“Caritas in veritate”.

La  terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio, “sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità” Il testo integrale dell’enciclica, nel sito del Vaticano: > “Caritas in veritate” 1.
LA CARITÀ NELLA VERITÀ, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera.
[…] 3.
[…] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo.
L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente.
È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità.
[…] Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola.
4.
[…] Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali.
In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo.
Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni.
È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
[…] 28.
Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l’importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli.
Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà e di sottosviluppo alle questioni collegate con l’accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l’aborto.
Nei paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell’aborto, promuovendo talvolta nei paesi poveri l’adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli.
Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione di un forte controllo delle nascite.
Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l’eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico.
[…] 29.
C’è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla libertà religiosa.
Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza.
Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso.
Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l’evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale.
Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista, che genera dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile.
Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l’esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo pratico da parte di molti paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane.
Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”.
[…] 34.
La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono.
[…] Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società.
È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini.
[…] La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale.
La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo.
A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano.
Come ho affermato nella mia enciclica “Spe salvi”, in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana, che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia.
La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà.
È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata.
La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta.
Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia.
Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza.
Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti.
La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant’Agostino.
[…] 35.
Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri.
Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici.
Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza.
Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare.
Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica.
Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.
Opportunamente Paolo VI nella “Populorum progressio” sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi.
Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza.
I poveri non sono da considerarsi un “fardello”, bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico.
È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l’economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio.
È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità.
Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36.
[…] La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale.
Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole.
La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse “ipso facto” la morte dei rapporti autenticamente umani.
È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso.
Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro.
Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano.
Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici.
Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi.
Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso.
Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.
La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa.
La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale.
Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.
La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica.
Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica.
Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità.
[…] 42.
[…] La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva.
Sarà ciò che le persone ne faranno.
[…] I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l’intero mondo.
[…] 43.
[…] Si assiste oggi a una pesante contraddizione.
Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità.
Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli.
La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri.
L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri.
[…] 44.
[…] Considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all’importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei paesi economicamente sviluppati; dall’altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità.
Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale.
La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell’uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell’esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l’educazione sessuale non si può ridurre a un’istruzione tecnica, con l’unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal “rischio” procreativo.
[…] L’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica.
Grandi nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti.
Al contrario, nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere.
La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto “indice di sostituzione”, mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei “cervelli” a cui attingere per le necessità della nazione.
Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà.
Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale.
Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona.
In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società.
[…] 45.
[…] Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale.
[…] È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell’aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.
Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento.
Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo “ad immagine di Dio” (Genesi 1, 27), un dato da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali.
Un’etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni.
Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono.
[…] 56.
La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica.
La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana.
[…] La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente.
A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano.
La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità.
57.
Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l’opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità.
[…] Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana.
La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi.
Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità.
La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri.
Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista.
Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento.
Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano.
Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente.
La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace.
[…] 67.
Di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l’urgenza della riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale.
[…] Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII.
Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità.
Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti.
Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali.
In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti.
Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione.
[…] 75.
[…] Oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo.
La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell’ibridazione umana nascono e sono promosse nell’attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita.
Qui l’assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione.
In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica.
Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i nuovi potenti strumenti che la “cultura della morte” ha a disposizione.
Alla diffusa, tragica, piaga dell’aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente “in nuce”, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite.
Sul versante opposto, va facendosi strada una “mens eutanasica”, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta.
Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana.
Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana.
Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto.
Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite.
Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’umano.
Dio svela l’uomo all’uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale.
[…] 78.
Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia.
[…] La chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo.
L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano.
[…] 79.
Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, “caritas in veritate”, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato.
[…] L’anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come “Padre nostro!”.
Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperlo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male.
[…] __________

Pavel Florenskij

Come anticipazione alla mostra su Pavel Florenskij che sarà allestita in occasione del prossimo Meeting di Rimini, la rivista “La nuova Europa” ripropone nel terzo numero di quest’anno un suo profilo scritto da uno dei protagonisti della rinascita religiosa in Urss.
Ne pubblichiamo alcuni stralci.
Eccoci, dunque, a parlare di Pavel Florenskij.
Non basterebbero neppure dieci incontri per trattare particolareggiatamente l’opera letteraria, scientifica e filosofica di quest’uomo, figurarsi uno solo.
Ma il mio compito è semplice.
Come negli incontri precedenti, vorrei che sentiste, che vedeste la figura di quest’uomo, il suo stile di pensiero, che riusciste a gettare uno sguardo sul suo percorso creativo ed esistenziale.
Si tratta di un personaggio che ha avuto un destino molto, molto speciale.
Infatti, la maggior parte dei pensatori religiosi russi di cui abbiamo parlato sono stati espulsi dal Paese o l’hanno lasciato di propria volontà, e il loro destino è rimasto legato all’emigrazione russa.
Florenskij è stato uno dei pochi a rimanere qui.
Non solo, Florenskij è una persona di cui non si può dare una definizione univoca.
Un ingegnere? Sì, ha brevettato trenta invenzioni, in epoca sovietica.
Un filosofo? Sì, uno dei più luminosi interpreti del platonismo, uno dei più brillanti platonici russi.
Un poeta? Sì, forse non grandissimo, ma che comunque ha composto versi e ha pubblicato un libro di poesie, che è stato amico di Andrej Belyj ed è cresciuto nell’atmosfera dei simbolisti.
Un matematico? Sì, un discepolo del celebre professor Bugaev, padre di Andrej Belyj, che ha formulato teorie molto interessanti in questo campo; un uomo che, contemporaneamente e indipendentemente da Aleksandr Fridman, lo scienziato di Pietrogrado oggi famoso, era arrivato all’idea dello spazio curvo.
Fridman è il padre della teoria dell’universo in espansione, che aveva formulato sulla base delle equazioni di Einstein.
E Florenskij si era avvicinato molto a questa teoria proprio nello stesso periodo, nel 1922, mentre lavorava al capo opposto del Paese.
Il pensiero di Florenskij si estendeva alla storia dell’arte che era, si può dire, la sua seconda professione (o la terza, o la decima, se si vuole).
Florenskij era un fine teologo.
Un erudito.
Padre Vasilij Zen’kovskij, autore di una monumentale Storia della filosofia russa, parla della sua impressionante erudizione.
Persone che avevano conosciuto Florenskij, mi hanno raccontato che poteva dare risposte circostanziate praticamente a qualsiasi domanda nei più diversi campi delle scienze umane e tecniche.
Florenskij era uno storico, sebbene le tematiche storiche siano poco presenti nelle sue opere, era tuttavia un archeologo, autore di numerose brevi monografie e saggi sull’arte russa antica e medievale, sull’iconografia, sulle piccole sculture.
Lavorava instancabilmente.
Era una persona che Vernadskij’ stimava e apprezzava.
Nelle loro ricerche scientifiche, operavano nello stesso alveo.
Purtroppo, non tutte le opere di Florenskij sono state ancora pubblicate; tuttavia oggi si può dire che la sua figura, sebbene sia stata e sia tutt’ora discussa, ha senz’altro un valore immenso.
Del resto, tutti i grandi personaggi hanno suscitato delle discussioni: da Puskin a Leonardo da Vinci…
Quelli di cui non si discute, non interessano a nessuno.
Florenskij era legato all’università di Mosca, ai progetti e agli istituti per l’elettrificazione del Paese, inoltre era professore dell’Accademia teologica di Mosca, docente di storia della filosofia; al tempo stesso era redattore della rivista “Bogoslovskij vestnik”.
La molteplicità di interessi era emersa in lui sin dall’infanzia, lo chiamavano il Leonardo da Vinci russo.
Ma quando diciamo “Leonardo da Vinci”, ci viene in mente un maestoso vegliardo, che guarda l’umanità dall’alto dei suoi anni.
Florenskij, invece, è morto giovane.
Era scomparso.
Arrestato nel 1933, era sparito e i suoi familiari, moglie e figli, non sapevano dove fosse, né cosa gli fosse accaduto: lo ignorarono per molto tempo, perché nel 1937 gli avevano tolto il diritto di corrispondenza.
Mi ricordo quando con la mamma camminavo per Zagorsk, in tempo di guerra, lei salutava la moglie di Florenskij e diceva: “Questa donna sta portando un’enorme croce”.
E mi spiegava che non sapeva cosa fosse accaduto al marito.
Anche mio padre a quel tempo era appena stato liberato dalla detenzione e io, sebbene fossi abbastanza giovane, capivo cosa voleva dire.
In realtà, a quell’epoca Florenskij era già morto.
Ai tempi di Chruscëv, nel 1958, sua moglie aveva chiesto la riabilitazione, e aveva ricevuto un certificato in cui si attestava che Florenskij era morto nel 1943, ossia alla fine della condanna.
Infatti nel 1933 gli avevano dato dieci anni, come a un pericoloso delinquente.
Sì, quando io e la mamma parlavamo della sua sorte, lui ormai non c’era già più.
Questo è il certificato di morte che i familiari hanno ricevuto solo ora, nel novembre dello scorso anno.
“Certificato di morte (eccetera)…
Il cittadino Florenskij Pavel Aleksandrovich…
è deceduto l’8 dicembre 1937…
Età: 55 anni [non è vero, ne aveva 56]…
Causa del decesso: fucilazione…
Luogo del decesso: …
regione di Leningrado”.
Un uomo che, alcuni mesi prima di questi eventi, trovandosi ai lavori forzati in condizioni infernali, proseguiva attivamente il suo lavoro di ricerca; un uomo che aveva una profonda vita spirituale, intellettuale, che trasmetteva ai figli le sue ricche conoscenze.
Fino al 1937, infatti, ebbe il permesso di scrivere, e vi furono persino dei momenti in cui la famiglia poté andarlo a trovare.
Di un uomo come lui può andare fiera qualsiasi civiltà: sta sullo stesso piano di Pascal, di Teilhard de Chardin, di molti studiosi e pensatori di tutti i tempi e popoli.
Fra i filosofi russi, Florenskij era il più apolitico.
Tutto immerso nei suoi pensieri, nel suo lavoro, stava sempre un po’ in disparte dalla vita pubblica.
Eppure, preferirono fucilarlo.
Assieme a questo certificato, il Kgb ha consegnato ai familiari la copia della “Sentenza della trojka dell’Unkvd, verbale n.
199 del 25 gennaio 1937 in merito al condannato alla pena capitale Florenskij Pavel Aleksandrovich.
La condanna è stata eseguita l’8 dicembre 1937, il che è attestato dal presente atto”.
Seguono le firme, come in tutti i documenti di cancelleria.
C’è anche una fotografia allegata: un uomo con il volto segnato dalle percosse, che ha toccato il fondo, perché lo hanno straziato e torturato.
Ecco in che epoca siamo vissuti.
Pavel (…) aveva una predilezione per le pietre, le piante, i colori: in questo senso assomiglia molto a Teilhard de Chardin, che pure, da bambino, provava tenerezza per la materia, era, oserei dire, innamorato della materia.
Per Florenskij questo era iniziato dall’infanzia.
Forse il mondo delle persone gli era persino estraneo e talvolta opprimente.
Almeno tre profonde crisi interiori colpirono la vita di Pavel Aleksandrovich.
La prima fu una crisi salutare, nel periodo della giovinezza, quando Florenskij, cresciuto in una famiglia non religiosa, lontana dalla Chiesa, a un certo punto comprese l’inconsistenza della visione materialistica del mondo, e si mise a cercare appassionatamente una via d’uscita.
Vi fu un’altra grave crisi, per così dire personale, quando cercò di compiere da sé la propria vita.
Per uno come lui non era affatto semplice portare il proprio fardello, il peso di se stesso.
Un suo conoscente mi ha raccontato che Florenskij gli aveva detto, scherzando, che dal punto di vista logico era in grado di dimostrare, e in modo molto convincente, cose assolutamente contraddittorie.
Il suo intelletto era una macchina colossale, ma al tempo stesso Florenskij non era solo un uomo astratto, era un uomo profondamente appassionato.
Berdjaev ricorda di aver visto Florenskij da giovane in un monastero, da uno starec dove lo avevano portato alcuni amici devoti: stava in piedi in mezzo alla chiesa e piangeva, singhiozzando…
Una vita tutt’altro che semplice, la sua.
Infine, a 42 anni, sopraggiunse un’altra crisi, senza contare quella immediatamente precedente alla rivoluzione, quando Florenskij stava scrivendo il libro su Chomjakov.
O meglio, non proprio su Chomjakov, si trattava dello studio critico di un’opera su Chomjakov.
E in questo studio avanzava tutta una serie di tesi, che suscitarono la dura reazione dei suoi amici ultraortodossi.
Questi era un ex tolstojano, passato poi all’ortodossia, una persona molto buona e cordiale ma che, non avendo una forma mentis filosofica, apprezzava moltissimo Chomjakov.
La critica a Chomjakov lo aveva messo così in subbuglio, che Novosëlov era partito di gran carriera per Sergiev Posad, aveva raggiunto Florenskij e per tutta la notte l’aveva rimproverato, finché padre Pavel, scrollando la testa, non aveva detto: “Non scriverò più niente di teologia”.
Non doveva essere stato semplice, per un uomo come lui, autore di un libro celebre come La colonna e il fondamento della verità, lasciarsi sfuggire un’espressione del genere.
Di fatto, dopo questo episodio Florenskij non avrebbe più scritto su argomenti filosofico-religiosi.
La sua ultima opera del genere, quasi un commiato dal mondo strettamente teologico, sono le sue lezioni sulla filosofia del culto.
Sono state pubblicate postume solo moltissimi anni dopo, e forse sono state quelle che hanno suscitato le maggiori critiche.
Era una persona difficile e contraddittoria, padre Pavel.
Si era laureato brillantemente in matematica all’università di Mosca, dove aveva subito ottenuto una cattedra.
La matematica era per lui come il fondamento dell’universo.
Alla fine, era arrivato a pensare che tutta la natura visibile, in sostanza, può essere ridotta a dei punti d’appoggio invisibili.
Per questo amava tanto Platone, infatti per quest’ultimo l’invisibile è la fonte di ciò che è visibile.
Florenskij amò, studiò, commentò Platone per tutta la vita.
Non c’è da meravigliarsene.
Il filosofo inglese Whitehead diceva che tutta la filosofia mondiale non è che una serie di note in calce a Platone.
Il pensiero di Platone ha definito una volta per tutte le linee principali dello spirito e del pensiero umano.
Negli anni in cui era studente, Florenskij fu molto influenzato da Vladimir Solov’ëv.
Bisogna dire che entrambi erano platonici, che ad entrambi stava a cuore il problema del fondamento spirituale dell’essere e il tema misterioso della Sofia-Sapienza Divina.
Forse per questo Florenskij cercava di prendere le distanze da Solov’ëv, quasi non lo cita e se lo cita, lo fa in modo critico.
Eppure, nella storia del pensiero i due sono molto vicini, molto più di quanto lo stesso Florenskij potesse sospettare.
Ma la matematica non rimase la sua preferita per tutta la vita.
Florenskij abbandonò la scienza, si trasferì a Sergiev Posad ed entrò all’Accademia teologica.
Andrej Belyj, che l’aveva conosciuto in quegli anni, parla con tenerezza e ironia di questo giovane dai capelli lunghi; dice che lo chiamavano “il naso coi riccioli”, perché Florenskij aveva un viso olivastro, ereditato dalla madre armena, un naso come quello di Gogol’ e lunghi capelli ondulati.
Era basso di statura e di costituzione esile.
Parlava a bassa voce, soprattutto dopo essersi stabilito nel monastero: senza volere aveva fatto proprio il comportamento monastico.
Quando nel 1909 venne inaugurato il monumento a Gogol’ (il vero monumento a Gogol’, quello che ora sta nel cortile, non quella specie di idolo che c’è adesso), quando fu tolto il drappo un uomo esclamò: “Ma questo è Pavlik!”.
In effetti, la figura curva, i capelli, il naso somigliavano straordinariamente a quelli di Florenskij.
Lo scrittore religioso Sergej Fudel, figlio del noto sacerdote moscovita Iosif Fudel’, da giovane aveva conosciuto Florenskij.
Mi descriveva il suo aspetto esteriore, i suoi gesti, e diceva che assomigliava a un affresco egiziano che aveva preso vita.
Raccontava che poteva ascoltarlo a lungo quando parlava con suo padre a voce sommessa.
Non era sempre chiaro di cosa stessero parlando, nei loro discorsi si mescolavano tanti argomenti: la moda femminile, che era un indicatore preciso dello stile della civiltà del tempo; le esperienze occulte; il mistero dei colori delle icone; i significati misteriosi, profondi, delle parole.
Florenskij conservò per tutta la vita un interesse filologico e filosofico per il significato delle parole.
Pavel Aleksandrovich aveva un amico, Sergej Troickij, cui era molto legato in gioventù.
La separazione da quest’ultimo lo ferì dolorosamente: Troickij andò a Tbilisi e, di lì a pochi anni, perì in circostanze tragiche.
A lui Florenskij dedicò il suo libro principale, La colonna e il fondamento della verità, scritto da un uomo che era passato attraverso una tempesta di dubbi.
(…) E questa tempesta ha lasciato il segno nell’opera.
Il sottotitolo è “saggio di teodicea ortodossa”.
Se pensate che sia un trattato nel quale viene esposta in modo coerente e sistematico una certa concezione, vi sbagliate.
Qui non ci sono capitoli, ma lettere indirizzate a un amico.
Ed è fatto volutamente.
Proprio per questo, fra l’altro, il saggio aveva suscitato tanto disaccordo negli ambienti accademici.
Florenskij, per la pubblicazione del libro, volle che fosse stampato in un carattere particolare.
A ogni capitolo vi erano delle vignette, prese da un trattato latino del XVIII secolo, accompagnate da frasi molto laconiche e commoventi.
Quasi ogni capitolo si apriva con un’introduzione lirica.
Un libro dottissimo, in cui i commenti scientifici occupano quasi la metà del testo, con migliaia e migliaia di citazioni da autori antichi e moderni, era scritto come un diario lirico! Che cos’era? Un capriccio? No, era quello che di lì a poco in Europa avrebbero chiamato filosofia esistenziale.
Non filosofia della teoria, bensì filosofia dell’uomo, dell’uomo vivo.
(©L’Osservatore Romano – 10 luglio 2009)

È il momento delle utilizzazioni

Con la firma del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo (CCNI) sulle utilizzazioni e assegnazioni provvisorie lo scorso 26 giugno si è aperta per gli Idr di ruolo la fase delle utilizzazioni, che costituisce il momento più importante per la mobilità ordinaria di questo personale.
L’OM 36 del 23-3-2009 ha già provveduto a normare – come l’anno scorso – la mobilità interdiocesana, che però interessa un numero limitato di Idr.
Molti di più sono coloro che desiderano muoversi all’interno della propria diocesi per migliorare una sistemazione su più scuole o per avvicinarsi a casa.
Il CCNI del 26-6-2009 riprende in gran parte, con minime integrazioni, le disposizioni già fissate negli anni precedenti e ripropone alcuni dei problemi che già si erano posti in passato.
In primo luogo, può essere utile ricordare che gli Idr di ruolo sono titolari su un organico regionale, vincolato alla diocesi per via dell’idoneità.
Essi non sono quindi titolari sulla scuola ma sulla diocesi e sono assegnati alla sede scolastica mediante l’istituto dell’utilizzazione (che ordinariamente sarebbe un’operazione di durata annuale, ma che nel caso degli Idr diventa una sistemazione a tempo indeterminato).
Dato che l’utilizzazione è disposta d’intesa tra Ufficio scolastico regionale e autorità ecclesiastica, per ottenere un trasferimento gli Idr di ruolo devono fare domanda di utilizzazione in altra sede della medesima diocesi e contare sul consenso dell’ordinario diocesano.
La graduatoria prevista dall’art.
10, cc.
3-4, dell’OM 36/09 serve solo all’individuazione del personale in esubero a livello diocesano e quindi non deve essere utilizzata per individuare il soprannumerario nella singola scuola in caso di contrazione oraria.
Ci si potrebbe allora domandare a cosa serva questa graduatoria, citata anche dall’art.
1, c.
6 del CCNI in questione, visto che l’utilizzazione è comunque rimessa alla discrezionalità dell’intesa con l’autorità ecclesiastica; in risposta si può sostenere che essa abbia solo un valore orientativo per l’amministrazione scolastica che, in sede di intesa, deve comunque avere un proprio criterio da far valere per il raggiungimento di un accordo, fermo restando che la scelta dell’ordinario diocesano – se non palesemente irragionevole – non può essere contestata dall’amministrazione.
La principale novità del CCNI di quest’anno può essere l’art.
2, c.
5, che prevede la possibilità di completare l’orario nella scuola di titolarità per quegli Idr che subiscano una riduzione fino a un quinto dell’orario d’obbligo.
La norma, già introdotta lo scorso anno per la sola scuola secondaria, è stata estesa quest’anno anche alla scuola primaria e dell’infanzia, probabilmente per attutire gli effetti dei tagli di organico imposti dalle recenti misure finanziarie.
A prescindere dall’equivoco riferimento alla «scuola di titolarità», che per gli Idr può usarsi solo per analogia, non avendo essi una titolarità sulla scuola, va ricordato che lo scorso anno la disposizione aveva dato luogo a una nota di chiarimento (prot.
AOODGPER 12441 del 23-7-2008) in cui si precisava che «la possibilità di completare l’orario d’insegnamento deve intendersi riferita al territorio diocesano e al caso in cui, d’intesa con la competente autorità ecclesiastica, si verifichino per un numero limitato di insegnanti riduzioni d’orario non superiori ad un quinto dell’orario d’obbligo che non siano diversamente recuperabili mediante utilizzazione presso altre sedi scolastiche, nel rispetto delle quote di organico del personale di ruolo e non di ruolo e ai sensi della normativa vigente».
Al momento in cui scriviamo la precisazione non è stata reiterata, ma sembra evidente che debba valere anche nell’attuale situazione, riducendo perciò sensibilmente la possibilità di completare l’orario nella propria sede di servizio.
Del resto, è facile capire come una simile circostanza possa applicarsi in ogni scuola solo a pochi docenti delle altre materie, mentre – a parità di contrazione di organico – potrebbe interessare la quasi totalità degli Idr.
Sarebbe quindi improponibile un’applicazione letterale, ma la disposizione contribuirà lo stesso a risolvere qualche caso critico.
La circostanza consente di fare chiarezza anche su altri aspetti delle utilizzazioni che incidono sulla gestione degli organici degli Idr di ruolo e non di ruolo.
Un equivoco abbastanza diffuso è la pretesa disponibilità per gli Idr di ruolo dei posti affidati agli incaricati (30%).
In realtà, nella logica della legge 186/03 le due quote del 70% e del 30% vanno ugualmente salvaguardate, evitando di recuperare sull’una (il 30%) le eccedenze dell’altra: gli Idr incaricati non rappresentano una quota residuale dell’organico dell’Irc, ma ne costituiscono una parte incomprimibile, fatti salvi, ovviamente, gli arrotondamenti e i recuperi di eccedenze non diversamente compensabili.
Finché possibile, perciò, cioè fino alla concorrenza del tetto del 70% dell’organico diocesano complessivo, gli Idr di ruolo che dovessero perdere ore nella propria sede di servizio dovranno andare a completare il loro orario in altre scuole della diocesi.
Le domande di utilizzazione scadono per tutti gli Idr il 24 luglio, ma l’eventuale completamento orario all’interno della scuola in cui si è verificato l’esubero deve tenere conto dell’organico di fatto, quindi si tratterà di operazioni effettuabili solo successivamente.

La scienza e la vita di Albert Einstein

Da questo libro emerge tutta la paradossalità di una situazione nella quale l’uomo cui veniva imputata la caduta dei punti di riferimento oggettivi e perfino etici su cui si reggeva il vecchio mondo, a sua volta attaccava le nuove teorie dei quanti perché negatrici di qualsiasi possibilità di spiegare oggettivamente la realtà.
Ed è stupenda l’immagine che ci ha lasciato un altro testimone dell’epoca, Otto Stern, allorché ci ricorda il congresso Solvay del 1927, che praticamente si svolgeva, invece che nell’aula dei congressi, nella sala da pranzo dell’albergo in cui erano ospitati gli scienziati: Einstein esponeva a colazione le sue obiezioni alla teoria quantistica, Bohr prendeva appunti e a cena traeva le sue controindicazioni che sottoponeva a Einstein.
È l’immagine di un mondo di uomini non comuni che durante i pasti conversavano come vecchi amici, solo che invece di parlare di calcio o di donne discutevano di orbite di elettroni e di particelle sub-atomiche, il che sfata alcuni luoghi comuni sulla tetraggine dell’uomo di scienza in generale e conferma quanti, tra i quali lo stesso Pais, notavano ammirati l’esuberanza e la vitalità di Einstein.
Lo scienziato di Ulm dunque viene ricordato in questo libro come uno studioso ossessionato dall’idea di non poter controbattere in modo definitivo alla teoria dei quanti, soprattutto al principio di indeterminazione.
Ironia del destino, Einstein appare come uomo d’ordine rispetto ad un manipolo di giovani scavezzacollo che non accettavano più quest’ordine.
Il teorico della relatività non ne fece mai una questione personale, ma per lui l’incertezza conoscitiva coinvolgeva elementi più profondi della psiche umana, soprattutto il bisogno di credere in una realtà oggettiva frutto di una creazione, ed ecco il perché della frase prima citata.
“Il Signore è sottile, ma non malizioso”: voleva dire che, se si vuole, si possono trovare le tracce della creazione e delle sue leggi nell’universo.
La teoria dell’indeterminazione metteva in crisi questa convinzione.
Non è un caso che nel 1950, passeggiando proprio con Pais, Einstein se ne uscisse con un’altra delle sue celebri frasi: “È veramente convinto che la Luna esista solo se la si guarda?”.
Il suo interlocutore e biografo infatti aveva compiuto i suoi studi sotto la guida di maestri che si rifacevano alla fisica quantistica, e il premio Nobel voleva stuzzicarlo, lasciando trapelare però come i quanti fossero una ferita sempre aperta in lui.
I quanti, quindi, mettevano in dubbio la realtà e il progetto che si celava in essa.
Dio divenne quindi un elemento in grado di rafforzare l’attacco di Einstein all’iper-relativismo di Bohr, Heisenberg e compagni.
Ma nessuno ha mai chiarito quale Dio avesse in mente Einstein, neanche il libro di cui stiamo parlando, scritto da un testimone diretto con cui lo scienziato aveva dimestichezza.
Pais è convinto che questo Dio non fosse un Dio-persona come nelle grandi religioni monoteistiche: “Se aveva un Dio, era il Dio di Spinoza”.
Tutto chiaro, allora? Apparentemente.
Perché poi emergono, anche da questo lavoro, elementi che fanno pensare ad una questione più complessa e mai risolta integralmente neanche nella mente dello stesso Einstein.
Intanto vi è un’ammissione dello stesso biografo, che spiegando l’atteggiamento dello scienziato nei confronti delle sue teorie chiarisce che egli le interpretava “come transizioni ordinate in cui egli si sentiva chiamato a svolgere il ruolo di strumento del Signore”.
In poche parole, la forza cui pensava il premio Nobel sarà stato pure il Dio di Baruch Spinoza, però nelle stesse parole di Pais – e in quelle di Einstein – si intravede qualcosa di diverso dal Dio-causalità necessaria, e quindi non libero creatore teorizzato dal filosofo olandese.
L’elemento personale della divinità viene messo in dubbio dal biografo sulla scorta di una affermazione del grande scienziato: “Ora comprendo che il paradiso religioso della giovinezza, così presto perduto, fu un primo tentativo di liberarmi dalle catene del “puramente personale””.
La frase riguarda la reazione di Einstein al periodo in cui visse, attorno agli undici anni, una fase intensamente religiosa, che terminò abbastanza presto.
Il termine del fervore non vuol dire però l’abbandono di tutta la religiosità, e quella stessa frase che abbiamo citata, può essere interpretata come rinuncia a una interpretazione eccessivamente individualistica del mondo.
Pais insiste: la “fedeltà alle proprie radici non comportava connotazioni religiose”.
Ma più avanti deve citare Einstein: “Una persona religiosa è devota nel senso che non ha dubbi circa il significato e la grandezza di quegli obiettivi e di quei fini che trascendono la singola persona e che non necessitano né sono suscettibili di un fondamento razionale (…).
Non è possibile alcun contrasto (tra scienza e religione), la scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”.
di Marco Testi (©L’Osservatore Romano – 5 luglio 2009) Subtle is the Lord recitava il titolo dell’edizione originale, 1982, del volume di Abraham Pais sulla scienza e la vita di Albert Einstein, come spiegato nel sottotitolo, la cui citazione non appaia gratuita: nell’edizione italiana – la terza dopo quelle del 1986 e del 1991 – La scienza e la vita di Albert Einstein (Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pagine 561, euro 22) diviene il titolo vero e proprio.
Sparisce quindi quel riferimento alla “sottigliezza” del Signore, contenuta in una celebre battuta del grande fisico: “Il Signore è sottile, ma non malizioso” riportata in questo stesso volume nella traduzione di Gianfranco Belloni e Tullio Cannello, che ne è anche il curatore.
Una battuta, quella di Einstein, polemica contro la nuova teoria dei quanti e soprattutto contro il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, che poteva essere interpretato come l’impossibilità di descrivere in modo completamente oggettivo un esperimento, in quanto chi osserva modifica l’esperimento stesso: il che voleva significare l’ammissione della impossibilità di dare un ordine al mondo, e soprattutto di pensare a una realtà come esterna a noi: chi guarda è parte dell’universo osservato, e non ha quindi alcuna patente di oggettività.

riprova

  Altissimu, onnipotente bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare.