Complementarità fra ricerca teologica e antropologica.
La scuola in Italia prende naturalmente sul serio il fatto che gli studenti appartengono per lo più alla tradizione cattolica e molti di loro vivono la fede.
Riteniamo che proprio per loro sia importante la verifica e l’approfondimento che consente il riferimento alle acquisizione della ricerca religiosa richiamata che del resto offrono apporti singolarmente significativi al processo di apprendimento.
Si tratta inoltre di elaborare una corretta composizione fra i contributi delle scienze teologiche e quelli delle scienze della religione; anche per risvegliare la pedagogica cristiana odierna, e renderla consapevole della ricchezza incomparabile della propria tradizione, come d’altra parte farla avvertita dell’apporto irrinunciabile delle moderne ricerche attorno al dato religioso.
In un quadro di sintesi si può sottolineare la doppia traccia; la loro possibile, e in ambito educativo cristiano, indispensabile convergenza.
La religione come fondamentale esperienza umana viene studiata da scienze molteplici e complementari: – le scienze della religione che ne indagano le diverse manifestazioni privilegiano l’analisi dell’esperienza umana nella sua dimensione religiosa. – la teologia si avvale di una rivelazione esplicita – rivelazione biblica -; sulla base del testo biblico, analizzato con consapevolezza credente, tende ad una comprensione razionalmente rigorosa di quanto Dio stesso ha manifestato.
Comportano due percorsi con obiettivi e metodi diversi: tuttavia relazionati e complementari.
Il fervore delle ricerche in ambito strettamente razionale e fenomenologico ha spianato il campo ad una considerazione della religione a prescindere dal dato rivelato.
A livello educativo ha elaborato una gamma di suggestioni inedite che consentono di dare al fenomeno religioso un’interpretazione singolarmente preziosa e in tanta parte inedita.
Le annotazioni che proponiamo si portano precisamente sulla ricerca razionale: soprattutto valorizzano le indicazioni che sono pervenute dalla riflessione fenomenologica ed esistenziale.
Naturalmente resta importante il dato rivelato e la sua elaborazione teologica.
Tuttavia nell’ambito dell’educazione scolastica il confronto interdisciplinare si avvantaggia nella considerazione dell’orizzonte esplorativo comune.
Un grafico può evidenziare il doppio percorso che la ricerca religiosa può perseguire.
I richiami che proponiamo si pongono sul versante dell’uomo, del suo presagio, della sua preoccupazione interpretativa.
Testo Cultura e Religione: Regole1

I contributi che gli sperimentatori inviano vanno inseriti nel momento corrispondente dei tre processi di apprendimento. L’importante è che si indichi: 1.
Domanda – se si tratta di esperienze da an alizzare e come si attivi il procedimento per far emergere la domanda religiosamente significativa; 2.
Intrpretazione – se si offre un documento disciplinare o interculturale per l’interpretazione religiosa della problematica emersa; – se si conduce la domanda al confronto con la tradizione religiosa cristiana (testi biblici, patristici, testimonianze, documenti magisteri ali, ecc.); 3.
Progetto – se si tratta di una elaborazione dei risultati raggiunti a conclusione di una attività didattica.
Chiediamo a ciascuno degli sperimentatori di inserire almeno un documento in uno dei tre momenti di queta e delle succesive unità che verranno inserite.
MAPPA DI SVILUPPO DI CIASCUNA UNITA’ DI APPRENDIMENTO E’ LA SEGUENTE 1.
La domanda.
L’esperienza ha lo scopo di analizzare un vissuto significativo e di far sorgere da esso degli interrogativi che muovano alla ricerca di un significato, di un valore, di un progetto di vita, che lasci emergere con sufficiente chiarezza per lo studente l’interrogativo religioso in grado di legittimare la ricerca religiosa, specifica della disciplina.
2.
Interpretazione 2a.
L’interpretazione religiosa.
L’analisi di documenti religiosamente connotati permette di approfondire l’esperienza privilegiata e suggerisce indicazioni utili alla comprensione religiosa dell’esperienza che si va analizzando.
L’interpretazione religiosa dovrebbe consentire di comprendere più integralmente la stessa esperienza ed eventualmente offrire elementi significativi alla soluzione degli interrogativi da cui era mossa la ricerca stessa.
2b.
L’interpretazione religiosa cristiana.
L’incontro con il Cristianesimo è il momento caratterizzante dell’IRC.
E’ quindi naturale che vengano privilegiati nella ricerca documenti tratti dalla tradizione cristiana: consentono un’interpretazione religiosa e cristiana dell’esperienza che si sta analizzando.
3.
Il progetto 3.
Per una personalizzazione dell’apprendimento Lo studente e la classe esplicitano i risultati raggiunti: – rilevano gli apporti che la documentazione addotta ha offerto alla soluzione degli interrogativi che avevano sollecitato la ricerca; – prendono atto dell’eventuale parzialità della risposta e identificano possibili ulteriori percorsi di ricerca Ai colleghi IdR che hanno aderito alla sperimentazione “Cultura e Religione” 2009.
Nel laboratorio avviato a Pozza di Fassa si è riservata attenzione alle modalità tecniche di intervento sulla Rivista di Religione on line.
I contenuti degli interventi sono stati i più diversi, a seconda del materiale disponibile al momento.
Con questa comunicazione si vuole suggerire un quadro di interventi coerente sia con la impostazione di un’unità di apprendimento sia con la metodologia esistenziale ermeneutica che caratterizza la nostra scelta pedagogica.
Il Nucleo tematico scelto dai partecipanti è UN VOLTO PER DIO (v.
materiale in cartella pp.
12-23).
Nel materiale cartaceo fornito si trova una UA già svolta dal titolo “Alla ricerca di Dio” (pp.
13-22).
Vacanze Romane

Per amore si può anche rinunciare a uno scoop giornalistico.
E se il cuore batte per la principessa Audrey Hepburn – simbolo di grazia, classe e femminilità – si può ben capire quanto sia dolorosa la successiva, forzata rinuncia a questo amore, sacrificato all’altare della ragion di Stato.
Gregory Peck, nei panni del reporter statunitense Joe Bradley, incarna in Roman Holiday il dramma di un amore impossibile a causa della differenza di ceto.
Del film, diretto da William Wyler nel 1953, e vincitore di tre Oscar (Hepburn quale miglior attrice, soggetto, costumi bianco e nero), generalmente si ricordano solo le scene più leggere e spensierate, come per esempio la mano dei due protagonisti nella Bocca della Verità, il radicale taglio di capelli della principessa Anna durante il suo allegro vagabondare – anche a bordo di una Vespa – per le vie di una Roma popolare e sorridente.
Ma c’è molto di più, e di più profondo nel film, comunicato con tocco leggiadro.
Vacanze Romane fa parte di quella ristretta élite di pellicole che, riviste più volte, si apprezzano ancora meglio, perché – parafrasando Italo Calvino a proposito dei capolavori letterari – non finiscono mai di dire quello che hanno da dire.
E più si rivede Vacanze Romane più ci si accorge di dettagli e sfumature che, a una prima pur attenta visione, potrebbero sfuggire.
Girato in un periodo in cui si stavano sempre più affermando pellicole sentimentali molto “parlate”, quello tra Audrey Hepburn e Gregory Peck è un amore fatto soprattutto di sguardi, di silenzi, di frasi solo accennate, ma quanto mai eloquenti.
Una lezione di cinema sempre valida dunque, considerando la mai domata tensione, nel mondo della celluloide, alla verbosità e al didascalico, alla quale, in questo film, si sottraggono anche le figure dei coprotagonisti, delineate con sapiente misura.
Dal film di Wyler si trae poi una lezione di discrezione.
Difficile infatti immaginare un rapporto più casto tra i due protagonisti: eppure che intensità e che ardore in quegli abbracci, a indicare un sentimento che nasce e a sancire l’addio a questo amore.
La fuga dalla realtà della principessa Anna, insofferente delle pastoie del protocollo, è destinata a fallire sin dall’inizio; come pure non ha scampo il sogno del giornalista americano di strappare, dal suo mondo, una testa coronata.
Lungo il solco di questo incolmabile divario si dipana il film, che sa unire sorriso e lacrima, spensieratezza e amara riflessione sui capricci della sorte.
Ai dignitari che le fanno notare che, con la fuga, era venuta meno ai suoi doveri, la principessa risponde, con esemplare fermezza, che se fosse stato veramente così, non sarebbe più tornata – “né ora, né mai” – al ruolo che il destino le aveva riservato.
E quando alla fine del film – durante l’incontro con la stampa estera – Anna capisce, tutto in un attimo, la nobile verità sul giornalista da lei amato, la sensazione è che questo colpo di scena già pone il film nel novero dei capolavori.
E la sensazione diventa certezza quando, dopo aver visto per l’ultima volta la principessa, il giornalista, tornando sui suoi passi, soffoca il suo grande amore in un tormentato singhiozzo: il gozzo di Gregory Peck, che impercettibilmente, ma quanto mai significativamente, va, per una frazione di secondo, su e giù, è tra le scene più semplici e rivelatrici della storia del cinema.
(©L’Osservatore Romano – 31 luglio 2009)
Le più belle vacanze del cinefilo

Tempo di vacanze, finalmente.
Tempo di mare e di giornate all’aria aperta.
Ma, anziché continuare a godere egoisticamente di cotanto idillio, immaginiamo, per qualche minuto, di trovarci nei panni dell’unico personaggio che al contrario non può che risentire, alla lunga, d’una tale riconciliazione bucolica – il cinefilo incallito – e di seguirlo nel filo un po’ frustrato dei suoi pensieri.
Sono il cinefilo modello.
L’astinenza da quel minimo di tecnologia che mi consente di dedicarmi alla mia passione, mi spinge ad arrovellarmi – anche qui, sotto l’ombrellone – attorno a un crogiolo di titoli e di nomi famosi.
Finché non mi passa per la testa che, per assomigliare un pochino di più agli altri villeggianti, ed evitare quindi di destare in loro preoccupazione, potrei trasformare il mio rovello in un passatempo.
Sì, insomma, in una specie di sudoku del grande schermo.
Scopo del mio giochino sarà allora trovare dieci film che parlano di vacanze.
Non è così facile come sembra, soprattutto se decido di prendere in considerazione soltanto grandi film.
Niente “cine-ombrelloni”, insomma, come li chiamano adesso.
Eh sì, perché se non si contano nemmeno i film che parlano di viaggi – soprattutto nell’ambito del cinema americano, essendo il concetto stesso di viaggio una fondamentale matrice storica e culturale degli Stati Uniti – non è così scontato trovare film importanti che abbiano come tema centrale proprio le vacanze.
L’unica regola sarà la semplice associazione di idee.
Il primo film che mi viene in mente, quindi, non può che contenere le vacanze già nel titolo: più che Roman Holiday (“Vacanze romane”, 1953) lontano dal meritarsi di entrare nella mia top ten malgrado una Audrey Hepburn indimenticabile, direi Les vacances de M.
Hulot di Jacques Tati (1953); il grande comico francese nei panni del suo alter ego preferito trova nelle spiaggie assolate e nelle pensioncine affollate terreno fertile per aggiungere un fondamentale tassello alla sua commedia umana, riempiendo come al solito lo schermo di dettagli esilaranti e spesso quasi impercettibili, in una sfida lanciata allo sguardo dello spettatore che ricorda proprio i giochi enigmistici da fare sotto l’ombrellone.
Sempre nell’ambito del cinema francese mi sovviene lo splendido Une partie de campagne (“Una gita in campagna”, 1946) di Jean Renoir, cronaca agrodolce di una giornata all’aria aperta che la giovane protagonista, anni dopo, si ritroverà a dover rimpiangere; sulla tela di un montaggio libero di seguire gli stati d’animo dei personaggi, Renoir confeziona uno dei suoi film visivamente più belli e anarchici, probabilmente con un occhio alla sensibilità impressionista di suo padre Pierre-Auguste.
Scorrendo la lista degli altri grandi nomi del cinema d’autore, faccio fatica a trovare un omologo, finché non approdo al primo film che sarebbe dovuto venirmi in mente: Tokyo monogatari (“Viaggio a Tokyo”, 1953) di Yasujiro Ozu; il maestro giapponese affronta ancora una volta il suo tema prediletto, le dolorose distanze generazionali, con la storia di una coppia di anziani coniugi che vanno a passare qualche giorno dai loro figli in città, salvo ricevere da questi una fredda accoglienza.
L’associazione stavolta è semplice: anche se pochi lo sanno, infatti, il film di Ozu è quasi un remake di una pellicola americana ormai completamente dimenticata: Make way for tomorrow (“Cupo tramonto”, 1937) di Leo McCarey, un regista specializzato in trame che si sviluppano sul delicato crinale fra dramma e commedia, e che qui dà il meglio di sé con una storia tanto commovente quanto lungi da ogni tentazione ricattatoria: una coppia avanti con gli anni, costretta per motivi economici a lasciare la propria casa, si ritrova a passare un giorno a New York, e a rivivere i luoghi e i momenti della propria giovinezza come in un secondo viaggio di nozze.
Un giorno a New York…
è una frase che mi dice qualcosa: sì, certo, l’omonimo titolo del film d’esordio di Stanley Donen (On the Town, 1949), l’opera con cui il regista rivoluzionò il musical portandolo sulle strade, per di più in esterni reali, attraverso la cronaca d’una giornata di libera uscita di tre marinai.
Non un capolavoro assoluto, ma comunque un film che ha fatto la storia del cinema.
E siamo già a metà strada.
Ma le vacanze come momento di bilancio della propria vita, e come occasione, spesso mancata, di riallacciare rapporti familiari, in fondo è anche alla base di un film apparentemente più scanzonato – almeno fino all’epilogo – come Il sorpasso di Dino Risi (1962); raro esempio di vicenda on the road italiana all’ombra del boom economico e di un’euforia collettiva spesso superficiale.
Sempre nell’Italia di quegli anni si svolge un altro film per il resto diversissimo: L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960); l’ennesimo giallo decostruito del regista dell’incomunicabilità, in cui il mistero circa la scomparsa di una donna durante una vacanza fa da contrappunto al disorientamento esistenziale dei due protagonisti superstiti.
Anche in un bellissimo quanto misconosciuto film americano, Husbands di John Cassavetes (“Mariti”, 1970) , la vicenda si innesca con la scomparsa di un amico, sviluppandosi poi fra viaggi, ricordi, bevute e rimpianti, il tutto sorretto dalla recitazione come al solito semimprovvisata imposta dal regista-attore.
(©L’Osservatore Romano – 31 luglio 2009) La mia memoria comincia a pescare sempre più disordinatamente; sto quasi per gettare la spugna, quando comincio a riflettere sul fatto che i film che parlano di vacanze in fondo sono anche quelli in cui il protagonista rimane in città mentre gli altri vanno a divertirsi. Dopo questa illuminante constatazione, mi viene subito in mente The Seven Year Itch (“Quando la moglie è in vacanza”, 1955); forse non il miglior Billy Wilder, però.
Allora opto per un film che a pensarci bene ha quasi lo stesso soggetto, anche se declinato nei toni cupi e angosciosi del noir anni quaranta: The Woman in the Window (“La donna del ritratto, 1944) firmato da Fritz Lang durante la sua lunghissima trasferta hollywoodiana; lasciato solo da moglie e figli, un uomo viene tentato da una donna misteriosa.
Ma i suoi sogni di rispolverare la giovinezza perduta si trasformeranno presto in un incubo: ancora una volta il maestro tedesco affronta il tema della doppiezza dell’individuo, tema caro ai suoi trascorsi espressionisti.
E siamo a nove.
A un solo passo dalla vittoria, quindi, ripenso mentalmente alla mia lista di film.
Mi accorgo di aver inserito soltanto titoli che risalgono a molti anni fa.
Sì, d’accordo, probabilmente il cinema non è più quello di una volta.
Tuttavia vorrei terminare con un messaggio di speranza, inserendo anche un titolo molto più recente, magari pure italiano.
E allora, rimanendo sul tema delle vacanze vissute da chi rimane a casa, penso a un piccolo film dello scorso anno, lontano di certo dal poter reggere il confronto con quelli citati finora, ma che in quanto a sincerità e poesia non ha nulla da invidiargli: Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio (2008), esordiente alla regia dopo una lunga carriera nelle retrovie del nostro cinema, e anche protagonista assieme a uno stuolo di memorabili vecchine ansiose di compagnia.
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Testo Cultura e Religione: Regole2

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8.
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9.
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Come ricuperare la gioia della fede e della preghiera?

di fronte alla domanda più generale: come ricuperare la gioia della fede e della preghiera? Non do consigli astratti, ma porto quattro immagini.
La prima è quella di una cascata di montagna: se l’acqua non si butta coraggiosamente, imputridisce.
La seconda è quella dell’alpinista di fronte una parete ripida.
Ha bisogno almeno di tre appigli: nel nostro caso sono un uomo di consiglio, il buon umore e qualche buon libro.
La terza immagine è quella del mormorio di un vento leggero (1 Re 19,12).
Questa è la preghiera fatta a partire da qualche Salmo, meditata nel profondo del cuore.
La quarta immagine è quella di chi sale in elicottero e vede un più vasto panorama, che gli dà orientamento e chiarezza.
Ho sperimentato in me stesso che le difficoltà contro la fede crescono a misura che si rimpicciolisce il quadro di riferimento.
Carlo Maria Martini da Lettere al Cardinal Martini Corriere della Sera 26 luglio 2009
Ricominciamo dai laboratori

Luigi Berlinguer, parlamentare europeo del Pd, ex ministro dell’Istruzione, ed ex professore.
Che ne pensa dell’analisi del professor Ricolfi? «La trovo piuttosto cupa.
Anche se il suo è un testo di grande interesse».
Non le piace questa idea di una scuola che recuperi un suo rigore? «Io credo che il vero rigore sia dato da un codice condiviso».
Che invece non c’è? «A me pare che la scuola non sia più in grado di sollecitare l’interesse dei ragazzi».
E come si recupera questo rapporto? «Intanto col porre l’accento sull’apprendere invece che sull’insegnare.
Dobbiamo, cioè, puntare a che l’allievo si interessi, studi e impari in profondità, non solo teoricamente».
Si fa presto a dirlo.
La via quale sarebbe? «Iniziare dall’esperienza.
Non dalla lezione, non dalla teoria.
Ma semmai dal laboratorio, dal fare.
Utilizzando in questo quanto di positivo può venire dalle nuove tecnologie.
Mentre qui siamo rimasti alla scuola dell’Ottocento con la cattedra e i banchi, la lezione frontale, il docente e il discente.
Allora si andava sul calesse e si comunicava gridando da una collina all’altra.
Ora ci sono i jet e si comunica via Skype.
Immutati sono rimasti solo la cattedra e i banchi».
E’ sicuro che l’esperienza generi interesse? «Certamente ed è anche dimostrato dal vissuto della scuola elementare italiana, dove si svolgono molte attività creative.
Poi dopo, alle superiori, tutto questo scompare, perché ci portiamo ancora appresso l’impostazione idealista per cui si deve iniziare dalla teoria e non dall’osservazione della realtà».
Occorre rivedere la gerarchia dei saperi? «Assolutamente sì.
Ma quando si parla della scuola si parla di tutto – l’aggiornamento, l’organizzazione, la valutazione, i nuovi esami e quant’altro – ma mai di questo».
Faccia un esempio.
«Non possiamo fare finta che non esistano nuove fonti di informazione e di formazione.
Le tecnologie sono entrate nella vita dei ragazzi, introducendo anche nuovi metodi e nuovi approcci al sapere».
Più pratica, quindi, più laboratori? «La conoscenza deve cominciare dal contatto con la realtà e non con la lezione teorica.
E’ importante saper parlare prima di sapere cosa sia il dittongo.
Questo può stimolare nei ragazzi un desiderio di conoscere, che poi approderà anche ad un inquadramento teorico, beninteso, ma come punto di arrivo e non come inizio».
Siamo sicuri che funziona, professore? «Abbiamo di fronte l’esperienza della scuola finlandese, che l’Ocse considera la migliore scuola del mondo: questo tipo di metodo funziona».
Una proposta finale, prego.
«Due.
Centralità della conoscenza sperimentale.
E che si introduca la pratica della musica in tutte le scuole».
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