La resurrezione di Gesù

La risurrezione di Gesù dal sepolcro, la terza notte successiva alla sua morte, non ebbe osservatori diretti e pertanto non è descritta nei Vangeli, i quali riferiscono le testimonianze successive.
I punti essenziali su cui tutti e quattro gli evangelisti concordano sono i seguenti: Maria Maddalena e altre donne si recano al sepolcro, all’alba del quarto giorno, per completare l’imbalsamazione del corpo di Gesù; trovano che la pietra con cui i sommi sacerdoti e i farisei l’avevano fatta sigillare per evitare un eventuale trafugamento del cadavere (vedi Matteo 27,62-66) è stata rimossa e il sepolcro è vuoto; infine, Gesù risorto appare a varie riprese, prima alle donne e successivamente ai discepoli.
Ciascuno di questi punti è stato oggetto di una vastissima iconografia, la quale non ha tuttavia rinunciato a fissare la propria attenzione sul momento fondamentale, quello della risurrezione vera e propria, a causa del suo altissimo contenuto religioso e simbolico.
  Poiché, come abbiamo detto, nessuno dei quattro Vangeli descrive il momento preciso in cui Gesù risorto esce dal sepolcro, riportiamo in forma sintetica le versioni dei quattro Vangeli concernenti la rivelazione dell’avvenuta risurrezione.
  dal Vangelo di Matteo Passato il sabato, al sorgere dell’alba Maria Maddalena e «l’altra Maria» (Maria di Cleofa, madre di Giacomo e di Giuseppe) si recano al sepolcro (28,1).
Vi è «un gran terremoto» e appare un angelo dall’aspetto «come la folgore» che fa rotolare via la pietra.
Nel vederlo, la guardie, sconvolte, diventano «come morte» (28,2-4).
L’angelo annuncia alle donne: «So che cercate Gesù crocifisso; non è qui: è risorto», e le invita a comunicare la notizia ai discepoli (28,5-7).
Mentre le donne si recano dai discepoli, Gesù appare loro dicendo «Rallegratevi!» (28,8-10).
  dal Vangelo di Marco Trascorso il sabato, allo spuntar del sole Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Maria di Salome si recano al sepolcro per imbalsamare Gesù (16,1-2).
Trovano che la pietra è rotolata via e all’interno vi è un giovane «rivestito di una veste bianca» che annuncia loro la risurrezione di Gesù, invitandole a comunicarlo ai discepoli e «specialmente a Pietro».
Le donne però, prese dalla paura, «non dissero nulla a nessuno» (16,3-8).
Gesù risorto appare allora a Maria Maddalena, a due discepoli e infine a tutti gli Undici (16,9-14).
  dal Vangelo di Luca Il primo giorno della settimana, di buon mattino, Maria di Magdala (Maddalena), Giovanna (moglie di Chuza, amministratore di Erode, discepola di Gesù), Maria di Giacomo e altre donne si recano al sepolcro «portando gli aromi che avevano preparato» (24,1).
Trovano che la pietra è stata rimossa e il sepolcro è vuoto.
Appaiono due uomini «con vesti splendenti» che annunciano loro la resurrezione di Gesù (24,2-8).
Le donne riferiscono la notizia agli Undici, che però si mostrano increduli.
Pietro corre al sepolcro per verificare di persona, ma trova solo le bende che avvolgevano il corpo di Gesù (24,9-12).
  dal Vangelo di Giovanni Mentre è ancora buio, il primo giorno della settimana Maria Maddalena si reca al sepolcro e vede che la pietra è stata rimossa (20,1).
Va subito ad avvisare Pietro e «l’altro discepolo che Gesù amava» (lo stesso Giovanni evangelista), i quali corrono al sepolcro ove rinvengono le bende e il sudario, quindi ritornano a casa (20,2-10).
Maria invece rimane al sepolcro ove le appaiono due angeli e subito dopo lo stesso Gesù (episodio del «Noli me tangere» (20,11-17).

Obama in vaticano

Per preparare la strada all’incontro che avrà con Benedetto XVI in Vaticano nel pomeriggio di venerdì 10 luglio, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha riunito attorno a sè alla Casa Bianca sei giornalisti di altrettante testate cattoliche americane: “Catholic News Service”, “America”, “National Catholic Reporter”, “Catholic Digest”, “National Catholic Register”, “Commonweal”.
In più c’era il reporter religioso del “Washington Post”.
E inoltre, unica giornalista straniera, c’era Elena Molinari per la Radio Vaticana e per “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale dell’Italia, il paese che ospita il G8.
L’intervista si è svolta la mattina di giovedì 2 luglio, con domande non preordinate.
Il giorno successivo “Avvenire” l’ha riprodotta quasi integralmente, dandole forte rilievo.
Obama si è detto fiducioso di trovare con il papa una concordia di vedute su temi come la pace in Medio Oriente, la lotta alla povertà, la salvaguardia del clima, la politica dell’immigrazione.
Ma non ha eluso nessuno dei temi – in primo luogo l’aborto – su cui c’è conflitto tra lui e una parte consistente della Chiesa cattolica americana, in testa il cardinale Francis George, presidente della conferenza episcopale e arcivescovo della sua città, Chicago.
Al conflitto aperto tra Obama e un buon terzo dei vescovi degli Stati Uniti si è aggiunta nei mesi scorsi anche un’altra linea di divisione: tra questi vescovi e il Vaticano, da loro giudicato troppo arrendevole nei confronti della politica del nuovo presidente.
Più sotto sono riportati i passaggi dell’intervista che riguardano i temi più controversi, dall’aborto all’omosessualità.
Nelle risposte, Obama porge il ramoscello d’ulivo alla Chiesa, così come aveva già provato a fare il 17 maggio col suo discorso all’università cattolica di Notre Dame.
Ma rimarca anche i punti su cui l’accordo non c’è e non ci sarà.
*** Non c’è però solo Obama che si prepara all’udienza col papa.
Anche il Vaticano suona un suo preludio.
Lo stesso giorno in cui il presidente degli Stati Uniti rilasciava l’intervista ai reporter religiosi, a Roma un’autorevole cardinale pubblicava un commento semplicemente entusiastico ai discorsi tenuti da Obama il 17 maggio all’università di Notre Dame a il 4 giugno all’università di al-Azhar, al Cairo.
Il cardinale è Georges Cottier, 87 anni, svizzero, domenicano, per molti anni in curia come teologo ufficiale della casa pontificia.
Ha pubblicato il suo commento su “30 Giorni”, una rivista cattolica edita in sei lingue molto legata ai circoli diplomatici della curia vaticana e molto attenta alla politica della Chiesa nel mondo, inviata gratuitamente a vescovi e a monasteri di tutto il mondo, diretta dall’ex presidente del consiglio e ministro degli esteri italiano Giulio Andreotti.
Il dotto cardinale trova la visione di Obama fortemente consonante con quella cattolica, a cominciare dalla consapevolezza del peccato originale.
Gli riconosce intendimenti buoni e costruttivi anche sul terreno minato dell’aborto.
Nega che Obama possa essere considerato “abortista”, anzi, gli riconosce la volontà di “fare di tutto affinché il numero di aborti sia il minore possibile”, così come fecero “i primi legislatori cristiani che non abrogarono subito le leggi romane tolleranti verso pratiche non conformi o addirittura contrarie alla legge naturale, come il concubinaggio e la schiavitù”.
Chiama a conforto san Tommaso d’Aquino, secondo il quale “lo Stato non deve mettere delle leggi troppo severe e alte, perché saranno disprezzate dalla gente che non sarà capace di applicarle”.
Plaude a “L’Osservatore Romano” proprio per l’articolo pro-Obama del 19 maggio che aveva fatto infuriare tanti vescovi americani.
Il cardinale Cottier sembra quasi esaltare Obama come un novello Costantino, capo di un moderno impero anch’esso provvido per la Chiesa.
I passaggi del commento di Cottier dedicati alla questione dell’aborto sono riprodotti qui di seguito.
E subito dopo è riportato un estratto dell’intervista di Obama ai reporter religiosi, ricavato principalmente da “Avvenire”, con integrazioni trascritte da altri giornalisti presenti.
Il testo integrale dell’articolo del cardinale Cottier, in “30 Giorni” n.
5, 2009: > La politica, la morale e il peccato originale L’articolo è apparso sinora nelle edizioni italiana e inglese di “30 Giorni”.
Nelle prossime settimane apparirà anche nelle edizioni della rivista in francese, tedesco, spagnolo e portoghese.
__________ L’intervista di Obama nell’ampia trascrizione pubblicata da Elena Molinari su “Avvenire” del 3 luglio 2009: > Obama: con il papa una collaborazione per aiutare il mondo __________ In www.chiesa, i servizi sugli alti e bassi tra Obama e la Chiesa cattolica: > Obama laureato a Notre Dame.
Ma i vescovi gli rifanno l’esame
(26.5.2009) > Angelo o demonio? In Vaticano, Obama è l’uno e l’altro (8.5.2009) 2.
“Difenderò sempre con forza il diritto dei vescovi di criticarmi…” Intervista con Barack Obama D.
– Sul rispetto della vita e sul matrimonio i vescovi cattolici americani hanno espresso critiche e preoccupazioni nei confronti delle sue posizioni.
Come pensa di affrontare tali critiche? O ritiene che finirà con l’ignorarle? R.
– Primo, una forza della nostra democrazia è che ciascuno è libero di esprime le proprie opinioni politiche.
Non ci sarà mai un momento in cui deciderò di ignorare le critiche dei vescovi cattolici, perché sono il presidente di tutti gli americani e non solo di quelli che, per caso, sono d’accordo con me.
Prendo molto seriamente le opinioni delle altre persone e i vescovi americani hanno una profonda influenza sulla Chiesa e anche sulla comunità nazionale.
Vari vescovi sono stati generosi nelle loro opinioni e incoraggianti nei miei confronti, benché rimangano divergenze su alcune questioni.
In questo senso i vescovi americani rappresentano un crocevia di opinioni proprio come avviene in altri gruppi.
Difenderò sempre con forza il diritto dei vescovi di criticarmi, anche con toni appassionati.
E sarei felice di ospitarli qui alla Casa Bianca a parlare dei temi che ci uniscono e di quelli che ci dividono, in una serie di tavole rotonde.
Penso che continueranno ad esserci ambiti in cui concordiamo profondamente e altri nei quali non sarà possibile trovare pieno accordo.
Ciò è sano.
D.
– Lei ha nominato un gruppo di lavoro composto da rappresentanti pro-life e da altri che sostengono il diritto all’aborto, con lo scopo di trovare posizioni comuni.
Quali sono le sue attese realistiche sul risultato dei lavori? R.
– Quel gruppo dovrà fornirmi un rapporto finale entro l’estate e non ho l’illusione che sia in grado, con il solo dibattito, di fare scomparire le differenze.
So che ci sono punti in cui il conflitto non è conciliabile.
Ma posso dirvi che vi sono persone di buona volontà su entrambi i fronti e sarei sorpreso se non si trovassero punti significativi sui quali lavorare insieme.
Fra questi, la necessità di aiutare i giovani a prendere decisioni intelligenti in modo che evitino gravidanze non desiderate, l’importanza di rafforzare l’accesso all’adozione come alternativa all’aborto e il dovere di prendersi cura delle donne incinte e di aiutarle a crescere i loro bambini.
Ci sono invece elementi, come la contraccezione, sui quali le differenze sono profonde.
La mia posizione personale è che si debba coniugare una solida educazione morale e sessuale alla disponibilità di contraccettivi, per prevenire gravidanze indesiderate.
Riconosco che ciò contraddice la dottrina della Chiesa cattolica, quindi non mi aspetto che chi sente fortemente la cosa come materia di fede possa concordare con me su questo, ma questa è la mia opinione personale.
Sarei sorpreso se i sostenitori del diritto all’aborto non fossero d’accordo che bisogna ridurre le circostanze in cui una donna decide di interrompere la gravidanza.
Se essi prendessero questa posizione, io non sarei d’accordo con loro.
Non conosco alcuna circostanza in cui l’aborto sia una decisione felice, e se possiamo aiutare una donna ad evitare di confrontarsi con una situazione nella quale ciò diventi una possibilità, io penso che sia una buona cosa.
Ma di nuovo, questa è la mia opinione.
D.
– Alcuni cattolici lodano il suo contributo nel promuovere temi di giustizia sociale, altri la criticano per le sue posizioni sui temi della vita, dall’aborto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Vede ciò come una contraddizione? R.
– Questa tensione del mondo cattolico esisteva ben prima del mio arrivo alla Casa Bianca.
Quando ho cominciato a interessarmi di giustizia sociale, a Chicago, i vescovi cattolici parlavano di immigrazione, nucleare, poveri, politica estera.
Poi, a un certo punto, l’attenzione della Chiesa cattolica si è spostata verso l’aborto e ciò ha avuto il potere di spostare l’opinione del congresso e del paese nella stessa direzione.
Sono temi cui penso molto, ma ora, come non cattolico, non sta a me cercare di risolvere queste tensioni.
Ho visto tuttavia come si possa tentare una conciliazione.
Il cardinale Joseph Bernardin, che ho conosciuto a Chicago, parlava chiaramente ed esplicitamente in difesa della vita.
Ma riteneva questa un “abito senza cuciture” e vi includeva coerentemente una gamma di questioni che erano parte di ciò che egli considerava pro-life e su cui si impegnava, come la lotta alla povertà, la cura dell’infanzia, la pena di morte, la politica estera.
Questa parte della tradizione cattolica è qualcosa che continuamente mi ispira.
E penso che vi sono stati momenti, negli ultimi due decenni, in cui questa tradizione più inclusiva s’è sentita come sepolta sotto il dibattito sull’aborto.
Desidero invece che resti in primo piano nel dibattito nazionale.
D.
– Molte persone, non solo medici, che offrono la propria opera in istituzioni non governative sono molto preoccupate di non poter fare obiezione di coscienza in campi eticamente sensibili.
La posizione della sua amministrazione in merito non è del tutto chiara…
R.
– La mia posizione personale è sempre stata coerente: sono fermamente convinto che debba essere assicurata l’obiezione di coscienza.
Ho difeso una forte obiezione di coscienza nell’Illinois per gli ospedali cattolici e le strutture sanitarie, ne ho discusso con il cardinale Francis George in un recente incontro nello Studio Ovale e l’ho ripetuto durante il mio intervento all’università di Notre Dame.
Capisco che c’è qualcuno che si aspetta sempre il peggio da me, senza che io abbia detto o fatto nulla, ma questo è più un preconcetto che una posizione motivata da una “linea dura” che staremmo cercando di imporre.
Penso che la sola ragione per la quale la mia posizione può apparire non chiara derivi dal fatto che abbiamo cambiato una misura sull’obiezione di coscienza approvata all’ultimo minuto, all’undicesima ora dalla precedente amministrazione e abbiamo deciso di cancellarla perché non era stata ben formulata.
Ma stiamo riesaminando la questione e abbiamo richiesto pareri in merito alla gente, ricevendone centinaia di migliaia.
Posso assicurare che quando questo riesame sarà completato entrerà in vigore una forte obiezione di coscienza.
Essa potrà non andare incontro ai criteri di ogni possibile critica del nostro approccio, ma certamente non sarà più debole di quella che esisteva prima che il cambiamento fosse fatto.
D.
– Come concilia la sua fede cristiana con le promesse fatte durante la campagna elettorale agli omosessuali? R.
– Quanto alla comunità gay e lesbica di questo paese, penso che venga ferita da alcuni insegnamenti della Chiesa cattolica e dalla dottrina cristiana in generale.
Come cristiano, combatto continuamente tra la mia fede e i miei doveri e le mie preoccupazioni nei confronti di gay e lesbiche.
E spesso scopro che c’è molto ardore su entrambi i fronti del dibattito, anche fra chi considero essere ottime persone.
D’altra parte, rimango fermo a quanto ho espresso al Cairo: ogni posizione che liquidi in modo automatico le convinzioni religiose e il credo altrui come intolleranti non capisce il potere della fede e il bene che compie nel mondo.
In ogni caso, come persone di fede dobbiamo esaminare le nostre convinzioni e chiederci se a volte non stiamo causando sofferenza agli altri.
Penso che tutti noi, di qualsiasi fede, dovremmo riconoscere che ci sono state delle volte in cui la religione non è stata messa al servizio del bene.
E sta a noi, penso, compiere una profonda riflessione ed essere disposti a chiederci se stiamo agendo in modo coerente non solo con gli insegnamenti della Chiesa, ma anche con quanto Gesù Cristo, nostro Signore, ci ha chiamati a fare: trattare gli altri come noi vorremmo essere trattati.
1.
“Obama mi ricorda i primi legislatori cristiani…” di Georges Cottier […] Nel suo discorso alla università di Notre Dame, mi ha colpito come Obama non abbia evitato di affrontare la questione più spinosa, quella dell’aborto, sulla quale aveva ricevuto tante critiche anche dai vescovi Usa.
Da una parte tali reazioni sono giustificate: nelle decisioni politiche riguardo all’aborto sono implicati valori non negoziabili.
Per noi è in gioco la difesa della persona, dei suoi diritti inalienabili, di cui il primo è proprio quello alla vita.
Ora nella società pluralistica ci sono differenze radicali su questo punto.
C’è chi, come noi, considera l’aborto un “intrinsece malum”, ci sono quelli che lo accettano, e addirittura alcuni che lo rivendicano come un diritto.
Il presidente non prende mai quest’ultima posizione.
Al contrario, mi sembra che dia dei suggerimenti positivi – lo ha sottolineato anche “L’Osservatore Romano” del 19 maggio –, proponendo pure in questo caso la ricerca di un terreno comune.
In questa ricerca – avverte Obama – nessuno deve censurare le proprie convinzioni, ma al contrario deve sostenerle davanti a tutti e difenderle.
Il suo non è affatto il relativismo malinteso di chi dice che si tratta di opinioni che si oppongono ad altre opinioni, e che tutte le opinioni personali sono incerte e soggettive, e dunque conviene metterle da parte quando si parla di queste cose.
Inoltre, Obama riconosce la gravità tragica del problema.
Che la decisione di abortire “strazia il cuore di ogni donna”.
Il terreno comune che lui propone è questo: lavorare tutti insieme per ridurre il numero delle donne che cercano di abortire.
E aggiunge che ogni regolamentazione legale di questa materia deve garantire in maniera assoluta l’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari che non vogliono dare la propria assistenza a pratiche abortive.
Le sue parole vanno nella direzione di diminuire il male.
Il governo e lo Stato devono fare di tutto affinché il numero di aborti sia il minore possibile.
È certo soltanto un “minimum”, ma è un minimum prezioso.
Mi ricorda l’atteggiamento dei primi legislatori cristiani che non abrogarono subito le leggi romane tolleranti verso pratiche non conformi o addirittura contrarie alla legge naturale, come il concubinaggio e la schiavitù.
Il cambiamento avvenne con un cammino lento, segnato tante volte da regressi, man mano che nella popolazione il numero dei cristiani aumentava, e, con loro, l’impatto del senso della dignità della persona.
All’inizio, per garantire il consenso dei cittadini e custodire la pace sociale, vennero mantenute in vigore le cosiddette “leggi imperfette”, che evitavano di perseguire azioni e comportamenti in contrasto con la legge naturale.
Lo stesso san Tommaso, che pure non aveva dubbi sul fatto che la legge deve essere morale, aggiunge che lo Stato non deve mettere delle leggi troppo severe e alte, perché saranno disprezzate dalla gente che non sarà capace di applicarle.
Il realismo dell’uomo politico riconosce il male e lo chiama col suo nome.
Riconosce che occorre essere umili e pazienti, combatterlo senza la pretesa di sradicarlo dalla storia umana attraverso strumenti di coercizione legale.
È la parabola della zizzania, che vale anche a livello politico.
D’altro canto, questo non diventa in lui giustificazione di cinismo o d’indifferentismo.
La tensione a diminuire per quanto possibile il male rimane persistente.
È un obbligo.
Anche la Chiesa ha sempre percepito come lontana e pericolosa l’illusione di eliminare totalmente il male dalla storia per via legale, politica o religiosa.
La storia anche recente è disseminata di disastri prodotti dal fanatismo di chi pretendeva di prosciugare le fonti del male nella storia degli uomini, finendo per trasformare tutto in un grande cimitero.
I regimi comunisti seguivano esattamente questa logica.
Così come il terrorismo religioso, che uccide addirittura in nome di Dio.
E quando un medico abortista viene ucciso da militanti antiaborto – è successo di recente negli USA – occorre ammettere che persino gli slanci ideali più alti, come la sacrosanta difesa del valore assoluto della vita umana, si possono corrompere e trasformarsi nel loro contrario, diventando parole d’ordine a disposizione di un’ideologia aberrante.
I cristiani sono portatori nel mondo di una speranza temporale realista, non di un vano sogno utopico, anche quando testimoniano la propria fedeltà a valori assoluti come la vita.
Santa Gianna Beretta Molla, la dottoressa che muore per aver rifiutato le cure che avrebbero potuto far male alla bambina che portava in seno, con il suo eroismo ordinario e silenzioso tocca i cuori non solo dei cristiani; ricorda a tutti il destino comune cui tendiamo.
È una forma profetica dello stile evangelico della testimonianza cristiana.
Obama, nel suo discorso alla University of Notre Dame, fa proprio su questo aspetto un accenno molto importante.
Racconta di quando fu coinvolto in un progetto di assistenza sociale nei quartieri poveri di Chicago – finanziato da alcune parrocchie cattoliche – a cui partecipavano anche volontari protestanti ed ebrei.
In quell’occasione gli capitò di incontrare persone accoglienti e comprensive.
Vide lo spettacolo delle opere buone alimentate dal Signore tra di loro.
E in questo spettacolo fu “attratto dall’idea di far parte della Chiesa.
È stato attraverso questo servizio”, conclude, “che sono stato condotto a Cristo”.
Fa anche un elogio commovente del grande cardinale Joseph Bernardin, che allora era arcivescovo di Chicago.
Lo definisce “un faro e un crocevia”, amabile nel suo modo di persuadere e nel suo tentativo continuo di “avvicinare le persone e trovare un terreno comune”.
In quell’esperienza, dice Obama, “parole e opere delle persone con le quali ho lavorato nelle parrocchie di Chicago toccarono il mio cuore e la mia mente”.
Lo spettacolo della carità, che viene da Dio, ha la forza di toccare e attirare la mente e i cuori degli uomini.
E questo è l’unico germe di cambiamento reale nella storia degli uomini.
Obama cita anche Martin Luther King, di cui si sente discepolo.
Che solo quarantun anni dopo l’assassinio di King proprio lui sia presidente degli Usa è un segno e una prova dell’efficacia storica della fiducia nella forza della verità.
[…] __________

Serve un nuovo inizio per la musica sacra

Temi tradizionali e utilizzo di nuovi linguaggi.
Un connubio per alcuni impossibile, dai più poco frequentato, per tutti quelli che si occupano d’arte sempre più necessario e attuale.
L’argomento diventa spinoso quando si vuole affiancare un soggetto spirituale – in particolare tornando all’antica pratica dell’oratorio – con la grammatica dei moderni linguaggi musicali.
Il Pontificio Consiglio della Cultura si impegna in questo senso ai massimi livelli, coinvolgendosi direttamente con il suo presidente, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, che si è assunto l’onere di sintetizzare il testo biblico dell’Apocalisse per l’oratorio Apokàlypsis del compositore Marcello Panni eseguito per la prima volta il 10 luglio a Spoleto nell’ambito del 52° Festival dei due mondi.
Il tentativo sembra quello di mantenere viva la funzione di riferimento delle grandi narrazioni scritturistiche,  aprendo al tempo stesso un nuovo dialogo con la musica contemporanea.  L’intervista all’arcivescovo Gianfranco Ravasi In che modo avete affrontato il problema con il compositore? Il punto di riferimento emblematico del connubio tra un testo classico e la modernità è il Mosè e Aronne di Schönberg, che è stato concepito un po’ come un oratorio.
Da lì siamo partiti per sposare l’antico al nuovo in una maniera il più possibile armonica.
Con il compositore non abbiamo avuto un rapporto continuo – avrebbe richiesto un tempo enorme, purtroppo non disponibile – ma siamo partiti dalla definizione della qualità del testo, contro ogni tentativo di equivoco.
In qualche modo abbiamo prima di tutto circoscritto il campo.
Ci faccia un esempio pratico.
L’equivoco sempre in agguato quando si parla dell’Apocalisse è considerarla l’oroscopo della fine del mondo, un passo tragico e catastrofico.
Pensiamo ad Apocalypse now di Francis Ford Coppola:  una rappresentazione della distruzione, anche simbolica.
Basti ricordare la danza degli elicotteri che nel film è una sorta di recupero di alcune componenti della marcia dei cavalieri del testo biblico.
Superare questo equivoco significa evitare di produrre un’opera, magari monumentale, ma che non tenga conto di tutte le componenti dell’Apocalisse, dove certo troviamo un accento fortissimo sul male del mondo che inquina e incrina la storia,  ma  anche  un  messaggio  finale di speranza.
In realtà essa, così come è scritta, è un’opera sghemba:  ha venti capitoli sostanzialmente tragici e gli ultimi due luminosissimi.
Sono la vera  meta  del  libro di solito dimenticata.
Quindi non un’adesione diretta tra ogni verso e la musica, non un’esegesi del testo attraverso il suono, ma un lavoro sulla forma.
Il lavoro che ho fatto sul testo tende a preservarlo nella sua sostanza, senza garantirne l’integrità.
Non abbiamo privilegiato l’elemento di speranza penalizzando quello catastrofico, ma gli equilibri fanno sì che ci sia una attesa, non della catastrofe, ma dell’epistrophè, della conversione.
In questo senso la forma è proprio quella dell’Apocalisse in senso stretto, che già per sua natura è drammatica e musicale.
Su queste basi  ho  tentato  di  conservare l’autenticità  del  testo,  cercando  di  evitare il rischio della didascalia.
Dal punto  di  vista  musicale  usare  la banda, con un grande organico, consente di non perdere la dimensione escatologica, nel senso tradizionale del termine.
Che  rapporto c’è tra testo e musica in questo lavoro? Si dà molta importanza alla parola.
C’è sia il cantato, affidato al coro, sia il parlato, da solo o in forma di melologo.
Il testo quindi fiorisce in musica e non è utilizzato come un pretesto.
Come ha scelto le parti da musicare? Ho fatto una selezione divisa in sette quadri – anche per salvaguardare la mistica delle cifre – con un prologo e un glorioso epilogo.
È inoltre prevista una scansione in due parti, per costruire un intervallo pensato come momento di meditazione.
Che rapporto c’è tra il testo originale e la sua riduzione? Il testo c’è in tutte le sue parti, ma non integralmente.
Viene riprodotta cioè la dinamica letteraria dell’Apocalisse.
Non è  un  estratto,  ma  un   condensato che  mantiene  la  struttura dell’originale.
In che senso? Pensiamo alle lettere di apertura, un elemento indispensabile per capire che si tratta di un testo indirizzato alle Chiese.
Il momento delle lettere viene mantenuto, ma se ne privilegiano solo due:  quelle indirizzate alla Chiesa di Efeso e a quella di Laodicea, i due testi di maggiore impatto.
Efeso è la Chiesa più importante, il nodo attorno al quale le altre sei si raccordano, quello rivolto alla Chiesa di Laodicea è un impressionante atto di accusa, di eccezionale modernità.
Poi c’è l’uso dei trittici di settenari, con il gioco del sette e del tre.
La forma poetica viene conservata così come i sette sigilli, le sette coppe o le sette trombe, ma si è cercato di evitare una deriva didascalica e di resistere alla tentazione di introdurre tutti i simboli citati.
L’importante è che permanga la struttura e l’idea simbolica, così come rimangono la grande scena finale del dramma della storia – Babilonia scaraventata nel Mediterraneo – e l’affresco finale della Gerusalemme celeste.
L’Apocalisse è un testo fortemente musicale, che presenta continuamente suoni di trombe e cori.
Come è stato affrontato questo aspetto? I cori più importanti sono stati conservati, ma proposti in latino per sottolinearne la natura liturgica.
Non bisogna infatti dimenticare che una delle interpretazioni dell’Apocalisse è che fosse un testo proprio a uso liturgico.
La voce recitante, invece, consente di presentare un testo articolato capace di rendere l’idea generale della narrazione biblica da cui deriva.
Da un punto di vista estetico – come dicevo – il richiamo è al Mosè e Aronne di Schönberg, dove Aronne canta rappresentando il sacerdote pomposo e anche un po’ il fascino dell’idolatria, mentre Mosè usa il parlato, perché non rappresenta la parola che seduce, ma quella che conquista l’anima e costringe a un’opzione.
In questa  luce  le voci, una maschile e una femminile, hanno proprio la funzione di recuperare la nudità della parola.
Quella che in Schönberg è la contrapposizione tra Mosè e Aronne qui è riprodotta nel rapporto tra coro e voci recitanti.
A eccezione del fatto che il coro cantando non cerca come Aronne di ammaliare, ma rappresenta la liturgia che salva.
Ma perché il coro finale è in greco e non in latino? Quando il testo arriva al suo apice ritorna alla lingua misterica, quella originale del testo, il greco appunto.
Quindi per le ultime frasi, quelle decisive del libro, è stata utilizzata la pronuncia bizantina, cioè quella della liturgia.
Qualcuno però potrebbe non ritrovarsi con la lingua studiata a scuola.
La pronuncia che si insegna ora è infatti una convenzione prevalentemente rinascimentale, mentre quella itacistica che ho usato è bizantina e molto simile a quella del greco che si parla oggi.
Qual è il suo ruolo nell’esecuzione? Quello di strappare la performance al rischio che sia solo un concerto.
L’idea è quella di conservare il senso di meditazione del testo originale.
Il mio intervento non è stato quello del conferenziere che all’inizio spiega cosa si sta per ascoltare, ma si è basato sul modello dell’esecuzione delle passioni nella liturgia protestante.
In quel caso il pastore teneva un sermone prima dell’inizio della musica, un’altra predica era prevista a metà, dove adesso si ricorre spesso a un intervallo, strutturalmente assurdo trattandosi di una passione.
Io ho proposto proprio questo schema, per conservare l’aspetto sacrale in una dimensione esistenziale.
È aperta da tempo la grande questione dell’adeguamento agli stilemi contemporanei della musica liturgica e di quella sacra.
La prima si muove più lentamente, ma per quanto riguarda la musica di argomento sacro è realistico pensare che questa iniziativa segni l’inizio di un rinnovato rapporto tra Chiesa e compositori di oggi? Il tentativo di riaprire un canale di comunicazione in questo senso è in pratica l’unica ragione per cui ho accettato di essere coinvolto personalmente in questo progetto.
L’oratorio fa parte di una strategia più ampia che tende a riallacciare un dialogo con l’arte contemporanea, in tutte le sue sfaccettature.
Si è partiti con l’idea di considerare prima di tutto il rapporto con le arti visive, per esempio stringendo un legame con la Biennale di Venezia nella quale saremo presenti nel 2011.
Abbiamo infatti notato che anche gli artisti che si muovono seguendo la nuova grammatica dei linguaggi contemporanei sentono sempre di più il bisogno di tornare a grandi temi.
Un esempio è quello di Bill Viola, che insiste nei suoi video su dolore, vita, morte, acqua, purificazione.
Dopo avere lavorato sulle arti visive ora bisogna aprire il dialogo sulla musica.
Cominciamo da questo esperimento.
Perché Marcello Panni? È un compositore estremamente competente, che scrive una musica avanzata e capace di comunicare direttamente anche a un pubblico non abituato a certe forme espressive.
Io non esiterei a utilizzare linguaggi anche estremi, alla Cage, ma forse non è ancora il momento.
(©L’Osservatore Romano – 12 luglio 2009)

Apokàlypsis

L’Apocalisse è arrivata in ritardo a Spoleto, preceduta da un temporale che si sarebbe detto appunto superficialmente apocalittico se monsignor Gianfranco Ravasi non avesse spiegato dal palco del 52° Festival dei due mondi – diretto da Giorgio Ferrara con la consulenza di Ernesto Galli della Loggia, Alessandra Ferri e Alessio Vlad – che l’aggettivo non rende del tutto giustizia al testo di Giovanni.
Quello che ha cercato di fare Marcello Panni nella sua moderna sacra rappresentazione Apokàlypsis – eseguita la sera di venerdì 10 in piazza Duomo con lo stesso compositore sul podio – è stato proprio ricalcare il percorso di un libro biblico del quale spesso viene esaltata la parte più severa a scapito del resto.
La chiave del lavoro sembra potersi ritrovare principalmente nelle scelte timbriche.
La banda dell’Esercito italiano, a suo agio anche in un repertorio non consueto, è utilizzata come un gigantesco organo a canne, al quale si aggiunge il commento di quattro percussionisti, chiamati anche ad azionare a vista quattro meccanismi teatrali che riproducono i rumori naturali.
Le due voci recitanti si dividono il testo nella versione italiana, da una parte il visionario Giovanni, affidato all’austero Andrea Giordana, dall’altra la Sposa Celeste che sconfigge Satana e descrive la discesa della Gerusalemme Celeste, una Sonia Bergamasco lievemente sopra le righe.
Gli attori si alternano tra loro entrando anche in rapporto con le voci bianche del Piccolo coro romano, al quale sono risevati i momenti più eterei, e con il Coro da camera Goffredo Petrassi, preparato da Stefano Cucci, che, per fedeltà al testo originario, è diviso in 24 anziani e quattro esseri viventi.
L’attenzione alla componente numerologica appare costante, tanto che il compositore l’ha esplicitata anche nella scelta dell’organico strumentale, utilizzando in tutto 49 elementi (45 fiati e quattro percussionisti): evidente il richiamo al numero sette, evocato dal suo quadrato.
Una elaborazione asciutta e funzionale quella di Panni, che restituisce il testo con grande chiarezza e lancia un richiamo a una sacralità primitiva anche attraverso l’uso di strumenti legati al folklore, come la zampogna che simboleggia l’apparizione dell’Agnello, o il corno naturale di bue che evoca le trombe del giudizio.
Seppure con qualche scollatura nell’alternanza tra ensemble strumentale e parti vocali l’esecuzione ha evidenziato l’arco globale di una forma che, ricollegandosi strettamente al testo, trova nell’esaltazione finale della speranza un momento necessario di approdo.
(marcello filotei) (©L’Osservatore Romano – 12 luglio 2009)

Modello del docente unico non prescrittivo

Le scuole possono autonomamente utilizzare nella scuola primaria le risorse di organico in modo flessibile.
Il modello del docente unico, previsto da settembre nelle prime classi della scuola primaria, non ha carattere prescrittivo e tassativo.
Conseguentemente, la scuola può decidere di impiegare l’insegnante non solo su una unica classe.
  È quanto emerge dalla delibera della Corte dei Conti (n.
12/2009) con cui è stato apposto il visto di registrazione al Regolamento sul primo ciclo.
Nel testo di delibera, si fa riferimento alle deduzioni e ai chiarimenti portati dai dirigenti del ministero dell’istruzione per fugare dubbi e riserve della Corte, e in proposito si riferisce che “sostiene altresì l’Amministrazione che i criteri indicati dal comma 4 dell’art.
64 non avrebbero carattere prescrittivo e tassativo.
Detti criteri, per la loro valenza generale, hanno invece ambiti di applicazione estesi e flessibili.” La posizione del Miur è altresì confermata ed ulteriormente esplicitata ancora, quando si riferisce che “L’Amministrazione sottolinea che il modello del docente unico –  di cui al d.l.
n.
137/2008, convertito in legge n.
169 del 30 ottobre 2008 – viene sì indicato come modello da privilegiare nell’ambito delle possibili articolazioni del tempo-scuola, ma pur sempre “tenuto conto della richiesta delle famiglie e nel rispetto dell’autonomia scolastica”.  In sostanza, l’indicazione del modello non avrebbe alcun carattere prescrittivo, lasciando piena  libertà alle scuole di strutturare orari e assetti didattico-organizzativi secondo la propria programmazione e valutazione.”

Misteri Persiani, I ragazzi di Teheran

Nonostante la grande partecipazione emotiva a questi eventi, è forse il momento di cercare di guardare alla situazione con lucidità e di fissare alcuni punti di base.
La premessa a questa crisi è un fattore positivo e inatteso, cioè l’entusiasmo per la candidatura di Moussavi e la straordinaria partecipazione al voto (85% degli aventi diritto).
Il tutto è maturato rapidamente, sorprendendo gli stessi iraniani, a cominciare dal loro establishment politico.
Perché questa novità? Moussavi è un uomo della Repubblica islamica, un rivoluzionario della prima ora, un ex premier, un convinto sostenitore dei valori di Khomeini, il cui ritratto è comparso accanto al suo in campagna elettorale.
Quali speranze (per alcuni) e quali paure (per altri) rappresenta questa sorta di Cincinnato persiano, tornato alla politica attiva dopo vent’anni? Sarebbe in grado di riformare in senso democratico l’Iran, riuscendo laddove Khatami ha fallito? E lo vorrebbe davvero? Ricordiamo che Moussavi è stato il premier sotto il cui governo venne attuata una sorta di soluzione finale nei confronti di detenuti politici (si parla di 30mila esecuzioni nel 1988).
A confrontare nel dettaglio i programmi dei candidati, è molto più avanzato e riformista Karroubi di lui.
La novità sta probabilmente nella grande opportunità che si è prospettata negli ultimi mesi per l’Iran.
L’apertura di Obama non è stata forse colta nella sua pienezza da molti osservatori.
Fonti non ufficiali parlano di una trattativa ormai avviata da mesi e pronta a essere resa pubblica all’indomani del voto per le presidenziali.
Un grande accordo non vuol dire soltanto speranze di pace.
Vuol dire anche affari.
E gli affari – da sempre e a ogni latitudine – li fa chi gestisce il potere.
Questo vale ancora di più per l’Iran, dove lo Stato gestisce oltre il 70% dell’economia e dove non esiste (è bene ricordarlo sempre) l’equazione cittadino=contribuente.
Il bilancio statale lo fa l’export del petrolio, non dipende dalle tasse.
Che sono pressoché inesistenti per i redditi medio alti.
Questo è il vincolo ultimo che lega a questo sistema politico la classe dei bazarì, quella che da sempre decide le sorti del Paese.
Dall’altra parte, l’eterno Rafsanjani, potentissimo economicamente e ancora potente politicamente, visto che presiede l’Assemblea degli esperti, l’organo che – almeno in teoria – può destituire la Guida suprema.
Ahmadinejad ha gestito in modo populistico l’economia del paese e in molti hanno votato Moussavi per protesta.
Poi l’onda verde ha trascinato i giovani, li ha convinti che questa volta un cambiamento era possibile.
Ma nessuno in campagna elettorale ha mai messo in dubbio i pilastri della Repubblica islamica.
Che però adesso, dopo 30 anni, si ritrova a fare i conti con un dissenso molto diffuso, seppure non organizzato.
Probabilmente è vero che la Repubblica islamica non sarà più la stessa dopo questa crisi, ma è ancora molto presto per parlare di una rivoluzione.
I conservatori più pragmatici come Larijani e il sindaco di Teheran Mohammad Baqer Qalibaf tentano una mediazione.
Il secondo ha chiesto alle autorità nazionali di concedere l’autorizzazione per le manifestazioni spiegando che questo è l’unico modo per evitare le violenze.
Lo spettro oggi è una svolta autoritaria, un putsch militare attuato dall’ala dura dei pasdaran con l’appoggio dell’esercito.
Ma sarebbe una svolta rischiosa.
Il grande ayatollah dissidente Montazeri ha ammonito: “Se il popolo iraniano non può rivendicare i suoi diritti legittimi in manifestazioni pacifiche e viene represso, la crescita della frustrazione potrebbe arrivare a distruggere le fondamenta di qualsiasi governo, non importa quanto forte”.
Infinito edizioni: 06/93162414 A quasi due settimane dalle contestatissime elezioni, non sembra calare la tensione in Iran.
Quanto sappiamo oggi lo dobbiamo a un sistema di comunicazione “misto”, solo in parte filtrato dai tradizionali mezzi di comunicazione.
Ciò che arriva direttamente dagli amici iraniani (via internet, soprattutto) è un misto di tensione e attesa.
Le grandi manifestazioni dei primissimi giorni, filmate e raccontate dai reporter internazionali poi costretti a lasciare il Paese, sono state sostituite da assembramenti più piccoli e più drammatici.
È difficile avere certezze su quanto stia davvero accadendo in Iran.
Di certo la polizia spara, i pasdaran picchiano e molte persone vengono arrestate senza un’accusa chiara.
La repressione colpisce probabilmente più fuori Teheran.
Si parla di decine di arresti a Tabriz a Isfahan, grandi città spesso ignorate dalle cronache dei media.
E c’è paura, grande paura.

XV Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Hanno annunciato “Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza”.
(At 4,29) Hanno annunciato che un sapone fa primavera, hanno proclamato che un tipo di benzina t’assicura il coraggio e formidabile potenza.
Hanno gridato per le piazze e sui tetti le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.
Ma hanno taciuto il Verbo e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola: la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.
Hanno annunciato che la pace è fatta di tante uova di cioccolata, e della tredicesima, e di molte banconote, di frigoriferi colmi d’ogni bene, e di appartamenti in città con bagni di maiolica.
Ma la violenza è esplosa per le strade e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti che celano nella coda mitra e bombe molotov.
O uomini e donne del nostro tempo, noi manchiamo di vero annuncio, perché manchiamo di conoscenza contemplativa.
Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio perché abbiamo smarrito il silenzio, anzi ne abbiamo paura.
E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti a colpi di radioline e transistor.
Ma invano noi edifichiamo la città se non è il Signore a costruirla con noi.
Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia invano attendiamo la pace da noi e dai nostri fratelli.
(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).
Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca.
Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo.
Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi.
Ne manda dunque due.
«Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9).
Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà.
Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti.
[…] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi.
In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero.
[…] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13).
Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio.
Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14).
Così l’olio serve a confortare nella sofferenza.
Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.
(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).
Il mio sì Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato.
Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato.
Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome.
Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro.
Io ho la mia missione.
In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo.
Egli non ha creato me inutilmente.
Io farò del bene, farò il suo lavoro.
Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.
(John Henry Newman).
Portatrici dell’amore di Cristo Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.
Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche co-operatrici di Cristo, le portatrici del suo amore.
Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo.
Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace.
Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed.
San Paolo).
Una Chiesa missionaria «Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si apre al desiderio di con-dividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46).
«La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).
Preghiera Signore Gesù Cristo, parola del Padre a te ci rivolgiamo.
Custodisci i nostri propositi, ravviva il nostro servizio ecclesiale, sorreggi le nostre fatiche, guida i nostri passi nella ricerca delle vie più adatte per annunciare il tuo vangelo.
La nostra povertà è grande, noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te: incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.
Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo, vivi e regni in noi nella tua Chiesa, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
(Paolo VI).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Amos 7,12-15 In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».
Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un man-driano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge.
Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere.
Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena con-sapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.
Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.
vv.
12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa.
Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.
Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi.
Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svol-ge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese.
Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa.
Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vive-re; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.
vv.
14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica.
Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina.
Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.
È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf.
Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.
Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v.
14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini.
Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame.
Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.
Seconda lettura: Efesini 1,3-14 Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosid-dette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.
Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera.
È una benedizione, secondo la prassi litur-gica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.
Il v.
3 – la formula di benedizione — è introduttivo.
Il verbo benedire (euloghein) è ripetu-to due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio).
Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.
La prima parte – vv.
4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio: 1.
l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv.
4-6a) 2.
la grazia della redenzione (vv.
6b-7) 3.
la conoscenza del piano salvifico (vv.
8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio.
Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvez-za, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia.
«Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.
La seconda parte – vv.
11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi: 1.
il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv.
11-12).
2.
il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appro-priazione della salvezza (v.
13).
3.
il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti.
Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v.
14).
È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifi-ca di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.
Vangelo: Marco 6,7-13 In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri.
E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì.
Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascol-tassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Esegesi La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù.
Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplica-zione dei pani (cap.
6).
Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.
Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v.
12 si limita a un generico invito alla conversione.
L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.
v.
7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco.
Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf.
i discepoli del Battista e Paolo).
Il «potere sugli spiriti im-mondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorci-smo (9,18).
vv.
8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi.
Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.
Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fidu-cia in Dio.
Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quoti-diane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.
vv.
10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione.
Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele.
Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di acco-gliere il messaggio evangelico.
L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambia-mento del cuore, della mentalità: una conversione.
Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».
vv.
12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco.
Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i mala-ti, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.
Meditazione Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci nar-ra l’invio dei Dodici in missione.
La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e in-tensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evan-gelizzazione.
Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.
In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14).
Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi.
Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione.
«E prese (lett.
cominciò) a mandarli…» (v.
7).
Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici.
È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione sa-ranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v.
30).
Quando chiama (al v.
7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr.
3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per.
Così che la missione fa intrinsecamente parte della voca-zione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione.
Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio.
E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale.
Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15).
Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…
Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due».
Certa-mente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr.
At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr.
Dt 19,15).
Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare.
Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo.
Per questo è impor-tante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzi-tutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama.
Due persone formano già una piccola comunità (cfr.
Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco.
Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12).
E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…
Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come de-vono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un de-terminato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé.
I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male.
Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indi-spensabile.
Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, co-munque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore).
In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.
Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’.
Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quoti-diana della vita.
La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture.
«Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.
Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza.
«Se in qual-che luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero.
» (v.
11).
Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottoli-neato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione.
Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio.
Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato.
Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.