vi è quello dell’andamento della popolazione scolastica che è specchio delle variazioni demografiche nazionali.
Nel decennio considerato si è determinata una specie di linea di demarcazione: dal centro in su vi è stato un aumento generalizzato di alunni; dal centro in giù tutte le regioni hanno perso iscritti.
Le variazioni sono dipese da due fenomeni: da una parte, l’immigrazione straniera verso le regioni settentrionali e centrali, dall’altra, il calo di nascite nelle regioni meridionali e insulari.
Il Sud e le Isole nel decennio hanno perso rispettivamente, si osserva nel commento dell’opera, 162 mila e 73 mila.
Un totale che supera l’attuale popolazione scolastica della Sardegna.
Se i 235 mila studenti in meno fossero stati tutti sardi, oggi l’intera isola non avrebbe né alunni, né scuole né docenti.
Alunni in meno, classi chiuse, calo di organici che si sono distribuiti, invece, in tutte le regioni del Sud e delle Isole.
L’opera è a cura della Direzione Generale per gli Studi e la Programmazione e per i Sistemi Informativi del MIUR.
Attraverso questo link, è possibile acquisire il file (3,5 Mb) dello studio.
Pubblicazione del MIUR ————————————————————————- tuttoscuola.com martedì 3 marzo 2009

Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi

Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi Il mondo ha bisogno di “una speranza salda e affidabile”: non “un ideale o un sentimento, ma una persona viva, Gesù Cristo”.
Lo scrive il Papa nel messaggio per la XXIV Giornata mondiale della gioventù, che si celebrerà nelle singole diocesi il 5 aprile, domenica delle Palme.
“Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10) Cari amici, la prossima Domenica delle Palme celebreremo, a livello diocesano, la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù.
Mentre ci prepariamo a questa annuale ricorrenza, ripenso con viva gratitudine al Signore all’incontro che si è tenuto a Sydney, nel luglio dello scorso anno: incontro indimenticabile, durante il quale lo Spirito Santo ha rinnovato la vita di numerosissimi giovani convenuti dal mondo intero.
La gioia della festa e l’entusiasmo spirituale, sperimentati durante quei giorni, sono stati un segno eloquente della presenza dello Spirito di Cristo.
Ed ora siamo incamminati verso il raduno internazionale in programma a Madrid nel 2011, che avrà come tema le parole dell’apostolo Paolo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr.
Col 2, 7).
In vista di tale appuntamento mondiale dei giovani, vogliamo compiere insieme un percorso formativo, riflettendo nel 2009 sull’affermazione di san Paolo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10), e nel 2010 sulla domanda del giovane ricco a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10, 17).
La giovinezza, tempo della speranza A Sydney, la nostra attenzione si è concentrata su ciò che lo Spirito Santo dice oggi ai credenti, ed in particolare a voi, cari giovani.
Durante la Santa Messa conclusiva, vi ho esortato a lasciarvi plasmare da Lui per essere messaggeri dell’amore divino, capaci di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità.
La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell’epoca contemporanea.
Avvertiamo tutti il bisogno di speranza, ma non di una speranza qualsiasi, bensì di una speranza salda ed affidabile, come ho voluto sottolineare nell’Enciclica Spe salvi.
La giovinezza in particolare è tempo di speranze, perché guarda al futuro con varie aspettative.
Quando si è giovani si nutrono ideali, sogni e progetti; la giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita.
E forse anche per questo è la stagione dell’esistenza in cui affiorano con forza le domande di fondo: perché sono sulla terra? che senso ha vivere? che sarà della mia vita? E inoltre: come raggiungere la felicità? perché la sofferenza, la malattia e la morte? che cosa c’è oltre la morte? Interrogativi che diventano pressanti quando ci si deve misurare con ostacoli che a volte sembrano insormontabili: difficoltà negli studi, mancanza di lavoro, incomprensioni in famiglia, crisi nelle relazioni di amicizia o nella costruzione di un’intesa di coppia, malattie o disabilità, carenza di adeguate risorse come conseguenza dell’attuale e diffusa crisi economica e sociale.
Ci si domanda allora: dove attingere e come tener viva nel cuore la fiamma della speranza? Alla ricerca della “grande speranza” L’esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non bastano ad assicurare quella speranza di cui l’animo umano è in costante ricerca.
Come ho scritto nella citata Enciclica Spe salvi, la politica, la scienza, la tecnica, l’economia e ogni altra risorsa materiale da sole non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo.
Questa speranza “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” (n.
31).
Ecco perché una delle conseguenze principali dell’oblio di Dio è l’evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione.
Chiaro e forte è il richiamo che ci viene dalla Parola di Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17, 5-6).
La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di riferimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze.
Penso, cari giovani amici, a tanti vostri coetanei feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche.
Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sbocco quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile.
Eppure, anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di “cattivi maestri”, non si spegne il desiderio di amore vero e di autentica felicità.
Ma come annunciare la speranza a questi giovani? Noi sappiamo che solo in Dio l’essere umano trova la sua vera realizzazione.
L’impegno primario che tutti ci coinvolge è pertanto quello di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio, che è Amore.
A voi, cari giovani, che siete in cerca di una salda speranza, rivolgo le stesse parole che san Paolo indirizzava ai cristiani perseguitati nella Roma di allora: “Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15, 13).
Durante questo anno giubilare dedicato all’Apostolo delle genti, in occasione del bimillenario della sua nascita, impariamo da lui a diventare testimoni credibili della speranza cristiana.
San Paolo, testimone della speranza Trovandosi immerso in difficoltà e prove di vario genere, Paolo scriveva al suo fedele discepolo Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Come era nata in lui questa speranza? Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dal suo incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco.
All’epoca Saulo era un giovane come voi, di circa venti o venticinque anni, seguace della Legge di Mosè e deciso a combattere con ogni mezzo quelli che egli riteneva nemici di Dio (cfr.
At 9, 1).
Mentre stava andando a Damasco per arrestare i seguaci di Cristo, fu abbagliato da una luce misteriosa e si sentì chiamare per nome: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”.
Caduto a terra, domandò: “Chi sei, o Signore?”.
E quella voce rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (cfr.
At 9, 3-5).
Dopo quell’incontro, la vita di Paolo mutò radicalmente: ricevette il Battesimo e divenne apostolo del Vangelo.
Sulla via di Damasco, egli fu interiormente trasformato dall’Amore divino incontrato nella persona di Gesù Cristo.
Un giorno scriverà: “Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2, 20).
Da persecutore diventò dunque testimone e missionario; fondò comunità cristiane in Asia Minore e in Grecia, percorrendo migliaia di chilometri e affrontando ogni sorta di peripezie, fino al martirio a Roma.
Tutto per amore di Cristo.
La grande speranza è in Cristo Per Paolo la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
Pervaso intimamente da questa certezza, potrà scrivere a Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Il “Dio vivente” è Cristo risorto e presente nel mondo.
È Lui la vera speranza: il Cristo che vive con noi e in noi e che ci chiama a partecipare alla sua stessa vita eterna.
Se non siamo soli, se Egli è con noi, anzi, se è Lui il nostro presente ed il nostro futuro, perché temere? La speranza del cristiano è dunque desiderare “il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1817).
Il cammino verso la grande speranza Come un giorno incontrò il giovane Paolo, Gesù vuole incontrare anche ciascuno di voi, cari giovani.
Sì, prima di essere un nostro desiderio, questo incontro è un vivo desiderio di Cristo.
Ma qualcuno di voi mi potrebbe domandare: Come posso incontrarlo io, oggi? O piuttosto, in che modo Egli si avvicina a me? La Chiesa ci insegna che il desiderio di incontrare il Signore è già frutto della sua grazia.
Quando nella preghiera esprimiamo la nostra fede, anche nell’oscurità già Lo incontriamo perché Egli si offre a noi.
La preghiera perseverante apre il cuore ad accoglierlo, come spiega sant’Agostino: “Il Signore Dio nostro vuole che nelle preghiere si eserciti il nostro desiderio, così che diventiamo capaci di ricevere ciò che Lui intende darci” (Lettere 130, 8, 17).
La preghiera è dono dello Spirito, che ci rende uomini e donne di speranza, e pregare tiene il mondo aperto a Dio (cfr.
Enc.
Spe salvi, 34).
Fate spazio alla preghiera nella vostra vita! Pregare da soli è bene, ancor più bello e proficuo è pregare insieme, poiché il Signore ha assicurato di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (cfr.
Mt 18, 20).
Ci sono molti modi per familiarizzare con Lui; esistono esperienze, gruppi e movimenti, incontri e itinerari per imparare a pregare e crescere così nell’esperienza della fede.
Prendete parte alla liturgia nelle vostre parrocchie e nutritevi abbondantemente della Parola di Dio e dell’attiva partecipazione ai Sacramenti.
Come sapete, culmine e centro dell’esistenza e della missione di ogni credente e di ogni comunità cristiana è l’Eucaristia, sacramento di salvezza in cui Cristo si fa presente e dona come cibo spirituale il suo stesso Corpo e Sangue per la vita eterna.
Mistero davvero ineffabile! Attorno all’Eucaristia nasce e cresce la Chiesa, la grande famiglia dei cristiani, nella quale si entra con il Battesimo e ci si rinnova costantemente grazie al sacramento della Riconciliazione.
I battezzati poi, mediante la Cresima, vengono confermati dallo Spirito Santo per vivere da autentici amici e testimoni di Cristo, mentre i sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio li rendono atti a realizzare i loro compiti apostolici nella Chiesa e nel mondo.
L’Unzione dei malati, infine, ci fa sperimentare il conforto divino nella malattia e nella sofferenza.
Agire secondo la speranza cristiana Se vi nutrite di Cristo, cari giovani, e vivete immersi in Lui come l’apostolo Paolo, non potrete non parlare di Lui e non farlo conoscere ed amare da tanti altri vostri amici e coetanei.
Diventati suoi fedeli discepoli, sarete così in grado di contribuire a formare comunità cristiane impregnate di amore come quelle di cui parla il libro degli Atti degli Apostoli.
La Chiesa conta su di voi per questa impegnativa missione: non vi scoraggino le difficoltà e le prove che incontrate.
Siate pazienti e perseveranti, vincendo la naturale tendenza dei giovani alla fretta, a volere tutto e subito.
Cari amici, come Paolo, testimoniate il Risorto! Fatelo conoscere a quanti, vostri coetanei e adulti, sono in cerca della “grande speranza” che dia senso alla loro esistenza.
Se Gesù è diventato la vostra speranza, ditelo anche agli altri con la vostra gioia e il vostro impegno spirituale, apostolico e sociale.
Abitati da Cristo, dopo aver riposto in Lui la vostra fede e avergli dato tutta la vostra fiducia, diffondete questa speranza intorno a voi.
Fate scelte che manifestino la vostra fede; mostrate di aver compreso le insidie dell’idolatria del denaro, dei beni materiali, della carriera e del successo, e non lasciatevi attrarre da queste false chimere.
Non cedete alla logica dell’interesse egoistico, ma coltivate l’amore per il prossimo e sforzatevi di porre voi stessi e le vostre capacità umane e professionali al servizio del bene comune e della verità, sempre pronti a rispondere “a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).
Il cristiano autentico non è mai triste, anche se si trova a dover affrontare prove di vario genere, perché la presenza di Gesù è il segreto della sua gioia e della sua pace.
Maria, Madre della speranza Modello di questo itinerario di vita apostolica sia per voi san Paolo, che ha alimentato la sua vita di costante fede e speranza seguendo l’esempio di Abramo, del quale scrive nella Lettera ai Romani: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4, 18).
Su queste stesse orme del popolo della speranza – formato dai profeti e dai santi di tutti i tempi – noi continuiamo ad avanzare verso la realizzazione del Regno, e nel nostro cammino spirituale ci accompagna la Vergine Maria, Madre della Speranza.
Colei che ha incarnato la speranza di Israele, che ha donato al mondo il Salvatore ed è rimasta, salda nella speranza, ai piedi della Croce, è per noi modello e sostegno.
Soprattutto, Maria intercede per noi e ci guida nel buio delle nostre difficoltà all’alba radiosa dell’incontro con il Risorto.
Vorrei concludere questo messaggio, cari giovani amici, facendo mia una bella e nota esortazione di san Bernardo ispirata al titolo di Maria Stella maris, Stella del mare: “Tu che nell’instabilità continua della vita presente, ti accorgi di essere sballottato tra le tempeste più che camminare sulla terra, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella, se non vuoi essere spazzato via dagli uragani.
Se insorgono i venti delle tentazioni e ti incagli tra gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, invoca Maria …
Nei pericoli, nelle angustie, nelle perplessità, pensa a Maria, invoca Maria…
Seguendo i suoi esempi non ti smarrirai; invocandola non perderai la speranza; pensando a lei non cadrai nell’errore.
Appoggiato a lei non scivolerai; sotto la sua protezione non avrai paura di niente; con la sua guida non ti stancherai; con la sua protezione giungerai a destinazione” (Omelie in lode della Vergine Madre, 2, 17).
Maria, Stella del mare, sii tu a guidare i giovani del mondo intero all’incontro con il tuo Figlio divino Gesù, e sii ancora tu la celeste custode della loro fedeltà al Vangelo e della loro speranza.
Mentre assicuro il mio quotidiano ricordo nella preghiera per ognuno di voi, cari giovani, di cuore tutti vi benedico insieme alle persone che vi sono care.
Dal Vaticano, 22 febbraio 2009

Il linguaggio nell’educazione religiosa

2.
Il quadro organizzativo.
Lo studio si apre con una panoramica, necessariamente rapida, sul linguaggio, la sua rilevanza nella cultura odierna, su autori e scuole che vi hanno dato rilevanza ed hanno offerto stimoli particolarmente significativi (Marchetto).
In questo quadro di insieme viene richiamata in particolare la novità della riflessione recente proprio in quegli apporti che offrono suggestioni preziose alla ricerca ermeneutica anche in ambito religioso (Freni).
Da quelle premesse muove l’analisi più specifica sul linguaggio religioso, le connotazioni che lo qualificano, le condizioni che rendono possibile l’accesso al mondo della Trascendenza: legittimano il linguaggio su Dio (Trenti).
Il tema del linguaggio viene pure verificato in un tentativo di andare oltre l’ermeneutica per salvaguardare la novità del rapporto con Dio e il primato della sua presenza; confermando forse la logica ermeneutica dal versante opposto a quello consueto (Currò).
Viene insomma esplorato l’orizzonte in cui situare il linguaggio specifico della tradizione religiosa; a cominciare da quella biblica, espressa a grandi linee nella ricchezza e varietà di apporti che offre (Bissoli).
E’ sembrato anche importante riservare almeno un cenno alla grande tradizione orientale, proposta in ciò che ha di più caratterizzante e significativo (De Souza).
E aprire infine uno squarcio sufficientemente avvertito e attento alla grande provocazione che i testi fondanti offrono a documentazione della varietà e profondità della ricerca religiosa, anche oltre la tradizione occidentale (Pajer).
Un orizzonte dunque piuttosto ambizioso, interpretativo del linguaggio religioso e della sua significatività culturale e pedagogica.
Proprio questa valenza educativa del linguaggio religioso viene sottolineata con l’ ultimo intervento di carattere esplicitamente didattico (Romio).
Corroborato da una breve appendice applicativa.
3.
L’intento Il tema del linguaggio è centrale per ogni ricerca.
Gli studi che lo hanno recentemente rinnovato offrono suggestioni straordinariamente significative per l’incontro con i grandi temi della ricerca umana, anche là dove incrocia la pista che ha da sempre qualificato la riflessione religiosa.
Dire Dio, chiamarlo per nome, è aspirazione che attraversa la ‘presunzione umana’ fin dal suo nascere alla cultura, dai primi inni vedici.
L’apporto singolare offerto dalla riflessione ermeneutica ci ha resi avvertiti di quanto dire Dio può risultare illuminante e risolutivo anche per dire uomo.
La traccia religiosa non è dunque una pausa di riposo, un’oasi felice nella corsa all’incontro con noi stessi; ne è una condizione straordinariamente rivelativa appena ci si interroghi su chi siamo e sull’approdo cui siamo incamminati.
Donde il richiamo esplicito alla sua valenza educativa, spesso richiamata in ciascuno dei contributi, esplicitamente suggerita nella parte conclusiva.
Cfr.
TRENTI Z.
( a cura ), Il linguaggio nell’educazione religiosa, Leumann, Elledici, 2008, pp.
7-8.
PS.
Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo, man mano, ampi stralci di uno studio, appena apparso in Libreria; tende a far e il punto sugli aspetti più significativi del linguaggio in ambito educativo, soprattutto giovanile.
Gli Autori intendono far opera di stimolo e di richiamo su un aspetto provocante dell’educazione religiosa attuale.
La Redazione della Rivista ringrazia per ogni indicazione, suggerimento e magari contributo che Collaboratori e Lettori vogliano farle pervenire.
1.
L’attenzione al linguaggio L’importanza che il linguaggio assume nella ricerca attuale è un fatto sorprendente, ma allo stesso tempo comprensibile; documenta la situazione tipica del nostro tempo, carico di provocazioni e fervido di novità.
Il prenderne coscienza in maniera lucida è urgenza perentoria ed avvertita.
Tanto più quando l’esperienza lascia presagire l’orma misteriosa e sollecitante della trascendenza.
Il linguaggio si porta al cuore dell’esplorazione esistenziale: si piega sulla vita, anche nella sua quotidianità, tende e a decifrarla in tutti i suoi richiami, quello religioso compreso.
Anzi la riflessione religiosa muove per lo più da interrogativi profondi e appassionanti: si sforza di darvi comprensione e risposta.
Va quindi forgiando un linguaggio singolarmente affinato e pertinente, di cui gli interventi che proponiamo offrono ampia documentazione.
Il quadro organizzativo globale dello Studio ha privilegiato la riflessione ermeneutica per la rilevanza e autorevolezza che gode nel panorama culturale odierno; dovuta anche al fatto che vi sono approdati studiosi e pensatori eminenti: hanno contribuito e contribuiscono a decifrare l’esperienza umana anche nel presagio che la rapporta alla Trascendenza.

Alle radici della spiritualità secolare

Il tema della creazione è stato spesso occasione di vivace polemica fra ricerca scientifica e riflessione teologica.
Allo schiudersi del nuovo anno proponiamo alcuni brevi interventi per sottolinearne la convergenza e la reciproca integrazione – un essenziale indicazione teorica, – alcuni riferimenti biblici o teologici per l’appropriazione più personale.
Questo primo contributo orienta la riflessione su un dato fondamentale: – l’intervento creatore di Dio all’origine del mondo organizzato (cosmo); – la soddisfazione con cui Dio stesso contempla la sua opera -Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gn 1,31)- – quale stimolo per la corretta considerazione del mondo, della natura soprattutto.
In sintesi.
Le linee portanti della antica tradizione biblica circa la creazione si possono ricondurre ad alcune affermazioni: – Il mondo come casa della vita, organizzato in un cosmo (Gn 1); – Dio convoca nel cosmo ogni sorta di vita ad un grande banchetto; – L’ingresso dell’uomo corona l’opera e da inizio alla festa.
– La signoria dell’uomo sul cosmo è a servizio della vita (Gn.
1, 26-28); – La sua presenza è in grado di celebrare nella suggestione dell’universo la maestà di Dio, signore della vita.
Per la riflessione personale Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.  1° Contributo: I mondo è opera mirabile di Dio creatore.
Il cosmo è frutto del gesto creatore di Dio.
La bibbia è una riflessione credente di Israele sulla propria vicenda di popolo che si sente investito di un compito straordinario.
Dio si erge fin dall’inizio e occupa intera la scena.
Da Lui prende origine il progetto grandioso che distende il cielo e la terra e ne fa una dimora superba dell’uomo.
I testi di cui disponiamo hanno attraversa una lunga gestazione Approssimativamente nel corso del secolo VI l’attitudine religiosa che caratterizza il mondo ebraico raccoglie un cumulo di tradizioni a spiegazione dell’origine e del significato dell’ universo, in cui presagisce una potenza arcana e benefica che lo governa.
Il Pentateuco rappresenta una singolare sintesi di lontane e illuminanti tradizioni che hanno progressivamente attraversato la vicenda ebraica; la casta sacerdotale, più colta ed abituata alla scrittura, le codifica finalmente in un’elaborazione unitaria e organica.
Risulta il documento più significativo della concezione ebraica e cristiana dell’origine del mondo.
Una doppia visione intensamente drammatica vede la vita imporsi sull’abisso, sul caos e tenta di esplorarne il vorticoso espandersi; ne interpreta il progressivo, dinamico compaginarsi nella figura di un mondo organizzato –cosmo-.
Con il primo capitolo della Genesi (Gn.
1.1-2.4) ci troviamo di fronte ad una suggestiva e lucida elaborazione degli inizi dell’universo; nel tentativo singolare di articolarne i momenti successivi, in una progressione che tende ad interpretare unitariamente il cosmo, in cui l’uomo trova dimora (i sei giorni della creazione).
Sulla figura dell’uomo si concentra con più accurata attenzione il documento successivo Gn 2.5-3.24; in un racconto immaginifico e suggestivo pone l’uomo al centro di un intervento straordinario di JHWH, che ne traccia a grandi linee il destino e il significato nella creazione.
La riflessione biblica non è preoccupata di interpretare il passaggio dal nulla all’essere.
Muove dall’intuizione che qualcosa è in movimento; non si interessa dell’origine della realtà; si appassiona a quello che constata e si domanda dove tenda il suo dinamismo.
Il testo consente di identificare quattro elementi che, per così dire, popolano il caos iniziale, su cui interviene Dio creatore a dare ordine e dinamismo vitale.
In una ricostruzione di sintesi dunque all’origine si afferma: la forza vitale creatrice di Dio, che si impone su alcunché di indefinito ed inerte, vi conferisce la vita, lo mette in moto, ne valuta autorevolmente il significato – ed era cosa molto buona -.
La sapienza ordinatrice del cosmo Israele ha probabilmente meditato a lungo su questo rapporto di JHWH con la sua creazione.
Nei libri sapienziali, più tardivi, il tema ritorna in un orizzonte interpretativo ormai garantito: la creazione vi risulta patrimonio acquisito e si pone a sfondo chiarificatore e spesso risolutivo dei temi che man mano s’impongono alla riflessione credente.
In particolare il libro dei Proverbi offre una singolare interpretazione dell’ordine mirabile in cui l’universo si compagina.
La Sapienza con cui Dio opera nella sua creazione è addirittura personificata: ‘Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo; quando egli fissava i cieli, io ero là.’ (Proverbi, 8, 26.27) Suggestiva figura, garante di sovrana razionalità del cosmo.
Lungo le generazioni i Salmi raccolgono la suggestione del creato in una gamma di modulazioni singolarmente sincere e intense che vanno dall’ammirazione spontanea alla celebrazione corale di una creazione che parla con voce vibrante e persuasiva del suo creatore.
I salmi costituiscono un’epopea religiosa che non ha paragone; del resto straordinariamente sfruttata dalla tradizione cristiana.
A titolo esemplificativo, anche per quanto concerne il tema della creazione, il riferimento ad un paio di salmi resta carico di suggestione.
– efficace l’immagine del re buono del mondo che tiene a freno il caos e ne delimita la violenza distruttrice ( Salmo 93); – Toccante nostalgia di Dio che pervade l’universo e lo celebra (Salmo 104).