“In-finitum”

Recita la cartella stampa: “Un’opera d’arte può restare incompiuta per cause di ordine pratico, o intellettuali o filosofiche: si possono avere opere “inconsapevolmente incompiute” come accade, ad esempio, anche nei grandi del Rinascimento italiano, Michelangelo, Leonardo e Tiziano”.
Il sottotesto più plausibile di questa mostra veneziana a palazzo Fortuny, intitolata “In-finitum” (e aperta fino al 15 novembre)allude sia alle opere incompiute di artisti del passato o tutt’ora viventi, sia al rapporto con l’infinito che molti pittori e scultori hanno o hanno avuto.
Quando si dice una mostra sofisticata, snob fino al parossismo.
Per visitarla, rigorosamente in fila indiana e a piccoli gruppi, pare sia consigliabile non aver superato i cinquanta ed essere in ottime condizioni psicofisiche.
Ovvero bisogna vederci bene, non soffrire di claustrofobia, essere super aggiornati sulle novità dell’arte contemporanea.
Solo con tali accorgimenti si potranno evitare quei moti di spaesamento e di irritazione che hanno colpito molti visitatori, chiamati a confrontarsi con un eccesso di penombra e la totale assenza di didascalie.
Ma estrapoliamo ancora una citazione dalla cartella stampa.
“Molti sono gli artisti che si sono misurati con il tema dell’infinito, interpretandolo secondo concetti e rappresentazioni proprie della cultura di appartenenza”.
In effetti l’elenco di duecentoquattordici nomi non è solo nutrito, ma apparentemente senza logica.
Perché c’è il neoclassico Canova accanto al metafisico De Chirico? Non solo, ma Malevic con la Nevelson, Duchamp con Dubuffet.
E che dire di un Giulio Paolini con Piranesi e Rothko con Schifano? Più comprensibile Lucio Fontana con Mariano Fortuny, entrambi maghi dello spazio.
Questi, alcuni degli esempi più significativi dell'”improbabile-impossibile” tema svolto dalla rassegna.
Dunque una mostra complessa per non dire laboriosa.
Ma non certo da bocciare, ottima l’idea, eccellenti i nomi.
Inoltre, al termine del percorso, si ha il regalo aggiuntivo di godere di un attico recentemente recuperato ed aperto al pubblico per l’occasione.
Ogni singolo visitatore se lo conquista salendo lentamente le ripidissime ed impervie scale; inesprimibile l’emozione di chi, dopo tanta oscurità e percorsi accidentati, si ritrova all’improvviso al centro di un ambiente circondato di finestre affacciate, a trecentosessanta gradi, sui tetti, sulle altane, sui canali e su quell’indescrivibile riverbero di luce e mare che fanno del panorama di Venezia qualcosa di unico al mondo.
All’interno dell’open-space, Tatsuro Miki e Axel Vervoordt hanno realizzato un Santuario del Silenzio, installazione che recupera uno spazio realizzato con oggetti trovati, dipinti col fango della laguna.
L’ambizione degli artisti è quella di scoprire la bellezza in luoghi e cose apparentemente insignificanti e rispettare la natura così com’è.
In questa stanza, comunque, ci sono altre installazioni difficili da decodificare, come quella dei quattromila aquiloni in miniatura, in seta e bambù, dell’artista Hashimoto.
Forte, allusiva, spirituale, la presenza dei giapponesi, tanto da banalizzare quasi altri nomi altisonanti come Rothko, Picasso, Fontana, Mirò e Kounellis.
Comunque è proprio l’impatto altamente scenografico di questa “camera con vista” che ci spinge a porci un interrogativo.
Perché non ricordare al grande pubblico i meriti del poliedrico talento di Mariano Fortuny? Mariano, infatti, non ha solo dato il proprio nome all’antico palazzo gotico appartenuto alla famiglia Pesaro, ma è stato un grande innovatore nel campo della scenografia e della scenotecnica, della fotografia e della pittura, nonché della creazione di tessuti stampati ispirati all’antica arte veneziana.
Il palazzo doveva servire per poter lavorare a tutte queste discipline che, per la sperimentazione, avevano bisogno di molto spazio per contenere telai, presse e tamponi lignei, alambicchi, colori e solventi, nonché un’infinita varietà di antichi galloni, passamanerie, stoffe, pezze, vesti, provenienti da ogni angolo della terra.
Mariano Fortuny y Madrazo, nato a Granada nel 1871 era figlio d’arte.
A diciott’anni si stabilì a Venezia ove perfezionò i propri studi artistici tra circoli e accademie e dove frequentò amicizie illustri come Gabriele D’Annunzio, la marchesa Casati, Hugo von Hofmannsthal.
Si inserì molto presto anche nel gran mondo parigino, dove ebbe modo di lavorare ad alcune scenografie teatrali per le quali cominciò a studiare soluzioni innovative.
È sua l’idea della Cupola, un particolare sistema di illuminazione della scena che riesce a servirsi della luce indiretta e diffusa.
Anche se il mondo parigino gli presta ammirata attenzione – è l’epoca di Sarah Bernardt – è soltanto con l’entrata nella sua vita di una mecenate, la contessa di Bearn, che la rivoluzione scenotecnica firmata Fortuny trova la sua completa applicazione.
Tra il 1903 e il 1906, il teatro privato della contessa si avvale non solo di luce indiretta, ma di proiezioni di cieli colorati e nuvole.
La fama esplode subito e il sistema di Fortuny viene adottato dai maggiori teatri europei.
Mariano però non si sente ancora appagato e si dedica alla creazione di stoffe, tessuti stampati e non solo.
Infatti negli anni Trenta inventò la carta da stampa fotografica e gli speciali colori a tempera Fortuny.
Una via di mezzo tra un artista, un mago ed un alchimista, come amavano definirlo gli amici Proust e D’Annunzio, alla sua morte, nel 1949, venne sepolto nel cimitero romano del Verano accanto al padre Mariano Fortuny y Marsal (1838-1874).
Negli anni Cinquanta il fascinoso palazzo veneziano fu donato dalla vedova Henriette alla città di Venezia con un ricco fondo di opere che illustrano la ricerca dell’artista tra Otto e Novecento.
Oltre che per le periodiche mostre, Palazzo Fortuny resta un luogo da esplorare quale specchio del fare inesauribile del suo ispiratore.
Basti pensare all’affascinante salone del piano nobile, con la raccolta dei dipinti, dei tessuti preziosi che rivestono le pareti, delle celebri lampade, che diventa anche uno spazio in cui il vuoto riesce a parlare.
Attraverso i muri e le finestre, le luci e i volumi percepiamo sia la storia del palazzo, che quella dell’operosa attività del suo atelier.
L’itinerario all’interno di questo palazzo-opera d’arte si può concludere nella biblioteca ancora pressoché intatta, dove, volendo fermarsi, ci sarebbero nuovi percorsi da meditare.
All'”In-finito”, ovviamente…
(©L’Osservatore Romano – 26 settembre 2009)

Un ponte tra scuola e lavoro

Il “Piano per l’occupabilità dei giovani”, presentato ieri alla stampa, punta all’integrazione tra apprendimento e lavoro.
Ai giovani «non dobbiamo offrire pesci ma canne per pescare», ha esemplificato Sacconi, e cioé strumenti di formazione effettivamente spendibili nell’impiego.
Invece in Italia oggi si sommano due patologie: da un lato il precoce abbandono delle attività educative, la dispersione scolastica, dall’altro il tardivo ingresso nel mondo del lavoro.
«Noi vogliamo agire – ha detto – per riempire la vita dei giovani sotto i 25 anni di attività utili al loro futuro.
Basta con la generazione né-né, vale a dire quella di chi né studia proficuamente, né lavora».
Il ministro Gelmini ha sottolineato poi come l’Italia sia in coda in Europa per l’abbandono scolastico: nel 1997 la dispersione in Europa era del 19% e in Italia del 30%, oggi la media Ue è scesa al 10% mentre l’Italia si attesta al 19%.
I dati non sono confortanti neanche per quanto riguarda l’età di uscita dall’università: erano 28 anni con il vecchio ordinamento, sono 27 oggi.
I due ministeri costituiranno una «cabina di regia» (costituita da tre rappresentanti ognuno) con il compito di coordinare le iniziative per l’occupabilità dei giovani e monitorare i risultati.
Ma quali sono le sei linee di intervento messe in cantiere? La prima vuole «facilitare la transizione dalla scuola al lavoro», che rappresenta oggi una delle «principali criticità» del nostro Paese per i suoi tempi troppo lunghi e per le sue modalità «non di rado ai limiti della legalità».
In secondo luogo occorre «rilanciare l’istruzione tecnico-professionale».
Terzo, «rilanciare il contratto di apprendistato».
 Poi bisogna «ripensare l’utilizzo dei tirocini formativi, promuovere le esperienze di lavoro nel corso degli studi, educare alla sicurezza sul lavoro, costruire sin da scuola e Università la tutela pensionistica».
Quindi va «ripensato il ruolo della formazione universitaria».
Infine, sesto e ultimo obiettivo, «aprire i dottorati di ricerca al sistema produttivo e al mercato del lavoro».
Il piano governativo punta a investire sulla mobilità degli studenti, «superando la logica della moltiplicazione delle sedi, ampliando il numero delle borse di studio e delle residenze legate al merito» e mettendo in campo strumenti di finanziamento per gli studenti.
Il tutto con l’obiettivo di superare gradualmente il valore legale del titolo di studio, come ha ripetuto lo stesso ministro dell’Istruzione.
Bisogna voltare pagina, spiegano Sacconi e Gelmini nel documento presentato, perché «i già precari equilibri del mercato del lavoro e del sistema previdenziale saranno sempre più messi in discussione dall’invecchiamento della popolazione e dagli squilibri territoriali che produrranno un aumento della pressione migratoria e un progressivo inurbamento.
«Se non introdurremo correttivi – avvertono – persisteranno gli attuali alti livelli di dispersione scolastica e universitaria che non possiamo più permetterci di tollerare».
Un piano d’azione in sei mosse per ricomporre «la frattura tutta italiana fra istituzioni educative e mercato del lavoro».
Per i ministri del Welfare Maurizio Sacconi e dell’Istruzione, Mariastella Gelmini bisogna cambiare rapidamente rotta: l’obiettivo è ribaltare il pronostico negativo che per il 2020 vede «il nostro Paese in una posizione di grave difficoltà rispetto alle prospettive demografiche, occupazionali e di crescita».
Si prevede, infatti, secondo i due stessi ministri, «una forte carenza di competenze elevate e intermedie legate ai nuovi lavori e un disallineamento complessivo della offerta formativa rispetto alle richieste del mercato del lavoro».
In pratica le imprese troveranno sempre meno le professionalità che cercano e i giovani il lavoro per cui hanno studiato.
Già oggi del resto la situazione è molto seria: sul mercato non si trovano 180mila tecnici intermedi.

XXVI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Numeri 11,25-29 In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mo-sè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.
Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profetizza-re nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento».
Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mo-sè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mo-sè, mio signore, impediscili!».
Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Il c.
10 dei Numeri ha concluso la raccolta dei testi dedicati alla rivelazione del Sinai e col c.
11 riprende il viaggio faticoso e pieno di imprevisti verso la terra promessa.
Mosè, dopo l’ennesimo lamento del popolo, scoraggiato davanti alla vastità del compito a lui affidato, si lamenta a sua volta col Signore.
«Perché hai agito così male verso il tuo servo? E perché non ho trovato grazia presso di te, così che tu mi abbia messo addosso tut-to il peso di questo popolo? Ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse generato io, perché tu mi dica: portalo in collo, come una balia un lattante…
Non posso io solo reg-gere tutto questo popolo…
Ma se tu vuoi trattarmi in tal modo, deh uccidimi» (Num 11,10-12.14-15).
È venuto il momento di non affidarsi più al solo carisma di un capo, ma di perfezionare le istituzioni per assicurare la sopravvivenza del popolo.
Dio viene incontro alla richiesta di Mosè e gli ordina di radunare settanta anziani.
Mosè allora compila la lista degli anziani e li invita intorno alla tenda del convegno.
Siamo così al brano di oggi che si snoda in tre quadri: 1.
«Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose so-pra i settanta uomini anziani» (Num 11,25).
Essi ricevono lo spirito di Mosè.
Il loro carisma, diremmo con la parola moderna, è lo stesso dato alla loro guida.
Essi hanno, per così dire, un potere delegato, che vale se esercitato insieme con Mosè.
All’autore biblico, però, non interessa tanto il problema dell’istituzione di un consiglio in aiuto di Mosè, quanto quello dell’esercizio della profezia.
Egli annota che «quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fece-ro più in seguito» (v.
25).
Il compito di governo e quello profetico non sono legati automati-camente.
2.
«Erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profe-tizzare nell’accampamento» (cf.
v.
26).
Il redattore non dice come per gli altri che «Dio prese lo spirito di Mosè».
Eldad e Me-dad hanno direttamente da Dio senza mediazioni il dono dello spirito, che li abilita a pro-fetizzare.
Non c’è nemmeno l’annotazione, come per gli altri, che «non lo fecero più in segui-to» (v.
25): essi diventano profeti e lo rimangono, anche se non hanno accolto l’incarico di aiutare Mosè nel governo del popolo.
3.
Giosuè allora si fa in dovere di avvertire Mosè e gli consiglia di impedire loro di profeta-re.
Egli non riesce a concepire un rapporto personale e libero con Dio senza la mediazione dell’istituzione e un potere che non sia un’emanazione di quello del capo (cf.
v.
27-28).
Mosè, invece, risponde dimostrando grande umiltà e grandezza d’animo: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spiri-to!», (v.
29).
Mosè, potremmo dire, è aperto a una partecipazione democratica di tutto il popolo al suo governo e, soprattutto, riconosce la libertà di Dio e sa apprezzare i suoi doni in chiun-que li abbia ricevuti.
Seconda lettura: Giacomo 5,1-6 Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vo-stri vestiti sono mangiati dalle tarme.
Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggi-ne si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco.
Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vo-stre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le prote-ste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore on-nipotente.
Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage.
Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha oppo-sto resistenza.
I primi tre versetti del brano del c.
5 della lettera di Giacomo, che leggiamo oggi, sono un avvertimento ai ricchi fatto con immagini costruite per impressionare, risvegliare dal-l’illusione del benessere egoista e distogliere dall’ingiustizia: beni imputriditi, vestiti invasi dalle tarme, oro e argento addirittura arrugginiti! Le ricchezze si tramuteranno in «fuoco» per i proprietari, che le hanno accumulate ingiustamente e che sono insensibili ai bisogni altrui, saranno cioè causa della loro distruzione.
Il fuoco del v.
3 fa pensare non solo a un castigo terreno, ma anche a quello escatologico (cf.
ad es.
Am 1,12-14:7,4; Mt 18,8; Mc 9,43.48).
Siamo ormai entrati nel tempo del giudizio, ma i ricchi non se ne sono accorti: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!» (v.
3), «vi siete ingrassati per il giorno della strage».
Le colpe gravissime dei ricchi, enunciate nei vv.
4-6 sono aggravate dall’essere commes-se con continuità, fino all’ultimo giorno di vita, senza badare che la vita è in realtà già fug-gita.
In mezzo alle gozzoviglie non si sono accorti che le grida dei mietitori defraudati «so-no giunte alle orecchie del Signore onnipotente» (v.
4) e si sono fidati, nell’uccidere il giusto, che egli non poteva opporre resistenza (v.
6) e nessuno avrebbe preso le sue difese: la con-danna di chi agisce in questo modo non può che essere definitiva.
Vangelo: Marco 9,38-43.45.47-48 In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo im-pedirglielo, perché non ci seguiva».
Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un mira-colo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cri-sto, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare.
Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani anda-re nella Geènna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo pie-de ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te en-trare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Esegesi L’episodio riportato nei versetti 38-39 del cap.
9 di Marco ha il suo parallelo in Lc 9,49-50, mentre non è riportato da Matteo.
Del v.
38 esistono due lezioni, questa «Maestro, ab-biamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché (oti) non ci se-guiva» assimilata a Lc 9,49 e un’altra: «abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e che (os) non era dei nostri e…».
Si tratta di una sfumatura interessante per fare la storia della redazione del testo e per cogliere l’atteggiamento dei discepoli, ma che non muta la sostanza del fatto.
La proibizione da parte dei discepoli è un sopruso che Gesù stigmatizza nella sua risposta «Non glielo impedite».
I discepoli non sono padroni della potenza del nome di Gesù; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone nei tempi e nei modi che egli ha deciso.
L’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me».
Nella chiesa primitiva, secondo il racconto degli Atti (cf.
19,13), si verificavano usi di-storti del nome di Gesù, ma il fallimento smaschera colui che ha tentato di appropriarsi della sua potenza in modo magico o superstizioso.
Il detto ripreso da Gesù: «chi non è contro di noi è per noi» sottolinea lo spirito di apertu-ra e di accoglienza della risposta di Gesù nei confronti dell’atteggiamento precedente dei discepoli.
Non dobbiamo leggere queste parole di Gesù nella forma contraria dell’altro detto: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30; Lc 11,23) e così farne una bandiera per escludere.
C’è infatti una enorme differenza fra il «noi» (Lc 9,50 ha addirittura «voi») e il «me», vale a dire fra il gruppo dei discepoli e Gesù stesso.
È da tenere presente poi che l’e-spressione di Gesù «Chi non è con me è contro di me», va letta anche con il seguito: «chi non raccoglie con me disperde», che fa capire che si tratta di una constatazione, non di un giudizio.
Senza Gesù i discepoli non possono far niente, ma la potenza di Dio manifestata in Gesù non è possesso esclusivo dei discepoli.
L’accostamento fatto dalla liturgia di oggi al brano dei Numeri accentua questa inter-pretazione: Gesù rimprovera i discepoli, come Mosè fa con Giosuè, che vuole impedire la profezia non autorizzata.
Il dono dello Spirito di Dio, la profezia, e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati dai discepoli.
Anzi, come testimonia l’episo-dio dell’incapacità dei discepoli a guarire un indemoniato (cf.
Mc 9,17s) narrato da Marco nello stesso capitolo, non è l’appartenere alla cerchia dei discepoli, che abilita a «cacciare i demoni», ma il dono di Dio e le disposizioni adatte ad accogliere questo dono.
Il detto del versetto 41 è probabilmente inserito a questo punto per la formula «nel no-me».
Luca non lo riporta e Matteo lo inserisce nell’episodio della missione (Mt 10,42).
I detti che seguono sono accumunati dall’espressione: «essere di intralcio» scandalizzo.
Essi sembrano essere stati compilati con un intento catechetico, con formule che aiutano ad essere ritenute a memoria (cf.
V.
TAYLOR, Marco.
Commento al Vangelo messianico, Assisi 1977, 474-476).
Le rinunce sono in vista di «entrare nella vita» zoê distinta da bios, che indica in genere nel Nuovo Testamento la vita in comunione con Dio.
La Geenna era originariamente il nome di una valle ad ovest di Gerusalemme, dove ve-nivano offerti bambini in sacrificio a Moloch (cf.
2Re 23,10; Ger 7,31; 19,5s), sconsacrata da Giosia venne adibita alla bruciatura dei rifiuti.
Essa divenne in seguito simbolo di luogo di pena.
«Essere gettato nella Geenna» in contrasto con «entrare nella vita» significa la rovina spiri-tuale e forse anche la distruzione.
La precisazione «nel fuoco inestinguibile» è fatta per rendere chiaro il simbolo della «Ge-enna» agli ascoltatori che non conoscevano la tradizione legata alla valle di Gerusalemme; insieme con l’aggiunta, «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» è un riferi-mento a Is 66,24: «E vedranno i cadaveri degli uomini a me ribelli, che il loro verme non muore e il loro fuoco non si spegne» (cf.
V.
TAYLOR, o.c., 478).
Meditazione Un brano evangelico composito, con espressioni pronunciate da Gesù in varie occasioni e qui raccolte per fornire indicazioni sulla qualità del proprio essere discepoli nella dimen-sione comunitaria.
Il tema del primo avvertimento – il tono generale del testo vuole spiccatamente mettere in guardia da alcuni ‘eccessi’ – viene trattato anche nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri e inerente un fatto avvenuto nel corso del cammino nel deserto, mentre il popolo usciva dall’Egitto per andare verso la terra promessa.
Quando una comunità si struttura e si organizza, manifesta ed evidenzia la propria volontà di crescere, di camminare lungo un itinerario di maturazione.
Non è un cammino facile né immediato: richiede tempo, ascolto, conoscenza e stima reciproche, capacità di valorizzazione delle caratteristiche di ogni per-sona, accoglienza e sopportazione delle inevitabili fragilità, soprattutto il ‘miracolo’ di riu-scire ad armonizzare, con un impiego notevole di energie, tutte le componenti della co-munità stessa.
La testimonianza di Paolo, riportata nei capitoli 12-14 della prima lettera ai Corinzi, è di una attualità e di una concretezza sorprendenti.
Si intuisce – e lo sperimenta immediatamente chi vive in una comunità, a partire da quella familiare – che l’auspicata armonia è sempre precaria e necessita di attenta vigilanza e premurosa cura da parte di tutti i suoi membri, nessuno escluso.
Ma con la grazia del Signore e tanta buona volontà si possono raggiungere buoni, addirittura ottimi risultati! In queste comunità si potrebbe dire che la vita funzioni tanto bene che…
tutto diviene intoccabile, è tanto perfetta che non la si può più modificare in nulla.
Ognuno ha il suo spazio, il suo incarico – che svolge con grande diligenza e professionalità, indipendente-mente che si tratti di liturgia, carità, educazione…
– e la sua azione non può essere intralcia-ta o sostituita da nessun altro.
Quello che era nato come servizio gratuito nell’ambito di una comune sequela del Signore, diviene possesso geloso e intollerante.
Se qualcuno, dal-l’esterno, tenta di entrare nella comunità, viene sottoposto ad un processo di ‘istruzione’ per fargli riconoscere tutta e sola la positività della vita comunitaria.
Figuriamoci cosa può succedere a costui se si azzarda a ipotizzare dei cambiamenti, magari a paventare delle cri-tiche…
Se giunge addirittura – non sia mai! – a fare del bene, magari dello stesso tipo di quello svolto dalla comunità, ma senza il benestare e l’autorizzazione della comunità stes-sa, si può arrivare all’interdizione pubblica…! (cfr.
v.
38).
E allora ci si accorge che non si è poi così lontani da stili e modalità sempre più spesso espressi da entità politiche, sociali, agonistiche.
È vero, queste forse non si fregiano del titolo – davvero qualificativo – di co-munità ma forse anche nelle prime si è un po’ smarrito il senso di questo termine.
C’è chi ha scritto ‘Dio è con noi’ sulle cinture dei soldati, affermando implicitamente che non era pertanto con quanti stavano dall’altra parte della barricata: auguriamoci che queste volgari e indecenti strumentalizzazioni del nome di Dio non raggiungano anche le comunità dei credenti in Cristo.
Ma se ciò avviene, non spaventiamoci: le forze egocentriche dell’uomo rialzano conti-nuamente la testa e davvero la vigilanza e la revisione si impongono a tutti i livelli.
Certo è che se l’efficienza – anche quella del bene – scalza il ruolo delle persone e diviene strumen-to per imporsi sugli altri, allora anche l’altra, severissima, parola di Gesù, riportata al v.
42 e nei versetti seguenti, «chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si mettesse una mola d’asino al collo e fosse gettato nel mare», ci risulta forse meno strana e incomprensibile.
Certamente un paradosso, da non prendere alla lettera, ma, appunto, un serio avvertimento.
Non c’è ‘opera di bene’ che possa calpestare con diritto qualcuno! Quando si smarrisce l’attenzione ai più fragili, esposti, poco istruiti, umili – que-sto il senso del termine piccoli, tali quindi non solo per età – è necessario riaprirsi alla forza vivificante del vangelo per ritrovare la grazia della salvezza, per ricordare innanzi tutto che siamo dei salvati dall’amore del Signore.
Allora anche il gesto semplice e alla portata di tutti del bicchiere d’acqua offerto nel nome di Gesù (cfr.
v.
41), ovvero dato nella gratui-tà rispettosa e attenta alla singola persona, diviene epifania del Regno, speranza di un mondo migliore già qui sulla terra.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Il Dio-con-noi «Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio.
È questa, del resto, e-sigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio.
Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio-con-noi, il Dio che chiama e salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (Rdc 77).
[…] «Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell’uomo.
Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito d’amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo.
Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conosce-re Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio».
(RdC 122).
Amici e amiche di Paolo Ho sempre immaginato il volontariato – senza conoscerlo, naturalmente, solo la non- conoscenza favorisce la certezza – un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé.
Finché ho conosciuto “amici e amiche di Paolo”.
Questi giovani che lo accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista, a prez-zo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi, sono gentili, misurati discreti.
In cambio non si aspettano nulla.
Non si aspettano doni né ringraziamenti.
E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpa-tia.
Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze.
Non ho ancora capito co-me le consideri e non intendo approfondire.
Immagino che abbia solide ragioni.
Quando ancora gli si dice, dopo quindici anni di ingiunzioni, “Cammina dritto!”, che cosa gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero, una punizione? Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza.
Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L’imperativo occulto dell’educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti pa-role: “Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te”.
C’è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato? (Giuseppe PONTIGIA, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2000, 247-248).
Dio è presente ovunque Non vi è altro sacramento di Dio se non il Cristo, nel quale devono essere vivificati quelli che sono morti in Adamo, poiché «come tutti muoiono in Adamo, così pure tutti ri-cevono la vita in Cristo» (1Cor 15,22), come abbiamo spiegato più sopra.
Perciò Dio, che è ovunque presente e ovunque nella sua totalità, non abita in tutti, ma soltanto in quelli che egli fa diventare suo tempio santissimo o come suoi templi santissimi, strappandoli dal potere delle tenebre e trasferendoli nel Regno del Figlio del suo amore (cfr.
Col 1,13), Re-gno che ha inizio con la rigenerazione.
Da una parte si parla di tempio di Dio in senso sim-bolico, a proposito di quello che viene costruito dalle mani degli uomini servendosi di ma-teriale inanimato, come era il tabernacolo fatto con legno, veli, pelli e altri simili arredi o come anche lo stesso tempio costruito dal re Salomone con pietre, legno e metalli; ma si parla di tempio di Dio anche a proposito della vera realtà figurata da quei templi.
Perciò si dice: «E voi come pietre vive, siete edificati come dimora spirituale» (1Pt 2,5); per lo stesso motivo sta scritto: «Noi infatti siamo templi del Dio vivente, come dice Dio: “Abiterò in lo-ro e camminerò con loro, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”» (cfr.
2Cor 6,16; Lv 26,12).
Non ci deve stupire che Dio compia qualche miracolo attraverso alcuni che non appartengono o non appartengono ancora al tempio [del Signore], cioè in quelli in cui non abita o non abita ancora Dio, come li compiva per mezzo di quel tale che in nome di Cristo scacciava i demoni sebbene non fosse suo discepolo; il Signore ordinò che gli si permettes-se di farlo a lode del suo nome, cosa utile a molti (cfr.
Mc 9,37-39).
Egli afferma che molti nell’ultimo giorno gli diranno: «Abbiamo fatto molti miracoli nel tuo nome» e a costoro non risponderà: «Non vi conosco» (cfr.
Mt 7,22-23) se apparterranno al tempio di Dio che egli santifica abitando in essi.
Anche il centurione Cornelio, prima di essere incorporato in questo tempio mediante la rigenerazione, vide un angelo che gli era stato inviato da Dio e lo sentì dire che le sue preghiere erano state esaudite e le sue elemosine gradite (cfr.
At 10,4).
Dio opera queste cose o da sé, poiché è ovunque presente, o per mezzo dei suoi an-geli.
(AGOSTINO DI IPPONA, Lettere 187,12,34-36, NBA XXIII, pp.
166-168).
«Io appartengo ad altri» Questi occhi, che non sono più miei, non debbono più vedere il mio proprio interesse.
Queste mani, che sono ora di altri, non debbono più fare il mio proprio interesse…
Io appartengo ad altri! Questa dev’essere la tua convinzione, o mio cuore! Tu non devi avere ormai altro pensiero se non il bene di tutte le creature.
(Santideva, buddista).
Essere profeti Il profeta, Signore, non è un depositario di verità, ma un testimone di bene.
Non sa dire cose sublimi, ma le compie.
Annuncia la speranza nella disperazione, la misericordia nel peccato, l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.
Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza, dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza, ma è anche sereno e coraggioso, perché Dio lo ha scelto e amato.
Il profeta fa la scelta di Dio, vive la comunione intima con lui.
Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione ad una pastorale missionaria, significa essere presenti là dove la gente vive, lavora, soffre, gioisce.
Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza che dobbiamo ascoltare e accogliere.
Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi, i monti, le strade.
Ogni cristiano è profeta, è la tua bocca che evangelizza, che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.
Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera là dove scorre la vita della gente.
(A.
Merico)

Il “progetto culturale” ideato e realizzato dai cardinali Ruini e Scola.

Uno di questi segnali è la diffusione a largo raggio in Italia, a partire dal 17 settembre, di un libro curato dal comitato per il progetto culturale della CEI, dal titolo: “La sfida educativa”.
Il libro si presenta come un rapporto su quella che è stata chiamata, anche da Benedetto XVI, “emergenza educativa”.
Un rapporto, cioè, sulla drammatica incapacità che la società di oggi mostra nell’educare le nuove generazioni.
Ma il libro, oltre che un rapporto descrittivo e analitico, è anche una proposta su come affrontare questa emergenza e vincere la sfida.
Il cardinale Ruini, nella prefazione, scrive che in gioco sono “i fondamentali dell’esistenza dell’uomo e della donna, il senso stesso che attribuiamo all’uomo e alla nostra civiltà”.
La sfida educativa non riguarda dunque solo la famiglia, la scuola, la Chiesa, ma la società nel suo insieme.
Capitolo dopo capitolo, il libro la esamina nei diversi ambiti e ad opera di diversi specialisti: anche nel lavoro, nell’impresa, nei consumi, nei mass media, nello spettacolo, nello sport.
La questione dell’educazione sarà l’asse portante dell’azione pastorale della Chiesa italiana nel decennio 2010-2020, come stabilito dalla conferenza episcopale.
Ma col progetto culturale si vuole arrivare a coinvolgere l’intera nazione.
Una prova è che la stampa de “La sfida educativa” è stata affidata a una casa editrice non cattolica ma “laica” per antonomasia, la Laterza.
E proprio nella sede di Roma della Laterza sarà fatta, martedì 22 settembre, la presentazione ufficiale del libro.
Con il cardinale Ruini, con il ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, con la presidente della confederazione degli industriali, Emma Marcegaglia, e col presidente della casa editrice, Giuseppe Laterza, a fare da moderatore.
Pochi giorni prima, il 10 dicembre, lo stesso Spaemann parlerà a un grande convegno promosso a Roma dal comitato per il progetto culturale della CEI, cioè dallo stesso Ruini.
E siamo a un terzo segnale.
Il convegno avrà per titolo: “Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”.
Di esso www.chiesa ha già dato notizia.
È impressionante la coincidenza tra il tema di questo convegno e quella che Joseph Ratzinger ha indicato come la “priorità” del suo pontificato: “rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio”.
A maggior ragione in un tempo “in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento”.
Lo scorso 9 settembre il cardinale Ruini – presentando a Milano un libro nel quale egli dialoga con l’intellettuale laico Ernesto Galli della Loggia – ha sottolineato l’importanza di questo prossimo convegno su Dio.
In quell’occasione, al suo stesso tavolo, il direttore de “L’Osservatore Romano”, Giovanni Maria Vian, ricordò come al suo inizio, dieci, quindici anni fa, il progetto culturale lanciato da Ruini appariva come “un’araba fenice”, che nessuno capiva cosa fosse, e dove.
Il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Lorenzo Ornaghi, gli ribatté che in realtà il progetto culturale si è poi rivelato “uno sforzo gigantesco di trasformare il messaggio cristiano in cultura popolare”.
L’Università Cattolica è stata ed è una fucina di questo progetto.
Non a caso la nomina e poi la riconferma del “ruiniano” Ornaghi come suo rettore sono stati tra i capitoli più aspramente combattuti della Chiesa italiana negli ultimi anni.
Un’altro strumento cruciale del progetto culturale è stato ed è “Avvenire”.
Non a caso gli avversari di Ornaghi sono stati gli stessi che in questi anni hanno osteggiato anche Boffo come direttore del giornale dei vescovi, facendo circolare contro entrambi false accuse infamanti.
Anche di questo www.chiesa ha dato conto in recenti servizi.
La scelta del successore di Boffo alla direzione di “Avvenire” sarà quindi rivelatrice della volontà o no della conferenza episcopale italiana di continuare nel solco del progetto di Ruini.
Di certo, il cardinale Ruini ha sempre operato in lampante sintonia e col pieno sostegno dell’attuale papa, oltre che del suo predecessore.
E così l’attuale presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco.
Che è stato a colloquio venerdì scorso con papa Benedetto XVI, in vista del consiglio permanente che comincia questa sera con la sua attesa prolusione.
La posta in gioco è il “progetto culturale” ideato e realizzato dai cardinali Ruini e Scola.
C’è chi lo dà per morto.
Ma i fatti provano che è più vivo che mai.
Con tre grosse novità: una proposta al paese su “l’emergenza educativa”, una nuova scuola di teologia applicata a una società “plurale”, un convegno internazionale su “Dio oggi” Un secondo segnale ha per epicentro Venezia ed ha anch’esso un cardinale come suo alto ispiratore: non Ruini ma Angelo Scola, patriarca della città.
I due porporati – non a caso – fanno parte del comitato per il progetto culturale istituito dalla CEI nel 2008, con Ruini presidente.
Scola, a Venezia, è la prova vivente di come il progetto culturale può essere realizzato in forme originali, creativamente e con frutto, in una diocesi tipo.
Il 15 settembre il cardinale Scola ha aperto a Venezia un congresso internazionale dal titolo: “La società plurale”, con relatori studiosi italiani e stranieri di diverse discipline, cattolici e non, da Massimo Cacciari a David Novak, da Ottfried Höffe a Cesare Mirabelli, da Ignazio Musu a Steve Schneck.
Il congresso ha segnato l’avvio a Venezia di un nuovo centro di studi denominato “Alta Scuola Società Economia Teologia”, in sigla ASSET, che ha la finalità di far interagire le diverse discipline, teologia compresa, nell’affrontare le questioni cruciali di un mondo culturalmente “plurale”.
Scola, nell’introdurre il congresso, ha invitato i cristiani a individuare e proporre il “terreno comune” sul quale compiere “compromessi nobili” tra posizioni diverse.
Fermo restando il dovere degli stessi cristiani, qualora il compromesso non fosse possibile, come nel caso dell’aborto o della famiglia, di ricorrere all’obiezione di coscienza e comunque di proseguire la loro “narrazione” a voce alta nella società, nella speranza di un mutamento positivo.
La nuova Alta Scuola è l’ultima nata di una costellazione di iniziative promosse negli ultimi cinque anni dal cardinale Scola e raccolte sotto l’egida dello Studium Marcianum, dal nome del santo patrono di Venezia, l’evangelista Marco, tra le quali la rivista internazionale “Oasis”.
Opererà con seminari, laboratori culturali, corsi estivi, pubblicazioni, lezioni annuali.
La lezione inaugurale, il prossimo 17 dicembre, sarà tenuta dal filosofo Robert Spaemann, dell’università di Monaco.

Il papa e gli amici ebrei.

1.
Kippur, il Giorno dell’Espiazione di Riccardo Di Segni Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, “il giorno” per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole.
“Il giorno” cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico.
Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto.
Di qui l’espressione e il concetto di “capro espiatorio”.
Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché “in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore” (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno.
La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità.
La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà.
Letteralmente è il “ritorno” ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via.
Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva.
Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato.
In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini.
Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne.
Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi.
Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio.
Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle.
Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina.
La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali).
Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate [“L’Osservatore Romano”], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano.
Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste.
In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).
Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato.
Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi.
I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria.
Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
(Da “L’Osservatore Romano” dell’8 ottobre 2008).
Alla vigilia del Capodanno ebraico che quest’anno si è celebrato il 19 settembre, Benedetto XVI ha inviato al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, un telegramma d’augurio e d’amicizia.
Nel quale ha confermato che visiterà presto la sinagoga di Roma, “animato dal vivo desiderio di manifestare la personale vicinanza mia e quella di tutta la Chiesa cattolica” alla comunità ebraica.
Quella di Roma è la terza sinagoga che Benedetto XVI visiterà, dopo quelle di Colonia nell’agosto 2005 e di Park East a New York nell’aprile del 2008.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva visitato la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.
In questi stessi giorni un rinnovato gesto di amicizia si è avuto anche tra gli ebrei e la Chiesa cattolica italiana.
Il 22 settembre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della conferenza episcopale, ha incontrato i rabbini Di Segni e Giuseppe Laras, quest’ultimo presidente dell’assemblea rabbinica d’Italia.
E insieme hanno deciso di riprendere la celebrazione comune della giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio, alla quale la volta scorsa gli ebrei avevano rifiutato di partecipare per le incomprensioni seguite al caso Williamson.
Il tema della prossima giornata di riflessione comune sarà il quarto comandamento nella numerazione ebraica: “Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo”.
Il Capodanno, Rosh Ha Shanah, apre il ciclo delle feste ebraiche d’autunno.
Ad esso seguono lo Yom Kippur e la festa di Sukkot.
Lo Yom Kippur, o Giorno dell’Espiazione, è la più importante festa dell’intero anno liturgico ebraico.
Cadrà quest’anno il 28 settembre, terzo e ultimo giorno della visita che Benedetto XVI comincerà domani nella Repubblica Ceca.
A giudizio del rabbino Di Segni, la festa del Kippur non solo esprime il cuore della fede ebraica, ma anche riflette le “differenze inconciliabili” tra questa e la fede cristiana.
I simboli del Kippur, infatti – il sommo sacerdote, il tempio, il sacrificio, il capro espiatorio, la cancellazione delle colpe – hanno assunto nel cristianesimo un significato del tutto nuovo.
Di Segni ha spiegato il significato ebraico della festa e la sua inconciliabilità con la fede cristiana in un articolo pubblicato lo scorso anno sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano”, in occasione dalla precedente festa del Kippur.
Ma successivamente “L’Osservatore Romano” ha dedicato spazio anche all’altra faccia della questione.
Cioè a come il Nuovo Testamento rivoluziona i simboli del Kippur.
Il testo neotestamentario chiave è la Lettera agli Ebrei.
In essa il nuovo e definitivo Giorno dell’Espiazione è il sacrificio di Cristo sulla croce.
L’autore dell’analisi pubblicata da “L’Osservatore Romano” è un sacerdote e biblista africano, Christopher Robert Abeynaike, monaco cistercense, che sullo stesso tema ha scritto la sua tesi di dottorato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, nel 2008.
La sua analisi è molto dotta ma anche di rara chiarezza.
E mette in luce il legame essenziale che la Lettera agli Ebrei stabilisce tra il sacrificio di Cristo, l’ultima cena e la liturgia eucaristica.
Ecco qui di seguito i due testi sul Giorno dell’Espiazione ebraico e cristiano, quello del rabbino Di Segni e quello di padre Abeynaike.
Un esempio di dialogo che va al cuore delle due fedi e proprio per questo non teme di illuminarne le differenze.
2.
L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento.
Ultima cena e sacrificio di Christopher Robert Abeynaike Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena.
Quest’affermazione potrebbe a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento esplicito e diretto all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di “sacerdote” – o piuttosto, “sommo sacerdote” – e di “mediatore della Nuova Alleanza”.
L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato: l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione, il Kippur.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali.
Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8; Ebrei 9, 18-22).
Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il “Santo dei Santi” dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (Levitico 16; Ebrei 9, 6-10).
Ma secondo quanto dice il nostro autore: “è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri” (Ebrei 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (Ebrei 9, 6-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di: – un nuovo sacerdote – “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Salmo 110, 4); – un nuovo sacrificio – “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9); – una nuova alleanza – “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri.
Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Geremia 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza.
Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice: “Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri […] non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], procurandoci così una redenzione eterna.
[…] Il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente.
Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza” (Ebrei 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda.
Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole: “Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26, 28).
Dicendo infatti le parole “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, Cristo, si manifestava come il mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8).
Aggiungendo le parole “versato per molti in remissione dei peccati”, egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata: “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (31, 34).
Inoltre, le parole: “il mio sangue versato per molti in remissione dei peccati” – dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima – non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione.
Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – “Entrò una volta per sempre nel santuario” (Ebrei, 9, 12) – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore il parallelo con l’azione del sommo sacerdote levitico, il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui l’autore della Lettera agli Ebrei avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza.
Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo.
Le parole, invece, sul pane – “Questo è il mio corpo” – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9).
L’autore della Lettera infatti commenta al riguardo: “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebrei, 10, 10).
Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni offerti da Melchisedek (Genesi 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro autore che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena, fosse appunto – in adempimento del vaticinio del salmo 110, 4 – il sacerdote “al modo di Melchisedek”.
In conclusione, possiamo dire che quando l’autore della Lettera agli Ebrei – nel cuore della sua epistola, ai versetti 9, 11-15 – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena.
I versetti immediatamente seguenti lo confermano: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue” (Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca “diathéke”, usata nella versione dei Settanta per tradurre la parola ebraica “berith”, alleanza, mentre nel greco contemporaneo significava testamento.
Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno.
Come una “diathéke”, un testamento, diventa valida solo alla morte del testatore, così pure la “diathéke”, l’alleanza proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca “diathéke”, un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune: il concetto di un’eredità.
L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan.
L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio.
Quindi, noi troviamo Cristo che nell’ultima cena si manifesta non solo nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Ebrei 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu: – un sacrificio in cui Cristo “offrì se stesso a Dio” (Ebrei 9, 14) per la remissione dei peccati; – la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; – la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in “eredità eterna” (Ebrei 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce doveva seguire ineluttabilmente.
Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice.
Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione è entrato nel santuario celeste “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebrei 9, 24), “procurandoci così una redenzione eterna” (Ebrei 9, 12).
Proprio perché Cristo “offrì se stesso con uno Spirito eterno” (Ebrei 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane “sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek” (Ebrei 6, 20).
Abbiamo dunque, potremmo dire, un “Giorno di Espiazione” che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice: “Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Ebrei 9, 14).
E ancora: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario [celeste] per mezzo del sangue di Gesù e un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci…” (Ebrei, 10 19-22).
In un altra occasione l’autore parla di cristiani come di un popolo che si è accostato “al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione” (Ebrei 12, 22-24).
Il “sangue di Gesù” è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella preghiera liturgica in cui si afferma che ogni volta che la messa è celebrata “si effettua l’opera della nostra redenzione” (cfr.
“Presbyterorum ordinis” 13).
Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo: “Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare” (Ebrei 13, 10).
San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella prima lettera ai Corinzi (10, 14-22) paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (Levitico 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto.
Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6, 56-57).
Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra.
Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende.
Giustamente i padri orientali l’avevano chiamata “sacrificium tremendum”.
È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – la “ars celebrandi” – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti.
È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale in corso, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano II: “I presbiteri esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico” (Lumen gentium 28).
(Da “L’Osservatore Romano” del 24 luglio 2009).

‘Italiano e Religione cattolica fanno identità e integrazione’

La scuola “ha sempre di più il compito di assolvere ad una funzione di integrazione, per questo stiamo puntando su insegnamento della lingua italiana ai bambini stranieri e sull’educazione alla cittadinanza”.
Lo afferma il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, intervenendo alla presentazione del rapporto curato dal comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini.
Ma la scuola “rappresenta anche un luogo in cui si difende l’identità del Paese”, continua Gelmini, “da qui deriva la mia difesa dell’ora di religione e della presenza del crocefisso”.
E si deve “difendere l’identità perchè  il rispetto dell’altro non significa un resa; su questo bisogna essere chiari, altrimenti non si garantisce l’integrazione nè si fornisce ai nostri ragazzi la possibilità di avere un patrimonio culturale che è quello del loro Paese”.

Terstimoni del nostro tempo: Adriano Olivetti

“Prima che i popoli dimentichino i crimini, i massacri, le rovine, la desolazione, chi è chiamato a stabilire il nuovo edificio sociale bene si accerti che la metafisica razzista non fu che odio, menzogna, avidità.
Soggiacendo a essa, intere collettività caddero nell’errore e nel peccato”.
Per questo, e altri motivi, sosteneva Adriano Olivetti (Ivrea, 1901- Aigle, 1960) in uno scritto del 1946, “la libertà vive soltanto in una società compiutamente cristiana”.
Lo scritto – con altri testi – figura in appendice alla biografia, oggi rinnovata e ampliata da Valerio Ochetto, che anni fa ne curò una prima versione: Adriano Olivetti, (Venezia, Marsilio, 2009, pagine 356, euro 12) dedicata all’imprenditore eporediese.
Era figlio del più noto Camillo (1868-1943), il fondatore dello storico gruppo industriale che partendo dalla produzione di macchine da scrivere sarebbe giunto a posizioni di assoluta preminenza internazionale nel settore informatico e nell’automazione da ufficio.
Imprenditore, intellettuale, politico, ma soprattutto uomo pratico e di pensiero a un tempo, Adriano Olivetti era dotato d’inventiva fervida e di passione per la giustizia, qualità cementate da un profondo spirito di servizio alla persona e al bene comune.
Nel 1946 egli stava fissando i punti preparatori alla realizzazione del nascituro Movimento Comunità, la sua personale repubblica di Utopia, basata sull’ideale di un’armonia possibile, e comunque sempre da perseguire, tra impresa, territorio e società umana.
Di fatto, nel 1945, aveva scritto L’ordine politico delle Comunità: la base teorica per una concezione federalista di Stato ove per l’appunto le comunità – entità territoriali culturalmente ben definite e in grado di esprimersi autonomamente sul piano economico – garantissero un armonico sviluppo sociale nell’industria come nell’agricoltura, salvaguardando i diritti umani e promuovendo forme di democrazia partecipativa.
La guerra era appena finita e Olivetti, che da antifascista militante aveva vissuto e sofferto in prima persona per la tragedia e per la rovina dell’Italia, avvertiva i rischi di una ricostruzione limitata alla sola dimensione superficiale e materiale.
Dopo un primo periodo d’interesse per le istanze mussoliniane si era opposto con forza al regime, talvolta in termini molto concreti come quando aveva partecipato con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini alla liberazione di Filippo Turati.
Durante il conflitto era stato ricercato per attività sovversiva e si era dovuto rifugiare in Svizzera.
Ora che le armi tacevano si faceva la conta dei danni; non solo quelli materiali.
La devastazione bellica infatti era penetrata nelle fibre del tessuto sociale e non aveva risparmiato le coscienze.
Solo uno spirito autenticamente cristiano, “che è amore, verità, carità”, avrebbe potuto – nei vinti come nei vincitori – essere, un domani, forza animatrice di una civiltà più umana.
Nella visione di Olivetti “la società della Comunità, essenzialmente cristiana, per affermarsi compiutamente” avrebbe quindi dovuto apportare “una frattura definitiva al sistema basato su un duplice assurdo economico e morale: l’economia dei profitti e il regime feudale nell’industria e nell’agricoltura.
(La rivoluzione Francese – diceva Olivetti – proclamò l’uguaglianza, la fraternità, la libertà.
Ma essendole sfuggita quella trasformazione sociale che le imponeva la proclamata fratellanza, non seppe condurre né a vera libertà, né a vera a eguaglianza)”.
E quindi l’imprenditore d’Ivrea sottolineava con lungimiranza come “nemmeno la trasformazione sociale da sola potrebbe creare la libertà se all’egoismo dei pochi si sostituisse l’egoismo dei molti e se la struttura creata per eliminare la dominazione dell’uomo sull’uomo portasse a una dominazione dello Stato sulla persona” (p.
324).
Il primato della morale in economia come in politica doveva essere un punto fermo.
La democrazia basata esclusivamente sulla maggioranza e sul consenso dei molti qualora parta da presupposti egoistici, e vada covando interessi di parte, non può che produrre oppressione e ingiustizia.
La stessa Europa, per Olivetti, non avrebbe potuto accettare una comune legge morale diversa da quella cristiana dichiarandosi certo che “gli uomini politici che sentiranno nella loro vita interiore la luce della grazia e della rivelazione cristiana e agiranno nel suo impulso o accetteranno, pur senza riconoscerne la trascendenza, il contenuto umano e sociale dell’Evangelo, sono destinati ad avere in se stessi dei valori inesauribili e insostituibili” (p.
325).
In realtà l’idea di Comunità in Olivetti aveva radici antiche, ma si era evoluta e precisata proprio negli anni della dittatura e della guerra.
Nato in un contesto familiare dai caratteri culturali ben definiti, con il padre Camillo, ebreo, e socialista, e la madre Luisa Revel, valdese, Adriano Olivetti si era laureato nel 1924 in ingegneria chimica.
Dopo un soggiorno negli Stati Uniti dove aveva studiato pratica aziendale, entrò nella fabbrica familiare.
Prima come semplice operaio, per volontà del padre Camillo (1926); quindi nel 1933 divenne direttore della Società Olivetti e infine presidente, nel 1938.
L’esperienza del Movimento di Comunità nel canavese ebbe concreto inizio a partire dal 1952, quando gradualmente gli amministratori comunitari assunsero la guida di cinque comuni.
Poi, nelle elezioni del 1956, il Movimento Comunità risultò presente in settanta comuni canavesani, in quarantadue dei quali in posizione di maggioranza.
Tre componenti essenzialmente informavano questa realtà: il pensiero socialista e libertario, l’ideale cristiano e la visione personalistica di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain.
L’esperienza di Comunità, com’è noto, sopravvisse di pochi anni al suo fondatore.
Detto questo resta il complesso profilo di un uomo la cui storia – come scrive Ochetto – coincide con quella di discipline e di prospettive culturali che oggi in Italia sono esperienza comune, ma all’indomani della seconda guerra mondiale apparivano stramberie – o “americanate”, come le chiamava Benedetto Croce.
“Stramberie” che Olivetti “lottò per introdurre: la sociologia contemporanea, il management, l’urbanistica, la pianificazione territoriale” (p.
9).
Un dato non va sottovalutato e riguarda la dimensione interiore dell’uomo.
“Nel 1949 – ricorda Ochetto – Adriano si fa battezzare nella Chiesa cattolica”.
Olivetti si sarebbe poi sposato in seconde nozze, avendo ottenuto lo scioglimento da una prima unione matrimoniale contratta col solo rito civile.
Si potrebbe pensare quindi che dietro a questa scelta vi fosse un motivo strumentale: la possibilità di risposarsi, questa volta in chiesa, con la moglie credente.
In realtà la conversione era determinata dalla convinzione maturata della “superiorità teologica della Chiesa cattolica”.
La scelta di Adriano Olivetti veniva da lontano, come ebbe a dire un giorno a un conoscente: “Dopo la morte di mia Madre venne a cessare la ragione sentimentale e umana che mi tratteneva dall’entrare nella Chiesa che da un punto di vista teologico era nella mia coscienza certamente l’unica universale e quindi eterna: la Chiesa Cattolica” (p.
240).
(©L’Osservatore Romano – 24 settembre 2009)

La sfida educativa

COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (CEI), La sfida educativa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, pagine 223, euro 14 In nome di una sterile ‘neutralità’, la nostra società ha abdicato al suo ruolo di formatrice delle nuove generazioni.
Nel rapporto del Comitato per il Progetto Culturale CEI, il tema centrale dell’educazione.
Stiamo vivendo una vera ‘emergenza educativa’.
Mentre per le società del passato l’educazione era un compito largamente condiviso, per la nostra sta diventando soprattutto una sfida.
Se fino a ieri sembrava quasi scontato che la generazione adulta dovesse farsi carico dell’educazione della nuova, ormai questo automatismo si sta dissolvendo.
Il rapporto curato dalla CEI vuole sollecitare una riflessione sullo stato dell’educazione e, più in generale, sulla realtà esistenziale e socioculturale dell’uomo d’oggi, alla luce dell’antropologia e dell’esperienza cristiane.
L’obiettivo è quello di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo, nel nostro Paese, a una sorta di alleanza per l’educazione; un’alleanza che sia in grado di coinvolgere – con un raggio d’azione che vada ben oltre l’ambito del cosiddetto mondo cattolico – tutti i soggetti interessati al problema, dalla famiglia alla scuola, al mondo del lavoro, a quello dei media.
Attraverso l’individuazione di alcuni temi particolarmente sensibili allo stato di attuale ‘emergenza’ – dallo sviluppo affettivo e sessuale della persona al suo rapporto con le nuove forme di socialità, anche elettroniche, dall’educazione nell’ambito dello sport, della moda e dello spettacolo al vissuto scolastico delle giovani generazioni – il volume offre un quadro complessivo dei problemi più urgenti, e, anche sulla base di dati empirici, prospetta una serie di soluzioni operative.
Il Progetto Culturale promosso dalla Chiesa italiana viene costituito nel 1997 all’interno della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana, su iniziativa del cardinale Camillo Ruini, come centro di raccordo tra le diocesi, i centri culturali cattolici, le associazioni e i movimenti, gli ordini religiosi, le Facoltà teologiche, le riviste e gli intellettuali di matrice cattolica.
Il Servizio collabora con gli Uffici della CEI per sviluppare l’aspetto culturale dell’evangelizzazione nei diversi settori della vita della Chiesa; svolge un’azione di monitoraggio, di osservatorio e di documentazione sulle iniziative volte a coniugare fede e cultura; organizza incontri di studio a carattere nazionale su temi di rilievo per il progetto culturale; coordina il Centro Universitario Cattolico.

Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale

ROGER LENAERS, Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale, Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: Un catechismo, sì, nel senso di un’esposizione completa della dottrina cristiana.
Ma la definizione potrebbe essere fuorviante, perché Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale (Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: il libro è acquistabile anche presso la nostra agenzia, telefonando allo 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi a www.adistaonline.it/index.php?op=adistalibri) è un testo scritto con un linguaggio diverso dall’“ecclesialese” di cui sono infarciti tanti documenti del magistero cattolico e tante prediche, accessibili solo ad un pubblico di “iniziati”; un libro lontano da una visione della Chiesa e della società che l’autore stesso definisce “medievale” e “irrimediabilmente passata”; un libro, soprattutto, che non proclama verità immutabili attraverso decreti autoritari, ma scardina alla radice dogmi secolari riformulando l’intera fede cattolica attraverso parole “viventi” ed in una prospettiva radicalmente nuova (Adista aveva già pubblicato ampi stralci del testo in una nostra traduzione dallo spagnolo, v.
n.
44/09).
L’autore, l’85enne gesuita belga Roger Lenaers, si pone infatti l’obiettivo di esprimere “la fede unica ed eterna in Gesù Cristo e nel suo Dio nel linguaggio della modernità”, nella consapevolezza che il “monumento grandioso” della vecchia Chiesa istituzionale finirà come l’imponente statua dai piedi d’argilla sognata da Nabucodonosor: “Una statua, una statua enorme, di straordinario splendore”, racconta la Bibbia (Dn 2,31-35), con “la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta”.
Una grande pietra si staccò dal monte dove si trovava, “ma non per mano di uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e di argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciar traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta quella regione”.
Ecco: secondo Lenaers le “verità” tradizionali fanno la fine di quella statua quando vengono a contatto con la luce dirompente del messaggio evangelico.
Nella presentazione del suo libro, il gesuita belga – che dal 1995 (dopo il pensionamento) ha scelto di fare il parroco a Vorderhornbach, sulle montagne tirolesi – spiega che se “per l’uomo occidentale del terzo millennio il linguaggio della tradizione cristiana è diventato un idioma estraneo”, diventa improrogabile il compito di tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio in cui l’uomo e la donna moderni possano riconoscersi.
E spiega: “Non abbiamo ricevuto la nostra fede per tenerla sepolta nel campo del passato, ma per spargerla e seminarla”.
E per farlo Lenaers opera una revisione totale del catechismo cattolico, rileggendo ad uno ad uno tutti i temi della dottrina nella chiave del passaggio dall’“eteronomia” alla “teonomia”, una operazione che intende operare una “riconciliazione tra l’autonomia dell’essere umano e la fede in Dio”.
Eteronomo, secondo l’autore, è l’universo mentale delle rappresentazioni cristiane tradizionali, secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni.
Un universo mentale che attraversa l’Antico e il Nuovo Testamento, l’eredità dei Padri della Chiesa, la scolastica, i concili, la liturgia, i dogmi e alla loro elaborazione teologica, tutti basati sull’“assioma dei due mondi paralleli”.
La teonomia, invece, “riconosce in Dio la dimensione più profonda di ogni cosa e pertanto anche la legge (dal greco: nomos) interna del cosmo e dell’umanità”.
In questo pensiero “esiste un solo mondo: il nostro.
Ma questo mondo è sacro poiché è la costante autorivelazione di quel mistero santo che intendiamo con la parola Dio”, un Dio che “non è mai fuori ma che è stato sempre al centro”, come la più profonda essenza di tutte le cose, la legge interna del cosmo e dell’umanità.
È nella prospettiva della teonomia, quindi, che Lenaers rilegge le formulazioni eteronome della dottrina relativamente alle Sacre Scritture, alla Tradizione, alla gerarchia, alla cristologia, alla Trinità, a Maria madre di Dio, alla resurrezione, alla vita dopo la morte, ai sacramenti.
Anche perché “molte delle rappresentazioni tradizionali non sono così antiche come per lo più si afferma pertanto non appartengono alla ‘buona novella’ originaria”: “La confessione della divinità di Gesù ricorda ad esempio Lenaers – ha impiegato vari secoli per entrare a far parte del deposito della fede; tre secoli sono trascorsi prima che lo spirito di Dio venisse visto come una persona divina; ce ne sono voluti quattro per la dottrina del peccato originale ereditario; mille per riconoscere il matrimonio come sacramento; e molti di più per l’infallibilità papale e i dogmi mariani.
Era forse impossibile essere veramente cristiani nei tempi precedenti a queste formulazioni?” di Valerio Gigante in “Adista” – Notizie – n.
94 del 26 settembre 2009