Settimana Santa.

Questa speranza si alimenta nel grande silenzio del Sabato Santo, in attesa della risurrezione di Gesù.
In questo giorno le Chiese sono spoglie e non sono previsti particolari riti liturgici.
La Chiesa veglia in preghiera come Maria e insieme a Maria, condividendone gli stessi sentimenti di dolore e di fiducia in Dio.
Giustamente si raccomanda di conservare durante tutta la giornata un clima orante, favorevole alla meditazione e alla riconciliazione; si incoraggiano i fedeli ad accostarsi al sacramento della Penitenza, per poter partecipare realmente rinnovati alle feste pasquali.
Il raccoglimento e il silenzio del Sabato Santo ci condurranno nella notte alla solenne Veglia Pasquale, “madre di tutte le veglie”, quando proromperà in tutte le chiese e comunità il canto della gioia per la risurrezione di Cristo.
Ancora una volta, verrà proclamata la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, e la Chiesa gioirà nell’incontro con il suo Signore.
Entreremo così nel clima della Pasqua di risurrezione.
Cari fratelli e sorelle, disponiamoci a vivere intensamente il triduo santo, per essere sempre più profondamente partecipi del mistero di Cristo.
Ci accompagna in questo itinerario la Vergine Santa, che ha seguito in silenzio il Figlio Gesù fino al Calvario, prendendo parte con grande pena al suo sacrificio, cooperando così al mistero della Redenzione e divenendo Madre di tutti i credenti (cfr.
Giovanni 19, 25-27).
Insieme a Lei entreremo nel cenacolo, resteremo ai piedi della croce, veglieremo idealmente accanto al Cristo morto attendendo con speranza l’alba del giorno radioso della risurrezione.
In questa prospettiva, formulo fin d’ora a tutti voi i più cordiali auguri di una lieta e santa Pasqua, insieme con le vostre famiglie, parrocchie e comunità.
__________  Le omelie di Benedetto XVI nella Settimana Santa del 2009, giorno per giorno nel sito del Vaticano: > Omelie 2009 I testi della Via Crucis al Colosseo di venerdì 10 aprile 2009, scritti dall’arcivescovo indiano Thomas Menamparampil: > Via Crucis 2009 Cari fratelli e sorelle, la Settimana Santa, che per noi cristiani è la settimana più importante dell’anno, ci offre l’opportunità di immergerci negli eventi centrali della redenzione, di rivivere il mistero pasquale, il grande mistero della fede.
A partire da domani pomeriggio, con la Messa “in Coena Domini”, i solenni riti liturgici ci aiuteranno a meditare in maniera più viva la passione, la morte e la risurrezione del Signore nei giorni del santo triduo pasquale, fulcro dell’intero anno liturgico.
Possa la grazia divina aprire i nostri cuori alla comprensione del dono inestimabile che è la salvezza ottenutaci dal sacrificio di Cristo.
Questo dono immenso lo troviamo mirabilmente narrato in un celebre inno contenuto nella lettera ai Filippesi (cfr.
2, 6-11), che in Quaresima abbiamo più volte meditato.
L’apostolo ripercorre, in modo tanto essenziale quanto efficace, tutto il mistero della storia della salvezza accennando alla superbia di Adamo che, pur non essendo Dio, voleva essere come Dio.
E contrappone a questa superbia del primo uomo, che tutti noi sentiamo un po’ nel nostro essere, l’umiltà del vero Figlio di Dio che, diventando uomo, non esitò a prendere su di sé tutte le debolezze dell’essere umano, eccetto il peccato, e si spinse fino alla profondità della morte.
A questa discesa nell’ultima profondità della passione e della morte segue poi la sua esaltazione, la vera gloria, la gloria dell’amore che è andato fino alla fine.
Ed è perciò giusto – come dice Paolo – che “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” (2, 10-11).
San Paolo accenna, con queste parole, a una profezia di Isaia dove Dio dice: Io sono il Signore, ogni ginocchio si pieghi davanti a me nei cieli e nella terra (cfr.
Is 45, 23).
Questo – dice Paolo – vale per Gesù Cristo.
Lui realmente, nella sua umiltà, nella vera grandezza del suo amore, è il Signore del mondo e davanti a Lui realmente ogni ginocchio si piega.
Quanto meraviglioso, e insieme sorprendente, è questo mistero! Non possiamo mai sufficientemente meditare questa realtà.
Gesù, pur essendo Dio, non volle fare delle sue prerogative divine un possesso esclusivo; non volle usare il suo essere Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza, come strumento di trionfo e segno di distanza da noi.
Al contrario, “svuotò se stesso” assumendo la misera e debole condizione umana.
Paolo usa, a questo riguardo, un verbo greco assai pregnante per indicare la “kénosis”, questa discesa di Gesù.
La forma (morphé) divina si nascose in Cristo sotto la forma umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dai nostri limiti umani e dalla morte.
La condivisione radicale e vera della nostra natura, condivisione in tutto fuorché nel peccato, lo condusse fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza, la morte.
Ma tutto ciò non è stato frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità: fu piuttosto una sua libera scelta, per generosa adesione al disegno salvifico del Padre.
E la morte a cui andò incontro – aggiunge Paolo – fu quella di croce, la più umiliante e degradante che si potesse immaginare.
Tutto questo il Signore dell’universo lo ha compiuto per amore nostro: per amore ha voluto “svuotare se stesso” e farsi nostro fratello; per amore ha condiviso la nostra condizione, quella di ogni uomo e di ogni donna.
Scrive in proposito un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto di Ciro: “Essendo Dio e Dio per natura, e avendo l’uguaglianza con Dio, non ha ritenuto questo qualcosa di grande, come fanno coloro che hanno ricevuto qualche onore al di sopra dei loro meriti, ma nascondendo i suoi meriti, ha scelto l’umiltà più profonda e ha preso la forma di un essere umano» (Commento all’epistola ai Filippesi 2, 6-7).
 Preludio al triduo pasquale, che incomincia con i suggestivi riti pomeridiani del Giovedì Santo, è la solenne Messa Crismale, che nella mattinata il vescovo celebra con il proprio presbiterio, e nel corso della quale insieme vengono rinnovate le promesse sacerdotali pronunciate il giorno dell’Ordinazione.
È un gesto di grande valore, un’occasione quanto mai propizia in cui i sacerdoti ribadiscono la propria fedeltà a Cristo che li ha scelti come suoi ministri.
Questo incontro sacerdotale assume inoltre un significato particolare, perché è quasi una preparazione all’Anno Sacerdotale, che ho indetto in occasione del 150.mo anniversario della morte del santo Curato d’Ars e che avrà inizio il prossimo 19 giugno.
Sempre nella Messa Crismale verranno poi benedetti l’olio degli infermi e quello dei catecumeni, e sarà consacrato il Crisma.
Riti questi con i quali sono simbolicamente significate la pienezza del sacerdozio di Cristo e quella comunione ecclesiale che deve animare il popolo cristiano, radunato per il sacrificio eucaristico e vivificato nell’unità dal dono dello Spirito Santo.
Nella Messa del pomeriggio, chiamata “in Coena Domini”, la Chiesa commemora l’istituzione dell’Eucaristia, il sacerdozio ministeriale ed il comandamento nuovo della carità, lasciato da Gesù ai suoi discepoli.
Di quanto avvenne nel cenacolo, la vigilia della passione del Signore, san Paolo offre una delle più antiche testimonianze.
“Il Signore Gesù, – egli scrive, all’inizio degli anni Cinquanta, basandosi su un testo che ha ricevuto dall’ambiente del Signore stesso – nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me.
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1 Corinzi 11, 23-25).
Parole cariche di mistero, che manifestano con chiarezza il volere di Cristo: sotto le specie del pane e del vino Egli si rende presente col suo corpo dato e col suo sangue versato.
È il sacrificio della nuova e definitiva alleanza offerta a tutti, senza distinzione di razza e di cultura.
E di questo rito sacramentale, che consegna alla Chiesa come prova suprema del suo amore, Gesù costituisce ministri i suoi discepoli e quanti ne proseguiranno il ministero nel corso dei secoli.
Il Giovedì Santo costituisce pertanto un rinnovato invito a rendere grazie a Dio per il sommo dono dell’Eucaristia, da accogliere con devozione e da adorare con viva fede.
Per questo, la Chiesa incoraggia, dopo la celebrazione della Santa Messa, a vegliare in presenza del Santissimo Sacramento, ricordando l’ora triste che Gesù passò in solitudine e preghiera nel Getsemani, prima di essere arrestato per poi venire condannato a morte.
 E siamo così al Venerdì Santo, giorno della passione e della crocifissione del Signore.
Ogni anno, ponendoci in silenzio di fronte a Gesù appeso al legno della croce, avvertiamo quanto siano piene di amore le parole da Lui pronunciate la vigilia, nel corso dell’Ultima Cena.
“Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti” (cfr.
Marco 14, 24).
Gesù ha voluto offrire la sua vita in sacrificio per la remissione dei peccati dell’umanità.
Come di fronte all’Eucaristia, così di fronte alla passione e morte di Gesù in Croce il mistero si fa insondabile per la ragione.
Siamo posti davanti a qualcosa che umanamente potrebbe apparire assurdo: un Dio che non solo si fà uomo, con tutti i bisogni dell’uomo, non solo soffre per salvare l’uomo caricandosi di tutta la tragedia dell’umanità, ma muore per l’uomo.
La morte di Cristo richiama il cumulo di dolore e di mali che grava sull’umanità di ogni tempo: il peso schiacciante del nostro morire, l’odio e la violenza che ancora oggi insanguinano la terra.
La passione del Signore continua nella sofferenze degli uomini.
Come giustamente scrive Blaise Pascal, “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo” (Pensieri 553).
Se il Venerdì Santo è giorno pieno di tristezza, è dunque al tempo stesso, giorno quanto mai propizio per ridestare la nostra fede, per rinsaldare la nostra speranza e il coraggio di portare ciascuno la nostra croce con umiltà, fiducia ed abbandono in Dio, certi del suo sostegno e della sua vittoria.
Canta la liturgia di questo giorno: “O Crux, ave, spes unica!”, Ave, o croce, unica speranza!

Aprile

La letteratura epica dell’India ha un testo, il Mahabharata che, con i suoi 90.000 versi è la più lunga epopea della letteratura universale.
L’oggetto del Mahabharata è di raccontare il conflitto che oppone due famiglie di prìncipi, i Kaurava e i Pandava in lotta per la successione del re dei Kuru.
Il conflitto sbocca in una grande guerra escatologica che annuncia la fine di un’era e l’inizio di una nuova.
Il Mahabharata, oltre ai suoi molteplici sviluppi leggendari, racchiude un testo riconosciuto come il vertice del pensiero religioso indiano e una delle più straordinarie realizzazioni del pensiero universale: la Bhagavad Gita.
La Gita riporta il dialogo tra Krishna, incarnazione di Vishnù, e Arjuna, uno dei principi guerrieri, prima di ingaggiare la battaglia.
L’insegnamento consiste nel principio che la cessazione della violenza non ha alcun valore se non è accompagnata dall’arresto dei pensieri e dei desideri violenti.
Si ritrova qui, espressa con altre parole, la posizione di Gesù a proposito del comandamento «Non uccidere» (Mt 5,21-22) e quella di Buddha che stabilisce il primato dell’azione dello spirito.
La vera saggezza non consiste nell’abbandonare ogni azione, ma nell’abbandonare lo spirito di attaccamento che ci lega all’azione.
Questo è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita: si può compiere un’azione senza essere legati ad essa, perché l’azione senza attaccamento lascia libero colui che agisce.
È sufficiente per questo spegnere il desiderio che concerne i risultati dell’azione (Bhagavad Gita, XVIII, 10,11): L’uomo saggio che rinuncia, i cui dubbi sono dissipati, la cui natura è la bontà, non ha né avversione per l’azione sgradevole, né attaccamento per l’azione gradevole.
È infatti impossibile ad ogni essere incarnato astenersi interamente dall’azione.
Ma colui che abbandona il frutto dell’azione, pratica il vero abbandono.
La Bhagavad Gita non considera la guerra sotto l’angolazione del problema morale; l’ideale è lo stato di pace: una pace che è interiore, ma che è anche nello spazio sociale.
Numerosi passi mostrano che lo spirito di tolleranza impregna tutto il romanzo.
Il “Jihad minore” è detto Jihad al-saghir.
Jihad è il termine utilizzato nei versetti del Corano in cui è definito l’atteggiamento dell’islam nei confronti della guerra.
Impropriamente tradotto nelle lingue europee con “guerra santa”, Jihad significa invece “lotta, sforzo teso verso un determinato scopo” ed è generalmente integrato nell’espressione Jihad fi sabil Allah, “sforzo sul cammino di Dio”.
La traduzione corretta di questa parola dà la misura delle concezioni islamiche: le guerre intraprese da Muhammad si situano in una prospettiva molto precisa di sforzo personale del credente così come indica questo versetto: «Sforzatevi sul cammino di Dio contro coloro che vi faranno la guerra.
Ma non commettete ingiustizie attaccando per primi, perché Dio non ama affatto gli ingiusti».
Lo spirito religioso di cui è investito il Jihad apre però la porta agli eccessi, poiché, dando un valore religioso alla guerra, si rischia inevitabilmente di trasformare la religione in un’impresa bellica.
I primi combattenti dell’islam dovevano battersi per diffondere la parola divina e compiere le loro azioni in un totale spirito di sacrificio.
Il Jihad diveniva dunque l’azione più elevata, perché, rispetto agli altri atti di sottomissione a Dio, si dava la propria vita combattendo nel Suo Nome.
I guerrieri uccisi nel Nome di Allah diventavano così i “testimoni”, si assicuravano la Salvezza eterna ed entravano immediatamente in Paradiso (Sura, II, 49): Non dite che coloro che sono uccisi sulla via di Dio sono morti.
No, essi sono vivi; ma voi non lo comprendete.
Questa morte benedetta cancella i peccati commessi e i mujahid, i combattenti del Jihad (cioè coloro che praticano lo sforzo sul cammino di Dio), compiono una delle pratiche più sante, al punto che un Hadith afferma che «il Jihad è il monachesimo dell’Islam».
Col tempo l’uso delle armi divenne meno evidente e i musulmani adottarono delle posizioni diverse su questo tema, a seconda della scuola di appartenenza.
Il problema, dopo la morte del Profeta e la sottomissione dell’Arabia, fu se il Jihad armato dovesse essere ancora perseguito.
A questa domanda i primi successori del Profeta diedero una risposta precisa: per essi il Jihad offensivo era legittimo.
I paesi vicini non musulmani erano considerati come dar el-Harb, paesi di guerra; questa espressione si contrappone al dar al-Islam, il territorio dove regnano la pace e la fede; infine vi è il dar al sulh, il territorio che paga tributi e che è retto da una convenzione specifica.
In seguito, però, le interpretazioni cominciarono a divergere e il Jihad ebbe delle interpretazioni differenti.
Fin dall’inizio della sua predicazione Muhammad si urta contro l’ostilità della maggior parte dei membri della tribù dei Kuraysh.
Per una decina d’anni, i primi seguaci dell’islam furono violentemente attaccati dai concittadini della Mecca.
L’animosità nei loro confronti spiega la risposta progressivamente offensiva dei musulmani dopo la fuga a Medina.
Con l’esilio a Medina cominciarono infatti le prime operazioni militari.
Si trattò inizialmente di semplici razzie, secondo la tradizione beduina, con uno scopo essenzialmente economico, poiché il bottino era indispensabile alla sopravvivenza degli emigrati musulmani.
Questi si trovavano infatti nel bisogno a causa del boicottaggio commerciale di cui erano oggetto da parte degli avversari della Mecca e dell’abbandono dei loro beni.
Tuttavia, poiché queste azioni erano rivolte contro le carovane della tribù dei Kuraysh, esse rivestivano pure un carattere “nuovo”, quello di “guerra santa” contro gli infedeli.
Lo scopo propriamente economico delle spedizioni, si vede così trasformato in scopo spirituale: diffondere la vera fede.
Alcune rivelazioni coraniche cominciarono, da quel momento, a fissare le regole per definire le spedizioni militari dell’islam: si stabilisce che un quinto del bottino è destinato ad Allah, al Profeta e ai bisognosi (Sura VIII, 41): Sappiate che del bottino che conquisterete, un quinto appartiene ad Allah e al Suo Messaggero, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti, se credete in Allah e in quello che abbiamo fatto scendere sul Nostro schiavo nel giorno del Discrimine, il giorno in cui le due schiere si incontrarono.
Allah è onnipotente.
L’Arabia preislamica rispettava una tregua nei combattimenti in alcuni mesi dell’anno considerati sacri.
Quando, un giorno, alcuni musulmani decisero di violare questa tregua e di attaccare una carovana della Mecca, tornati a Medina con il quinto del bottino da consegnare al Profeta, furono accolti nel disprezzo generale e il Profeta rifiutò di prendere la sua parte del bottino.
Poco tempo dopo ricevette una rivelazione relativa a questo fatto che formulava in modo esplicito il diritto di fare la guerra e il dovere del credente (Sura II, 212): Ti chiedono del combattimento nel mese sacro.
Di’: «Combattere in questo tempo è un grande peccato, ma più grave è frapporre ostacoli sul sentiero di Allah e distogliere da Lui e dalla Santa Moschea.
Ma, di fronte ad Allah, peggio ancora scacciarne gli abitanti.
L’oppressione è peggiore dell’omicidio».
Ebbene, essi non smetteranno di combattervi fino a farvi allontanare dalla vostra religione, se lo potessero.
E chi di voi rinnegherà la fede e morirà nella miscredenza, ecco chi avrà fallito in questa vita e nell’altra.
Ecco i compagni del Fuoco: vi rimarranno in perpetuo.
Quindi, la mancanza di fede non solo è considerata molto più nefasta della guerra, ma si afferma un concetto molto pesante, cioè che «la tentazione dell’idolatria è peggiore della carneficina».
Sembra infatti che Muhammad fosse convinto del successo ultimo della sua impresa, ricordando senza sosta l’origine divina della sua missione.
Il primo scontro importante fu quello di Badr (624) di cui la tradizione musulmana serba un ricordo leggendario.
La battaglia oppose circa 300 musulmani contro un migliaio di Kuraysh: la vittoria finale dei musulmani fu dovuta a un intervento divino che si manifestò con la venuta di angeli discesi dal cielo per combattere al loro fianco.
A partire da Badr, i guerrieri musulmani diventano davvero gli strumenti di Dio per punire coloro che lo negano: «Non siete voi che li uccidete, è Dio.
Quando tu lanciavi un dardo, non eri tu a lanciarlo, era Dio…» (Sura, VIII, 17).
Quella battaglia resterà nel cuore di tutti i musulmani come il simbolo della vittoria divina sugli infedeli.
L’unità e la conversione delle tribù arabe sottomesse all’islam era ancora fragile quando Muhammad morì nel 632 e i primi quattro califfi che gli succedettero dovettero lottare per mantenere la coesione dell’islam.
Si trovarono di fatto impegnati nella via della conquista aperta dal Profeta.
Rapidamente l’Arabia fu totalmente sottomessa e le truppe islamiche penetrarono più a nord.
L’espansione che seguì fu fulminante, e in circa 50 anni, l’islam si espanse su un territorio che andava da Gibilterra all’Indo.
Ma oramai le lotte intestine dividevano i capi.
È in questa epoca che si forgiarono i fondamenti della religione musulmana e, tra questi, un termine destinato ad avere un destino importante: il Jihad, distinto in “Jihad dei corpi” (o “Jihad minore”) e”Jihad delle anime” (o “Jihad maggiore”).
1.
Quali sono le differenti interpretazioni del Jihad? 2.
Che cosa s’intende per “Jihad Maggiore” e per “Jihad Minore”? 3.
Spiega l’ambivalenza della figura di Shiva.
4.
Qual è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita? 5.
Quali sono i fattori della filosofia buddista che favoriscono lo sviluppo della non-violenza? Il concetto di non-violenza, ahimsa, significa letteralmente “assenza del desiderio di uccidere” e trova la sua origine nei gruppi di erranti e di asceti che si opponevano alla casta sacerdotale dei bramini che praticavano il ritualismo vedico.
È in una di queste sette, il Jainismo, che l’ahimsa trovò la sua applicazione etica più radicale: il monaco deve per esempio spazzare il cammino davanti a sé per non schiacciare gli insetti, e deve coprirsi la bocca con un tessuto fine per evitare di ingoiarli.
La non-violenza di Gandhi rappresenta uno sviluppo di questa antica ahimsa.
La non-violenza gandhiana riveste due aspetti: da un lato è una tecnica di attivismo politico, dall’altro è un mezzo di superamento di se stessi con l’interiorizzazione della violenza.
Diceva Gandhi che «È l’arma dei forti con i forti»; «Io so come posso predicare con successo l’ahimsa a coloro che sanno morire, ma non a coloro che hanno paura della morte».
Certamente l’induismo non ha mai lottato e massacrato per convertire gli stranieri alla sua religione come hanno fatto il cristianesimo e l’islam, tuttavia il fanatismo è oggi largamente presente anche nell’induismo: contro il buddismo, contro l’islam (in questo caso si tratta di risposta a una aggressione) e recentemente anche contro il cristianesimo.
Nell’antica letteratura vedica si trovano numerosi passaggi guerreschi che ricordano la vocazione militare dei nomadi indoeuropei.
Alcuni inni come il seguente invocano gli dei per distruggere i nemici: Fai tremare, o Arbudi, i ranghi dell’esercito nemico, e che il vincitore e il vittorioso, ai nostri nemici, con l’assistenza di Indra, impongano la loro vittoria.
Che giaccia, schiacciato, stritolato, ucciso, il nostro nemico, o Arbudi! Che quella di cui Agni [dio del fuoco] è la lingua, e il fumo la treccia, vittoriose, marcino con il nostro esercito! I Veda presentano Indra come divinità maggiore e rappresenta la sovranità guerriera.
La civiltà degli Ariani sacralizzava la forza violenta al punto di trasformarla in fonte di vita, ed era la casta dei guerrieri che assicurava il mantenimento e lo sviluppo della ricchezza attraverso continue conquiste.
Successivamente Indra perderà la sua importanza e dall’epoca classica saranno altre divinità a contendersi il favore degli Hindù: Shiva, Vishnù e la Grande Dea; tuttavia il ruolo di Indra è interessante perché permette di cogliere il valore religioso della violenza così com’era sentita dagli Ariani in epoca vedica.
Dopo aver riflettuto sul rapporto con la guerra tenuto dalla religione ebraica e da quella cristiana, questo mese prenderemo in considerazione l’islam, l’induismo e il buddismo.
Numerosi avvenimenti recenti hanno sensibilizzato l’opinione pubblica sul contenuto politico e guerriero della religione islamica.
I fantasmi di un islam vendicativo e bellicoso sono ritornati senza però analizzare i fondamenti religiosi che sono alla base di quegli atteggiamenti.
L’islam è la sola delle grandi religioni che abbia manifestato un interesse vero per la guerra al punto da integrarla, in un certo senso, come uno dei precetti del vero credente.
D’altra parte, la posizione dell’islam sulla guerra è incomprensibile se non la si riferisce all’epoca del profeta Muhammad.
Da parte sua l’induismo non presenta un atteggiamento univoco di fronte alla guerra e alla violenza, così come di fronte ad altri aspetti della vita e della spiritualità.
L’elemento che emerge con maggior vigore è la molteplicità delle risposte: cosa vi può essere di comune tra Indra, il Dio guerriero e la pratica dell’ahimsa che rifiuta radicalmente di uccidere? Tra Shiva, il Dio distruttore, e il messaggio della Bhagavad Gita dove Krishna sceglie il campo di battaglia per consegnare al mondo uno dei più straordinari insegnamenti religiosi? Al di là di tutte le differenze ogni percorso è volto a trascendere la guerra, cioè a utilizzarla come mezzo di progresso spirituale.
Alla fine attraverso l’insegnamento della Bhagavad Gita e della non-violenza, l’induismo presenta una riflessione che regge l’impatto con il mondo moderno.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Il “Jihad maggiore” è detto Jihad al-Kabir e rientra nell’ambito esoterico dell’islam.
In questo nuovo Jihad le parole “guerra” e “guerrieri” diventano simboli della condotta religiosa.
L’interpretazione del Jihad maggiore è stata sviluppata soprattutto a opera dei sufi, cioè quei santi e mistici musulmani di scuola sunnita e sciita.
Per i sufi, la “guerra santa” può essere compresa su un piano mistico ed esoterico volto alla trasformazione interiore dell’uomo.
Tale trasformazione si realizza nel senso dell’abbandono spirituale dell’individuo nella divinità, nel riconoscimento intimo che «non c’è altro Dio che Dio».
Un simile assorbimento dell’anima nell’Unico Dio richiede la purificazione, ed è proprio questa purificazione che esprime il Jihad delle anime, la grande “guerra santa”.
Questa interiorizzazione del Jihad trasforma così la lotta contro l’infedele (che è nel prossimo), in lotta contro l’infedele (che è in ciascuno).
L’oggetto del Jihad delle anime è dunque evidente: bisogna uccidere il nemico che è in noi, rinunciare agli istinti e alle passioni.
Si possono citare numerose frasi di sufi che accreditano questa interiorizzazione del Jihad.
Il grande mistico Rumi ebbe a dire: «I profeti e i santi non fanno forse anch’essi degli sforzi (Jihad)? Il primo sforzo che hanno fatto era di uccidere la bramosia della loro anima e di rinunciare ai desideri e alla concupiscenza; è qui la grande guerra (Jihad al-Kabir)».
Questa nuova visione del Jihad getta una nuova luce su diversi versetti del Corano.
Così quando questo afferma: «Combatteteli (gli infedeli) fino a quando non c’è più sedizione ed ogni fede è quella di Dio» (Sura, VIII, 40) significa, per il sufi, che bisogna combattere totalmente quelle passioni che non sono rivolte a Dio, affinché la fede della nostra anima sia tutta intera assorbita in Lui.
Tutto ciò mostra il cambiamento radicale di prospettiva sulla concezione del Jihad, a seconda se lo si considera sotto un aspetto piuttosto che sotto un altro.
Certamente, la maggior parte dei versetti del Corano che menzionano il Jihad sembra riferirsi a situazioni in cui il nemico non è interno, ma esterno; tuttavia, sarebbe negare ogni profondità spirituale al Corano e al Profeta pensare che Muhammad non abbia guardato alla lotta contro se stessi come all’applicazione ultima del Jihad.
D’altra parte, in questo senso si esprimono anche due Hadith del Profeta.
Il primo conferma l’importanza della lotta contro le passioni: Nessuno di voi sarà un credente se non avrà assoggettato le passioni a ciò che ho portato.
Il secondo Hadith nomina direttamente il Jihad maggiore come elemento essenziale della religione islamica; parlando a uno dei suoi compagni, il Profeta dice: Vuoi che ti indichi la parte principale della religione, la sua colonna e il suo culmine? La sua parte principale è la sottomissione (al-Islam) alla volontà divina; la sua colonna è la preghiera rituale; il suo culmine è il Jihad.
Un simile Hadith che vede il Jihad come il culmine della religione, permette di sostenere una spiegazione simbolica e spirituale dell’applicazione militare del Jihad.
La violenza e la distruzione inerenti al mondo sono quindi valorizzati religiosamente nel sistema Hindù grazie a Shiva.
Il Dio Shiva non è propriamente legato al mondo della guerra ma è ugualmente rilevante perché, nella famosa triade divina dell’induismo classico, la Trimurti, egli rappresenta il principio distruttore accanto a Brahma, il creatore e a Vishnù, il conservatore.
Shiva è un dio terrificante, ornato di serpenti e scorpioni.
Ma è anche il Benevolo e il Protettore.
Nelle sue diverse rappresentazioni il suo aspetto violento e distruttore è associato a un altro per nulla negativo.
Dice lo storico Alain Daniélou in un suo saggio su Shiva (A.
Daniélou, Shiva et Dionysos, Fayard, Paris, 1979, p.
93) che Tutto ciò che nasce muore.
Il principio della vita è associato al tempo, cioè al principio della morte.
Il dio creatore è anche il dio distruttore.
La vita si nutre della morte.
Non c’è niente che viva senza distruggere e divorare altre vite.
Pertanto Shiva ha un aspetto terrificante.
Lo scopo della vita è quello di progredire spiritualmente sostituendo costantemente in sé qualche cosa di meglio rispetto a ciò che non lo è.
Il principio distruttore di Shiva bisogna comprenderlo a un livello spirituale: sono le nostre passioni per un mondo effimero, le nostre illusioni che bisogna distruggere.
Ma Shiva è anche Maestro dello yoga, e in quanto tale insegna agli uomini il modo di elevarsi spiritualmente (J.
Herbert, L’Hindouisme vivant, Laffont, Paris, 1975, p.127): L’azione contemporaneamente distruttrice e yogica di Shiva ha come conseguenza inevitabile una ri-creazione.
Questa successione continua di distruzione/ricreazione si trova espressa nella danza cosmica tipica dei rituali esoterici dei fedeli di Shiva.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Questa atmosfera di non violenza che circonda il buddhismo deriva da diversi fattori che permettono di cogliere alcuni elementi della sua filosofia.
1.
Vi è prima di tutto la tradizione dell’ahimsa, “l’assenza di desiderio di uccidere” che era già presente nell’ambito dei rinuncianti indiani presso cui si è sviluppato il buddismo.
Nel buddismo la non-violenza e il rispetto altrui non provengono da un dogma ma da una certa visione del mondo che favorisce il senso della misura.
Così la violenza, come ogni eccesso di passione è fortemente controllata da una pratica che favorisce la riduzione dei desideri e il controllo di sé.
2.
Il buddismo pone anche la compassione come fonte essenziale della sua etica, come un complemento essenziale alla saggezza.
Il simbolo di questa compassione è il Bodhisattva, cioè colui che, pervenuto sulla soglia del Nirvana, ritorna nel mondo per aiutare tutti gli esseri a incamminarsi verso la liberazione.
3.
Infine vi è la tolleranza che è uno degli aspetti più evidenti del buddhismo.
I testi buddisti brulicano di storie che illustrano la centralità della tolleranza.
Una di queste, tratta dall’Upalisutra, è molto citata, racconta che Upali, un discepolo di Mahavira, maestro della comunità jainista, venne dal Buddha per ingaggiare con lui un confronto sul karma.
Naturalmente, alla fine, Upali viene convinto da colui che voleva convincere, e gli chiede di diventare suo discepolo.
Il Buddha gli raccomanda allora di non affrettarsi e di riflettere con cura prima di prendere una simile decisione.
Quando Upali ripropone il suo desiderio, Buddha lo accoglie, ma domandandogli prima di tutto di continuare a rispettare e a sostenere il suo vecchio maestro religioso.
4.
La tolleranza come il rispetto degli altri e il precetto di non uccidere, si fonda sulla coscienza buddista dell’unità dell’universo.
Tutti i fenomeni e tutte le esistenze sono solo degli aggregati passeggeri, per cui è la stessa vita che anima tutti gli esseri dell’universo; allo stesso modo, aggredire una persona equivale ad aggredire se stessi.
Per lo stesso principio quando un solo essere perviene all’illuminazione, ne beneficia il mondo intero.
L’imperatore Ashoka si convertì al buddismo dopo essere rimasto profondamente turbato dai massacri da lui compiuti conquistando il regno dei Kalinga.
Egli proclamò a quel punto la sua fede e decise di rinunciare alla conquista con le armi consacrandosi unicamente alla diffusione della “Legge” buddista.
I suoi editti, incisi sulla roccia, sono rimasti conservati: Che essi non pensino che la conquista con le armi meriti il nome di conquista.
Che essi considerino come vera conquista solo le conquiste della Legge.
L’aspetto più straordinario è che Ashoka non cercò di sfavorire le altre religioni per favorire la propria.
Contemporaneamente all’invio di missionari a Ceylon, in Birmania e nel nord-ovest dell’India egli predicò una tolleranza totale nei confronti delle altre dottrine: Tutte le sette si propongono il controllo dei sensi e la purezza dell’anima, il Bene è il midollo di tutte le sette.
Per tutte vi è una medesima radice: si tratta di controllare il proprio linguaggio, di non celebrare la propria comunità denigrando le altre.
Al contrario, bisogna rendere alle altre sette gli onori che si conviene, in tutte le circostanze (…).
Di fatto, la migliore illustrazione del pacifismo buddista, resta il suo metodo di diffusione: sebbene non sia sempre ben conosciuto nei dettagli, sembra che non ci siano mai stati conversioni forzate, e insediamenti con le armi, come avvenne, invece, per altre due religioni a vocazione universale come il cristianesimo e l’islam.
Si individuano quattro dottrine relative al Jihad a partire dalla lettura del Corano.
Ci sono coloro che considerano che l’espansione dell’islam debba essere fatta con la persuasione: è l’atteggiamento generalmente adottato da tutti i musulmani moderni.
Il Jihad con le armi può esser proclamato quando c’è un’aggressione: anche questa è un’interpretazione ammessa dai musulmani moderni.
Il Jihad può allora intervenire a livello della comunità quando uno dei Paesi musulmani è attaccato.
La storia recente dà diversi esempi di casi in cui il Jihad armato si è legittimato.
In questo stesso senso il Jihad può intervenire anche a livello personale, quando un nemico attacca i beni o la famiglia di un individuo.
Nelle ultime due concezioni, il Jihad armato deve compiersi in maniera offensiva verso gli infedeli.
La differenza interpretativa è legata solo al problema se si deve rispettare o no la tregua dei mesi sacri.
L’obbligo del Jihad è un obbligo religioso voluto da Dio e dal suo Profeta che riguarda ogni musulmano di sesso maschile, libero, e in salute.
Il Corano precisa (Sura IX, 92): Non saranno ritenuti colpevoli i deboli, i malati e coloro che non dispongono di mezzi, a condizione che siano sinceri con Allah e col Suo Messaggero: nessun rimprovero per coloro che fanno il bene.
Allah è perdonatore, misericordioso.
Quanto alle donne, sebbene abbiano partecipato ad alcuni combattimenti dell’epoca eroica, un Hadith precisa che «il pellegrinaggio è la guerra santa delle donne».
Il Jihad si distingue dagli altri cinque precetti della fede islamica (la professione di fede, la preghiera quotidiana, il digiuno del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca e l’elemosina rituale) perché mentre questi sono doveri individuali, il Jihad è un dovere collettivo.
L’atteggiamento dei guerrieri musulmani nei confronti dei loro nemici variava a seconda della loro appartenenza religiosa.
Gli ebrei e i cristiani non erano obbligati a convertirsi all’islam: se accettavano di pagare un tributo, essi ricevevano il diritto alla libertà di culto.

Irc e insegnante di classe nella primaria

UNITÀ 3 UN VOLTO PER DIO Schema  Per introdurci   1.
l’esperienza
                             Elaborazione.               Battiato: E ti vengo a cercare – integrazioni degli Autori Venditti: Stella – integrazioni dei collaboratori OF 2.
L’interpretazione Cielo: Eliade Notte stellata: Van Gog – integrazioni degli Autori megaliti di Stonehenge – integrazioni dei collaboratori 3.
suggestioni per un progetto Vado in cerca di Dio: Slamo 42 Per un bilancio – integrazioni degli Autori Salmo 92: Il Signore rende stabile il mondo – integrazioni dei collaboratori 4.
Integrazioni proposte nel testo – integrazioni degli Autori – integrazioni dei collaboratori 5.
Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Come è noto, nella scuola primaria l’Irc può essere impartito non solo dall’Idr specialista ma anche dall’insegnante di classe che si sia dichiarato disponibile a farlo e sia stato riconosciuto idoneo dalla competente autorità ecclesiastica.
Si tratta di un residuo della riforma Gentile, che aveva introdotto, ancor prima del Concordato del 1929, l’insegnamento di religione nelle scuole elementari affidandolo ordinariamente all’insegnante della classe.
Quella prassi è stata conservata anche dal nuovo Concordato, sia per continuità con il vecchio regime, sia per fronteggiare in prima applicazione la richiesta di Idr specialisti qualificati.
Col tempo l’affidamento dell’Irc all’insegnante di classe si è rivelato sempre più residuale, soprattutto da quando l’abolizione dell’istituto magistrale negli anni Novanta ha fatto mancare il corso di studi che – almeno formalmente – preparava i futuri maestri anche all’Irc attraverso un doppio orario di insegnamento motivato proprio dall’esigenza di fornire anche le competenze didattiche per insegnare religione.
È evidente che, al di là di lodevoli eccezioni, l’Idr specialista risulta formato in maniera più specifica e completa rispetto all’insegnante di classe, anche se l’attribuzione dell’Irc a chi insegna altre materie può evitare varie forme di emarginazione della disciplina.
D’altra parte va anche riconosciuto che affidare l’Irc a un insegnante comune sottopone al rischio di veder ridurre talvolta l’orario di Irc per via dell’urgenza di altre materie “più importanti”.
Per questi motivi e per una generica apertura alla presenza di altri insegnanti nella scuola, si era quindi diffusa la prassi di non dare la propria disponibilità all’Irc (in soli venti anni si è passati da zero a oltre il 70% di ore di Irc coperte da Idr specialisti nella primaria e da zero a oltre l’85% nella scuola dell’infanzia).
Ma negli ultimi mesi i provvedimenti ministeriali sull’organico del personale hanno prodotto una rapida inversione di tendenza.
Per un’equivoca interpretazione di quelle disposizioni tantissimi insegnanti di scuola primaria hanno fornito nuovamente la loro disponibilità all’Irc presumendo di poter rientrare automaticamente in questo servizio in virtù dell’idoneità ricevuta anni prima e mai revocata.
Tuttavia le cose non sono così semplici e si è creata parecchia confusione sull’argomento.
Alcuni hanno ritenuto che le ore di Irc fossero determinanti per la definizione dell’organico, temendo di poter andare in esubero proprio per via della mancata disponibilità all’Irc (ogni undici insegnanti non disponibili all’Irc si costituisce un posto di insegnamento che poteva essere tagliato).
Ma la CM 38 del 2 aprile scorso sugli organici ha rassicurato tutti chiarendo che l’organico è calcolato come se ogni docente insegni anche religione, a prescindere dalla sua effettiva condizione; quindi l’indisponibilità all’Irc, anziché sottrarre ore, crea nuova disponibilità per la scuola, perché le ore così avanzate potranno servire ad ampliare l’offerta formativa.
È a questo punto che intervengono altre preoccupazioni, di meno nobile natura.
Rassicurati sul fronte degli organici, gli insegnanti preferirebbero comunque tornare all’Irc per non dover completare il proprio orario di servizio in altre classi.
Ma si è già detto che il ritorno non è un diritto automatico e non è privo di effetti sui controinteressati, cioè gli Idr specialisti che finora hanno assicurato il servizio.
In primo luogo va ricordato che non c’è alcuna norma che stabilisca la precedenza dell’insegnante di classe sullo specialista (anzi, la CM 374/98 esplicitamente si appellava al principio della continuità didattica per limitare il rientro del docente comune nell’Irc solo all’inizio di un ciclo didattico e non anche nelle classi intermedie).
In secondo luogo va ricordato che l’idoneità a suo tempo ricevuta (dal 1990 l’idoneità è rilasciata a tempo indeterminato) non è un certificato che non perda mai di validità.
Proprio perché soggetta a revoca, essa attesta una relazione di fiducia e di appartenenza ecclesiale che può naturalmente evolversi nel tempo.
È quindi legittimo e necessario che gli ordinari diocesani verifichino, nelle forme ritenute più opportune ed efficaci, il sussistere delle condizioni che hanno consentito il primo riconoscimento di idoneità.
Gli insegnanti di classe dovevano dare la propria disponibilità entro lo scorso 15 marzo.
Di fronte a numeri talora cospicui di richieste, alcune diocesi stanno correndo ai ripari predisponendo una serie di accertamenti nei confronti dei richiedenti, con i quali è mancato negli ultimi anni quel rapporto di comunicazione che invece è stato presente con gli Idr specialisti, i quali normalmente partecipano a tutte le iniziative di formazione e animazione promosse periodicamente dalla diocesi.
Senza voler fare un processo alle intenzioni (ma con la consapevolezza che il sospetto nei confronti degli insegnanti nuovamente disponibili all’Irc è legittimo quanto meno per l’insolita quantità di richieste), è dovere dell’ordinario diocesano tutelare prima di tutto la qualità dell’Irc; ed è fuori di dubbio che un Idr specialista possieda titoli di studio e continuità nel servizio tali da assicurare quella qualità.
È altresì evidente che la formazione iniziale richiesta agli insegnanti di classe sia del tutto sproporzionata rispetto a quella degli specialisti (poche ore di Irc nel corso degli studi magistrali rispetto alla prassi più diffusa di un diploma almeno triennale di scienze religiose) e quindi sembra opportuno cercare di innalzare il livello di preparazione di chi insegna religione, pretendendo per esempio la frequenza di corsi di formazione lunghi e impegnativi.
Infine, non va trascurata la guerra tra poveri che così si è venuta a creare.
È ormai assodato che l’Idr specialista non è un supplente dell’insegnante di classe ed oggi è spesso anche di ruolo; quindi non può essere scalzato da un altro insegnante solo sulla base di una sua improvvisa dichiarazione.
Anzi, dovrebbe essere preoccupazione della stessa amministrazione scolastica non creare occasioni di esubero che andrebbero ad aggiungersi a quelle già determinate dai tagli generalizzati di personale.
Quindi, gli Idr specialisti non devono preoccuparsi per la loro sorte nel prossimo anno scolastico e potranno trovare negli interessi distinti ma convergenti dell’ordinario diocesano e dell’amministrazione scolastica la migliore garanzia per il loro futuro.

Pasqua in immagini: ultima cena secondo Leonardo 

Il Vangelo della Passione di Gesù è stato letto o cantato due giorni fa in tutte le chiese cattoliche di rito romano, nella domenica che precede la Pasqua.
Quest’anno nella versione di Marco.
Ma c’è anche una Passione che parla con le immagini.
Che raggiunge e commuove un numero sterminato di persone di ogni fede.
È ad esempio quella messa in scena dalle processioni che contrassegnano la settimana santa.
O più semplicemente è quella raffigurata dall’arte pittorica.
C’è un capolavoro dell’arte universale che è forse il più conosciuto al mondo, tra quelli che rappresentano la Passione di Gesù.
È l’Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
Tantissimi conoscono e ammirano questo dipinto.
Ma pochi sanno quale momento preciso dell’ultima cena rappresenti.
Pochi sanno leggere i significati dei gesti di Gesù e degli apostoli.
E meno ancora sanno che questo affresco può essere capito solo assieme a un altro dipinto che occupa la parete di fronte del medesimo refettorio e rappresenta la crocifissione.
Sfortunatamente, quel romanzo dalla spropositata fortuna che è stato “Il Codice da Vinci” ha contribuito ad estendere non solo la fama dell’Ultima Cena di Leonardo, ma anche la sua incomprensione.
È giusto quindi strappare il velo che rende ciechi.
È ciò che fa Timothy Verdon nel testo che segue, uscito su “L’Osservatore Romano” del 30 marzo 2009.
Verdon è storico dell’arte e sacerdote.
È americano ma vive da molti anni a Firenze, dove dirige l’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte.
È uno dei maggiori esperti mondiali di arte cristiana.
Chiamato da Benedetto XV, ha partecipato agli ultimi due sinodi dei vescovi, sull’eucaristia e sulle Sacre Scritture.
In questo articolo egli spiega in chiave artistica, teologica, liturgica il senso profondo del capolavoro di Leonardo da Vinci.
Una via artisticamente sublime per capire quell’atto d’inizio della passione di Gesù che è la sua ultima cena.
E per farsene coinvolgere, come ogni grande opera d’arte sa fare.
”Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe la croce” di Timothy Verdon Il Cenacolo di Leonardo da Vinci fu dipinto in un refettorio: la cena di Cristo in un luogo dove si mangia.
Ha importanza poi il fatto che il refettorio era quello di una comunità consacrata, i domenicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano.
L’Ultima Cena, nel corso della quale il protagonista, Cristo, assunse un gravoso impegno, fu dipinta per dei cristiani impegnati a seguirlo.
È inoltre significativo che questo refettorio si trovi a pochi passi dalla chiesa in cui i consacrati ascoltavano le Scritture che davano senso al loro impegno, e dove venivano alimentati del corpo e sangue originariamente offerti da Cristo nel contesto dell’evento raffigurato da Leonardo.
Ed è fondamentale ricordare che i frati si recavano al refettorio dalla chiesa: andavano a pranzo – almeno nelle grandi occasioni e nei giorni di festa – subito dopo la solenne messa comunitaria.
Vedevano cioè il Cenacolo di Leonardo nel contesto di un impegno che coinvolgeva tutta la loro vita, e dopo aver ascoltato il Vangelo e ricevuto l’eucaristia.
*** Ovviamente tale modo di guardare l’opera non era l’unico, e anche all’epoca il dipinto suggeriva altri significati.
La raffigurazione del Cenacolo più celebre di tutti i tempi illustra, ad esempio, in maniera singolare, il rapporto con i coevi “misteri” teatrali.
Eseguita tra il 1495-97, riassume inoltre l’ardita ricerca stilistica iniziata, elaborata e codificata da altri maestri fiorentini: in primo luogo Giotto, poi Donatello e Masaccio, infine Leon Battista Alberti.
Il cenacolo fu subito riconosciuto come una pietra miliare della cultura artistica del Rinascimento.
*** Le due cose non sono affatto contraddittorie.
L’Ultima Cena venne commissionata a Leonardo dall’allora duca di Milano, Ludovico Sforza, nel contesto di un progetto di ammodernamento e abbellimento del convento e della chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui il principe intendeva situare la propria sepoltura.
Nel quadro globale del progetto, diretto dall’architetto Donato Bramante, la Cena di Leonardo aveva una duplice funzione: da una parte doveva essere un’opera d’arte sacra – l’immagine della “coena Domini” nella sala dove i frati prendevano i loro pasti – e dall’altra doveva appagare l’ambizione del duca di dare lustro alla sua capitale con opere di architettura e arte nello stile moderno.
Oltre gli elementi di contenuto religioso nel dipinto, Leonardo vi creò infatti l’esempio più perfetto mai visto in Italia settentrionale della nuova prospettiva inaugurata dall’arte fiorentina, aprendo la parete di fondo del refettorio con l’illusione di una stanza spaziosa dal soffitto a cassettoni.
Questa stanza – come il grandioso presbiterio a cupola che Bramante realizzava contemporaneamente per la chiesa – aggiornava una struttura preesistente, definendone un’estensione ideale, a un livello più alto: lo spazio di Cristo nel convento dei frati.
In realtà i due aspetti del Cenacolo – quello tecnico e quello mistico – si sovrappongono, perché è anche grazie all’uso della prospettiva che Leonardo riesce a mostrare che la vita della comunità religiosa è un’estensione della vita di Cristo e degli apostoli.
Attraverso la sua costruzione prospettica, l’artista focalizza l’attenzione su Cristo, facendo della sua figura il punto d’incrocio dell’intero cosmo pittorico definito dalla sala.
Infatti le linee diagonali che portano l’occhio in profondità conducono inevitabilmente a Cristo, tutto si ricollega a Lui, è Lui il perno della logica visiva oltre che narrativa dell’insieme.
Egli non è il punto ultimo, il punto di fuga prospettica; le linee diagonali convergono piuttosto dietro Cristo, nell’aria vespertina che è oltre la finestra; ma quel punto ultimo rimane nascosto.
Cercando l’infinità, il nostro sguardo si ferma a Cristo, come se egli ancora dicesse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14, 9).
La forza di questa concentrazione prospettico-cristologica ideata da Leonardo diventa chiara se si raffronta la sua Cena con altre interpretazioni del tema nella pittura coeva.
Domenico Ghirlandaio, ad esempio, negli anni 1480-1490 ne dipinse due, quasi identiche, nei conventi di Ognissanti e San Marco a Firenze.
Come Leonardo, questo artista si servì della prospettiva per dare l’illusione di uno spazio reale, senza però costruire lo spazio in diretto rapporto a Cristo.
Nelle Cene dipinte dal Ghirlandaio, l’occhio avanza da sinistra a destra, fermandosi su ciascuna delle tredici figure separate ma più o meno uguali, senza cogliere immediatamente quale di esse rappresenti Gesù.
Due sono in posizioni diverse dagli altri: Giuda, seduto dalla nostra parte della tavola, e il giovane san Giovanni che si riposa, con la testa tra le braccia incrociate sulla tavola.
Per un processo di eliminazione, si capisce che la figura su cui Giovanni si poggia – l’uomo posto di fronte a Giuda – deve essere Cristo.
Ma la cosa non è subito chiara.
Questa impostazione – che era classica nell’arte fiorentina, adoperata sin dal Trecento nei refettori – aiuta a capire la novità della lettura di Leonardo da Vinci.
*** Sappiamo da un suo disegno ora conservato a Venezia che, in un primo momento, pure Leonardo aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come tante unità separate, con san Giovanni addormentato accanto a Cristo e Giuda dall’altra parte.
A un certo punto però Leonardo sembra aver capito che l’effetto di tale frammentazione sarebbe stato come nel Ghirlandaio: dodici uomini isolati gli uni dagli altri, che reagiscono alla spicciolata, ognuno a modo suo, all’annuncio sconvolgente che invece interessa tutti: l’annuncio che li mette in crisi non tanto come individui ma come gruppo, come comunità: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” (Giovanni 13, 21).
Per evitare tale frammentazione narrativa, Leonardo ha preferito allora unire i dodici intorno a Cristo in quattro grandi gruppi, in cui l’elemento che colpisce è appunto l’eloquenza corale di più persone accomunate da un solo impeto emotivo.
Con particolare attenzione alla diversità di tipologie e gesti, il pittore rappresenta ciò che poteva essere veramente accaduto in una comunità di uomini vissuti insieme per tre anni.
I dodici si suddividono naturalmente in gruppi diversificati gli uni dagli altri ma connessi tra loro; all’interno di ogni gruppo si discute sul significato di quanto Cristo ha detto, ma l’attenzione psicologica, espressa mediante sguardi e gesti, dai due lati della tavola torna necessariamente verso il centro, verso Cristo.
Tale movimento centripeto ha perciò, in superficie, la stessa funzione che hanno le linee prospettiche in profondità: conducono l’attenzione sull’attore principale, nel momento stesso del suo grande discorso, del gesto misterioso e commovente: il dono della sua vita nei segni del pane e del vino.
Notiamo poi come, nei gruppi posti immediatamente a destra e sinistra di Gesù, il movimento viene invertito: gli apostoli ai lati di Cristo si tirano indietro, il flusso dei loro sentimenti non raggiunge il Salvatore, che pronuncia il suo discorso e compie il suo gesto in maestosa solitudine.
I movimenti dei corpi a destra e a sinistra, i gesti delle mani, non lo toccano: sono come onde che lambiscono un promontorio senza bagnarne la cima.
Eppure intuiamo che l’intensità di sentimento in questi uomini – la loro capacità di agire con “un cuore solo e un’anima sola”, il loro comune desiderio di trasparenza davanti alla commozione di un Maestro che si è fatto servo e che ora parla loro di tradimento e di morte – dipende da Gesù, nasce in rapporto a Gesù: è Lui che motiva e fonda l’apertura con cui, ad esempio, Filippo, a destra, con le mani invita a leggere nel suo cuore.
Nel corso della cena Gesù si è aperto a loro, ha lasciato vedere la propria angoscia, ne ha parlato, si è dato totalmente in un modo nuovo, corpo e spirito insieme, e ora gli apostoli si trovano capaci anch’essi di aprirsi, disposti anch’essi a darsi.
A contatto con la realtà di questo Signore-Servo, di quest’uomo che parla da Dio, i suoi discepoli scoprono una capacità di risposta oltre i normali limiti della natura, una capacità soprannaturale simile all’apertura di Gesù stesso.
“Il nuovo e grande mistero che avvolge la nostra esistenza – aveva scritto san Gregorio Nazianzeno mille anni prima di Leonardo – è questa partecipazione alla vita di Cristo.
Egli si è comunicato interamente a noi: tutto ciò che Egli è, è diventato completamente nostro.
Sotto ogni aspetto noi siamo Lui.
Per Lui portiamo in noi l’immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati.
La fisionomia, l’impronta che ci caratterizza è ormai quella di Dio” (Discorso 7, Patrologia Greca 35, 786-87).
Nel Cristo di Leonardo convergono le linee portanti all’infinità, convergono i sentimenti di molti cuori, e convergono – s’intrecciano, si sovrappongono, s’identificano – la natura divina con quella umana.
In questa straordinaria figura il pittore raccoglie tutti i fili del racconto evangelico: il “desiderio ardente” di condivisione in Gesù; la piena consapevolezza di ciò che gli sarebbe accaduto; il senso poi di essere arrivato al momento supremo, di compiere per l’ultima volta un gesto comune, aprendone il significato verso un orizzonte sconfinato.
La composizione piramidale che suggerisce quiete e forza; l’eloquenza con cui Cristo apre le braccia e allunga le mani: quella destra (alla nostra sinistra) verso il bicchiere di vino, quella sinistra (alla nostra destra) che mostra il pane; il regale isolamento in mezzo agli apostoli, la testa stagliata contro la luce del tardo pomeriggio, senza aureola ma incorniciata dalla nobile architettura della sala; e l’aria di sottile tristezza nell’inclinazione del capo come anche in ciò che rimane dell’espressione in questo dipinto danneggiato: tutto è fedele all’immagine che il Nuovo Testamento offre del Salvatore la notte in cui fu tradito, l’immagine di uno che si dona spontaneamente e nel contempo istituisce un rito eterno; uno che parla del suo regno, quindi un re; e soprattutto un uomo consapevole di andare incontro alla morte che accettava liberamente, “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava” (Giovanni 13, 3); “sapendo”, “accettando”, ma soffrendo umanamente, “rilassando le redini dell’emotività”, come dirà Gianfrancesco Pico della Mirandola in un trattato sull’immaginazione stilato negli stessi anni.
*** Cerchiamo di cogliere l’impatto di questa figura nel suo contesto d’uso originario.
Le costitutioni dell’ordine domenicano, riformulate dal capitolo generale tenutosi a Milano nel 1505 nel convento di Santa Maria delle Grazie, lo stesso del Cenacolo di Leonardo, descrivono con precisione il rituale d’ingresso a un refettorio, indicando anche la funzione di eventuali immagini collocate in tali spazi comunitari.
“Suonata la campana – leggiamo – i fratelli debbono recarsi silenziosamente ma con decorosa rapidità al luogo in cui dovranno lavarsi le mani.
Lavate le mani, devono andare poi, nell’ordine consueto, a sedersi sulla panca disposta fuori del refettorio, e in quella posizione recitare il ‘De profundis’.
Quando infine il priore suonerà per l’ingresso nel refettorio, devono entrare a due a due, incominciando dai più giovani.
E quando sono in mezzo al refettorio, devono fare un inchino alla croce o all’immagine dipinta ivi collocata, e, fatto il segno della croce, devono andare a sedere a tavola”.
Come suggerisce questo testo, il significato religioso del Cenacolo e di altre immagini nei refettori va meditato all’interno di un sistema di riti e segni elaborato dalla tradizione monastica attraverso molti secoli.
La “croce o immagine dipinta” nel refettorio dove si mangiava, e il salmo recitato prima di entrare mentre i frati si lavavano le mani, riportavano al senso eterno di azioni ordinarie, quotidiane: la pulizia e l’alimentazione.
Il Salmo 130, chiamato il “De profundis”, attribuiva ad esempio un significato spirituale al comune atto d’igiene.
“Dal profondo” della propria colpevolezza, il salmista (e con lui il frate che si lavava) esprimeva la sua fede che Dio è capace di purificarlo: “Presso il Signore è la misericordia e grande presso di Lui la redenzione.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Nello stesso modo, la croce o immagine dipinta sulla parete del refettorio dava un senso religioso all’atto di mangiare, invitando i commensali a leggere nel pasto un significato spirituale oltre a quello fisico: non solo sostentamento del corpo, ma sostegno della vita interiore.
In pratica, i significati dei due momenti – del “De profundis” fuori della porta e dell’inchino all’immagine della passione dentro il refettorio – erano collegati.
Se l’atto di lavarsi esprimeva la fede nel perdono divino, quello di accostarsi alla mensa comunicava il coraggio di vivere.
Il peccatore perdonato mangia e si mantiene in vita perché accetta il perdono del Dio misericordioso; s’inchina davanti alla croce o altra immagine nel refettorio perché in essa ravvisa l’espressione di tale misericordia: Cristo che offre la propria vita in riscatto per i peccati degli uomini.
La croce esprime sempre questa “redenzione”, e la “immagine dipinta” più usata nei refettori, l’ultima cena, lo comunica ugualmente: nel racconto evangelico, Gesù durante la cena dà il vino ai suoi discepoli con le parole: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati” (Matteo 26, 27-28).
*** Tornando a guardare l’Ultima Cena che gli estensori delle costituzioni domenicane avevano davanti agli occhi nel 1505, il dipinto di Leonardo, dobbiamo ancora notare che nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci sono due dipinti, a entrambi dei quali ci si doveva inchinare.
Negli stessi anni, infatti, in cui Leonardo dipinse l’Ultima Cena, un artista milanese, Donato Montorfano, affrescò la parete di fronte a essa con una monumentale Crocifissione, tuttora visibile all’altro capo della sala.
Di conseguenza, “lavate le mani” con fede nella misericordia divina, i frati che accedevano al refettorio si trovavano abbracciati d’ambo le parti da quella misericordia: davanti e dietro di sé avevano immagini della “grande redenzione” operata a favore dei peccatori da Cristo.
Su una delle due pareti di fondo vedevano, nell’Ultima Cena, l’impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue “per la remissione dei peccati”, e sulla parete opposta vedevano nella Crocifissione l’adempimento dell’impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce.
Avendo rammentato il loro bisogno di perdono, i frati andavano cioè a tavola tra i due momenti nei quali tale perdono era stato realizzato: tra il giovedì sera e il venerdì pomeriggio dell'”ora” di Gesù, tra la Cena e la Croce.
Che Leonardo stesso abbia concepito i due dipinti del refettorio come componenti di un programma unitario è confermato dalla sua decisione di abbandonare il suo primo progetto compositivo, quello del disegno veneziano, per l’impianto che abbiamo descritto.
Al posto del Cristo che si sporge per dare il boccone a Giuda, l’artista ha ideato un Cristo regale e sacerdotale che, allargando le braccia, mostra il pane e sta per prendere il vino.
Cioè al posto di una figura narrativa – il Cristo del disegno veneziano, che interagisce con Giuda – Leonardo ha preferito un Signore tutto interiore, che invita all’introspezione psicologica.
Lo sguardo velato di tristezza, la testa inclinata, l’isolamento della figura suggeriscono un momento di profonda interiorità.
*** Leonardo deriva la composizione del suo Cristo da tre fonti.
La prima è l’immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze: l’eterno sacerdote vestito del cielo e della terra, con le braccia estese per accogliere o respingere in virtù del mistero della sua passione.
La seconda è l’immagine del legislatore tipica dell’arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti.
La pala d’altare dell’Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell’ordine domenicano a Firenze, presenta Cristo in questo modo: un re legislatore, che con la destra affida a san Tommaso d’Aquino il libro della teologia, mentre con la sinistra dà le chiavi del regno celeste a san Pietro.
Tra i temi toccati da Gesù nella cena c’erano infatti quelli del “regno” e della “nuova legge” dell’amore.
San Tommaso, nel suo commento teologico al discorso dell’ultima cena, collega proprio queste idee, ricordando che all’ultimo pasto preso con i suoi discepoli Cristo fungeva simultaneamente da re, da legislatore e da sacerdote.
Inoltre san Tommaso – la cui interpretazione doveva essere familiare ai domenicani di Santa Maria delle Grazie – dice che queste tre funzioni, che normalmente interessano categorie distinte di persone, in Cristo “confluiscono”.
Ma è la terza fonte del suo Cristo che permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due.
La posa del Salvatore con le braccia estese e la testa inclinata in segno di tristezza o di morte corrisponde a quella comunemente adoperata all’epoca per le immagini del “Vir dolorum”, dell’Uomo dei dolori, che facevano vedere il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe.
La maestà regale, la ieraticità sacerdotale e la dignità legale sono comprese, ricapitolate, approfondite all’infinito in quest’allusione visiva al Servo Sofferente, perché Cristo regna dalla croce quando offre se stesso come sacerdote, vittima e altare, per istituire con il proprio sangue la nuova alleanza per il perdono dei peccati.
Nella Cena del refettorio di Santa Maria delle Grazie, Cristo apre le braccia nel gesto compiuto il giorno dopo sulla croce.
La posa del Cristo leonardiano è stata cioè ideata in funzione dell’atto successivo del dramma sacro, raffigurato sulla parete opposta del refettorio.
La maestosa presenza psicologica, l’insondabile interiorità sono attributi di chi contempla e accetta la propria morte.
Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe infatti la croce del giorno seguente.
La testa inclinata, la mano aperta che indica il pane, sono preannunci di ciò che deve venire dopo.
E la vita dei frati – il loro mangiare, il coraggio con cui, peccatori perdonati, si mantengono in vita – è compresa in quel “mentre”: nell’interstizio tra l’accettazione e la realizzazione, nello spazio quotidiano della sequela, in una fedeltà spesso sofferta, che li configura a Cristo.
__________  Il giornale della Santa Sede su cui è uscito l’articolo di Timothy Verdon: > L’Osservatore Romano __________ Su questi temi, in www.chiesa: > Focus su ARTE E MUSICA

Il patibolo e la tomba vuota

Se, infatti, possiamo considerare come un’eccezione singolare l’affresco del cimitero di Pretestato con una coronazione di spine, relativo alla prima metà del iii secolo, soltanto dagli anni centrali del secolo seguente appaiono alcuni sarcofagi cosiddetti di passione o dell’anàstasis, con l’arresto dei principi degli apostoli, del Cristo, il giudizio di Pilato e ancora la coronazione di spine, mentre un originale affresco della seconda metà del iv secolo, nell’ipogeo di via Dino Compagni, rappresenta i soldati romani che si giocano le vesti di Cristo e, di lì a qualche anno, nella celebre lipsanoteca eburnea di Brescia, si fa ancora esplicito riferimento all’arresto del Salvatore e alla drammatica fine di Giuda Iscariota.
Ma per incontrare la prima rappresentazione della crocifissione dobbiamo attendere i pontificati di Celestino i (422-432) e di Sisto iii (432-440), quando fu scolpita la porta lignea della monumentale basilica titolare di Santa Sabina, sull’Aventino.
Nella splendida porta, miracolosamente giunta sino ai nostri giorni, seppure non in maniera integrale e provata da una serie infinita di restauri, si avvicendano episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, con l’intento di realizzare una sorta di concordia biblica, che trova il suo apex semantico in una formella, che vuole rappresentare il trionfo della Chiesa, raffigurata come una matrona orante fra i principi degli apostoli, in un contesto fortemente apocalittico.
Il grande casellario ligneo prende proprio avvio da una formella, che rappresenta il momento drammatico della crocifissione, collocata contro una parete continua in opera isodoma, caratterizzata da tre timpani, che definiscono le silhouettes dei tre giustiziati, nudi, se si esclude l’esiguo subligaculum, che cinge loro i fianchi.
Le tre figure del Cristo e dei ladroni sono proiettate in primo piano e mostrano un atteggiamento expansis manibus, senza che si intraveda il legno trasversale della croce, mentre soltanto i ladroni presentano le mani inchiodate.
Il Cristo supera, per dimensioni, i due uomini posti ai lati di oltre un terzo, ha gli occhi spalancati, la barba e le chiome fluenti; il suo corpo, come quello dei due ladroni, è atletico e, nonostante la resa fortemente schiacciata del rilievo, rispetta i canoni della plastica classica romana.
Questa redazione trionfale della crocifissione, nel senso che i giustiziati, con l’atteggiamento di orante, esprimono il trionfo della risurrezione, invece del dramma pietoso della morte violenta, rispetta coerentemente la tendenza della cultura figurativa romana, improntata a una visione positiva delle storie evangeliche, che è, comunque, infranta da una tavoletta eburnea del British Museum di Londra, riferibile proprio al 420-430 e prodotta da un atelier romano.
Qui, l’evento del Golgota è rievocato nei momenti salienti della morte e della risurrezione del Cristo.
Nella scena della crocifissione, Gesù è rappresentato nudo, issato e inchiodato alla croce – sebbene vivens – e l’iscrizione rex Iudeorum sormonta il patibolo, ai piedi del quale si dispongono i comprimari del dramma: Maria, Giovanni e Longino.
Nel margine sinistro dell’avorio è rappresentata, in simultanea, la fine di Giuda Iscariota, appeso all’albero, con la borsa dei denari gettata a terra.
La tavoletta eburnea è costituita da quattro formelle e, oltre alla scena di crocifissione, riporta rispettivamente un riquadro che concentra il giudizio di Pilato, il Cristo che porta la croce e la negazione di Pietro; un altro riquadro che rievoca l’incredulità di Tommaso; un ultimo pannello che raffigura il Santo Sepolcro; con la porta semiaperta, che lascia intravedere il sarcofago vuoto, le Marie e due soldati che dormono vicino all’edificio.
La rappresentazione del Santo Sepolcro entra precocemente nel repertorio paleocristiano per tradurre in figura il racconto evangelico di Matteo (28, 1-8), Marco (16, 1-8) e Luca (24, 1-10) nell’ambito del contesto narrativo in cui si svolge la scena della visita delle pie donne, come succede nell’antico affresco del battistero della domus ecclesiae di Dura Europos, allestita nella prima metà del iii secolo, nella colonia romana situata in un’ansa dell’Eufrate, nell’attuale Siria.
Qui, le figure femminili, munite di torce, passano attraverso una porta e giungono al sepolcro, che è rappresentato come una grande arca, fornita di un coperchio, che, ai lati, presenta due grandi stelle di luce, per alludere al mistero della risurrezione.
Dal momento costantiniano, il santo sepolcro viene raffigurato in maniera realistica e puntualmente aderente alla struttura che l’imperatore aveva fatto costruire, tra il 325 e il 336, sulla tomba di Cristo, isolando la roccia nella quale era scavata.
Quest’ultimo elemento diventa il nucleo principale della grande basilica e viene caratterizzato da un’edicola, che suggerisce un edificio a pianta centrale, con un deambulatorio, delimitato da colonne, la cosiddetta Anàstasis, collegata, verso oriente, a un atrio che si allaccia a sua volta al martyrium, ossia a una monumentale basilica a cinque navate, cui si accedeva attraverso un’ampia scalinata e un portico trapezoidale.
La restituzione architettonica del monumento, meticolosamente definita dal padre Virgilio C.
Corbo dello Studium Biblicum Franciscanum, risponde perfettamente alle descrizioni di Eusebio di Cesarea (Vita Constantini, 3, 25-40), di Cirillo di Gerusalemme (Catechesi 14, 9) e della pellegrina Egeria (Peregrinatio Etheriae 24-35).
Nell’arte paleocristiana viene rappresentata spesso la Rotonda dell’Anàstasis, anche se in maniera assai sintetica, a cominciare da un gruppo di sarcofagi provenzali del tardo iv secolo, ma trova le sue manifestazioni più particolareggiate in alcuni avori, tra i quali emerge il cosiddetto dittico Trivulzio, conservato al Castello Sforzesco di Milano e datato agli esordi del v secolo.
L’unica valva superstite è suddivisa in due pannelli: nel quadro superiore è proprio rappresentato il Santo Sepolcro, come una struttura circolare finestrata e sormontata dai simboli degli evangelisti Matteo (l’angelo) e Luca (il toro), mentre due soldati romani, in primo piano, sono addormentati; nel registro inferiore l’angelo nimbato è seduto su una roccia, mentre annuncia alle due Marie la risurrezione di Cristo.
Quest’ultima scena si svolge dinanzi alla porta semiaperta del sepolcro, i cui battenti sono decorati con formelle che riproducono tre episodi evangelici, ovvero la risurrezione di Lazzaro, la chiamata di Zaccheo e la guarigione dell’emorroissa.
Il nostro itinerario attraverso le testimonianze iconografiche relative alle prime rappresentazioni della crocifissione e della risurrezione si può chiudere analizzando le decorazione delle fiaschette metalliche per pellegrini, conservate a Monza, offerte, secondo la tradizione, da Papa Gregorio Magno a Teodolinda, regina longobarda di professione cattolica romana, che si datano tra la metà del vi secolo e gli esordi del vii.
Queste ampolle contenevano gli olii delle lampade che ardevano nei santuari dei luoghi santi e rappresentano, a stampo, i simboli degli episodi che hanno ispirato la costruzione di tali complessi monumentali.
Così, in alcune di queste ampolle, vengono raffigurate simultaneamente l’anàstasis, ovvero l’annuncio dell’angelo alle donne giunte al sepolcro reso nelle forme dell’edicola costantiniana e la crocifissione, con la croce a tronco di palma, sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci.
Nella sommità della croce appare il Cristo barbato, con lunghi capelli e nimbo crucigero, affiancato dai simboli del sole e della luna, per sottolineare l’atmosfera epocale che avvolge l’episodio.
Ai lati della croce, sono inginocchiati due personaggi devoti che tendono le braccia verso il simbolo centrale, mentre, a destra e a sinistra, secondo la sceneggiatura della crocifissione, si dispongono i due ladroni, seminudi e appesi al loro patibolo, e, alle estremità, si riconoscono Maria e Giovanni.
Queste rappresentazioni dimostrano come, nelle più antiche raffigurazioni della passione e della risurrezione, il concetto del dramma evocato dal patibulum è eliso dalla natura stessa della croce, che si identifica con l’albero della vita, in perfetta sintonia con la concezione trionfale che vede nell’episodio cruento della crocifissione l’antefatto e la prefigurazione della risurrezione del Cristo, evocata da quel sepolcro vuoto verso cui corrono le Marie per incontrare l’angelo che proclama il termine della storia terrena dell’Uomo, chiudendo un cerchio che si apre e che si conclude con l’annuncio dell’angelo.
(©L’Osservatore Romano – 6-7 aprile 2009) La cultura figurativa paleocristiana, proverbialmente positiva e tesa a esprimere i risvolti soterici della passio Christi, non produce, nei primi secoli, un repertorio che si soffermi, se non con rare allusioni, sulle ultime tappe della vita terrena del Salvatore e anzi, non viene neppure affrontato, dal punto di vista iconografico, il tema del martirio ordinario, tanto che per venire a contatto con le prime immagini dei campioni della fede, dobbiamo attendere il momento della pace costantiniana.

Che fatica star dietro a quel prete

“Si avvicina l’ora in cui ci sarà ancora gusto a fare il prete (…) il Signore saldi sulla Croce il tuo slancio”.
Nel dire queste parole a un giovane avviato al sacerdozio don Mazzolari parlava con piena cognizione di causa.
Fin da ragazzo aveva coltivato la virtù della vigilanza e quindi la consapevolezza che il tempo propizio, il kàiros – e l’opportunità di poterlo afferrare – è “adesso”.
Nel flusso volubile delle vicende umane, animato dalle attese del futuro o involuto e ripiegato nostalgicamente sul passato, l’attimo prezioso da cogliere al volo, e perfino con evangelica violenza – poiché “dei violenti è il Regno dei Cieli” – è proprio ora.
In tal senso anche il credente può e deve dire: carpe diem.
Il presente riflette il tempo eterno di Dio e quindi valorizza la quotidianità dell’uomo; e ciò è vero soprattutto per chi sceglie di consacrare la propria vita al servizio della Sposa di Cristo.
Il presente è il tempo del prete.
“L’adesso è la croce che va portata se uno vuol tenere dietro a Cristo.
“Adesso” è la briciola che porta tutto a Cristo.
Nella fedeltà al poco che è l'”adesso” comunico con Dio e gli rendo testimonianza (…) Non soltanto Dio, ma ogni creatura mi dà appuntamento nell'”adesso”: il mio prossimo mi dà appuntamento (…) Vi sono soluzioni che non si possono rimandare in attesa della soluzione perfetta, che non danneggi nessuno, soprattutto chi sta bene.
Chi ha fame non può attendere.
Il pane che va dato è il pane di oggi”.
Con queste parole si apre un’agile antologia di articoli mazzolariani dedicati proprio alla dimensione sacerdotale intitolata Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12 ) curata dal padre rogazionista Leonardo Sapienza, addetto al Protocollo della Prefettura della Casa Pontificia.
Sacerdote, giornalista, scrittore e partigiano, don Primo Mazzolari era nato il 13 gennaio 1890 a Cremona e morì da parroco a Bozzolo (Mantova) cinquant’anni fa il 12 aprile 1959.
Di famiglia contadina, aveva fatto i suoi studi nel seminario diocesano di Cremona, dalla seconda ginnasiale fino agli studi teologici, sotto il vescovo Geremia Bonomelli (1831-1914).
I periodi di vacanza li trascorreva a Verolanuova (Brescia) dove suo padre si era stabilito, pur mantenendo sempre stretto contatto con il resto della famiglia rimasta a Boschetto di Cremona.
Fu ordinato sacerdote il 25 agosto 1915 a Verolanuova dal vescovo di Brescia monsignor Giacinto Gaggia (1847-1933).
Il mese di esercizi spirituali di preparazione all’ordinazione Primo lo aveva trascorso a Chiari (Brescia) presso l’abbazia dei monaci benedettini francesi di Solesmes.
Nei primi otto mesi di sacerdozio fu coadiutore nella parrocchia di Spinadesco, presso Cremona, quindi fu incaricato di insegnare italiano, storia e geografia nelle prime classi ginnasiali del seminario e, allo stesso tempo, prestò servizio domenicale a Boschetto dove il parroco titolare era ammalato.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale don Mazzolari ebbe subito il dolore di perdere il fratello Peppino caduto sul Sabotino, a nord di Gorizia.
Anch’egli fu costretto a partire per la guerra.
Dapprima da soldato semplice, quindi come caporale della sanità e infine in qualità di cappellano militare.
Dopo la guerra, nel 1920, fu destinato a Bozzolo in veste di delegato vescovile della parrocchia della Santissima Trinità rimanendovi fino al 31 dicembre 1921.
Senonché i suoi metodi pastorali e la sua ampiezza di vedute, tra cui non ultima la rispettosa e dialogante amicizia col sindaco del posto, Umberto Donini che era socialista, furono motivo di forte incomprensione e di critica da parte dell’arciprete della parrocchia principale.
A complicare le cose ci si mise, a un certo punto, anche la ferma presa di posizione di don Primo in difesa delle operaie tessili della locale fabbrica di calze.
Allora il vescovo lo nominò parroco a Cicognara di Viadana dove, con il sacerdote precedente, si erano verificati seri problemi di convivenza con la gente del luogo a causa dei fittabili della prebenda.
Don Mazzolari prese possesso della parrocchia il 31 dicembre 1921 e vi restò fino al luglio del 1932, quando il suo vescovo, monsignor Giovanni Cazzani (1867-1952) decise di trasferirlo nuovamente a Bozzolo, riunendo sotto le sue cure le due parrocchie del paesino tra le quali persisteva una sorta di campanilistico antagonismo.
L’unificazione realizzata da don Primo pose fine all’incresciosa situazione.
A Bozzolo egli sarebbe rimasto fino alla morte.
Tutti in genere gli riconoscevano un forte senso evangelico e pastorale, capace di calarsi con realismo e pertinenza nella vita concreta e nei problemi più reali e umani della gente, oltre a una grande capacità di incidere sulle coscienze.
L’autorità ecclesiastica, soprattutto per i suoi molti scritti giudicati a volte troppo arditi e provocatori a un certo punto lo colpì con diversi interdetti.
Ne La più bella avventura (1934) per esempio, don Mazzolari leggendo la parabola del figliol prodigo, aveva preso le difese del fratello minore scialacquatore e accusava il vuoto perbenismo – da schiavo più che da figlio – del fratello maggiore.
Sfortuna volle che un pastore protestante di un centro vicino si servisse di quelle pagine per polemizzare con la cattolicità.
Il libro, denunciato, da qualche caritatevole zelante, al Sant’Uffizio, fu ritirato.
Don Primo inoltre si era già segnalato a livello pubblico per essersi opposto all’arroganza del fascismo fin dai tempi della marcia su Roma e specialmente nel novembre 1925 quando, dopo l’attentato – fallito – di Tito Zaniboni a Mussolini, si rifiutò di cedere alla pretesa dei fascisti del paese che gli avevano ordinato di presiedere una funzione religiosa di ringraziamento strumentalmente stabilita per controllare chi avesse “fede fascista” senza “confondersi con la solita gente che frequenta la chiesa alla domenica”.
Don Mazzolari rispose che “la Chiesa non può prestarsi a dimostrazioni politiche di nessun genere bastando, a questa bisogna, la piazza e che Cristo non poteva essere preso a discrimine di fede politica.
Che nessuno doveva vergognarsi di mettersi in ginocchio accanto alla buona gente che si ricorda di essere cristiana non in certe occasioni soltanto, ma tutte le domeniche e che più cordialmente di tutti, perché più religiosa, avrebbe ringraziato il Signore per lo scampato pericolo del Presidente del Consiglio”.
Quando nonostante tutto i fascisti inquadrarono e irreggimentarono la popolazione, “con la minaccia del bastone e della rivoltella”, per condurla al canto del Te Deum, don Mazzolari tenne testa alla prepotenza e dopo un discorso di cinque minuti – “il Signore sa quello che ho detto, perché Lui solo me l’ha ispirato e io non ricordo più” – concluso con la recita del Padre Nostro, congedò l’assemblea.
Denunciato dalla Regia procura di Cremona ai superiori ebbe una blanda reprimenda dal vescovo monsignor Cazzani il quale intimamente approvava le posizioni del suo sacerdote e lo avrebbe dimostrato in diverse circostanze, basti solo ricordare le reiterate polemiche che il presule avrebbe avuto con Farinacci, e la forte omelia pronunciata nella cattedrale di Cremona nell’Epifania del 1939 a condanna delle leggi razziali promulgate dal fascismo.
Omelia, che lo stesso don Mazzolari avrebbe definito “magistrale”.
Negli anni della seconda guerra mondiale don Primo partecipò attivamente alla lotta di liberazione.
Si adoperò per nascondere e salvare diversi ebrei e antifascisti – ma dopo la guerra avrebbe fatto lo stesso per difendere alcune persone compromesse col regime e ingiustamente perseguitate.
Fu anche arrestato e rilasciato e dovette vivere in clandestinità fino al 25 aprile del 1945.
Nel dopoguerra fondò il periodico quindicinale “Adesso” (1949-1962) e diversi suoi scritti avrebbero attirato nuove sanzioni e richiami da parte dell’autorità ecclesiastica.
Vicende che avrebbero portato anche alla momentanea chiusura del giornale nel 1951.
Nel luglio dello stesso anno venne imposto a don Primo il divieto di predicare fuori della sua diocesi senza autorizzazione e il divieto di pubblicare articoli senza preventiva revisione dell’autorità ecclesiastica.
“Adesso” riprese le pubblicazioni, don Mazzolari però dovette apparire di meno pur continuando a scrivere sotto pseudonimo.
Negli anni Cinquanta maturò la sua visione sociale prossima alle classi più deboli e soprattutto incentrata sulle tematiche della pace con la condanna della dottrina della “guerra giusta” e dell’ideologia della vittoria (Tu non uccidere, 1955, pubblicato anonimo), espressione di quell’ideale di non violenza e di obiezione di coscienza che soprattutto nel mondo del cattolicesimo fiorentino avrebbe trovato numerosi e convinti assertori quali lo scolopio Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli e soprattutto don Lorenzo Milani – collaboratore e lettore assiduo di “Adesso”.
Nonostante la perdurante diffidenza e gli interdetti delle autorità ecclesiastiche – sopportate silenziosamente in sostanziale e rispettosa obbedienza, aliena da clamori e da atteggiamenti vittimistici – le visioni di don Primo Mazzolari così legate al Vangelo e all’etica delle Beatitudini avrebbero anticipato diverse prospettive pastorali e dottrinarie del concilio Vaticano ii.
E proprio negli ultimi mesi di vita il parroco di Bozzolo ricevette le prime e più alte attestazioni di stima da parte delle alte gerarchie.
È noto come Papa Giovanni xxiii ricevendolo in udienza il 5 febbraio del 1959 lo salutasse con un appellativo gioioso rimasto celebre: “La Tromba dello Spirito Santo” dopo che nel novembre del 1957 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo aveva chiamato a predicare agli universitari.
In seguito proprio Paolo VI avrebbe detto ricordando don Primo: “Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro.
Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi.
Questo è il destino dei profeti”.
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009) Pubblichiamo un estratto dalla recentissima antologia Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12) a cura di Leonardo Sapienza.
Una sbarra tra i ricchi e i poveri di Primo Mazzolari Dicono tutti che è l’ora dei poveri, sotto nomi diversi di “povera gente”, “massa lavoratrice”, “proletariato”.
Di quest’ora che mi fa pensare all’evangelico “è giunto il momento, ed è questo” (Giovanni, 4, 23), nessuno se ne rallegra al pari di un prete, che, nonostante il “si dice”, con la povera gente vive veramente gomito a gomito in campagna e alla periferia, e vede come tira e quanto patisce: ma non vorrei che un giorno i poveri, arcistufi di tante e sviscerate concorrenti dichiarazioni di amore, dicessero a questi e a quelli: “vogliateci un po’ meno bene e trattateci un po’ meglio”.
L’allarme è (…) per timore di un possibile baratto – purtroppo già in atto un po’ ovunque – tra una “primogenitura e un piatto di lenticchie” (cfr.
Genesi, 25, 29ss.).
La colpa però di una simile tentazione, se si vuol essere onesti e non pesare soltanto su chi ha fame, ricade in gran parte su coloro che li hanno lasciati nella necessità.
Quand’uno non ne può più, come pretendere che ragioni da uomo e misuri se il baratto gli convenga o no? Molto più che da questa parte, la nostra, ove c’è la “promessa” della primogenitura, ci sono parecchi cui non importa affatto la primogenitura, si fan belli di essa al solo scopo di tener indietro coloro che offrono ai poveri il piatto di lenticchie.
Il piatto di lenticchie è prelevato su quello che credono di avere, mentre la primogenitura può divenire un comodo pretesto di resistenza al comunismo.
E molti preti abboccano e ringraziano tali infidi e poco onorevoli alleati, dimenticando che non sono i comunisti che ci perdono, ma la povera gente, la quale rimane qual era, senza “primogenitura” e senza “lenticchie”, mentre i ricchi si pappano queste e credono di avere diritto pur su quella, quasi non fosse stato detto: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Matteo, 19, 24).
I poveri vanno amati “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Giovanni, 3, 18) come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del Regno dei Cieli, molto meno dei proseliti.
Cittadini del Regno dei Cieli i poveri sono già per diritto di chiamata evangelica.
La carità di ogni specie non c’è bisogno che renda: è feconda e perfetta in sé quand’è vera carità.
Gesù disse al paralitico: “Alzati e cammina” (Matteo, 9, 5).
Alla parola sacramentale che opera il miracolo, non aggiunge: “E va’ in Chiesa” e molto meno: “Vota questa lista”.
Neanche un “grazie” si può pretendere, dato che la carità non è una cosa che uno possa fare o non fare, un’azione “superogatoria”, “un di più”.
Il secondo comandamento, che è simile al primo e gli fa da compimento o di riprova: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”, è un fondamentale dovere, non un consiglio.
Ed è su quello che verremo giudicati.
Per questo accade che sono molti quelli che dicono di amare i poveri e pochi coloro che li amano di cuore.
I poveri lo sanno e s’adattano al baratto, e si credono pari, mentre sul piano quantitativo son gli altri che ci guadagnano, poiché la primogenitura è come l’olio della lampada, non si può neanche imprestare (cfr.
Matteo, 25, 1 ss.).
Io prete, sprovveduto per investitura di ogni mira temporale, dovrei essere il più adatto per il “ministero dei poveri”.
La Parola è predicata ai poveri: la Grazia è per i poveri.
(Chi più povero di un peccatore?).
Tutto è per il “povero”, poiché basta essere uomo per essere “povero”, sostanzialmente e irrimediabilmente “povero”.
Prete dei poveri quindi, come si è definito, secondo il Vangelo, san Vincenzo de’ Paoli: che non fa torto a nessuno, e non scantona davanti a nessuno, poiché tutti gli uomini, i ricchi in prima fila, sono dei poveri.
La povertà è l’unica condizione dell’uomo, che il peccato ha finito per alterare al pari di ogni altra condizione: e così avviene che ci sono poveri che si credono ricchi e poveri che si rifiutano o si vergognano di esserlo.
Il primo diviene cattivo per paura di perdere ciò che stima di avere: e l’altro si incupisce per timore di essere stato defraudato.
Il benestante è malato come il fariseo.
Essendosi appropriato di qualche cosa che è solo del Padre, si crede diverso dagli altri che non hanno niente.
E davanti all’altare prega come il fariseo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…” (cfr.
Luca, 18, 11), ho casa, campi, automobile e ville.
Quando i poveri sentono pregare in tal modo e vedono che c’è qualche prete che sarebbe disposto a mettere l’imprimatur su tale preghiera, non solo si sentono offesi e umiliati, ma sono in tentazione di non credere che ci sia un Padre comune, il quale, se è vero – così ragionano nella loro disperazione – che vuol bene a tutti e può tutto, le cose di quaggiù non le dovrebbe lasciare andare così.
E i ricchi, a loro volta, ispessiti nel cuore dai loro averi e sempre timorosi di perderli, se la prendono col Signore, che mette al mondo tante bocche.
Così nessuno è contento di Dio, per questione di una ricchezza “che tignola e ruggine consumano e ladri scassinano e rubano” (Matteo, 7, 20).
E se non c’è la ruggine o la tignola, se non vengono i ladri, arriva la morte: “Stolto, questa notte tu morirai” (Luca, 12, 20).
Il sacerdote, pur avendo lo sguardo sulla condizione dell’uomo, che è di comune e irrimediabile povertà finché si rimane sul piano delle cose che “oggi sono e domani non sono” (cfr.
Matteo, 6, 30) e che anche quando sono “ingombrano invece di saziare”, si inserisce in questo momento esterrefatto del peccato, che separa gli uomini in ricchi e poveri.
Il suo ufficio non è quello di far ricchi i poveri o poveri i ricchi con accorgimenti legali o di ordine economico-sociale.
Che vi sia chi lo tenti questo lavoro di equità, è buona e doverosa cosa specialmente per un cristiano che non voglia rinnegare la fraternità.
Ed è pure buona cosa che il sacerdote inviti e suggerisca tale sforzo, che entra nei normali doveri della società cristiana; ma la sua propria funzione è di portar via il peccato, che crea le disuguaglianze e ogni male.
“Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che porta via i peccati del mondo” (cfr.
Giovanni, 1, 36).
Se va via il peccato dal nostro cuore, si fa anche l'”eguaglianza” e i vasi comunicano.
E siccome il peccato è purtroppo un retaggio comune, patrimonio tanto dei ricchi come dei poveri, dato che il male è dentro di noi, e il “bicchiere va lavato dal di dentro”, il sacerdote deve predicare agli uni e agli altri: ai ricchi che fanno del possedere il “mammona”, ai poveri che misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non ha contropartita immediata.
Da secoli, da quando Cristo ci ha mandato “a predicare la buona novella ai poveri” (cfr.
Luca, 4, 18) ci troviamo in questo poco comodo ufficio.
Né i poveri ci ascoltano, né i ricchi ci ascoltano: e ciò che ancor più ci umilia, par che abbiano lor buone ragioni tanto questi che quelli.
I ricchi dicono: è coi poveri contro di noi: adula i poveri per averli in mano contro di noi.
I poveri dicono: tiene coi ricchi perché sono i più forti e lo foraggiano.
Non è raro il caso che ricchi e poveri si mettan d’accordo, come Erode e Pilato, per farlo tacere (cfr.
Luca, 23, 12).
A sua volta il prete, che è un uomo, cioè un pover’uomo, come ognuno se non di più, può essere preso dalla tentazione di togliersi da questa scomoda e assurda condizione, spostandosi verso destra o verso sinistra, e non per motivi volgari, ma dietro pretesti magistralmente ragionati.
“I ricchi sono irriverenti, mangiapreti, irreligiosi, senza cuore”.
“I poveri, socialisti, bolscevichi, materialisti, atei…”.
E in una vicenda che è spirituale, si finisce con alleati e mezzi di tutt’altro genere.
Ma i ricchi, che son più accorti, ci fanno la corte volentieri, e noi ci caschiamo dentro nell’inganno: con loro contro i poveri.
D’onde le sequele di accuse e di pregiudizi che ben conosciamo e che fortunatamente non meritiamo, ma che tengono lontano ricchi e poveri dalla strada buona.
Il Regno dei Cieli non è a destra né a sinistra, né coi poveri né coi ricchi, finché ricchi e poveri si differenziano soltanto per quello che hanno, non per quello che sono.
Tra questi due fronti, che il peccato ha innalzato e che il peccato tiene in piedi, ci sta, crocifisso, il sacerdote: crocifisso tra due ladroni, uno buono l’altro un po’ meno, ma ladroni entrambi.
Questo è il suo grande e tremendo destino, aggravato dal fatto, che mentre lui ha mani e piedi inchiodati, i suoi compagni, che son legione, muovono mani e piedi, e tiran sassi e calci, l’uno contro l’altro; ma tanto i sassi come i calci finiscono contro il crocifisso che sta di mezzo e fa da sbarra.
Il prete è una sbarra che ha il cuore, e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi.
Oscilla soltanto, ed è per grande carità: ma gli altri dicono che parteggia perché se viene colpito a destra oscilla verso sinistra e viceversa.
E così perde anche l’onore.
(dal periodico “Adesso”, n.
5, 1° marzo 1953).
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009)

La preghiera e la scienza

Lo studio si è concentrato esclusivamente sulla religione cristiana ed è stato condotto da Uffe Schjodt, dell’università di Aarhus in Danimarca pubblicato sulla rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience e riportato sul magazine britannico New Scientist.
Gli esperti hanno chiesto ai venti devoti volontari in prima battuta di recitare il Padrenostro o una filastrocca per bambini: in entrambi casi la risonanza magnetica mostra che nel loro cervello si accendono aree associate alla ripetizione.
Poi hanno chiesto loro di parlare con Dio, con preghiere personali, o di parlare con Babbo Natale per esprimere i propri desideri sotto l’albero.
In questo caso la risonanza mostra che si accendono le aree della conversazione e che, in particolare, quando ci si rivolge a Dio sono attive anche aree della corteccia prefrontale che servono a capire intenzioni ed emozioni altrui, cosa che succede sempre di fronte a un interlocutore in carne ed ossa.
Ciò però non avviene quando si parla con Babbo Natale.
In base a questi risultati, secondo Schjodt rivolgersi a Dio è come parlare con una persona, mentre Babbo Natale non sprigiona gli stessi effetti perché si è consapevoli dell’aspetto simbolico e lo si considera più un “oggetto”, il protagonista di una leggenda.
(7 aprile 2009) NON c’è nulla di mistico in una preghiera.
Per il nostro cervello rivolgersi a dio è come parlare a un amico in carne e ossa.
Un gruppo di scienziati ha infatti esaminato le reazioni cerebrali di un gruppo di fedeli impegnati nella ricerca di un conforto spirituale attraverso un dialogo con dio, scoprendo che si attivano le stesse aree di una normalissima conversazione.
Cosa che non capita quando ci si rivolge a Babbo Natale.
Mentre quando si recita una preghiera a memoria si attivano esclusivamente le zone adibite alla ripetizione.

Concordato: riforma incompiuta.

Vorrei soffermarmi, in apertura, sul contesto storico della riforma del Concordato nel 1984 e sulle prospettive che la revisione ha aperto nel nostro e in altri ordinamenti.
Vorrei trattare, cioè, del Concordato italiano del 1984 in un orizzonte riformatore più ampio rispetto al testo dell’accordo, in relazione all’ordinamento italiano e all’evoluzione del diritto europeo.
In altri termini, vorrei riprendere la lezione di Francesco Ruffini che già nell’Ottocento aveva sprovincializzato la cultura italiana introducendo e facendo conoscere le grandi acquisizioni della laicità in diversi paesi, e che per primo a livello scientifico (dopo Alexis de Tocqueville) aveva chiarito la differenza tra il separatismo amico delle Chiese degli Stati Uniti d’America e il separatismo ostile alle Chiese e alla religione della Francia illuminista.
Per la consultazione del contributo  concordato .Cardia Regno-att.
n.4, 2009, p.120

Numeri e fede/9: I domatori di stelle

L’ntervista al professor Massimo Buscema Che cosa serve per fare un’eccellente matematica? «Immaginazione e rigore analitico.
L’immaginazione è la componente creativa della matematica.
È un portento del cervello, che non conosciamo.
È l’attività tramite la quale si avanzano ipotesi insolite sulla struttura invisibile del mondo, che genera quella visibile.
La capacità analitica consiste nel dimostrare logicamente e sperimentalmente tali ipotesi.
Il rigore analitico permette di raggiungere la verità ma anche di ottenere una ‘democrazia della scienza’, per cui ogni altro ricercatore può ripercorrere i tuoi passi e andare oltre.
Il matematico è come uno che salta su una stella sconosciuta e poi deve verificare se è in grado di costruire – da quella stella, fino al punto della Terra da cui è saltato – una scala che qualunque essere umano (anche non particolarmente dotato) possa percorrere».
La matematica applicata può commettere errori? «Quella che facciamo al ‘Semeion’, nel campo dell’imaging medico, si è dimostrata capace di trasformare nell’informazione-chiave ciò che da altri ricercatori era stato scartato come ‘rumore’ o inutile disturbo.
Ma la scienza non esiste se non fa errori.
Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori.
Oggi purtroppo alcuni scienziati hanno invece pensieri categorici (e comportamenti ambigui)».
Esistono anche limiti oggettivi.
«La matematica sa individuarli.
Prima di tutto: limiti di computabilità.
Siamo in grado di calcolare l’angolo con cui rimbalza la palla sul bordo rettilineo di un biliardo.
Ma, se il biliardo ha il bordo a cresta di montagna, cioè irregolare, la traiettoria della palla è diversa.
Dopo ‘n’ rimbalzi, la differenza diventa esponenziale e la posizione della palla è sempre più imprevedibile.
Il secondo limite è l’incertezza della misurazione: quando misuro entità molto piccole, interferisco con l’entità stessa.
Un elettrone, prima che io ne verifichi la posizione, è rappresentato come una nube di probabilità, cioè potrebbe essere dovunque in un certo ‘intorno’.
Ma quando lo misuro, lo trovo in un punto specifico.
Qui nasce l’arcano: è come se chi osserva determinasse la posizione dell’elettrone.
È il sistema osservatore-osservato che fa passare un oggetto da pura informazione a materia.
Alcuni teorici hanno immaginato che lo stesso Big Bang sia un collasso della pura informazione in massa-energia.
Allora si può porre la domanda: in quella circostanza chi era l’osservatore? A livello di congettura non dimostrabile, questa domanda è ragionevole».
Che rapporto c’è tra matematica e fede? «È come se mi chiedesse: ‘In casa preferisce una finestra o un televisore?’ La finestra è essenziale per vedere ciò che succede fuori casa.
Il televisore mi serve per sapere che cosa succede nel mondo che non posso vedere dalla finestra.
Nessun architetto obbligherebbe un futuro padrone di casa a scegliere tra finestra e televisore.
Perciò non ha senso sostenere che, se sei credente, non puoi essere un bravo scienziato.
È come dire: ‘poiché hai una casa con finestre, non puoi comprare anche il televisore’.
Per quanto mi riguarda, penso che credere in un Dio-persona, come quello cristiano, mi dia il coraggio di guardare da ogni finestra e di accendere ogni televisore».
Ma allora com’è nata la contrapposizione tra scienza e fede? «La risposta è: a chi giova questa contrapposizione? Non agli scienziati, semmai a quelli che tramite la scienza acquisiscono soldi, fama e potere.
Da una ricerca risulta che credono in un Dio trascendente il 4% dei biologi, il 7% dei fisici e il 14% dei matematici.
Queste percentuali corrispondono, grosso modo, ai rispettivi flussi di finanziamento industriale che arrivano ai vari rami della ricerca.
Le multinazionali che producono tecnologia possono influenzare in maniera crescente il campo biologico e un po’ anche la fisica.
Ma molto meno i matematici.
Chi sforna prodotti ci vuole consumatori, ha interesse a far credere a ogni persona sul globo che l’imperativo è il consumo perché ‘tutto è qui, adesso’, e ‘del doman non v’è certezza’».
È nelle informazioni-chiave dell’universo e del mondo che va cercata la risposta agli interrogativi fondamentali? «Sì, e anche nelle informazioni che riguardano la singola persona.
Dobbiamo pensare all’identità di ognuno come a un’incredibile quantità organizzata di atomi.
Ma durante la sua vita, ogni individuo non fa che cedere vecchi atomi e prenderne nuovi.
È credibile che all’età di 50 anni, io non abbia più neanche un atomo di quelli che avevo a cinque anni.
Ma allora perché mi sento la stessa identità e mi ricordo anche di quando avevo cinque anni, se tutta la materia di cui ero fatto è cambiata? Dove sono stato registrato? Dov’è il disco rigido su cui è stato fatto il backup di me stesso? Non c’è.
E allora perché ho memoria? E’ più probabile che la mia identità non sia fornita dalla mia struttura bio-materiale (che cambia continuamente) ma dalla funzione matematica che connette tutte le traiettorie di qualsiasi mio atomo.
In altri termini: la mia identità è solo un’organizzazione di informazioni, un pensiero.
Ora, se tutta la complessità che esploriamo nasconde un pensiero, e se è così ben congegnato da permetterci di esistere e di formulare una domanda sensata sull’origine del cosmo, è più che ragionevole credere che l’informazione iniziale non sia stata buttata lì a casaccio.
‘Penso quindi esisto’ oppure ‘Esisto perché sono pensato’? Luigi Dell’Aglio «La matematica è l’arte di immaginare e di dimostrare, cogliendo le invarianti più astratte della realtà.
Procedendo solo con un pensiero astratto e con le sue conseguenze logiche, ci si allontana infinitamente dalla realtà ma per trovarsi, alla fine, nel cuore stesso della realtà.
Ecco il prodigio della matematica, arte di trasformare, in maniera analitica, l’impossibile nel possibile».
Questa è oggi la scienza di Euclide e Leibniz, secondo il professor Massimo Buscema, computer scientist di grande successo, che ha conseguito fama internazionale con nuovi modelli e algoritmi di intelligenza artificiale, alcuni dei quali confluiti in 14 brevetti internazionali.
È fondatore e direttore del centro di ricerche «Semeion» ed è il secondo tra gli autori più prolifici, a livello mondiale, nel campo delle reti neurali artificiali (fonte: GoPubMed 2008).
Consulente di New Scotland Yard, con il Progetto Central Drug Trafficking Database ha fornito alla più famosa polizia del mondo il know how per scoprire le rotte del traffico internazionale di droga dal momento dell’entrata e della capillare distribuzione sul territorio britannico.

C’è bisogno di maestri, non di facilitatori

Giorgio Israel, ordinario di matematica alla Sapienza di Roma, intervenendo al IX Forum del Progetto culturale dedicato all’emergenza educativa, ha messo a nudo il ruolo e la figura attuale dell’insegnante nel suo rapporto umano con gli alunni.
Vi è una concezione del ruolo del docente, secondo Israel, che “sembra volerli trasformare sempre più in facilitatori, in animatori culturali, quasi non si avesse più bisogno di maestri, di testimoni della società in cui i giovani stessi si apprestano ad entrare”.
La scuola non sembra essere consapevole del rischio di una visione meccanicistica dell’apprendimento.
L’intervento del prof.
Israel assume maggiore rilievo in considerazione del fatto che egli è coordinatore del gruppo di lavoro costituito con decreto 30 luglio 2008 dal ministro Gelmini per definire requisiti e modalità per la formazione iniziale del personale docente delle istituzioni scolastiche, l’attività procedurale per il suo reclutamento, nonché per definire gli ordinamenti didattici universitari per la formazione degli insegnanti.
Nel documento generale del gruppo, emerge il pensiero del prof.
Israel laddove si afferma che “il futuro insegnante, oltre a possedere sicure e imprescindibili conoscenze delle discipline da insegnare, deve avere l’opportunità di riflettere sulle modalità di trasmissione delle conoscenze e di acquisizione delle competenze e sulle complesse e articolate problematiche della mediazione didattica.
La sua formazione socio-psico-pedagogica deve renderlo capace di orientarsi nelle diverse fasce di età e permettergli di operare al meglio sia nell’ambito dei problemi legati alle relazioni interpersonali a scuola (lavoro di gruppo, rapporti tra studenti, rapporti con le famiglie, ecc.) sia all’individuazione delle modalità educative (motivazioni allo studio, partecipazione, ecc.) adeguate a promuovere il successo didattico”.
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