Uomovivo

Come il gran vento arrivò a casa Beacon  Il vento si levò alto ad occidente come un’onda d’irragionevole felicità, e si slanciò verso oriente sull’Inghilterra, portando seco il nevoso aroma delle foreste e la gelida ubbriachezza del mare.
In mille buchi e cantucci ristorò la gente come un boccale di vin fresco e la sorprese come una percossa.
Nelle stanze più riposte di case labirintiche e recondite, suscitò come un’esplosione domestica; seminò l’impiantito di fogli professorali, tanto più preziosi quanto più fuggitivi; e spense la candela al lume della quale un ragazzo leggeva l’Isola del Tesoro, avvolgendolo in un’oscurità piena di rombo.
E dappertutto suscitò drammi in esistenze senza dramma, e suonò le trombe della crisi sul mondo.
Più d’una madre meschina, in qualche povero cortile, aveva guardato cinque camicine tese ad asciugare come si guarderebbe una tragedia miseranda; quasi ella avesse impiccato i suoi piccini.
Arrivò il vento: le camicine si gonfiarono e balzarono, come se vi fossero saltati dentro cinque grassi folletti; e nella stanca subcoscienza ella ricordò confusamente le rozze commedie de’ padri, a’ tempi che gli elfi abitavano ancora le case degli uomini.
Più d’una fanciulla derelitta, in un giardino murato e umidiccio, s’era buttata sull’amaca con lo stesso gesto di non poterne più col quale avrebbe potuto buttarsi nel Tamigi; e il vento le squarciò intorno l’ondeggiante muraglia di fogliame, e sollevò l’amaca a guisa di pallone, rivelando strane forme di nuvole in alto, e lontane visioni di villaggi splendenti, quasi che ora ella viaggiasse pel cielo in una magica barca.
Più d’un impiegato o d’un curato scarpinava tutto polveroso per una strada telescopica fiancheggiata di pioppi, rassomigliandoli per la centesima volta a pennacchi d’un carro funebre: quando cotesta forza invisibile li curvò a diadema intorno alla sua testa, e li fece rombare come un saluto d’ali angeliche.
E v’era in tutto ciò qualcosa d’ancor più ispirato e imperativo che non nel vecchio vento del proverbio; perché questo era il buon vento che non fa male a nessuno.
La folata s’abbatté nel punto ove Londra si inerpica sulle alture settentrionali, di terrazza in terrazza, scoscesa come Edimburgo.
Fu press’a poco in cotesto punto che qualche poeta, probabilmente ubriaco, guardò stupefatto tutte quelle strade che salivano verso il cielo, e (pensando vagamente a’ ghiacciai e agli alpinisti legati alle corde) dette alla località quel nome di Villaggio Svizzero che non le è più riuscito di levarsi d’addosso.
A una certa altezza, una fila di case alte e grige, vuote la maggior parte e desolate come i Grampiani, piegava ad arco verso occidente; e l’ultimo edificio, una pensione chiamata “Casa Beacon”, presentava al tramonto uno spigolo tagliente e torreggiante, come la prua d’una nave abbandonata.
Ma la nave non era abbandonata del tutto.
La proprietaria della pensione, certa signora Duke, era di quelle creature imbelli contro le quali il destino s’accanisce invano; ella sorrideva vagamente, avanti e dopo le sue sciagure, troppo molle per restarne colpita.
Con l’aiuto (o piuttosto sotto gli ordini) d’una nergica nipote, tratteneva i resti d’una clientela per la maggior parte giovane e bighellona.
Appunto cinque ospiti stavano ad annoiarsi in giardino, quando la raffica venne a rompere alla base del bastione retrostante, come il mare contro una scogliera.
Tutto il giorno quella collina di case sopra Londra era rimasta sigillata dentro una cupola di fredde nubi.
Malgrado ciò, tre uomini e due ragazze avevano finito per trovar preferibile il giardino, grigio e freddo, alle stanze nere e piene di malinconia.
Il vento giunse, spaccò il cielo, scaricò a destra e a sinistra la nuvolaglia, e spalancò le grandi fornaci radiose dell’oro serotino.
E l’irrompere della luce liberata e l’irrompere del vento, parvero avvenire quasi allo stesso istante; e il vento travolse ogni cosa in una violenza convulsiva.
L’erba corta e lucente si piegò tutta per un verso, come i capelli sotto la spazzola.
storica traduzione di Emilio Cecchi.
 GILBERT KEITH CHESTERTON, Uomovivo, Morganti Editori,  2009, Codice EAN: 9788895916019, pg.
256,  € 15,00 Continua la primavera italiana di Gilbert Keith Chesterton.
Dopo la riedizione di L’uomo eterno (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008) – era stata fuori commercio per oltre settant’anni – le doppie nuove traduzioni del San Francesco d’Assisi (Mursia e Lindau) e del San Tommaso d’Aquino (Fede&Cultura e Lindau), è tornato anche il suo capolavoro:  Uomovivo (Sona, Morganti, 2009, pagine 256, euro 15).
Era riapparso nel 1997 per Piemme nella memorabile traduzione (1933) di Emilio Cecchi.
In questa nuova versione di Paolo Morganti viene ripristinato il titolo originale Manalive, splendidamente tradotto con Le avventure di un uomo vivo.
E dire che lo stesso Chesterton dava grande importanza al soprannome del suo protagonista, tanto da precisare:  “Dovete scriverlo tutto attaccato, oppure lui si arrabbia davvero”.
Ma chi è, dunque, questo “uomovivo”? È Innocenzo Smith, vitale come una scimmia, fisico colossale e testa piccola, che compare d’improvviso in una locanda dove un pugno di giovani inquilini spreca la propria esistenza nell’indecisione.
Smith è bufera umana.
Al suo passaggio, folle e smisurato, avvengono episodi inspiegabili:  improvvise proposte di matrimonio, furti, rapimenti e pistolettate a chi non festeggia il proprio compleanno.
L’onda di avvenimenti anomali preoccupa le autorità e viene improvvisato un processo surreale per capire chi è Innocenzo Smith.
Un rivoluzionario, uno “che ha spezzato le consuetudini, ma ha conservato i comandamenti”, come vuole la difesa? Oppure – come sostiene l’accusa – uno che “ha lasciato nel mondo, dietro di sé, una lunga scia di sangue e di lacrime”, un “grande diavolo fantastico” da rinchiudere in una fortezza protetta da cannoni? Due posizioni inconciliabili, assolute.
Da teodicea.
E in effetti viene da chiedersi se Innocenzo Smith non sia in una certa misura una figura tipologica di Cristo, l’innocente che non apre bocca mentre lo processano. D’altra parte la metafora del processo metafisico – tanto cara a Dostoevskij, Kafka, Lagerkvist o Wiesel – torna spesso nella narrativa di Chesterton (L’uomo che fu giovedì, la conclusione di Il club dei mestieri stravaganti, Quattro candide canaglie, e così via).
Ma i suoi romanzi finiscono con improvvisi proscioglimenti da ogni accusa.
Allegre assoluzioni.
Chi è, allora, Innocenzo Smith? Certamente non la versione maschile di Mary Poppins in salsa dolciastra.
Perché Smith è innocente, ma non ingenuo.
Anzi, è genuino proprio perché non è ingenuo.
Cani e bimbi – invocati dal suo avvocato nel finale – sono ingenui, perché non possono scegliere il male; mentre Smith è innocente perché ha conosciuto la malattia nichilista, però ha optato coraggiosamente per un’altra strada.
Nelle pagine che raccontano la disputa dell’ancora giovane Smith con il suo professore universitario, il pessimista Emerson Eames, si percepisce un’impellenza straordinaria, palesemente autobiografica.
Perché Smith prende sul serio la filosofia del suo professore:  o, come egli sostiene, la vita è orribile nonsenso, e allora morire è un dono da regalarsi subito; oppure è la filosofia pessimistica a essere un orribile nonsenso, e allora bisogna estirparla con acribia.
Provato che, nonostante i suoi roboanti proclami, il professor Eames si aggrappa alla vita quando gli viene puntata addosso una pistola, Innocenzo si dedicherà con zelo alla seconda alternativa.
Ma le parole che suggellano la sua scelta sono, letteralmente, lapidarie:  “Io dovevo provare che lei aveva torto o dovevo morire”.
L’innocenza di Smith è stata comprata a caro prezzo.
Egli non è irragionevolmente felice perché non ha mai conosciuto la disperazione, ma ragionevolmente entusiasta perché l’ha attraversata a nuoto, guadagnandosi la gioia di vivere bracciata dopo bracciata.
“Fino a che non vediamo lo sfondo di tenebra – scriverà Chesterton in Eretici – non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata”.
Solo nel momento in cui ci si rende conto che le cose potrebbero benissimo non esserci, si smette di dare per scontata l’esistenza, nonostante la scandalosa costanza del suo ripetersi.
Il percorso di Smith altro non è che quello dello stesso Chesterton, il quale in gioventù si occupò “superficialmente d’infinite cose”; perfino di spiritismo.
Aveva mille strumenti sparsi attorno a sé, ma inutilizzati; e la sua volontà era paralizzata nello stallo di un’equidistanza intellettualista.
L’iconografia classica del melanconico.
Anche Chesterton, come Smith, affrontò un duello mortale con la disperazione, ma sconfisse la sua novecentesca “malattia dell’infinito” nel momento stesso in cui incontrò il volto dell’Infinito.
E scoprì che esso aveva una faccia umana, naso bocca e due gambe, proprio come l’amabile gente comune, creata a Sua immagine.
Chesterton riconobbe l’Innocente negli occhi dell’uomo comune e volle essere il suo difensore.
(©L’Osservatore Romano – 4 ottobre 2009)

Cambi importanti

Proprio mentre in Italia, tra agosto e settembre, era in atto la drammatica defenestrazione di Dino Boffo, direttore unico dei media di proprietà della Chiesa cattolica, sull’altra sponda del Tevere si preparava in silenzio e quiete il cambio al vertice di un altro ente chiave, lo IOR, Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana.
Anche lo IOR, propriamente, sta vivendo tempi burrascosi.
Un libro che ne descrive le malefatte, con tanto di documenti inoppugnabili, è da mesi nell’alta classifica dei best seller.
In esso però la brutta figura non è dello IOR in quanto tale, ma delle sue pecore nere di un tempo che fu, i monsignori Paul Marcinkus e Donato De Bonis.
Il banchiere Angelo Caloia, presidente dello IOR negli ultimi quindici anni, esce anzi dal libro con l’aureola del cavaliere bianco, del coraggioso che ha cacciato i ribaldi, ripulito le stalle, restituito alla banca del papa un’immagine virtuosa.
Il suo congedo e la nomina come successore di Ettore Gotti Tedeschi (nella foto) sono stati annunciati in pace e reciproca stima tra i due, la mattina del 23 settembre.
Quello stesso giorno il direttivo della conferenza episcopale italiana, cioè i trenta cardinali e vescovi di prima fila, erano riuniti a Roma a porte chiuse per discutere di tante cose, tra le quali proprio la successione a Boffo.
Ma né da quel summit, né dai conciliaboli dei giorni successivi è finora uscito un orientamento unitario.
Boffo era molto più che un professionista dei media: era il “progetto culturale” del cardinale Camillo Ruini realizzato sul versante della comunicazione, era il tramite attraverso cui il messaggio della Chiesa si faceva “cultura popolare”.
Ruini era stato per sedici anni, dal 1991 al 2007, presidente della CEI e con lui la Chiesa era tornata protagonista dello spazio pubblico come mai in passato.
Il suo progetto era la perfetta trasposizione in Italia della visione planetaria di Giovanni Paolo II.
Via lui, le opposizioni al disegno ruiniano hanno ripreso fiato tra i vescovi, il clero, il laicato cattolico, oltre che nella segreteria di Stato vaticana.
C’era Boffo a tenere la linea di resistenza, dalla cabina di regia del quotidiano “Avvenire”, della tv Sat 2000, delle radio.
Ora che anche lui è saltato, travolto dal “Giornale” di Vittorio Feltri e Silvio Berlusconi, nonché impallinato da cattolici influenti che erano stati tra le sue firme pregiate, da Vittorio Messori a Giovanni Maria Vian, quest’ultimo attuale direttore de “L’Osservatore Romano”, la scelta di chi gli succederà dirà anche la futura direzione di marcia della gerarchia cattolica italiana.
Allo IOR è tutt’altra musica.
Lì il ricambio è già avvenuto e in piena trasparenza, per volontà della segreteria di Stato e con il placet di Benedetto XVI.
Se di Angelo Caloia le biografie erano scarne, rarissime le uscite pubbliche, insondabile il pensiero, tutto l’opposto accade con il suo successore alla testa della banca vaticana.
Di Ettore Gotti Tedeschi si conoscono vita e miracoli, simpatie e frequentazioni, agenda ed idee.
L’ultima sua sortita, prima della nomina, è stata il 19 settembre al Palazzo della Borsa di Genova.
Ha discusso, assieme all’arcivescovo della città e presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco, l’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.
Ha detto che l’attuale crisi mondiale dell’economia “ha avuto origine dal non aver seguito le indicazioni della ‘Humanae vitae’, cioè dalla negazione della vita e dal blocco delle nascite”.
Lo stesso concetto Gotti Tedeschi l’aveva espresso anche in un editoriale su “L’Osservatore Romano” dello scorso 6 giugno.
Se l’egemonia economica del mondo passerà dall’Occidente alla Cina, ha scritto, è per i differenti tassi di natalità e di densità di popolazione.
L’andamento demografico determina la crescita o la decrescita della capacità produttiva di un’economia.
Di figli ne ha cinque, Gotti Tedeschi: “e tutti da una moglie sola”, precisa.
Abita nelle campagne di Piacenza, dove è nato 64 anni fa, a Pontenure, non lontano dal grande fiume Po.
La mattina si alza prestissimo, come un monaco.
Con la sua Bmw raggiunge Milano all’alba.
Legge i giornali nel suo ufficio di presidente in Italia del Banco di Santander, la prima banca privata d’Europa, di proprietà di una famiglia laica di Spagna, i Botin.
Poi va a messa tutte le mattine, mai che ne salti una.
Insegna etica della finanza all’Università Cattolica di Milano.
Ma è anche consigliere della Banca San Paolo di Torino e della Cassa Depositi e Prestiti, che è il braccio operativo del ministero del Tesoro.
Il 23 settembre, mentre il Vaticano rendeva pubblica la sua nomina a nuovo presidente dello IOR, Gotti Tedeschi era a Roma proprio a una riunione decisiva della Cassa, ad approvare un piano industriale di 50 miliardi di euro in infrastrutture ed edilizia popolare.
La Cassa Depositi e Prestiti è creatura prediletta di Giulio Tremonti, l’attuale ministro del Tesoro, del quale Gotti Tedeschi è consigliere “per i problemi economici, finanziari ed etici nei sistemi internazionali”, una carica istituita apposta per lui.
Prima della nomina, Gotti Tedeschi non aveva mai messo piede allo IOR, né se n’era mai occupato.
Ma in Vaticano era già da qualche tempo di casa.
Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, l’aveva chiamato in aiuto un anno fa per raddrizzare la gestione finanziaria del Governatorato della Città del Vaticano, i cui bilanci sono andati in rosso nel 2008 per più di 15 milioni di euro.
La cura pare abbia funzionato.
Il principale responsabile della cattiva gestione, il segretario generale del Governatorato, monsignor Renato Boccardo, è stato spedito a vescovo di Spoleto e Norcia, lui che ambiva a una nunziatura di primissimo ordine e per questo aveva persino rifiutato la sede di Vienna.
Al suo posto c’è ora il lombardo Carlo Maria Viganò, che tra non molto salirà anche al grado più alto del Governatorato, rimpiazzando l’attuale numero uno, il cardinale Giovanni Lajolo.
Come banchiere Gotti Tedeschi si è formato in quella nave scuola della grande finanza internazionale che è l’americana McKinsey.
Come cattolico si è convertito da “superficiale” a fervente negli anni Sessanta, con maestro spirituale Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica.
I libri che hanno rivelato il suo pensiero al grande pubblico sono “Denaro e Paradiso”, del 2004, con prefazione del cardinale Giovanni Battista Re, e “Spiriti animali.
La concorrenza giusta”, edito dall’Università Bocconi e con la prefazione di Alessandro Profumo, presidente della prima banca italiana in Europa, Unicredit.
Ma poi vi sono state anche altre sue uscite pubbliche minori, eppure non meno rivelatrici.
Nel 2007 Gotti Tedeschi, lui che è il più cattolico dei banchieri, firmò un manifesto ultraliberista in 13 punti lanciato dall’ex segretario del laicissimo partito radicale, Daniele Capezzone.
Il manifesto proponeva un’unica “flat tax” al 20 per cento, il presidenzialismo sul modello americano o francese, il credito d’imposta per la sanità e la scuola, l’obbligo per il pubblico amministratore di pagare i danni da lui arrecati, la pensione a 65 anni per tutti, la detassazione del lavoro straordinario, l’abolizione degli ordini professionali e del valore legale dei titoli di studio.
Anni fa Gotti Tedeschi propose di assegnare il Nobel per l’economia a Giovanni Paolo II, per l’enciclica “Centesimus annus”.
Più di recente a Benedetto XVI per la “Caritas in veritate”, alla cui stesura egli ha contributo.
Anche al premier inglese Gordon Brown ha quest’anno augurato il Nobel, per aver appoggiato su “L’Osservatore Romano” una sua proposta grandiosa e “vantaggiosa” di investimento nei paesi poveri, a favore di quei due o tre miliardi di persone che attendono solo di migliorare la loro vita.
Lo IOR appare fin troppo stretto per un nuovo presidente dai così vasti ed esplosivi propositi.
Ma l’avventura è appena cominciata.

Quanti stereotipi tra gli studenti

Sono stati resi noti in un convegno svoltosi oggi a Roma gli esiti, abbastanza sconcertanti anche se non sorprendenti, di un’indagine sugli studenti condotta tra il 2001 e il 2007 dall’Istituto di ricerca sulle popolazioni e le politiche sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
Sono stati coinvolti 3.200 giovani tra 12 e 13 anni e tra i 16 e 18 anni delle scuole medie e superiori di Milano, Venezia, Lucca e Salerno.
I dati sembrano indicare la notevole diffusione tra i giovani di alcuni stereotipi su integrazione, identità di genere e comportamento sessuale: quattro maschi su cinque, per esempio, sono convinti che le ragazze “vanno un po’ forzate” a letto, “altrimenti non si sbloccherebbero”.
L’infedeltà di una donna per il 62% dei giovani va posta sullo stesso piano di quella dei maschi, ma per oltre un terzo del campione è “più grave”.
Quanto al matrimonio, il 49% degli studenti propende per sperimentare prima la convivenza (si scende al 42% a Salerno).
Il 30% opta direttamente per il matrimonio, il 16% per la convivenza e basta (21% a Milano).
Sugli stranieri regna l’ignoranza: a Venezia e Lucca solo il 20% dei ragazzi ha saputo quantificare correttamente la presenza di immigrati, mentre il 50% tende a sovrastimare il fenomeno.

Dibattito sul Bullismo

Il ministro inglese dell’istruzione, il laburista Ed Balls, all’indomani del recente discorso tenuto dal primo ministro Gordon Brown ai membri del proprio partito, in occasione dell’avvio della campagna elettorale che porterà alle urne i cittadini britannici alla fine della prossima primavera, è tornato su uno dei punti cruciali del programma che i laburisti intendono proporre e che riguarda problematiche educative nelle scuole.
A fronte del fatto che una scuola inglese su 5 è stata al centro di episodi di comportamento antisociale da parte dei suoi studenti, l’amministrazione ha intenzione di lanciare una vera e propria sfida per ricondurre i comportamenti dei ragazzi a livelli accettabili.
All’associazione dei genitori che si rifà al partito laburista è stato ricordato il dovere di sostenere il lavoro della scuola, specialmente ora che si sta aprendo un nuovo, inquietante fronte legato alle attività di gruppi razzisti, in grado di influenzare pericolosamente i giovani.
Il prossimo gennaio è infatti attesa la presentazione di una relazione chiesta dal ministro per l’istruzione al responsabile del servizio ispettivo centrata su alcuni punti chiave: -se le misure di salvaguardia contro il diffondersi della mentalità razzista fra i giovani siano sufficienti, -se siano necessarie ulteriori misure per aumentare, nell’opinione pubblica, la fiducia negli insegnanti, al fine di proteggere i giovani dai rischi dell’indottrinamento e della discriminazione, in particolare tramite l’affiliazione ad associazioni di stampo razzista, -se le attuali misure di salvaguardia debbano essere più ampiamente diffuse nel paese attraverso i lavoratori della scuola.
Il problema appare tanto più pressante alla luce dei risultati di recenti inchieste in cui sembrano coinvolti un numero imprecisato di docenti, i cui nominativi non sono conosciuti, i quali sarebbero a loro volta affiliati ad organizzazioni razziste.
Al riguardo, l’amministrazione sta prendendo in considerazione l’opzione di sollevarli dall’insegnamento, non appena vengano identificati.

XXVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 2,18-24 Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio pla-smò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccel-li del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costo-le e richiuse la carne al suo posto.
Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica car-ne.
Il brano è stato scelto perché richiamato dal Vangelo odierno.
Esso è desunto dal cosi-detto racconto javista della creazione dell’uomo (Gen 2).
Si tratta di un racconto sulle origi-ni, che vuole cioè risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana.
Prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.
1.
Annotazioni – Il brano mette in evidenza due dimensioni essenziali dell’esistenza u-mana: prima dimensione, i presupposti positivi di un’esistenza felice, che Dio stesso crea e mette sul cammino dell’uomo, associandoli al suo apparire nel mondo: una natura mera-vigliosa (il giardino), aiuto nel lavoro (gli animali), amicizia ed amore tra uomo e donna, ecc.
(Gen 2); seconda dimensione, condizioni negative, derivate dal peccato dell’uomo: ver-gogna davanti a Dio, rapporti conflittuali tra uomo e donna, tra fratello e fratello; spropor-zione tra gli sforzi investiti nel lavoro ed i risultati ottenuti (Gen 3-4).
— Dio parla di un male dell’uomo, che intende superare mediante la sua creazione, cioè il «male» della solitudine (v.
18).
Gli uomini giungono alla pienezza del loro essere soltanto nel vivere comune.
Vivere da soli è una sofferenza, è un male («non è bene che l’uomo sia so-lo»).
— Gli animali costituiscono un aiuto per l’uomo, ma non si trovano al suo stesso livello (vv.
19-20).
Non possono né porsi in dialogo paritetico con l’uomo, né tantomeno sostituir-lo.
—L’immagine della «costola», dalla quale è «costruita» la donna (v.
22) sta ad indicare che l’uomo e la donna sono formati dalla stessa sostanza e perciò si appartengono mutua-mente.
Sono parenti, non sono estranei tra loro.
—Adamo esprime questo rapporto parentale tra lui e la donna.
Le parole: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (v.
23) sono espressioni proverbiali, che significano appunto pa-rentela, appartenenza.
— L’unione tra uomo e donna, che fonda una nuova famiglia, è più forte del legame che unisce figli e genitori (v.
24).
— Da sottolineare infine l’assoluta parità tra uomo e donna messa in chiaro dal testo bi-blico.
L’espressione «un aiuto che gli corrisponda» non vuole significare un aiuto in senso strumentale, subordinato, bensì un completamento, senza del quale non sarebbe possibile alcuna attività umana; le parole che completano la frase «che gli corrisponda» stanno ad in-dicare, appunto, la corrispondenza e la parità tra i due.
Sarà il peccato a trasformare que-sta parità in disuguaglianza (Gen 3,16).
Si può dire: la parità corrisponde alla volontà ori-ginaria di Dio; la disuguaglianza è conseguenza del peccato.
Seconda lettura: Ebrei 2,9-11 Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli ange-li, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che condu-ce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratel-li.
Siamo all’interno dell’introduzione della Lettera agli Ebrei, che sviluppa tutta una cri-stologia: in primo luogo l’Autore paragona Gesù ai profeti (1,1-2) e in secondo luogo alla Sapienza personificata ed agli angeli (1,4-2,19).
Gli angeli sono certo esseri celesti, ma Ge-sù, come uomo, è superiore a loro.
Mediante questi confronti la Lettera agli Ebrei esprime la fede nella divinità di Gesù.
Siccome Gesù si è abbassato al di sotto degli angeli, benché superiore ad essi, è stato in-coronato di onore e di gloria (v.
9).
Ciò corrisponde all’interpretazione cristologica del salmo 8.
— C’è di più: Gesù non solo si è umiliato, abbassandosi al di sotto degli angeli.
È andato oltre, ha addirittura sofferto la morte per tutti, e anche per questo gli è stata data la gloria.
Si tratta dello stesso pensiero che troviamo nell’inno di Fil 2,6-10.
Il volontario abbassa-mento di Gesù affrontato con la morte diventa causa della sua speciale esaltazione divina.
— Si presenta un parallelo tra creazione e redenzione (v.
10): come il mondo creato è o-pera di un solo Dio («per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose»), così anche l’opera della salvezza deve essere un’opera unica.
— Tra Colui che santifica e coloro che vengono santificati esiste una (misteriosa) comu-nione.
La santità dell’uno si trasmette ai molti, sì che la santità abbraccia tutti.
In tal modo la santità costituisce una famiglia, un legame tra fratelli e parenti («non si vergogna di chia-marli fratelli»).
— In poche parole, la Lettera agli Ebrei mostra lo stretto rapporto di appartenenza che esiste tra Gesù Cristo, che si abbassò nella morte, e tutti gli uomini che possono aver parte alla sua gloria ed alla sua santità.
Vangelo: Marco 10,2-16 In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie.
Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordina-to Mosè?».
Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ri-pudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.
Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola.
Così non sono più due, ma una sola carne.
Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento.
E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulte-rio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un al-tro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere que-sto, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso».
E, pren-dendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
Esegesi Il vangelo odierno si inserisce esattamente agli inizi del percorso compiuto da Gesù nel territorio della Giudea (10,1) verso Gerusalemme, e cioè verso l’ora della sua passione e morte, annunciata già due volte (8,31ss.; 9,30 ss.).
Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità, il tributo a Cesare, la risurrezione dei morti ed il primo comandamento segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità contro di lui, con la decisione di metterlo a morte.
Il che conferisce una tensione drammatica ad ogni dettaglio delle controversie, che non sono puramente accademiche nel magistero di Ge-sù.
Inoltre l’aver egli varcato i confini della Giudea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, aumenta il rischio cui vogliono esporlo i Farisei con la domanda sul divorzio.
Erode ha re-centemente ripudiato sua moglie, vivendo in relazione adultera con quella del fratello, per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 7,17-29).
Con la sua risposta, Gesù o avrebbe sconfessato il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure sa-rebbe incorso nel furore del re e della vendicativa Erodiade.
«È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?» (vv.
2-4).
La legge di Mosè accordava al marito il diritto di rimandare la moglie se avesse trovato in lei «un fatto indecoroso» (Dt 24,1).
Al tempo di Gesù, questo era oggetto di discussione tra due scuole rabbiniche: quel-la rigorista di Shammai che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie, quella lassista di Hillel che ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile.
I farisei con la loro domanda «mettono alla prova» Gesù, volendo indurlo sub-dolamente a pronunciarsi a favore o dei rigoristi o dei lassisti, per poi accusarlo.
«Per la durezza del vostro cuore» (vv.
5-6).
Gesù non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola, ma si vale di due principi ermeneutici che risolvono l’apparente problema: il primo dichiara che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di «concessione» accordata alla «durezza di cuore» (in greco sklerokardìa), vale a dire all’incapacità umana di intendere e fare la volontà di Dio.
Il secondo principio risale alla volontà originaria di Dio («all’ini-zio»), che si esprime nel suo progetto creatore, anteriormente al peccato e alla ribellione dell’uomo, volontà divina che nessuna legge successiva può invalidare.
«Chi ripudia la propria moglie… e se lei, ripudiato il marito» (vv.
11-12).
Donna ed uomo so-no messi sullo stesso piano.
Non è solo la donna colpevole di adulterio verso il marito (come si riteneva al tempo di Gesù, stando a come viene enunciata la domanda dei Fari-sei), ma anche il marito si rende colpevole di adulterio se rimanda la propria moglie e prende una donna sposata.
I diritti sono uguali, in linea con quello che Gesù ha detto sulla volontà originaria di Dio.
Chiunque li lede, uomo o donna, commette peccato di adulterio.
«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse» (vv.
13-16).
Posta ad immediato seguito delle dichiarazioni precedenti, la scena dei bambini e le parole che Gesù rivolge ai discepo-li (v.
15) assumono un significato particolare.
La «logica» su cui è fondato il vincolo ma-trimoniale è la stessa che si richiede per entrare nel regno di Dio: i bambini sono simbolo di questa logica, che non si ostina a far valere i propri diritti o a misurare i torti degli altri, che non persegue secondi fini, né avanza pretese, ma si affida a Dio con assoluta semplici-tà filiale.
Meditazione «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18).
Dopo averlo chiamato alla vita, il desiderio di Dio chiama l’uomo alla comunione.
Non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione l’adam può essere davvero a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce nell’esistenza.
«Voglio fargli un aiuto», afferma più precisamente Dio.
‘Aiuto’ in ebraico è detto con un termine (‘ezer) che solita-mente nel Primo Testamento ha per soggetto Dio.
Dio è infatti ‘aiuto’ per l’uomo, ma la sua prossimità e il suo sostegno si rendono presenti anche mediante le relazioni che gli uomini vivono tra loro.
Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione.
Tra noi essere u-mani non possiamo vivere un’alterità maggiore di quella che sussiste tra l’uomo e la don-na, eppure è proprio questa differenza a essere chiamata a diventare una ‘sola carne’.
«Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’u-nica carne» (v.
24).
È questa unità nella differenza a divenire segno dell’alleanza, cioè di quel rapporto con Dio che all’uomo è donato di accogliere nella sua esistenza.
Dio è l’Al-tro, il Trascendente, il Creatore, eppure con l’uomo egli vuole stabilire la sua comunione, oltrepassando ogni distanza.
Vivendo in una relazione d’amore e di dono reciproco, fino a divenire una sola carne, l’uomo e la donna intuiscono che tale deve essere anche la loro re-lazione con Dio: persino la differenza che c’è tra il Creatore e la sua creatura può essere vissuta – questo Dio promette ad Adamo donandogli Eva – non come lontananza o separa-zione, ma come spazio di dono, di incontro, di comunione.
L’astuzia del serpente inganne-rà Adamo ed Eva; mentendo li indurrà a credere il contrario.
La distanza che c’è da Dio è incolmabile, Dio non la vuole riempire con il suo dono e la sua prossimità, e allora Adamo, questa è la terribile suggestione del peccato, dovrà conquistarla con le sue mani, anziché accoglierla da quelle di Dio.
E il peccato comprometterà non solo la buona relazione con Dio, ma anche quella tra Adamo ed Eva.
Tra loro, anziché la logica del dono, si insinuerà, a causa del peccato, quella del potere o del possesso.
La comunione, infatti, ha i suoi criteri.
Diventare una sola carne è possibile solo se si è disposti ad assumere in se stessi la logica di Dio.
Il racconto della Genesi ce lo ricorda, con un linguaggio simbolico, ma nello stesso tempo suggestivo ed eloquente.
Eva è creata ed è donata ad Adamo nel sonno, mentre costui dorme.
Adamo non ha nessun potere su di lei.
Non è lui a progettarla, a immaginarla, neppure a meritarla; la può solo accogliere come dono gratuito per la sua vita.
Se può imporre il nome a tutte le altre creature del giardino, non può farlo con Eva.
«La si chiamerà donna» (v.
23).
Più che imporre un nome, Adamo deve riconoscerlo e riceverlo da altri.
Nel simbolismo biblico dire il nome di una realtà si-gnifica poter esercitare il proprio dominio su di essa.
Ma non sarà così tra Adamo ed Eva.
Adamo non potrà dominare Eva né esserne dominato: sono l’uno davanti all’altra, nella loro reciproca uguaglianza, «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (v.
23).
Diversi, ma eguali; diversi non per dominarsi o sottomettersi, ma per essere in comunione l’uno con l’altra.
Adamo dorme, ma Dio gli dona Eva togliendogli una delle costole e richiuden-do la carne al suo posto (cfr.
v.
21).
Questa ferita è come il simbolo della vita di Adamo che deve aprirsi a sua volta al dono.
Eva è un dono di Dio per Adamo, ma è un dono che passa attraverso la vita stessa di Adamo che nella ferita del suo costato viene dischiusa al dono.
Ricevendo il dono di Dio Adamo riceve se stesso in modo diverso, come un donatore.
La sua è una ferita aperta e richiusa, perché è entrando in questo spazio del dono che la vita di Adamo si compie pienamente.
Solo in questo momento egli diviene compiutamente uomo, in una sorta di seconda nascita.
«Così l’uomo nasce facendo nascere» (P.
Beau-champ).
La benedizione di Dio, il suo dono per la nostra vita, lo si accoglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza cioè che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio non alla dinamica del possesso, ma a quella del dono.
Nell’evangelo Gesù ricorda che è per la durezza del nostro cuore che Mosè scrisse la norma sul ripudio, ma non è questo il disegno originario del Padre.
Un cuore duro è ap-punto un cuore che non sa vivere in questa logica di Dio, segnata dalla gratuità e dal dono, che consente la vera comunione tra Dio e tra di noi, e anche tra l’uomo e la donna.
Più che alla stregua di un mero precetto, le parole di Gesù sono da intendersi come una promessa.
A chi accoglie la logica del Regno, che è il compimento del disegno creaturale del Padre, liberato e riscattato dal peccato introdotto dalla durezza di cuore dell’uomo, è offerta una possibilità nuova.
Gesù lo dirà poco più avanti, sempre in questo capitolo, ai discepoli stupiti di fronte alle sue parole sulla ricchezza.
«”E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”.
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”» (Mc 10,25-27).
La radicalità richiesta al matrimonio è simile a quella richiesta alla povertà: c’è un’impossibilità che l’uomo spe-rimenta a motivo della durezza del proprio cuore, che però può aprirsi ad accogliere la possibilità che viene da Dio.
La Legge di Mosè si è fatta carico del peccato dell’uomo of-frendo un rimedio misericordioso alla durezza del suo cuore.
Ma Gesù è più grande di Mosè e della sua Legge, egli ci offre non solo un rimedio, ma una possibilità nuova dentro la nostra impossibilità.
L’indissolubilità del matrimonio è «l’espressione del mondo che viene: solo chi partecipa del Regno nella sequela del re (cioè Cristo) ne diventa capace» (D.
Attinger).
In questo modo la fedeltà dell’amore tra l’uomo e la donna diviene davvero se-gno trasparente di ciò che Dio congiunge (cfr.
v.
9).
A unire l’uomo e la donna in modo in-dissolubile non è tanto un atto estrinseco o giuridico di Dio, quanto la qualità del suo amo-re che nel Regno ci viene donata, un amore fedele, accogliente, fecondo.
Da questo amore niente, neppure il peccato o la durezza del nostro cuore può separarci, come ricorda Paolo in Rm 8,35-39, e questo amore, regnando su di noi, ci consente di superare ogni possibile lontananza o separazione, vivendole nei vincoli di una più forte comunione.
È allora significativo che, a queste parole sulla radicalità del matrimonio, Marco ag-giunga subito dopo ciò che Gesù dice benedicendo i bambini che vengono a lui: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (v.
14-15).
Negli evangeli il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente.
Non può fare affidamento sulle proprie forze, ma su ciò che ancora deve attendere e ricevere da altri.
Si accoglie così il regno di Dio: co-me un dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo confidando nelle nostre possibili-tà.
Gesù accoglie i bambini e nello stesso tempo sottolinea il loro bisogno di dover acco-gliere.
Tale è il regno di Dio: da un lato è la manifestazione di un amore che ci accoglie persino nelle nostre debolezze; dall’altro è la manifestazione di un amore che si dona gra-tuitamente alle nostre debolezze rendendoci capaci di ciò che altrimenti ci rimarrebbe im-possibile.
Di questo amore la Chiesa è chiamata a farsi segno anche verso i rapporti coniugali tra l’uomo e la donna.
Da un lato deve annunciare una radicalità, quale l’indissolubilità del matrimonio, che in Gesù Cristo diviene possibile perché egli guarisce e scioglie la durezza del cuore umano; dall’altro deve rimanere come Gesù accogliente delle debolezze e delle impossibilità che gli uomini sperimentano, come bambini.
Ma a chi è come loro appartiene il regno di Dio! Dio garante dell’indissolubilità Il matrimonio è più del vostro amore reciproco, ha maggiore dignità e maggiore potere.
Finché siete solo voi ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia.
Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio fa andare e venire e chiama al suo regno.
Nel vostro sentimento godete solo il cielo privato della vostra felicità.
Nel matrimonio invece venite collocati attivamente nel mondo e ne diventate respon-sabili.
Il sentimento del vostro amore appartiene a voi soli.
Il matrimonio, invece, è una investitura, un ufficio.
Per fare un re non basta che lui ne abbia voglia.
Occorre che gli riconoscano l’incarico di regnare.
Così non è la voglia di amarvi che vi stabilisce come strumento di vita.
E’ il matrimonio che ve ne rende atti.
Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio.
E’ il matrimonio che, d’ora in poi, porta sulle spalle il vostro amore.
Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa.
Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte a ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno.
Dio è il garante dell’indissolubilità.
E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena, nessuna tentazione, nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito.
(Dietrich Bonhoeffer) Il diverso Il “diverso” originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della donna.
E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo riconoscimento della diversità della sessualità umana, il sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni ingiuste.
Proprio perché il tutto dell’humanum è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la pienezza della persona si realizza nella loro uni-tà.
L’uomo è per la donna e la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la ve-rità intera della persona umana.
L’intrinseca bontà o valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza.
Bontà e preziosità che non si trova in nessun altra relazione sociale.
Tocchiamo un punto fonda-mentale della vicenda umana e della sua comprensione.
Provo a dirlo in modo breve e per quanto riesco semplice.
All’origine, al “principio” della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se stesse.
Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna.
Il dato uma-no originario non è l’identità, ma la relazione; la “figura” dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna.
(Cardinale Carlo Caffarra, “Matrimonio e laicità dello Stato”, Congresso Telogico-Pastorale Internazionale di Valencia, 4 luglio 2006).
I cervi Si racconta che i cervi quando vogliono recarsi al pascolo, in certe isole lontane dalla costa, per attraversare la lingua di mare poggiano la testa sulla schiena altrui.
Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno.
In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano perché l’amore fa loro da nave.
(S.
Agostino) Due in una sola carne Dove potrei trovare parole in grado di descrivere quel matrimonio che la chiesa unisce, che l’offerta eucaristica conferma e la benedizione sigilla, gli angeli proclamano e il Padre ratifica? Difatti nemmeno qui in terra i figli possono contrarre il matrimonio secondo le norme stabilite e secondo il diritto vigente senza il consenso paterno.
Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio.
Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una so-la carne (cfr.
Gen 2,24; Mt 19,6; 1Cor 6,16; Ef 5,31).
E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito.
Infatti insieme pregano, insieme si prostrano davanti a Dio, insieme osser-vano le prescrizioni del digiuno, a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si riconfortano.
Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle perse-cuzioni, nelle consolazioni.
Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’al-tro, nessuno è di peso all’altro.
[…] Tra loro due risuonano salmi e inni, si sfidano recipro-camente a chi canta meglio al Signore.
Cristo gioisce al vedere e ascoltare queste cose e in-via loro la sua pace (cfr.
Gv 14,27).
Là dove due sono riuniti, egli è là, presente (cfr.
Mt 18,20) e là dove egli è presente, non c’è il Malvagio.
(TERTULLIANO, Alla consorte 2,8,6-8, SC 273, pp.
148-151).
La vita in due Grazie, Signore perché ci hai dato l’amore capace di cambiare le cose.
Quando un uomo e una donna diventano uno nel matrimonio non appaiono più come creature terrestri ma sono l’immagine stessa di Dio.
Così uniti non hanno paura di niente con la concordia, l’amore e la pace l’uomo e la donna sono padroni di tutte le bellezze del mondo.
Possono vivere tranquilli protetti dal bene che si vogliono secondo quanto Dio ha stabilito.
Grazie, Signore per l’amore che ci hai regalato.
(S.
Giovanni Crisostomo).

Testamento biologico: ragioni, nodi critici e prospettive

La questione del testamento biologico è divenuta, in questi ultimi anni, di grande attualità anche nel nostro Paese, a seguito soprattutto dell’esplosione di casi, come quelli di Welby e della Englaro, che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica.
Non si può sottovalutare, tuttavia, il rischio che, proprio per questo motivo, le reazioni emotive prevalgano sulle argomentazioni razionali, favorendo pronunciamenti affrettati e improduttivi.
A questo genere di pronunciamenti va ascritto anche il testo relativo alle «dichiarazioni anticipate di trattamento», approvato dal Senato il 26 marzo dell’anno in corso e ripreso (e ci auguriamo largamente rivisto) dalla Camera probabilmente nel prossimo autunno.
La riflessione sul testamento biologico riveste – va detto fin dall’inizio – particolare importanza sul piano etico soprattutto per la varietà dei temi che attorno ad esso si condensano e che hanno a che fare con le frontiere della vita e della morte: dall’autodeterminazione del paziente nei confronti delle cure al ruolo del medico (e del personale sanitario in genere), dalle cure palliative alla terapia del dolore, dall’eutanasia all’accanimento terapeutico.
Si tratta di una sorta di crocevia, in cui convergono i più significativi nodi critici riguardanti le situazioni esistenziali di fine-vita.
Le rapide note, che qui svilupperemo, prendono anzitutto avvio da una sintetica rilevazione delle ragioni strutturali e culturali, che hanno fatto emergere in questi anni, in termini sempre più insistiti, la richiesta di dare statuto giuridico al testamento biologico; per mettere, successivamente, in evidenza le problematiche più rilevanti legate alla sua stesura e alla sua applicazione; e delineare, infine, alcuni orientamenti volti a favorirne una corretta utilizzazione.
Alla base della richiesta di legalizzazione del testamento biologico, in quanto strumento destinato a far valere le proprie volontà circa i trattamenti cui essere o non essere sottoposti nella fase di finevita qualora ci si trovi in stato di incoscienza, vi è senz’altro l’accresciuta consapevolezza della dignità della persona, e dunque del rispetto dei diritti che ad essa fanno capo lungo l’intero arco della sua esistenza.
La modernità è infatti coincisa con lo sviluppo della civiltà dei diritti, il cui raggio di esercizio è venuto progressivamente dilatandosi, soprattutto a partire dall’ultimo dopoguerra.
Le Costituzioni degli Stati democratici e le Carte delle istituzioni internazionali – è sufficiente ricordare qui la Carta dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948 – hanno assunto, come perno della vita collettiva e come limite all’intervento degli Stati, la salvaguardia dell’autonomia della persona e il riconoscimento (nonché la possibilità di espressione) dei suoi fondamentali diritti.
In questo contesto deve essere dunque inserito il «diritto a morire dignitosamente», diritto che implica particolare attenzione alla qualità del morire in quanto momento supremo dell’esistere.
E, in questo contesto, acquista soprattutto sempre maggiore consistenza il bisogno di decidere, in modo autonomo, a quali cure si desidera essere o non essere sottoposti.
ambivalenza del progresso tecnico A sollecitare tale attenzione e tale bisogno hanno contribuito, in misura determinante, gli sviluppi della tecnologia in campo biomedico; essa, accanto ad esiti altamente positivi – si pensi ai grandi successi ottenuti in campo terapeutico con la sconfitta di malattie un tempo letali – fa registrare l’emergenza di nuovi rischi, primo fra tutti quello dell’accanimento terapeutico.
La possibilità di prolungare oltre misura la vita biologica, mediante interventi sempre più sofisticati e pervasivi, provoca spesso la dequalificazione della vita personale con grave attentato alla dignità umana.
E ciò soprattutto in presenza di una cultura, nella quale l’enorme successo della tecnica alimenta la tentazione del tecnicismo abusivo; mentre, a sua volta, il dilagare della mentalità scientista spinge a coltivare una concezione rigidamente «biologica» della vita.
Si afferma così una forma di prometeismo, che ritiene eticamente legittimo (considerandolo umanizzante) tutto quanto è tecnicamente possibile, e che considera positivo ogni prolungamento artificiale della vita, prescindendo dalle pesanti ricadute che spesso l’accompagnano sul piano umano.
Il confronto quotidiano con casi, che rivelano la disumanità di alcuni trattamenti sanitari, rende trasparente l’ambivalenza del progresso tecnico, e concorre ad accentuare il bisogno di esternare la propria volontà circa le cure nel momento in cui ci si venisse a trovare nell’impossibilità di farlo direttamente.
rimozione della morte Accanto a queste motivazioni di grande rilievo sul piano umano va tuttavia aggiunto – e costituisce un elemento tutt’altro che secondario – l’atteggiamento disturbato con cui si vive oggi il rapporto con la morte.
Ad avere il sopravvento è infatti la rimozione della morte, causata da un insieme di fattori, quali la sua radicale separazione dalla vita – si muore sempre più in ospizi ed ospedali, al di fuori cioè dei luoghi nei quali si svolge l’ordinaria esistenza –, la sua spettacolarizzazione – la televisione e internet ci mettono ogni giorno di fronte ad episodi di morte, ma si tratta di eventi spersonalizzati, che determinano scarso coinvolgimento e producono assuefazione –, e infine la perdita del simbolismo, sia religioso che laico, che in passato contribuiva, in qualche misura, a riscattarla.
Rimozione e perdita di significati sono poi ulteriormente accentuati dalla presunzione dell’uomo di aver raggiunto il controllo e il dominio di tutti gli ambiti della realtà con la conseguente percezione della morte come scacco insopportabile, come l’irruzione del non controllabile o del non dominabile; in una parola, di ciò che non può essere razionalizzato.
Da questo punto di vista, eutanasia ed accanimento terapeutico, pur rimanendo fenomeni di segno opposto, possono venire ricondotti a una identica matrice: la volontà dell’uomo di esercitare la propria signoria sulla morte, trasformandola da evento «naturale», di fronte al quale egli risulta del tutto impotente, in evento «culturale» sottoposto alla propria volontà: nel primo caso – quello dell’eutanasia – dandosi la morte, scegliendo cioè il tempo e il modo secondo cui morire; nel secondo – quello dell’accanimento terapeutico – prolungando in maniera illimitata la vita nella (illusoria) speranza di poter vincere la morte.
Paura e rimozione finiscono così per sostenersi reciprocamente, entrando in una sorta di spirale o di circolo vizioso: la paura alimenta infatti la rimozione, la quale, a sua volta, non fa che accentuare la paura.
Se questo rende, da un lato, ragione della richiesta insistita di dare forma legislativa al testamento biologico come tutela della persona, spiega tuttavia, dall’altro, perché dove esso è già stato da tempo introdotto venga scarsamente utilizzato – la percentuale di chi se ne serve si aggira attorno al 10-20% – prevalendo la tendenza, psicologicamente comprensibile ma accentuata dal disagio ricordato, ad allontanare il più possibile il pensiero della propria morte.
i fondamentali nodi critici di ordine etico Le questioni di carattere etico che affiorano in riferimento al testamento biologico sono molte e di diversa consistenza: tre ci sembrano tuttavia quelle di maggiore importanza sulle quali è opportuno soffermarsi.
autodeterminazione ma non solo La prima riguarda anzitutto il principio di autodeterminazione, che è il presupposto in base al quale viene rivendicata l’istituzione del testamento biologico.
L’affermazione di tale principio ha trovato, nell’ambito della bioetica, concreta espressione nel «consenso informato», di cui il testamento biologico altro non è che il logico prolungamento in situazioni nelle quali il paziente si trova a vivere in stato di incoscienza.
Il principio di autodeterminazione è senza dubbio un principio fondamentale di riferimento per affrontare le questioni della bioetica, ma – è importante sottolinearlo – non può essere assunto come criterio esclusivo.
Esistono infatti altri principi – quello di non maleficità, quello di beneficità e quello di giustizia o di equità sociale – ai quali ispirare l’attività di cura.
La tutela dell’autonomia del paziente non può pertanto prescindere dalla ricerca del suo bene, che costituisce l’obiettivo dell’attività del medico, e dall’attenzione al contesto sociale, essendo le risorse a disposizione limitate e dovendole perciò ripartire equamente.
Si tratta, in altri termini, di mediare la libertà con il bene e con la giustizia, pervenendo a scelte, che spettano in ultima analisi al paziente (sia direttamente che attraverso il proprio fiduciario nel caso del testamento biologico) e che devono avere di mira il bene del singolo e quello della collettività.
L’interpretazione rigidamente individualista che talora si dà del principio di autodeterminazione è frutto di una visione liberista, derivante da un contesto come quello degli Usa dove – è bene non dimenticarlo – circa cinquanta milioni di persone sono tuttora escluse da qualsiasi forma di assistenza sanitaria.
chi per me? La seconda questione ha come oggetto la gestione del testamento biologico, cioè le concrete modalità della sua esecuzione.
Vi è, al riguardo, chi ritiene che esso abbia un preciso valore giuridico, e vada pertanto eseguito alla lettera, senza alcuna possibilità di mediazione, escludendo di conseguenza ogni spazio di intervento del medico.
E vi è chi, invece, ritiene che si tratti di indicazioni da tenere in seria considerazione, che vanno tuttavia fatte oggetto di ulteriore valutazione tra il medico e il fiduciario designato dal paziente.
In realtà tanto la stesura del testamento biologico quanto la sua esecuzione non sono (o non dovrebbero essere) atti puramente individuali, ma espressione di un processo che coinvolge il paziente (o chi lo rappresenta), in quanto portatore di bisogni e di diritti, e il medico in ragione della sua specifica competenza.
Il modello cui ispirare la condotta ci sembra possa essere dunque quello della «alleanza terapeutica» la cui attuazione comporta l’instaurarsi di un rapporto di reciproca fiducia, che sfocia nella volontà di collaborare alla comune ricerca del bene del paziente.
La giustificata reazione all’atteggiamento paternalistico del passato si traduce oggi spesso – per reazione – nell’opposta tendenza a fare del medico un mero esecutore tecnico della volontà del paziente, impedendogli di mettere a frutto la propria competenza con conseguente danno per lo stesso paziente.
La mutua cooperazione, oltre ad evitare l’estensione (altrimenti inevitabile) dell’obiezione di coscienza dei medici, consente di verificare con maggiore precisione la reale situazione, prendendo in considerazione le novità nel frattempo intervenute in campo terapeutico e interpretando la volontà del paziente anche in relazione a questi cambiamenti.
nutrizione e idratazione Infine la terza e ultima questione (non ultima in ordine di importanza) concerne il significato che si attribuisce alla nutrizione e all’idratazione, e perciò la possibilità o meno di deciderne la sospensione in alcune situazioni particolari.
Il dibattito, che si è sviluppato, in questo ultimo anno nel nostro Paese (in occasione soprattutto della vicenda di Eluana Englaro) ha visto la discesa in campo di due posizioni contrapposte, con punte a volte di forte tensione ideologica.
Da una parte, vi era chi sosteneva che nutrizione e idratazione in quanto «sostegni vitali» devono essere comunque sempre somministrate; dall’altra, chi, insistendo sulle modalità con cui la somministrazione avviene, riteneva che nutrizione e idratazione possano essere incluse nell’attività di «cura», e debbano pertanto essere in molti casi sospese.
Questa contrapposizione, soprattutto se radicalizzata, risulta, per molti aspetti, artificiosa.
È difficile infatti negare che nutrizione e idratazione siano, in senso antropologico, «sostegno vitale»; ma è altrettanto difficile misconoscere che, in alcune circostanze, siano a tutti gli effetti, per il modo con cui la somministrazione si realizza (intervento chirurgico e preparazione di sostanze chimiche) «atto medico » (e dunque curativo anche se non direttamente terapeutico).
Forse, per affrontare correttamente il problema, bisogna collocarlo in quella area di questioni di frontiera, che stanno sul crinale tra omissione di soccorso (in passato si diceva «eutanasia passiva») e accanimento terapeutico.
Questo implica che si debba di volta in volta decidere, tenendo conto della concretezza delle situazioni, con la consapevolezza che lo stesso intervento può, in taluni casi, se evitato, risultare omissione di soccorso; in altri casi, se effettuato, può invece comportare accanimento terapeutico.
In questa ottica, nutrizione e idratazione devono essere valutate caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del paziente.
L’inserimento del loro rifiuto nel testamento biologico implicherebbe perciò la circoscrizione entro una casistica dettagliata non facilmente definibile a priori; ma (forse) potrebbe bastare – ci sembra questa la via più praticabile, in linea del resto con quella forma di «diritto mite» da molti auspicato – l’espressione da parte del paziente di una generica volontà di rifiuto, che andrebbe poi verificata nella sua applicabilità mediante il confronto tra il proprio fiduciario e il medico.
orientamenti per una corretta utilizzazione L’acquisizione del significato proprio del testamento biologico e la disponibilità al suo corretto utilizzo esigono l’adempimento di alcune condizioni, che costituiscono la cornice entro cui il testamento va collocato.
La prima di tali condizioni consiste nel farsi strada di una concezione relazionale dell’umano.
Si è già detto dei rischi che si corrono quando ci si muove entro un orizzonte radicalmente individualista.
Ogni atto umano si sviluppa all’interno di una rete di relazioni, ed implica pertanto il ricorso a una condivisione di responsabilità che non può essere elusa.
Anche il testamento biologico, tanto nella fase di stesura che in quella esecutiva, comporta il concorso di altri soggetti (il medico di base o quello curante e successivamente il fiduciario) ed esige la convergenza di tutti attorno al bene del paziente.
La seconda condizione è costituita da una sempre maggiore estensione, a tutti i livelli, del concetto di cura proporzionata; concetto che laddove viene praticato, rappresenta il miglior antidoto tanto nei confronti dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico.
Da questo punto di vista, è importante che si potenzino, anche nel nostro Paese, le cosiddette «cure palliative», il cui obiettivo è quello di «prendersi cura» della persona nella sua globalità, offrendole i necessari supporti fisici – si pensi alla terapia del dolore – e psicologici per vivere anche i momenti più drammatici di avvicinamento alla morte con la maggiore serenità possibile.
Infine, la terza (e ultima) condizione è costituita dall’esigenza di dare vita a una nuova «cultura della morte», che ne faccia riscoprire il profondo legame con la vita e, pur senza rinnegare il carattere di tragicità che inevitabilmente la connota, non rinunci a renderne trasparente il significato di compimento dell’esistenza e, per chi crede, di «realtà penultima», che prelude – è questo il senso della speranza cristiana – a una vita che non ha termine.
L’adempimento di queste condizioni è la via per accedere a una visione più umanizzata della malattia e della morte e per togliere al testamento biologico il carattere, oggi prevalente, di strumento difensivo o rivendicativo dei diritti soggettivi, trasformandolo in un vero esercizio di collaborazione all’azione medica, che è tanto più corretta ed efficace quanto più è rispettosa della volontà dei pazienti e quanto più tende, nel contempo, a salvaguardarne, in tutte le fasi della malattia, la dignità umana.

A Praga il papa in difesa della ricristianizzazione

Per il suo tredicesimo viaggio all’estero, papa Benedetto XVI arriva sabato 26 settembre in uno dei paesi più scristianizzati d’Europa.
La sua venuta nella Repubblica ceca coincide con il 20° anniversario della “rivoluzione di velluto” che vide il crollo del regime comunista.
Questa visita di tre giorni non avrà il carattere storico di quella che il suo predecessore Giovanni Paolo II aveva effettuato nel 1990, incontrando il presidente ceco di allora, Vaclav Havel.
Ma Benedetto XVI dovrebbe ricordare lì l’importanza delle radici cristiane e della democrazia in Europa.
La Repubblica ceca “che si trova geograficamente e storicamente nel cuore dell’Europa, dopo aver attraversato i drammi del secolo scorso, ha bisogno di ritrovare le ragioni della fede e della speranza, come tutto il continente”, ha detto Benedetto XVI domenica 20 settembre.
Questo viaggio dà anche l’occasione di ritornare sul ruolo, contrastato, delle Chiese cristiane nei processi di democratizzazione degli ex paesi dell’Est e sul loro posto attuale.
“Bisogna distinguere diverse situazioni”, avverte lo storico Krysztof Pomian.
“Le Chiese ortodosse sono sempre state delle Chiese ‘statalizzate’, tanto in Russia che in Romania o in Bulgaria.
E, se una forma di dissidenza religiosa” appare negli anni ’70, essa è portata avanti solo da individui, sconfessati dalla gerarchia”, spiega lo storico polacco.
Anche all’interno dei paesi cattolici, le situazioni variano.
Per ragioni storiche, la Chiesa è debole nella Repubblica ceca: la rivolta religiosa del XV secolo, condotta dal riformatore Jan Hus, condannato a morte, ha lasciato profonde tracce.
“Imposta dal potere imperiale germanofono, la Chiesa cattolica vi è percepita, soprattutto a partire dal risveglio nazionale, come una religione straniera”, ricorda Pomian.
“Questo substrato creerà d’altronde una certa ricettività alla corrente socialdemocratica poi al comunismo ceco dopo la prima guerra mondiale”, aggiunge.
Durante il periodo comunista, la Chiesa conoscerà forti persecuzioni e le sue possibilità d’azione saranno limitate.
Negli anni ’80, certe chiese diventeranno comunque luoghi di raccolta della dissidenza.
Durante tutto questo periodo, la Polonia cattolica resta un caso a parte.
“È rimasta una potenza che potere comunista ha cominciato col trattare con riguardo, spiega Krysztof Pomian.
Poi sono venute le persecuzioni e l’internamento nel 1953 del cardinale primate di Polonia.
Dopo la sua liberazione nel 1956, si è installata una sorta di coabitazione conflittuale.
A partire dagli anni ’70, cambiamento di politica: la Chiesa diventa un interlocutore quasi ufficiale del potere.
Ciò non le impedisce di criticarlo, in particolare attraverso delle lettere pastorali lette nelle chiese.
Nel contesto dell’epoca, la Chiesa incarna una forza liberatrice.” L’elezione del papa polacco, Giovanni Paolo II, nel 1978 accentuerà questa dimensione.
“Sostenuta da un laicato cattolico forte, si può dire che la Chiesa polacca abbia accompagnato il movimento di contestazione.
Ma sicuramente non lo ha preceduto.
Del resto ha svolto il ruolo di moderatrice e di mediatrice tra le parti in campo”, aggiunge Pomian.
Nella Germania protestante, le parrocchie accoglieranno la contestazione nella seconda metà degli anni ’80.
Ma, come sottolinea lo storico, “nel regime comunista, ogni manifestazione di credenza religiosa acquisiva un significato politico.
I pastori hanno quindi svolto un ruolo di opposizione spirituale al regime.” Vent’anni più tardi, sembra che le Chiese non abbiano profittato appieno dell’avvento della democrazia.
La Repubblica ceca, con il suo 40% di atei, ne è un esempio.
E, anche in Polonia, dove, secondo Pomian, “la Chiesa come istituzione ha beneficiato della transizione democratica oltre i suoi meriti reali e dove mantiene un’influenza politica in certe regioni, si constata un riflusso e in particolare una diminuzione del numero di seminaristi e della pratica domenicale”.
“Il rinnovamento religioso atteso dopo il 1989 non sembra essere avvenuto”, dichiara lo storico.
in “Le Monde” del 27 settembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

“Ma lui non si lascia tirare per la giacca”

L’intervista Andrea Riccardi (storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio), il Papa a Praga fa il «tagliando» all’Europa a vent’anni dalla caduta del Muro? «Benedetto XVI sente che la sua missione è parlare al cuore e alla ragione d’Europa.
La battaglia di Wojtyla era rivolta all’Est comunista, la sua è impedire che il vecchio continente perda il suo sapore cristiano ed esca dalla storia per irrilevanza.
Ratzinger non punta a un nuovo imperialismo, ma affida all’Europa una missione vitale di fede e umanesimo».
Il colloquio con Berlusconi alla partenza per Praga ha fatto discutere.
Franceschini lo definisce un semplice saluto (“gli incontri importanti non avvengono davanti alle telecamere”), Di Pietro una “furbata del premier”.
Qual è la sua opinione? «Il Papa non si fa strumentalizzare, né tirare da una parte o dall’altra.
Poi, certo, Ratzinger stringe la mano, ti fissa negli occhi, ma guarda lontano.
Sa parlare al mondo, e in questi colloqui tocca problemi generali.
Benedetto XVI non è l’uomo della cronaca, però non è avulso né estraneo alle persone che incontra.
Non sta sull’ultimo avvenimento ed è concentrato sulle correnti profonde della storia.
Come papa e come uomo, però, non è strumentalizzabile, non si fa coinvolgere in strategie altrui.
Non è prigioniero del momento, mira oltre la situazione contingente per spingere a quello che conta, difendere i principi non negoziabili e comunicare il Vangelo».
E’ un Papa che teme il progresso scientifico? «No.
Vuole unire la scienza e l’economia all’umanesimo e al valore dell’elemento umano che non si compra e vende sul mercato.
Il suo messaggio è un orizzonte unitario.
Per questo scrive libri su Gesù, la porta d’accesso a tutto è l’annuncio, la passione cristiana.
Sia parlando pubblicamente al mondo accademico sia conversando privatamente con un capo di governo, non lo preoccupa negoziare posizioni o fissare paletti, ma proporre la sua testimonianza.
Non è un crociato, sa di parlare a società fortemente secolarizzate.
Però è consapevole che a cercare di spingere Dio fuori dall’Europa sono stati il nazismo e il comunismo ieri e oggi la ricerca selvaggia del profitto.
Non a caso ha scelto Praga per lanciare il suo monito e non Cracovia o Budapest».
Perché? «Le contraddizioni dell’angolo più secolarizzato d’Europa consentono a Ratzinger di dimostrare quanto le questioni di fede e la dimensione spirituale incidano sulla qualità della vita.
Lui chiama alla responsabilità, alla cooperazione internazionale contro la crisi, avverte che i destini sono legati e pone istanze a nome della Chiesa.
Per questo ha voluto un incontro ecumenico a Praga: per dire che la costruzione del futuro non può riguardare solo l’economia e la politica».
E’ troppo teologo e poco pastore? «E’ un Papa teologo ma appassionato all’umano.
Dopo la caduta del Muro, anche Ratzinger come Wojtyla, si è subito preoccupato della giustizia sociale e non ha mai pensato che bastasse il mercato per garantire la democrazia, la libertà e lo sviluppo.
Non lo hanno mai sfiorato il provvidenzialismo mercatista e la cieca fiducia nell’accumulo della ricchezza che si autogoverna, come dimostrano i forti messaggi lanciati a Praga e l’enciclica sociale.
Benedetto XVI si appella all’amore, al rispetto per l’altro e guida la Chiesa sulla strada del dialogo per favorire l’intesa tra diverse culture, tradizioni e sapienze religiose».
Qual è il senso dell’incontro a Praga con le altre confessioni? «Confrontarsi con esponenti di diverse Chiese, comunità ecclesiali e religioni è già un gran segno di pace.
Serve a parlare con realismo, a guardarsi in faccia, a superare le distanze, a fronteggiare l’allontanamento di Dio dalla vita dell’uomo.
Incontrarsi non risolve miracolosamente i problemi, ma crea una prospettiva nuova per vederli.
Trent’anni fa si pensava che magicamente le secolari lacerazioni tra cristiani si sarebbero composte, adesso sappiamo che serve gradualità.
E Benedetto XVI punta su un comune sentire, rifiuta la religione come pretesto per la violenza e indica la via del vivere insieme».
in “La Stampa” del 28 settembre 2009

Una risposta vera al desiderio di felicità dei giovani

Al termine della messa celebrata a Stará Boleslav nella mattina di lunedì 28 settembre, solennità di san Venceslao e festa nazionale della Repubblica Ceca, il Papa ha rivolto un messaggio ai numerosi giovani presenti nella spianata sulla via di Melnik.
Dopo il saluto di un ragazzo, Benedetto XVI ha pronunciato il discorso che pubblichiamo di seguito.
Cari giovani! Al termine di questa celebrazione, mi rivolgo direttamente a voi e innanzitutto vi saluto con affetto.
Siete venuti numerosi da tutto il Paese e anche dai Paesi vicini; vi siete “accampati” qui ieri sera e avete pernottato nelle tende, facendo insieme un’esperienza di fede e di fraternità.
Grazie per questa vostra presenza, che mi fa sentire l’entusiasmo e la generosità che sono propri della giovinezza.
Con voi anche il Papa si sente giovane! Un ringraziamento particolare rivolgo al vostro rappresentante per le sue parole e per il meraviglioso dono.
Cari amici, non è difficile costatare che in ogni giovane c’è un’aspirazione alla felicità, talvolta mescolata a un senso di inquietudine; un’aspirazione che spesso però l’attuale società dei consumi sfrutta in modo falso e alienante.
Occorre invece valutare seriamente l’anelito alla felicità che esige una risposta vera ed esaustiva.
Nella vostra età infatti si compiono le prime grandi scelte, capaci di orientare la vita verso il bene o verso il male.
Purtroppo non sono pochi i vostri coetanei che si lasciano attrarre da illusori miraggi di paradisi artificiali per ritrovarsi poi in una triste solitudine.
Ci sono però anche tanti ragazzi e ragazze che vogliono trasformare, come ha detto il vostro portavoce, la dottrina nell’azione per dare un senso pieno alla loro vita.
Vi invito tutti a guardare all’esperienza di sant’Agostino, il quale diceva che il cuore di ogni persona è inquieto fino a quando non trova ciò che veramente cerca.
Ed egli scoprì che solo Gesù Cristo era la risposta soddisfacente al desiderio, suo e di ogni uomo, di una vita felice, piena di significato e di valore (cfr.
Confessioni i, 1, 1).
Come ha fatto con lui, il Signore viene incontro a ciascuno di voi.
Bussa alla porta della vostra libertà e chiede di essere accolto come amico.
Vi vuole rendere felici, riempirvi di umanità e di dignità.
La fede cristiana è questo: l’incontro con Cristo, Persona viva che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.
E quando il cuore di un giovane si apre ai suoi divini disegni, non fa troppa fatica a riconoscere e seguire la sua voce.
Il Signore infatti chiama ciascuno per nome e a ognuno vuole affidare una specifica missione nella Chiesa e nella società.
Cari giovani, prendete consapevolezza che il Battesimo vi ha resi figli di Dio e membri del suo Corpo che è la Chiesa.
Gesù vi rinnova costantemente l’invito a essere suoi discepoli e suoi testimoni.
Molti di voi li chiama al matrimonio e la preparazione a questo Sacramento costituisce un vero cammino vocazionale.
Considerate allora seriamente la chiamata divina a costituire una famiglia cristiana e la vostra giovinezza sia il tempo in cui costruire con senso di responsabilità il vostro futuro.
La società ha bisogno di famiglie cristiane, di famiglie sante! Se poi il Signore vi chiama a seguirlo nel sacerdozio ministeriale o nella vita consacrata, non esitate a rispondere al suo invito.
In particolare, in quest’Anno Sacerdotale, mi appello a voi, giovani: siate attenti e disponibili alla chiamata di Gesù a offrire la vita al servizio di Dio e del suo popolo.
La Chiesa, anche in questo Paese, ha bisogno di numerosi e santi sacerdoti e di persone totalmente consacrate al servizio di Cristo, Speranza del mondo.
La speranza! Questa parola, su cui torno spesso, si coniuga proprio con la giovinezza.
Voi, cari giovani, siete la speranza della Chiesa! Essa attende che voi vi facciate messaggeri della speranza, com’è avvenuto l’anno scorso, in Australia, per la Giornata Mondiale della Gioventù, grande manifestazione di fede giovanile, che ho potuto vivere personalmente e alla quale alcuni di voi hanno preso parte.
Molti di più potrete venire a Madrid, nell’agosto 2011.
Vi invito fin da ora a questo grande raduno dei giovani con Cristo nella Chiesa.
Cari amici, grazie ancora per la vostra presenza e grazie per il vostro dono: il libro con le foto che raccontano la vita dei giovani nelle vostre diocesi.
Grazie anche per il segno della vostra solidarietà verso i giovani dell’Africa, che mi avete voluto consegnare.
Il Papa vi chiede di vivere con gioia ed entusiasmo la vostra fede; di crescere nell’unità tra di voi e con Cristo; di pregare e di essere assidui nella pratica dei Sacramenti, in particolare dell’Eucaristia e della Confessione; di curare la vostra formazione cristiana rimanendo sempre docili agli insegnamenti dei vostri Pastori.
Vi guidi su questo cammino san Venceslao con il suo esempio e la sua intercessione, e sempre vi protegga la Vergine Maria, Madre di Gesù e Madre nostra.
Vi benedico tutti con affetto! (©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

Bisogna sottrarre la cultura alle pressioni di interessi ideologici o economici

I rappresentanti accademici e delle istituzioni culturali della Repubblica Ceca hanno partecipato all’incontro con il Papa svoltosi nella serata di domenica 27 settembre, nel castello di Praga.
Dopo il saluto di uno studente e del rettore dell’Università Carlo, il Pontefice ha pronunciato in inglese il discorso che pubblichiamo di seguito.
Questa traduzione italiana del discorso del Papa è dell’Osservatore Romano.
Signor Presidente, Illustri Rettori e Professori, Cari Studenti ed Amici, L’incontro di questa sera mi offre la gradita opportunità di manifestare la mia stima per il ruolo indispensabile che svolgono nella società le università e gli istituti di studi accademici.
Ringrazio lo studente che mi ha gentilmente salutato in vostro nome, i membri del coro universitario per la loro ottima interpretazione e l’illustre Rettore dell’Università Carlo, il Professor Václav Hampl, per le sue profonde parole.
Il mondo accademico, sostenendo i valori culturali e spirituali della società e insieme offrendo a essi il proprio contributo, svolge il prezioso servizio di arricchire il patrimonio intellettuale della nazione e di fortificare le fondamenta del suo futuro sviluppo.
I grandi cambiamenti che venti anni fa trasformarono la società ceca furono causati, non da ultimo, dai movimenti di riforma che si originarono nelle università e nei circoli studenteschi.
Quella ricerca di libertà ha continuato a guidare il lavoro degli studiosi: la loro diakonia alla verità è indispensabile al benessere di qualsiasi nazione.
Chi vi parla è stato un professore, attento al diritto della libertà accademica e alla responsabilità per l’uso autentico della ragione, e ora è il Papa che, nel suo ruolo di Pastore, è riconosciuto come voce autorevole per la riflessione etica dell’umanità.
Se è vero che alcuni ritengono che le domande sollevate dalla religione, dalla fede e dall’etica non abbiano posto nell’ambito della ragione pubblica, tale visione non è per nulla evidente.
La libertà che è alla base dell’esercizio della ragione – in una università come nella Chiesa – ha uno scopo preciso: essa è diretta alla ricerca della verità, e come tale esprime una dimensione propria del Cristianesimo, che non per nulla ha portato alla nascita dell’università.
In verità, la sete di conoscenza dell’uomo spinge ogni generazione ad ampliare il concetto di ragione e ad abbeverarsi alle fonti della fede.
È stata proprio la ricca eredità della sapienza classica, assimilata e posta a servizio del Vangelo, che i primi missionari cristiani hanno portato in queste terre e stabilita come fondamento di un’unità spirituale e culturale che dura fino a oggi.
La medesima convinzione condusse il mio predecessore, Papa Clemente vi, a istituire nel 1347 questa famosa Università Carlo, che continua ad offrire un importante contributo al più vasto mondo accademico, religioso e culturale europeo.
L’autonomia propria di una università, anzi di qualsiasi istituzione scolastica, trova significato nella capacità di rendersi responsabile di fronte alla verità.
Ciononostante, quell’autonomia può essere resa vana in diversi modi.
La grande tradizione formativa, aperta al trascendente, che è all’origine delle università in tutta Europa, è stata sistematicamente sovvertita, qui in questa terra e altrove, dalla riduttiva ideologia del materialismo, dalla repressione della religione e dall’oppressione dello spirito umano.
Nel 1989, tuttavia, il mondo è stato testimone in maniera drammatica del rovesciamento di una ideologia totalitaria fallita e del trionfo dello spirito umano.
L’anelito per la libertà e la verità è parte inalienabile della nostra comune umanità.
Esso non può mai essere eliminato e, come la storia ha dimostrato, può essere negato solo mettendo in pericolo l’umanità stessa.
È a questo anelito che cercano di rispondere la fede religiosa, le varie arti, la filosofia, la teologia e le altre discipline scientifiche, ciascuna col proprio metodo, sia sul piano di un’attenta riflessione che su quello di una buona prassi.
Illustri Rettori e Professori, assieme alla vostra ricerca c’è un ulteriore essenziale aspetto della missione dell’università in cui siete impegnati, vale a dire la responsabilità di illuminare le menti e i cuori dei giovani e delle giovani di oggi.
Questo grave compito non è certamente nuovo.
Sin dai tempi di Platone, l’istruzione non consiste nel mero accumulo di conoscenze o di abilità, bensì in una paideia, una formazione umana nelle ricchezze di una tradizione intellettuale finalizzata a una vita virtuosa.
Se è vero che le grandi università, che nel medioevo nascevano in tutta Europa, tendevano con fiducia all’ideale della sintesi di ogni sapere, ciò era sempre a servizio di un’autentica humanitas, ossia di una perfezione dell’individuo all’interno dell’unità di una società bene ordinata.
Allo stesso modo oggi: una volta che la comprensione della pienezza e unità della verità viene risvegliata nei giovani, essi provano il piacere di scoprire che la domanda su ciò che essi possono conoscere dispiega loro l’orizzonte della grande avventura su come debbano essere e cosa debbano compiere.
Deve essere riguadagnata l’idea di una formazione integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità.
Ciò può contrastare la tendenza, così evidente nella società contemporanea, verso la frammentazione del sapere.
Con la massiccia crescita dell’informazione e della tecnologia nasce la tentazione di separare la ragione dalla ricerca della verità.
La ragione però, una volta separata dal fondamentale orientamento umano verso la verità, comincia a perdere la propria direzione.
Essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia, quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio, oppure sotto l’apparenza di certezza, quando impone la resa alle richieste di quanti danno in maniera indiscriminata uguale valore praticamente a tutto.
Il relativismo che ne deriva genera un camuffamento, dietro cui possono nascondersi nuove minacce all’autonomia delle istituzioni accademiche.
Se per un verso è passato il periodo di ingerenza derivante dal totalitarismo politico, non è forse vero, dall’altro, che di frequente oggi nel mondo l’esercizio della ragione e la ricerca accademica sono costretti – in maniera sottile e a volte nemmeno tanto sottile – a piegarsi alle pressioni di gruppi di interesse ideologici e al richiamo di obiettivi utilitaristici a breve termine o solo pragmatici? Cosa potrà accadere se la nostra cultura dovesse costruire se stessa solamente su argomenti alla moda, con scarso riferimento a una tradizione intellettuale storica genuina o sulle convinzioni che vengono promosse facendo molto rumore e che sono fortemente finanziate? Cosa potrà accadere se, nell’ansia di mantenere una secolarizzazione radicale, finisse per separarsi dalle radici che le danno vita? Le nostre società non diventeranno più ragionevoli o tolleranti o duttili, ma saranno piuttosto più fragili e meno inclusive, e dovranno faticare sempre di più per riconoscere quello che è vero, nobile e buono.
Cari amici, desidero incoraggiarvi in tutto quello che fate per andare incontro all’idealismo e alla generosità dei giovani di oggi, non solo con programmi di studio che li aiutino a eccellere, ma anche mediante l’esperienza di ideali condivisi e di aiuto reciproco nella grande impresa dell’apprendere.
Le abilità di analisi e quelle richieste per formulare un’ipotesi scientifica, unite alla prudente arte del discernimento, offrono un antidoto efficace agli atteggiamenti di ripiegamento su se stessi, di disimpegno e persino di alienazione che talvolta si trovano nelle nostre società del benessere e che possono colpire soprattutto i giovani.
In questo contesto di una visione eminentemente umanistica della missione dell’università, vorrei accennare brevemente al superamento di quella frattura tra scienza e religione che fu una preoccupazione centrale del mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II.
Egli, come sapete, ha promosso una più piena comprensione della relazione tra fede e ragione, intese come le due ali con le quali lo spirito umano è innalzato alla contemplazione della verità (cfr.
Fides et ratio, Proemio) L’una sostiene l’altra e ognuna ha il suo proprio ambito di azione (cfr.
ibid., 17), nonostante vi siano ancora quelli che vorrebbero disgiungere l’una dall’altra.
Coloro che propongono questa esclusione positivistica del divino dall’universalità della ragione non solo negano quella che è una delle più profonde convinzioni dei credenti: essi finiscono per contrastare proprio quel dialogo delle culture che loro stessi propongono.
Una comprensione della ragione sorda al divino, che relega le religioni nel regno delle subculture, è incapace di entrare in quel dialogo delle culture di cui il nostro mondo ha così urgente bisogno.
Alla fine, la “fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà” (Caritas in veritate, 9).
Questa fiducia nella capacità umana di cercare la verità, di trovare la verità e di vivere secondo la verità portò alla fondazione delle grandi università europee.
Certamente noi dobbiamo riaffermare questo oggi per donare al mondo intellettuale il coraggio necessario per lo sviluppo di un futuro di autentico benessere, un futuro veramente degno dell’uomo.
Con queste riflessioni, cari amici, formulo nella preghiera i migliori auspici per il vostro impegnativo lavoro.
Prego affinché esso sia sempre ispirato e diretto da una sapienza umana che ricerca sinceramente la verità che ci rende liberi (cfr.
8, 28).
Su di voi e sulle vostre famiglie invoco la benedizione della gioia e della pace di Dio.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)