XXIII Domenica del tempo ordinario anno B

Effatà «A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento.
Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare.
Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37.
S.
Ambrogio chiama questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di aper-tura, il miracolo e le sue conseguenze.
1.
La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo.
E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si co-glie il senso.
Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù.
Il caso è in sé disperato (7, 31-32).
2.
Ma Gesù non compie subito il miracolo.
Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui.
Per que-sto lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche.
Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza.
Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti.
Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel co-mando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie.
Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sof-ferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana.
Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34).
E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toc-cando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito del-l’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n.
202).
3.
Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si a-prirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritro-vata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”).
Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno.
Ma più egli lo racco-mandava, più essi ne parlavano”.
La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga.
Lo stupore e la gioia si diffon-dono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”” (7, 35-37).
In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comu-nicare interpersonale, ecclesiale, sociale.
Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1.
rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2.
lasciarsi toccare e risana-re da Gesù; 3.
riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.
Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa.
E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipa-zione al mistero di Dio che è comunicazione».
(Card.
C.M.
MARTINI, Lettera pastorale: Effatà, apriti, 1990-1991).
Dal silenzio alla parola Vivere è percorrere la stessa avventura del sordomuto della Decapoli: ognuno è un uomo che non sa parlare, un uomo che non sa ascoltare.
Un nodo in gola, un nodo in cuo-re.
Penso alle mie sordità, al mio ascoltare senza partecipazione; penso alla mia lingua an-nodata, all’insignificanza dei miei messaggi e delle mie parole.
E ne comprendo la causa.
Non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall’ambito della famiglia o delle amicizie; o ascolto distrattamente, “a mezzo orecchio”, sperando solo che l’altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più acute, idee più importanti.
E la parola si fa dura e vuota.
«Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quel-lo dell’ascolto.
Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore» (Bonhoeffer), come il fariseo nel tempio: «Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io…».
In quante famiglie si parla tra sordi.
E diventano culle di silenzio e di solitudini.
Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.
Chi non sa ascoltare perderà la parola, perché parlerà senza toccare il cuore dell’altro.
Guariremo tutti dalla povertà delle parole solo quando ci sarà donato un cuore che a-scolta.
È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il se-gno intimo e vitale della saliva.
È ciò che continua a fare con me: mi tocca in ogni gioia e in ogni prova, i giorni vibrano della sua presenza, mi tocca in ogni fratello che mi viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta.
Mi tocca e mi restituisce il dono di ascoltare e di “parlare correttamente”, che non è l’e-loquenza ma una nuova capacità di comunicare, di indovinare quelle parole che toccano il nervo della vita, bruciano le ipocrisie, hanno il gusto dell’amicizia.
Gesù ripete anche a me: «Effatà, apriti! Esci dal tuo nodo di silenzi e di paure; apriti ad accogliere vite nella tua vi-ta, spalanca le tue porte a Cristo».
Se rimani chiuso in te, non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare» (Pasolini) o che versa le sue lacrime nelle tue lacrime, ma solo distanza e solitudine.
«E comandò loro di non dirlo a nessuno».
Gesù aiuta senza condizioni.
Per lui è più importante la gioia del sordomuto, che non la sua gratitudine; la felicità dell’uomo conta più della fedeltà.
Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, rapiti nel gorgo della lo-ro felicità.
Invece stanno fecondando in silenzio la storia con una nuova capacità di vere relazioni.
(Ermes Ronchi) La tua Parola La tua Parola, Signore, non l’hai scritta perché io la studiassi e la spiegassi.
La tua Paro-la, Signore, mi è giunta perché l’amassi, perché mi sforzassi di calarla nel mio intimo, per-ché anch’io potessi diventare una tua parola.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Pao-lo, 2005, 119).
«Apri la tua bocca» Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la no-stra lingua esprima la giustizia.
La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore.
Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste cose quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7).
Parliamo dunque del Signore Gesù, per-ché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la parola di Dio.
Infatti è stato scritto anche questo: «Apri la tua bocca alla parola di Dio».
Tu la apri, egli parla.
Per questo Davide ha detto: «Ascolterò che cosa dice in me il Signore» (cfr.
Sal 84,9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80,11).
Ma non tutti pos-sono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele.
A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede.
Se credi, hai lo spirito di sapienza.
Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6,7).
Per casa possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi.
Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare.
Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come se dovessi giudicarti.
Parla per strada, per non essere mai ozioso.
Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via.
In cammino parla a tè stesso, parla a Cristo.
Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato.
Senti come Cristo ti sveglia.
La tua anima dice: «Un rumore! È il mio diletto che bussa», e Cristo dice: «Aprimi sorella mia, mia amica» (Ct 5,2).
Senti come tu devi svegliare Cristo.
L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlio di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3,5).
L’amore è Cristo.
(S.
Ambrogio di Milano).
Preghiera Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, per l’amore che hai mostrato a noi in Gesù Cristo nostro Signore.
In Lui, che ci ha amati sino alla fine, noi siamo vincitori sul dolore, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la miseria, e pericoli e la morte violenta.
Nel silenzio dell’abbandono e della solitudine Tu elargisci le ricchezze della tua benedizione e sfami la fame di compagnia con l’abbondanza della Tua Parola e del Tuo Corpo.
Ti rendiamo grazie, perché Tu ascolti il silenzio dei nostri cuori, Tu agisci in noi con la tua potenza, ci guarisci dall’incomunicabilità, sciogli la nostra lingua e metti sulle nostre labbra il nome di Gesù tuo Figlio.
Fa’ che possiamo testimoniarTi come nostro unico Salvatore, sempre più uniti in una sola fede e in un solo Battesimo.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 35,4-7a Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una pa-lude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
I capitoli 34-35 costituiscono la cosiddetta «Piccola Apocalisse» del libro di Isaia.
Com-posti probabilmente dopo l’esilio, contengono una serie di oracoli di giudizio contro i ne-mici d’Israele (34), contrapposti a oracoli di salvezza (35).
Un inno di gioia (35, 1-3) introduce l’oracolo di consolazione rivolto agli «smarriti di cuore»: l’intervento del Signore è insieme vendetta, ricompensa e salvezza.
La giustizia si pre-senta con due facce, il castigo degli empi e la retribuzione dei giusti.
All’annuncio del v.
4 segue la descrizione del giorno della salvezza (vv.
5 e ss.), per mezzo delle immagini tradizionali che rappresentano i tempi messianici.
Ciechi, sordi, zoppi e muti saranno sanati: le diverse situazioni di schiavitù, i diversi impedimenti che incatenano il popolo credente cadono come per incanto.
Sono guarigioni reali e simboliche a un tempo: aprire gli occhi, schiudere gli orecchi significa anche dare la vera conoscenza spirituale e convertire i cuori all’ascolto della parola del Signore: saltare come cervi e gridare di gioia rappresenta la libertà e l’entusiasmo di confessare la fede.
La salvezza coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche la natura, il cui ritorno alla vita è rappresentato con le immagini dell’acqua che rigenera il deserto e feconda la terra.
Il paese inaridito che simboleggiava il castigo divino (34, 10ss.) torna qui a fiorire: scaturi-ranno acque, torrenti nella steppa, la terra bruciata sarà una palude e il suolo riarso si a-nimerà di sorgenti.
Seconda lettura: Giacomo 2,1-5 Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali.
Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuo-samente, ed entri anche un povero con un vestito logoro.
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sga-bello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quel-li che lo amano? La lettera di Giacomo entra nel quotidiano della vita di comunità, con chiare indicazioni di comportamento.
Le conseguenze pratiche della fede sono estremamente chiare fin dall’inizio della lette-ra.
Il secondo capitolo si apre con un’affermazione categorica: esiste una contraddizione insanabile tra la fede nel Signore Gesù e gli interessi personali, egoistici e transitori.
I tre versetti successivi (2-4) chiariscono l’affermazione con un esempio.
La descrizione dell’uomo ricco e del povero accolti nell’assemblea con evidente disparità di trattamento è vivace e realistica, tanto da far pensare che già nella comunità delle origini esistessero que-sti problemi.
L’interrogativo finale lascia alla coscienza della persona la decisione: ma l’ac-cusa è forte e fa riflettere.
Si tratta infatti non semplicemente di discriminare (diakrinô), ma addirittura di giudizi perversi (kritaì dialigismôn ponêrôn).
Non è quindi solo una fede debo-le e incerta, ma una vera e propria ingiustizia nei confronti dei fratelli, qualcosa che ferisce profondamente la comunità.
Potremmo dire, con linguaggio moderno, che i favoritismi dettati dall’attenzione al denaro e ai privilegi sociali non sono semplicemente un «peccato veniale».
Segue infatti un ragionamento stringato che ribadisce il pensiero dell’Apostolo.
Il v.
5, che introduce l’argomentazione, è una domanda retorica che, nella linea del pensiero dei profeti d’Israele e dello stesso Paolo, ricorda la scelta preferenziale di Dio a favore dei po-veri.
I poveri agli occhi del mondo sono ricchi nella fede ed eredi del regno: i criteri umani sono quindi completamente capovolti dalla logica di Dio, e se preferenza deve esserci nella co-munità cristiana, questa deve andare proprio a coloro che dal mondo sono emarginati e respinti.
Vangelo: Marco 7,31-37 In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, pas-sando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.
Lo prese in disparte, lonta-no dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la sa-liva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo del-la sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno.
Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Esegesi La guarigione del sordomuto, narrata solo in Marco, è localizzata in territorio pagano (la Decapoli), dove tuttavia sembra essere già giunta la fama di Gesù taumaturgo.
Il primo versetto (31) offre una precisa indicazione geografica, anche se non appare chiaro l’itinerario seguito da Gesù per giungere da Tiro e Sidone (sulla costa fenicia) fino alla Decapoli, a est del lago di Tiberiade.
Il v.
32 presenta la situazione, senza indugiare sui preamboli: la gente del posto chiede a Gesù di imporre le mani sul malato, credendo forse che la sua potenza passi come un flui-do magnetico.
Non è ancora fede, ma ingenua fiducia, forse mista a superstizione, nei con-fronti di un uomo che opera prodigi.
I tre versetti centrali (33-35) descrivono il miracolo, con alcune notazioni importanti che introducono il tema del «segreto messianico».
Gesù prende in disparte l’uomo, lontano dalla folla, come a voler dissipare ogni fraintendimento propagandistico in quello che sta per fa-re; eppure indulge alla semplicità della gente e compie anche dei gesti concreti (le dita nel-le orecchie, la saliva) che potrebbero farlo assomigliare ai maghi e taumaturghi del tempo.
Il prodigio tuttavia non si compie direttamente in conseguenza dei gesti, ma appare piut-tosto effetto dell’invocazione di Gesù e della sua parola, non a caso nel versetto centrale (34): egli alza gli occhi al cielo, rivolto palesemente a Dio, e dice in aramaico «Apriti!».
Il collegamento parola-evento è chiaramente sottolineato dall’avverbio «e subito».
Il prodigio è espresso con verbi che adombrano anche un significato di conversione interio-re: gli orecchi «si aprono», il cuore e la mente dell’uomo sono quindi aperti ad accogliere la Parola del Signore; la lingua «si scioglie», l’uomo è quindi liberato dai legami del male che lo tenevano prigioniero.
Viene poi la raccomandazione del segreto, caratteristica di Marco (v.
36): l’ora non è an-cora giunta, e tuttavia la notizia del prodigio viene diffusa nonostante il divieto di Gesù.
La reazione (v.
37) è di stupore, il miracolo risveglia qualcosa di più della superstizione che lo aveva preceduto.
Queste persone credevano possibili guarigioni prodigiose, ma l’a-zione di Gesù li sorprende: ancora adesso non è fede, ma un passo ulteriore si è compiuto, ci si interroga su chi sia quest’uomo che fa udire i sordi e fa parlare i muti.
Meditazione Il passo evangelico di questa domenica inizia con una breve introduzione di carattere geografico.
Sono nominate le città di Tiro e Sidone, il territorio della Decàpoli: l’evangelista Marco ha cura di farci sapere che Gesù, dopo l’episodio della donna siro-fenicia (cfr.
7,24-30), rimane nella regione pagana del paese e quindi anche il personaggio che tra poco in-contrerà è un pagano.
«Gli portarono un sordomuto…» (v.
32).
Sulla scena compaiono all’improvviso alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nel-la sua dimensione comunicativa (è infatti «sordo» e «muto», cioè incapace di ascoltare e di parlare) per chiederne la guarigione.
È da notare che il termine impiegato da Marco per connotare il mutismo di quest’uomo (in greco: mogilálon, «che parla a fatica, con difficol-tà») si trova solo qui in tutto il NT e ricorre un’altra volta soltanto nell’AT, precisamente nel testo di Is 35,6 (vedi il brano proposto come prima lettura).
Con ciò l’evangelista vuole invitare i suoi lettori a comprendere questo episodio come il compimento di una profezia, come uno dei segni messianici che Gesù realizza.
Subito, senza perdere tempo e senza troppi discorsi, Gesù mette in atto la sua ‘terapia’ (vv.
33-34).
E per prima cosa «prende con sé» il sordomuto (il verbo evidenzia un tratto di delicata accoglienza da non trascurare, soprattutto nel difficile rapporto che a volte si in-staura tra malato e guaritore) e lo porta «in disparte».
Per un incontro vero e personale con Gesù è necessario separarsi dalla folla, allontanarsi dagli umori sempre ambigui e volubili di essa.
Poi Gesù compie due gesti molto concreti (all’apparenza quasi rozzi e poco elegan-ti) che esprimono la volontà di stabilire un contatto con il malato – anche fisico, corporeo -, di stabilire una comunicazione che prende avvio proprio dagli organi malati: gli orecchi e la lingua.
È un «toccare» che mira a riaprire i canali chiusi della comunicazione alla loro sorgente, là dove ogni suono e ogni voce entra nel corpo (gli orecchi) e là dove ogni parola prende forma per uscire verso l’esterno (la lingua).
Gesù quindi prosegue levando gli occhi al cielo, in un gesto di preghiera, ed emettendo un sospiro, un «gemito», quasi a esprimere un appello, un’invocazione muta e silenziosa a quel Dio che può donargli la forza di vince-re ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo.
Un sospiro che dice la sua pena e, insieme, la sua partecipazione a una tale condizione umana.
Da ultimo pronuncia un comando, for-te e imperioso, che è la parola centrale e decisiva di tutto il racconto: «Effatà».
È una parola in aramaico, come altre parole cruciali e decisive riportate da Marco nel suo vangelo.
È cu-rioso che qui Gesù parli al singolare: «Apriti!»: è anzitutto l’uomo come tale, nella sua tota-lità, che deve aprirsi, che deve lasciare che questa parola rompa, infranga, vinca la sua chiusura.
Prima che essere rivolta alle sue orecchie, questa parola di Gesù è rivolta al suo cuore, al centro interiore dell’intera sua persona.
Ed ecco il risultato immediato di tutta questa opera di guarigione: «E subito gli si apri-rono gli orecchi…» (v.
35).
C’è un’«apertura», c’è uno «scioglimento», c’è un parlare ritrova-to e «corretto», che manifestano l’efficacia della ‘cura’ di Gesù e diventano altresì contagio-si, tanto che i presenti non riescono a ubbidire al comando di Gesù, che ingiungeva loro il silenzio, ma «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano…» (v.
36).
Con una bella im-magine, il card.
C.M.
Martini nella sua lettera pastorale «Effatà, Apriti» così commenta: «La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga.
Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Gali-lea…».
L’esclamazione conclusiva (v.
37), pronunciata al colmo dello stupore, rievoca la fi-nale del racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31).
Siamo dunque in presenza di un evento che dischiude di nuovo la real-tà originaria, un evento in grado di ricreare quell’umanità così come Dio l’aveva voluta a-gli inizi della creazione.
S.
Ambrogio, nella sua spiegazione al rito dell’ Effatà che si celebrava durante la liturgia battesimale (reinserito ora nella celebrazione del Battesimo degli adulti), chiama questo episodio evangelico: «il mistero dell’apertura».
In un contesto di iniziazione è fondamenta-le che qualcosa venga ‘aperto’ ed è nondimeno fondamentale la consapevolezza del biso-gno di ‘lasciarsi aprire’.
Tutto il vangelo di Marco è attraversato da questa ‘apertura’ (dai cieli che si aprono al battesimo di Gesù fino al velo del tempio che si squarcia «da cima a fondo» al momento della sua morte) e forse non è un caso che questo racconto di guari-gione sia stato collocato a questo punto della narrazione evangelica: la sua valenza simbo-lica in ordine al cammino di sequela dei discepoli può essere illuminante.
Ricordiamo che siamo nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc 6,30-8,21) in cui è più volte sot-tolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente, la loro durezza di cuore: di fron-te a sempre nuove e più grandi rivelazioni di Gesù corrisponde da parte loro un’incom-prensione sempre maggiore.
I discepoli appaiono come ciechi e sordi, incapaci di vedere e udire la novità del vangelo.
Ecco allora che la fatica impiegata da Gesù per guarire quel sordomuto (la molteplicità dei dettagli è indicativa di tutta la laboriosità e lo sforzo com-piuto per risolvere il caso) diventa segno della fatica usata a guarire i discepoli dalla loro cecità e sordità spirituale (riguardo alla cecità, l’episodio del cieco di Betsàida, in 8,22-26, svolge una funzione analoga).
Ma, nello stesso tempo, l’’apertura’ del sordomuto diventa anche segno della possibilità offerta a tutti (discepoli compresi!) di ottenere la guarigione, di ritrovare una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù.
Ed è pro-prio questo il vero miracolo a cui tende tutto il vangelo…
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Cultura e Religione: Unità 1

Schema  Per introdurci 1.
Esperienza di riferimento
                                 Elaborazione                  L’esperienza di Anna  – Integrazioni Autori   Esperienza Marco Esperienza Chiara – integrazioni dei collaboratori OF:  lo studente impara a leggere nella natura i segni che parlano della presenza di Dio           e partecipa alle suggestioni che l’ambiente gli offre.
2.
Intepretazione
            Il mistero della vita: Tagore              Il cielo stellato: Eliade – Integrazioni Autori  – integrazioni dei collaboratori      3.
suggestioni per un progetto  il confronto                  Dalla creatura al creatore  – Integrazioni Autori   salmo 83      – integrazioni dei collaboratori 4.
Inserisci un tuo commento     Nel riquadro in fondo:      Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Per consultare l’intera unità:            UdA 1.

Unità 1 Sperimentatori

In queste schede verranno inseriti i contributi degli sperimentatori.
Per l’inserimento fare i seguenti passaggi: 1.
Aprire una nuova scheda cliccando nuova 2.
Sostituire il nome nuova scheda con  il titolo del contributo 3.
Copiare il testo dal proprio computer e Incollarlo sulla scheda     (per incollarlo cliccare sul tasto destro del mouse e scegliere la voce Paste from Word ) 4.
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Il mito della ferrovia

Ma c’è di più.
L’intera cultura americana, come ha mostrato Leo Marx, è attraversata dallo sforzo di riassorbire la potente esplosione del progresso nell’immagine pastorale di una natura incontaminata, per arrivare “all’unione violenta di arte progredita e natura selvaggia”, di macchina e natura.
“La locomotiva, associata al fuoco, al fumo, alla velocità, all’acciaio e al rumore” diventa così “il simbolo principale della nuova forza industriale”.
Il simbolo di una rivoluzione che non solo plasma il paesaggio, ma schiude agli americani il regno della possibilità illimitata, incarnata nella promessa di movimento offerta dal treno.
Ritroviamo così una costante della civiltà a stelle e strisce: investire del senso del sacro e della trascendenza, realtà – come l’intero arco dei mezzi tecnologici – decisamente terrene.
Il movimento per l’americano è sempre liberatorio, e la “liberazione” che esso fa balenare è sempre spirituale oltre che fisica.
Ma se il treno irrompe come occasione di liberazione, tale possibilità resta preclusa a una parte della popolazione: gli afro-americani.
L’accesso alla libertà simboleggiata dai binari è una chimera per i neri anche dopo la fine della schiavitù e, al tempo stesso, il desiderio di esplorare le nuove libertà è più potente in persone che solo da poco ne avevano riconquistato il diritto a goderne.
John Michael Giggie intravede in questo spazio simbolico la più importante differenza tra i bianchi e i neri nell’accostarsi al treno.
“Anche se i bianchi e neri raccontano le stesse storie sulle ferrovie, gli afro-americani riempiono le loro parole, le loro immagini, le loro memorie con significati tratti dall’esperienza storica della segregazione.
Quando i neri cantano o rappresentano l’esperienza della salvezza – raggiungere il paradiso su un treno – essi concepiscono quest’ultimo come un veicolo di trasformazione spirituale e razziale che li trasporta in un tempo e in uno spazio nel quale la salvezza decreta anche la fine del razzismo”.
Una delle più antiche metafore del treno in chiave religiosa appare nel brano I’m going home to die no more: in esso i binari congiungono “la terra alla vita eterna”, la stazione alla quale vengono fatti salire i passeggeri è “il pentimento”.
Nell’inno Life’s railway to heaven la vita è assimilata “a una ferrovia che corre tra le montagne”.
A guidare il Gospel train, altro celebre spiritual, “è Gesù in persona”: “Il treno gospel sta arrivando / lo sento è proprio qui / sento le ruote che sferragliano/ tutti a bordo / tutti a bordo / tutti a bordo figlioli / c’è ancora posto”.
Nel brano compare un topos che verrà continuamente ripreso: l’idea che la salvezza non conosce distinzioni di censo o di razza, “non c’è seconda classe” sul gospel train.
In This train, brano che sarà riadattato anche da Woody Guthrie, uno dei padri della canzone folk americana, il treno è “diretto verso la gloria”: “Questo treno non trasporta speculatori, questo treno / neppure imbroglioni o ladri o pezzi grossi a zonzo // questo treno non trasporta bugiardi questo treno”.
Anche nel blues ricorre il motivo del treno come figura di un transito di natura religiosa.
In All I want is that pure religions, Blind Lemon Jefferson grazie “al treno che arriva dalla curva”, è pronto “a lasciare questo mondo pieno di sofferenze”.
E in When the train comes along, interpretato da Henry “Rag time Texas” Thomas, l’incontro con Gesù “si compie alla stazione”.
Il fischio del treno riecheggia anche nel rock e nella canzone d’autore.
Sul treno di Down there by the train, cantato da Tom Waits, non sale solo chi non si è mai macchiato.
Il treno conduce alla redenzione dei peccatori.
Il treno ammette tutti: “Non ho mai chiesto il perdono / mai pronunciato una preghiera / mai donato me stesso / non mi sono mai veramente preoccupato delle persone che mi amavano e che ho lasciato / sono sempre un Caino / ho preso quella lenta strada / e se farai lo stesso / mi incontrerai lì con il treno”.
Anche in Land of hope and dreams di Bruce Springsteen, il treno non è riservato ai pochi, non è esclusiva degli eletti.
Il treno che corre verso “la terra della speranza e dei sogni” trasporta “santi e peccatori”, “vinti e vincitori”, “prostitute e giocatori d’azzardo”, “anime perse” e “cuori spazzati”, “ladri e anime trapassate”, “pazzi e regnanti”.
E che si tratti di una realtà “altra”, di una prefigurazione del Regno, lo confermano le parole del protagonista che – alla donna che lo accompagna – assicura: “Questo giorno sarà l’ultimo”.
Nel ritornello del brano, assieme all’incedere del treno, trova spazio la certezza che “la fede sarà ricompensata”.
E in People get ready di Curtis Mayfield, una delle personalità più complesse del rhythm and blues, il treno che “prende su passeggeri da costa a costa”, “corre verso il Giordano”: “non serve biglietto / solo ringraziare il Signore”.
Chi ha continuamente cantato di treni è Bob Dylan.
Come ha scritto Bryan Cheyette, “il mondo – eternamente in movimento ed eternamente uguale a se stesso – dei treni, è una potente metafora delle tante trasformazioni e dei tanti io che affollano l’artista Dylan”.
Se sono molteplici i significati di cui si carica il simbolo del treno nella musica di Dylan, è in Slow train coming che esso diventa figura del Giudizio e del suo inesorabile avvicinarsi.
(©L’Osservatore Romano – 2 settembre 2009) Il treno è tra i simboli più potenti con i quali la canzone americana – questo ricchissimo intreccio di reminiscenze africane e innodia europea, di ballata popolare di origine anglo-scozzese e tradizione afro-americana – ha narrato l’irruzione della salvezza.
Un simbolo le cui prime codificazioni risalgono alla stagione degli spiritual, i canti degli schiavi neri e che, grazie a continue riprese e rielaborazioni, attraversa l’intera storia della canzone statunitense.
Ma perché il treno occupa tanto spazio nell’immaginario americano, e non solo religioso? Cosa il suo “sferragliare”, il suo “spuntare dalla curva”, continuamente rievocato in mille canzoni, fa vibrare nell’animo americano? Come ha scritto Joel Dinerstein, “il treno contribuì a unificare il Paese geograficamente, tecnologicamente, musicalmente, psicologicamente.
Per gli americani il suono dei treni era la musica del progresso stesso: insieme vettore del cambiamento tecnologico e promessa di mobilità”.
Niente si accordava meglio della velocità del treno all’uomo americano, “senza radici, perennemente in movimento, affamato di velocità e accelerazione”.
Se, come ha notato Cecilia Tichi, è proprio degli americani essere “catturati proprio nel mezzo, sospesi in viaggi a cui non possiamo porre una fine, costretti a correre da e verso posti che ci sfuggono continuamente”, se l’americano vive in uno stato di continua sospensione tra la casa e la strada, se il viaggio costituisce l’ordito di una nazione che non ha mai smesso di “percepire se stessa in modo mitico” (Francesco Dragosei), allora si può comprendere l’attenzione quasi ossessiva accordata al treno dalla musica statunitense.

Testimoni del nostro tempo: Pavel Florenskij

Pavel Florenskij fu per molti versi un personaggio eccezionale: grandissimo matematico, fisico, inventore, filosofo, linguista, teologo, studioso dell’iconografia, poeta; non c’è quasi disciplina che non abbia almeno in parte affrontato, e in quelle a cui si dedicò più a lungo lasciò comunque un segno.
Di lui Sergij Bulgakov, un altro genio enciclopedico – prima di essere filosofo e teologo fu economista – ebbe a scrivere: “Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita è il più grande.
E tanto più grande il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia”.
Una figura eccezionale, con un destino non meno eccezionale nella sua tragicità; quando padre Bulgakov scriveva il commosso ricordo da cui abbiamo tratto le righe appena citate, le notizie sulla morte di Florenskij erano ancora avvolte nel mare di oscurità, imprecisioni e menzogne di cui il regime sovietico si compiaceva di circondare la fine delle proprie vittime, per cancellarne dopo l’esistenza fisica anche la memoria.
Accanto alle inesattezze sulla data della morte – nel 1974, la prima edizione italiana de La colonna e il fondamento della verità (Milano, Rusconi) portava ancora la data ufficiale del 15 dicembre 1943 – fiorì così ogni sorta di leggenda e di mito anche pittoresco: si raccontava per esempio che fosse morto perché, assorto nelle sue meditazioni, non si sarebbe reso conto di essere entrato in una zona proibita ai detenuti e una guardia gli avrebbe immediatamente sparato; altre versioni, al contrario, lo facevano vivere molto più a lungo e lavorare in un laboratorio segreto alla costruzione della bomba atomica sovietica.
Oggi di questa fine, molto meno teatrale, sappiamo invece quasi tutto: la condanna alla fucilazione venne pronunciata il 25 novembre 1937, mentre era già detenuto alle Solovki, ed eseguita l’8 dicembre, non alle Solovki, ma sul continente, nei pressi di Leningrado, dove padre Pavel era stato inviato tra il 2 e il 3 dicembre con un gruppo di altri 509 condannati; lui, uno dei tanti anonimi “casi” da liquidare alla svelta, portava il numero 368.
Non sappiamo ancora con assoluta certezza il luogo della sepoltura, e probabilmente non lo sapremo mai, ma in compenso conosciamo alcuni particolari che, fuori da ogni mito o leggenda pia, rendono la fine di padre Pavel ancor più eccezionale: caso, se non unico, rarissimo, Florenskij andò al martirio dopo aver ripetutamente rifiutato durante la detenzione la possibilità di essere liberato e inviato all’estero con la famiglia.
Una prima serie di rifiuti a proposte simili risalirebbe al periodo del primo arresto, avvenuto il 21 maggio 1928 e culminato in una condanna a tre anni di confino, relativamente mite per quel periodo e oltre tutto annullata dopo poche settimane; il principio che avrebbe ispirato questi rifiuti era quello che padre Pavel condivideva con i suoi figli spirituali e con chiunque gli chiedesse consiglio in quegli anni tremendi: “Quelli tra voi che si sentono abbastanza forti da resistere devono restare, e quelli invece che hanno timore e non si sentono saldi e sicuri possono andare”.
Un principio di grande realismo e sobrietà, ma può sempre sorgere il dubbio che sia facile dare simili consigli parlando del destino altrui e vivendo ancora in una condizione di relativa libertà.
Tutto diventa evidentemente ben più spinoso e sofferto dopo il secondo arresto, avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 1933.
L’accusa è quella di aver fondato un partito per la rinascita della Russia, che gli organi inquirenti definiscono sinistramente “un’organizzazione controrivoluzionaria nazionalfascista”.
Si tratta di una colossale montatura, ma la condanna arriva ugualmente, il 26 luglio del 1933, e questa volta è a dieci anni di campo di concentramento, una misura che non lascia molto spazio a facili eroismi.
Eppure nell’estate del 1934, tra la fine di luglio e i primi di agosto, Florenskij rifiuta nuovamente l’offerta di uscire dall’Unione Sovietica con la propria famiglia; è la stessa moglie che gli presenta questa proposta, durante una visita che gli può fare nel campo dove è detenuto.
Approfittando dell’incontro gli presenta il caso di due sue figlie spirituali, Ksenija Rodzjanko e Tat’jana Saufus, che erano già state arrestate tre volte e nel 1930-1933 erano state mandate al confino in Siberia: le due donne chiedono se restare in patria o cercare salvezza espatriando e padre Pavel benedice la loro partenza; andranno in Cecoslovacchia.
Contemporaneamente la moglie lo informa che il Governo cecoslovacco si è detto disposto a offrire asilo a lui e alla sua famiglia, ma ha bisogno della sua disponibilità per iniziare contatti ufficiali con il Governo sovietico; come abbiamo già anticipato Florenskij risponde con un netto rifiuto.
La cosa non finisce però qui; la Saufus, dopo essere arrivata in Cecoslovacchia ed essere entrata nella segreteria dell’ex presidente Masaryk, nell’autunno del 1936 fa in modo che la questione venga riproposta ancora una volta attraverso la ex moglie di Gor’kij, Ekaterina Peskova, un personaggio insospettabile per il suo passato rivoluzionario, e che inoltre sapeva farsi ascoltare dal regime e già altre volte era intervenuta a favore di Florenskij e di altri intellettuali caduti in disgrazia.
A questo punto, fuori da qualsiasi abbellimento agiografico, e a conferma di questa storia quasi incredibile, abbiamo la testimonianza della stessa Peskova, conservata negli archivi di Gor’kij presso l’Istituto di Letteratura mondiale dell’Accademia delle scienze russa; in un suo appunto indirizzato al Commissariato del popolo degli Affari interni (Nkvd) leggiamo: “C’è stata la richiesta di Masaryk, trasmessami dal console ceco Slavek, nella quale si proponeva per Florenskij, come eminente scienziato, la commutazione del lager con l’esilio in Cecoslovacchia, dove gli si offriva la possibilità di un lavoro scientifico.
In seguito ai contatti avuti con la moglie di Florenskij, che mi ha comunicato che il marito non intende andare all’estero, mi sono limitata a chiedere la liberazione di Florenskij “qui””.
Questa rinuncia alla libertà è un fatto già di per sé straordinario, ma per rendersi conto sino in fondo della sua eccezionalità dobbiamo tornare ancora brevemente alle condizioni in cui avviene: quando Florenskij oppone questo ennesimo rifiuto alla proposta di espatriare non è in libertà o al confino o in un lager “sopportabile”; nel 1936 è già alle Solovki, le “isole dell’inferno”, e su quello che sta vivendo ormai non si fa più alcuna illusione, come risulta dalle lettere alla famiglia – la cui edizione italiana, col titolo Non dimenticatemi, è stata curata da Natalino Valentini e Lubomír Zák (Milano, Mondadori, 2006, pagine 420, euro 10,40).
La tragedia è percepita in tutta la sua atrocità, nella sua realtà completamente disumanizzante e nella desolazione che tutto questo comporta.
È sì vero che nonostante tutto e persino in queste condizioni padre Pavel riesce a conservare una integrità spirituale che gli consente di essere ancora un punto di riferimento e un esempio per i suoi compagni di detenzione: lavora in modo encomiabile, aiuta chiunque abbia bisogno di lui, è sempre disposto a qualsiasi sacrificio pur di soccorrere i suoi compagni di sventura.
Ma questo comportamento esemplare non toglie minimamente il dolore e la sofferenza, anzi rende l’insensatezza di questo destino ancora più bruciante.
Ci sono delle lettere dalle Solovki nelle quali questa percezione si fa quasi disperata: riesce ancora a dare dei contributi scientifici, ma lo fa in condizioni così assurde che deve concludere: “Quanto al lavoro scientifico, per svolgerlo non c’è proprio niente, almeno di ciò che serve a me”; a ben vedere, poi, non è tanto il lavoro scientifico a essere difficile, ma qualsiasi attività intellettuale in quanto tale: “Non ho tempo, né luogo, non solo per fare qualcosa, ma neanche per pensare”, dice in una lettera e poi aggiunge “anche la lettura è diventata per me una cosa estranea, una occupazione del tutto passiva”.
L’esito è una quasi totale estraniazione dalla realtà e dalla vita: “È così che mi sento, soprattutto in questi ultimi giorni: tagliato fuori da tutto ciò che è vivo”.
Florenskij sembra aver toccato l’estremo nulla, il nichilismo nel suo senso estremo, dove le cose non valgono e non dicono più nulla, soprattutto dove le cose non dicono più la loro bellezza e non rimandano più al loro creatore.
Di fronte allo spettacolo delle isole e del loro monastero (una delle meraviglie del panorama storico e naturale russo), non scatta in Florenskij alcuna commozione; per quanto quello che vede possa essere bello, “In queste condizioni non fa piacere (…) So che questo è molto bello, ma l’anima è quasi sorda a questa bellezza”, anzi riesce a cogliere esattamente il suo contrario: “Il monastero-fortezza ha un aspetto fatiscente, estremamente sgradevole, malgrado il suo interesse storico e archeologico.
Io non ho neanche voglia di guardarlo”.
Sono osservazioni tanto più sorprendenti quanto più ci si ricorda che vengono da un uomo che proprio nella natura e nella sua bellezza misteriosa aveva trovato una traccia del mistero di Dio; sin da bambino, la natura era stata per lui innanzitutto il luogo del mistero e dell’eternità: “Sulla riva del mare mi sentivo faccia a faccia con l’Eternità amata, solitaria, misteriosa e infinita dalla quale tutto scorre e alla quale tutto ritorna.
L’Eternità mi chiamava e io ero con lei”.
Qui invece la natura sembra non dire più nulla e l’uomo sembra gridare di nuovo come Cristo sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
L’eccezionalità del rifiuto a espatriare si capisce proprio alla luce di questa situazione esterna: là dove sembra che sia rimasto soltanto il non senso, là dove si è preda soltanto dell’apparente abbandono di Dio e tutto sembrerebbe dover spingere alla fuga, questo stesso Dio si fa misteriosamente presente proprio nella forza che consente a Florenskij non solo di non cercare la fuga, ma di rifiutare la liberazione che gli viene offerta; quali che siano le tragedie vissute e sperimentate sulla propria pelle, per quanto possa essere reale e potente la sensazione della tempesta che sta per travolgerlo e per cancellare non solo la sua esistenza e i frutti del suo lavoro ma la sua stessa memoria, altrettanto reale è un’altra esperienza: c’è qualcosa, un luogo, qualcuno in cui nulla va perduto.
In un passo straziante di una lettera al figlio Kirill, Florenskij scrive: “La mia unica speranza è che tutto ciò che si fa rimane.
Spero che un giorno, in qualche modo pur a me sconosciuto, sarete ricompensati di tutto ciò che ho tolto a voi, miei cari.
La cosa più orribile della mia sorte è la cessazione del lavoro e la sostanziale distruzione dell’esperienza di tutta la mia vita.
Ebbene, se non fosse per voi non mi lamenterei di aver subito questa sorte.
Se la società non ha bisogno dei frutti del lavoro della mia vita, rimanga pure senza di essi: bisogna ancora vedere chi subisca il maggior danno, se io o la società, per il fatto che non darò ciò che potrei dare.
Ma mi dispiace di non poter far voi partecipi della mia esperienza e soprattutto di non potervi accarezzare”.
Tutto sembra perduto ma non è mai così: Florenskij vive sino in fondo tutto quello che gli è dato di vivere, sapendo che “non sono gli affanni del presente a oscurare l’eternità, ma che l’eternità ci guarda dalle profondità degli affanni del presente”; non è l’uomo a dover abbattere ostacoli insormontabili e a dover vincere tenebre paurose per potersi avvicinare alla luce e scorgerne qualche raggio, è questa stessa luce che gli viene incontro e lo avvolge, rendendolo a sua volta luminoso e fonte di luce per tutti proprio nel cuore del buio più profondo.
Nella tradizione cristiana il testimone dell’eterno e della luce è quello che si chiama il santo o il martire, quello per il quale fede e vita sono ormai diventati una cosa sola, come Florenskij aveva detto molti anni prima della propria fine: “Il santo è testimone, è testimonianza non a causa delle parole che dice, ma perché egli è santo, perché vive nei due mondi, perché vediamo in lui con i nostri occhi i flussi puri della vita eterna, indipendentemente dal fatto che essi scorrono in mezzo alle nostre torbide e terrestri acque che rovinano la vita.
In mezzo alle acque morte – ma anche vive – della storia, nonostante la presenza delle potenze negative del mondo.
Ed è per questo che il santo testimonia con il suo stesso essere l’esistenza della Sorgente di forza contraria: la Vita”.
Nelle lettere non poteva dirlo, ma Kirill e tutti gli altri suoi figli sapevano benissimo da dove venisse e in cosa consistesse questa vita; glielo aveva scritto nel proprio testamento spirituale: “Vi prego, miei cari, quando mi seppellirete, di fare la comunione in quello stesso giorno, o se questo proprio non dovesse essere possibile, nei giorni immediatamente successivi.
E in genere vi prego di comunicarvi spesso dopo la mia morte.
La cosa più importante che vi chiedo è di ricordarvi del Signore e di vivere al suo cospetto.
Con ciò è detto tutto ciò che voglio dirvi, il resto non sono che dettagli o cose secondarie, ma questo non dimenticatelo mai”.
Del resto era proprio questo che aveva detto per motivare il suo rifiuto di espatriare: “Tutto posso in colui che mi dà la vita”, “Tutto posso in colui che mi dà la forza”.
Anche in questo caso Florenskij realizzava una cosa che aveva scritto molti anni prima, addirittura nel 1906: “La vita non ci aspetta, la vita reclama le sue esigenze, e ora non si potrà più restare semi-credenti o semi-ortodossi come la maggior parte di noi, ma è necessario raccogliere tutte le forze dell’anima in vista di un unico fine: per servire la Chiesa, per difendere la Chiesa e chi lo sa, forse per il martirio”.
Là dove l’umano abbandonato a se stesso sembrava non poter vedere più nulla, la luce della fede aveva illuminato la ragione e, radicandola nella Chiesa e nel suo servizio, le aveva fatto cogliere la verità ultima delle cose: che l’uomo, in Cristo, diventa capace di resistere anche alle potenze apparentemente più invincibili, si compie come altrimenti gli sarebbe impossibile anche solo immaginare.
Era in fondo l’esperienza vissuta dallo stesso Florenskij, scienziato e filosofo, per il quale l’incontro con la fede non aveva escluso la ragione e neppure esentato dal suo uso, come se l’uomo, una volta incontrata la fede, potesse fare a meno della ragione, ma anzi l’aveva potenziata; la fede, con il mistero al quale continuamente rimandava, non solo non aveva impedito alla ragione di procedere, ma l’aveva spinta anzi a un ricerca continua, secondo quello che per Florenskij era il dinamismo stesso della ricerca scientifica: “Tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero”.
Nella prima lettera di Florenskij a uno dei suoi due grandi padri spirituali, il vescovo Antonij Florensov (1847-1918), quello che è ancora un giovane matematico alla ricerca della sua definitiva vocazione mostra già di aver intuito quale sia il centro della vita: Cristo, un Cristo che è irriducibile a dogmi e a valori astratti, ma che non può neppure essere ridotto alle azioni compiute per Lui, neppure alle buone azioni e alla bontà; tutto ciò infatti non basta ancora, come Florenskij aveva imparato dalla storia della sua famiglia, un’ottima famiglia, con un padre una madre di grande generosità, ma che proprio per generosità, per un rispetto umano mal inteso, per evitare imposizioni, avevano tenuto lontano il proprio figlio dalla religione e così lo avevano privato, come avrebbe detto lui stesso “del sostegno più forte, della più fidata delle consolazioni”.
Presentiamo alcuni brani della lettera dell’11 luglio 1904: “Ci sono degli istanti e dei periodi (anche di qualche giorno) in cui cesso di sentire Cristo, la Sua gioia e la Sua leggerezza.
È difficile spiegarlo a chi non l’abbia provato: non è che vengano fuori dei dubbi, i dubbi hanno i loro rimedi, ma ti senti sordamente insensibile, indifferente, né freddo, né caldo, tiepido verso ciò che è fondamentale; e la preghiera poi diventa formale, solo parole; e vedi chiaramente tutto l’orrore di una situazione in cui guardi a Cristo come a qualcosa di passato, che se n’è andato (…) Ho cercato a lungo di capire da dove nascesse questa situazione e alla fine credo di aver capito.
Quando agisci in nome di Cristo senti la Sua presenza, ma appena smetti di lavorare in questo modo, chissà perché, per motivi indipendenti dalla tua volontà, è come se Cristo se ne fosse andato chissà dove (…) I miei genitori sono persone con una buona formazione secolare, ma assai scarsa da un punto di vista filosofico-religioso e comunque non si considerano credenti.
Sono caratterizzati da una grande bontà e da una costante disponibilità ad aiutare gli altri; so da altri (da altri perché di questo loro non parlano) che mio padre ha aiutato e aiuta molto il prossimo, spesso rinunciando anche alle più normali comodità.
Ma l’oggetto principale dei loro pensieri e dei loro sentimenti è la famiglia.
Tutto è per lei, per noi, per i figli.
(…) I genitori non hanno e non hanno mai avuto del tempo per loro, dei divertimenti e degli svaghi (teatro o cose simili) per loro soli, delle comodità.
Decisamente tutte le forze dei genitori sono sempre state spese per noi, e tutti i loro pensieri sono sempre stati rivolti a come far sì che noi potessimo avere la migliore istruzione, la migliore educazione, i migliori divertimenti, e via dicendo (…) Non conoscerei una famiglia più perfetta della nostra (per quel che riguarda i genitori) se non fosse per un particolare: la vita religiosa ne era assolutamente esclusa.
I miei genitori, essendo non credenti, o per lo meno non cristiani nel senso pieno della parola, erano però assolutamente tolleranti nei confronti di qualsiasi convinzione religiosa, a patto che restasse pura teoria.
Questo li indusse a non infonderci le loro convinzioni, ma non permise neppure loro di esercitare su di noi una qualsiasi influenza religiosa.
Ed ecco, dopo che tutta la vita era stata interamente spesa per fare della famiglia qualcosa di unico, perché questo era il sogno dei genitori, dopo che fummo cresciuti, i genitori videro, con il più totale sconforto, che la famiglia si disfava, oltretutto (…) per dei motivi assolutamente incomprensibili.
Si dice che questo sia uno dei frutti dell’individualismo contemporaneo, ma mi pare che questo sia soltanto un altro modo di chiamare lo stesso fatto e che non spieghi nulla (…) Non è che ci fossero litigi; questo proprio non c’era, semplicemente non c’era unità, non c’era nulla che unisse dall’interno; non c’era una famiglia, ma un gruppo di persone, ed era come se ciascuno facesse per conto suo.
Dentro di me penso: “Qui non c’è Cristo””.
(©L’Osservatore Romano – 2 settembre 2009)

Cultura e Religione: Unità 2

Schema  1.
L’esperienza
        Elaborazione.          Il problema per l’adolescente – Integrazioni Autori  Barbiellini Amidei – Integrazioni dei collaboratori OF: Comprendere che la scoperta della dimensione di mistero che avvolge l’esistenza umana apre alla ricerca di alcuno che possa illuminare la realtà  2.
L’interpretazione
        Elaborazione:          Cosa significa meraviglia         Documentazione proposta:          Kant e Ries – integrazioni degli Autori:      Berger                                               – integrazioni dei collaboratori  3.
Il progetto
        Elaborazione          Sorpresa e meraviglia aprono alla dimensione religiosa – integrazioni degli Autori          Tagore – integrazioni dei Collaboratori 4.
Inserisci un tuo commento     Nel riquadro in fondo:      Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Per consultare l’intera unità        UdA 2..

Il sangue nelle culture ebraica e cristiana

Il sangue nelle culture degli ebrei e dei cristiani, il sangue come simbolo che attraversa i due mondi e le loro credenze e ritualità:  il sangue dei sacrifici e il sangue di Cristo, il sangue dei martiri, quello della circoncisione e quello dell’accusa di omicidio rituale rivolta agli ebrei.
Un appassionante percorso tra le due culture, attraverso questo filo rosso che le congiunge e al tempo stesso ne separa la strada, ripercorso nei tempi lunghi della storia, dalla Bibbia fino all’oggi, da David Biale, professore di storia ebraica in California noto al pubblico italiano soprattutto per il suo L’eros nell’ebraismo, tradotto nel 2003 (Firenze, La Giuntina).
Di questa storia complessa l’autore individua continuità e rotture, ma anche suggestioni reciproche, inaspettati prestiti culturali e simbolici, riaffermazioni identitarie contrapposte.
Il libro (David Biale, Blood and belief.
The circulation of a symbol between jews and christians, Berkeley, University of California Press, 2007; traduzione  francese, Montrouge, Bayard, 2009, pagine 397, euro 29) vuole infatti essere uno “studio di mentalità”, si propone di “analizzare la storia culturale di una sostanza materiale”.
Uno sguardo sintetico di lungo periodo, che si fonda su un impressionante apparato di fonti e di bibliografia critica, e al tempo stesso racconta, spiega, interroga le curiosità del lettore in un linguaggio sempre accessibile, mai rivolto esclusivamente agli addetti ai lavori.
Le origini sono nella Bibbia, e in particolare in un passo dell’Esodo (24, 3-8) in cui Mosè asperge il popolo con una parte del sangue dei sacrifici, a significare l’alleanza con Dio.
Versetti complessi e inquietanti, che offriranno diverse e divergenti possibilità interpretative tanto alla lettura patristica che a quella rabbinica.
Due mondi entrambi derivati dalla Bibbia ebraica, e legati fra loro da nessi complessi e inaspettati, oltre che da conflitti assai duri per la supremazia.
Non una derivazione/separazione del mondo cristiano da quello ebraico – sottolinea Biale – ma cristianesimo ed ebraismo rabbinico come due nuove religioni che nascono dall’antica religione biblica.
In questo passaggio fondamentale, la direzione generale è quella, per il cristianesimo, di trasformare il sangue in un simbolo, quello eucaristico, che al tempo stesso ne salvaguardi anche il valore di realtà corporale e indichi la corporeità del Cristo.
Un passaggio però complesso, perché la presenza reale nell’Eucaristia si afferma con difficoltà e non senza opposizione fra i primi padri.
Dall’altra parte, l’ebraismo rabbinico, dopo la fine dei sacrifici animali con la caduta del Tempio, sembra rifiutare il sangue, sottolineando il divieto di cibarsene, ma mantiene nei divieti e nelle interpretazioni – circoncisione, purezza femminile, concezione dei rapporti sessuali – un’attenzione assai ambivalente verso questo stesso sangue, quasi a rispecchiare l’ambivalenza del primo cristianesimo.
In questo complesso passaggio, le due religioni si interpretano e si riecheggiano, oltre che combattersi, e i rapporti tra di esse ci appaiono, attraverso questo filtro della purezza e del sangue – ma anche del potere dato alla gestione del sangue – molto più ricchi e complessi di quanto non ci si aspetti. Che il filo non sia rotto del tutto lo si vede anche nell’ideologia del martirio, in cui – sottolinea Biale – il martirologio cristiano echeggia temi biblici e suggestiona, a partire dal secondo millennio, quelli del martirologio ebraico, in una “stupefacente convergenza tra la teologia ebraica e quella cristiana”.
L’altro nodo importante è quello del consolidamento a dogma della dottrina eucaristica e del contemporaneo emergere delle accuse agli ebrei di profanazione dell’ostia e di omicidio rituale.
Nell’accusa di profanazione dell’ostia, il sangue sgorga dall’ostia ferita, a significarne la presenza reale del Cristo, mentre in quella dell’accusa del sangue gli ebrei raccolgono a scopi rituali e medicinali il sangue della loro vittima cristiana.
Il libro analizza queste favole, che tanto sangue degli ebrei hanno fatto spargere, allargando il discorso dall’accusa del sangue in sé alla cultura del sangue nelle forme diverse assunte tra gli ebrei e tra i cristiani.
Un intento questo, di inserire l’accusa del sangue nel modo in cui il sangue era percepito dalla società del tempo, da cui era partito lo stesso Ariel Toaff nelle sue Pasque di sangue.
Ma, a differenza di Toaff, che si serve della cultura del sangue per dimostrare che gli ebrei non avevano poi tutto l’orrore del sangue che si attribuisce loro – con conseguenza di poter anche praticare l’omicidio rituale – Biale scava nell’immaginario rispettivo dei due mondi, interpreta con sguardo antropologico ritualità, linguaggi e pratiche, e riconduce le accuse, come le ritualità, ai linguaggi e alle culture religiose che li sottendono.
Il libro insegue così il percorso del sangue attraverso il medioevo e la prima età moderna, non senza soffermarsi sulle leggi di limpieza de sangre della Spagna fra Quattrocento e Cinquecento e sul nesso fortissimo, nella cultura spagnola tanto ebraica che cristiana, fra sangue e onore.
L’autore passa infine a trattare il momento della modernità e l’uso del sangue nell’antisemitismo razziale e poi nel nazismo e nel suo “antisemitismo redentore”, dove Biale riprende la calzante espressione di Saul Friedländer.
Quali sono le continuità, quali le fratture? I legami con il passato esistono, sostiene Biale, le radici medievali cristiane sono ben presenti, ma anche la discontinuità è netta, dal razzismo biologico al mito del “Cristo ariano” all’anticristianesimo radicale del nazismo.
Un capitolo ricchissimo, in cui Biale scava, più che nella cultura nazista vera e propria, in testi dimenticati dai più e di grande interesse per comprendere la costruzione ideologica che ha portato al nazismo.
Poi, con coraggio e senza reticenze, Biale affronta nell’ultimo capitolo anche le suggestioni della cultura della razza e dei nazionalismi sugli ebrei e sulla loro cultura, in particolare sul sionismo e sull’idea della comunità di sangue, soffermandosi sul conflitto tra il sionismo della terra e quello spirituale.
Per chiudere questo libro appassionante con le parole di un poeta ebreo polacco, Julian Tuwim, che nel 1944 si richiama non alla comunità di sangue creata dal sangue che cola nelle vene, ma da quella, di fraternità, creata da quello che ne sgorga.
La comunità di sangue frutto non della natura, ma della storia, non della biologia ma della sofferenza comune.
(©L’Osservatore Romano – 31 agosto – 1 settembre 2009 )

E se il voto di religione facesse media?

In questa estate non certamente avara di polemiche sulla scuola (dialetto, test di accesso ai docenti da fuori regione, “aiutino” agli alunni nelle prove di esame, libri di testo), la questione del potere di intervento dei docenti di religione nelle classi del triennio delle superiori non è ancora definitivamente risolta.
E tra pochi giorni ci saranno gli scrutini finali per i 220 mila studenti “rimandati” a settembre.
Come è noto, ai primi di agosto una sentenza del Tar del Lazio (n.
7076) ha ridimensionato la partecipazione dei docenti di religione agli scrutini finali, disponendo che essi non possono, alla pari degli altri docenti, concorrere alla determinazione dei crediti scolastici.
Dopo l’annuncio del ministro Gelmini di impugnativa della sentenza davanti al Consiglio di Stato per ottenerne l’annullamento, è arrivata la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, dopo un lungo percorso iniziato a marzo, del regolamento sulla valutazione degli alunni (dpr 122/2009), che ha riconfermato la disposizione annullata dal Tar.
C’è chi sostiene che il Regolamento è di rango superiore all’ordinanza annullata e, quindi, dovrebbe valere oltre gli effetti della sentenza che, a questo punto, molti ritengono di fatto annullata.
E lo ritiene, forse, anche lo stesso Ministero, visto che non si è avuta conferma della presentazione del ricorso.
Ma è proprio così? Non è forse opportuno un chiarimento immediato da parte del Miur per evitare che tra pochi giorni ogni consiglio di classe dia la propria “interpretazione autentica”, scegliendo tra la sentenza e il regolamento (con un solo risultato sicuro: aumento esponenziale del contenzioso giurisdizionale)? A parte questa urgenza, sembra però che a Viale Trastevere si stia studiando una soluzione alla radice del problema, che determinerebbe, questa volta sì, la piena e completa “pari dignità” del docente di RC (non solo riguardo al credito scolastico): l’introduzione del voto in decimi (anziché il giudizio) per la valutazione di questo particolare insegnamento, come per tutte le altre materie.
Con quale conseguenza? Che il voto di religione farebbe media a tutti gli effetti.
Questa soluzione è più di un’ipotesi di studio, tanto che , come riportato da “Avvenire”, è stato già richiesto un parere al Consiglio di Stato sulla sua percorribilità.
Non può sfuggire il peso che potrebbe avere una decisione del genere, specie in una fase così burrascosa dei rapporti tra le due sponde del Tevere, che potrebbe quindi essere utilizzata dal governo per ricucire i rapporti con le gerarchie cattoliche.
Con quali reazioni nella scuola?