Lebanon

Il regista israeliano ha  descritto con assoluta precisione l’orrore della guerra, raffigurando in modo sconvolgente la paura., facendo emergere sentimenti, angosce, amarezze, tensioni di quattro  giovani attori in uno spazio ristrettissimo, quello di un carro armato Lebanon è un’opera estremamente dolorosa, densa di una devastante inquietudine, come raramente si può vedere nel cinema contemporaneo.
Le vicende narrate da Maoz evocano palesemente le disavventure militari vissute dallo stesso regista durante la prima Guerra del Libano nel 1982.
Egli era un carrista israeliano e a 20 anni si trovò al centro di una battaglia sanguinosa durante la quale gli capitò anche di uccidere.
Questo evento ha segnato la sua vita e solo dopo due decenni dai fatti ha trovato la forza di scrivere la sceneggiatura e di girare il film.
Ma a parte le questioni contenutistiche, l’elemento che fornisce grande forza a questo lungometraggio è il concept registico/espressivo che si trova alla base della sua realizzazione.
Maoz ha infatti ricostruito in studio l’abitacolo di un carro armato.
I quattro interpreti si muovo sempre in questo spazio microscopico, buio e sporco.
Olio che cola dalle pareti, acqua per terra, sangue sulle mani e sugli strumenti, rumori fortissimi, vibrazioni terribili, fumo.
Questo luogo minuscolo comprime e fa scontrare le psicologie dei personaggi, i quali esplodono in crisi di rabbia, di pianto, di angoscia.
L’unico contatto con l’esterno è rappresentato da un “mirino” che permette di rimanere in relazione con la realtà, una realtà fatta di devastazione e morte.
Il regista si concentra soprattutto sull’uso del primo e del primissimo piano e insiste per gran parte del film nell’utilizzazione di, un occhio impazzito che scruta il mondo alla ricerca della salvezza.
L’autore elabora una struttura visiva claustrofobica, opprimente e tragicamente intollerabile.
La macchina da presa isola gli occhi spiritati dei soldati israeliani, i quali non vengono dipinti come mostri cattivi ma come ragazzi giovanissimi impauriti, gettati in maniera irresponsabile nella mischia agghiacciante della guerra.
Lebanon è allo stesso tempo un film catartico, una seduta di psicoanalisi pubblica/privata e un’opera di denuncia.
Il regista  si è liberato evidentemente dai suoi personali ed opprimenti ricordi  e ha raccontato al mondo le atrocità della guerra da un punto di vista che pochi erano stati in grado di mostrare in precedenza.
Il film non risparmia accuse al sistema militare israeliano, mostrando addirittura l’uso di armi illegali.
C’è da dire  che tra gli enti promotori del film c’è l’Israel Film Fund, cioè  l’istituzione che gestisce i soldi pubblici destinati al sostegno del cinema israeliano che non ha rifiutato i fondi  ad un’opera che non mette di certo in buona luce Israele e questo è una seria lezione di democrazia impartita a quei paesi occidentali/europei che spesso sentenziano sul conflitto israelo/palestinese senza conoscere nulla né della società israeliana né di quella palestinese.
        DOMANDE & RISPOSTE Affiancato dal produttore David Silber e dall’attore protagonista Michael Moshonov, il regista Maoz Shmulik  ha presentato alla stampa “Lebanon”, suo primo film di finzione, realizzato a nove anni dal documentario “Total eclipse”.
Questo film è nato dal suo ricordo del primo giorno di guerra in Libano?  Mi sono reso conto del fatto che, per raccontare una storia attraverso una struttura cinematografica classica, occorreva dare al pubblico una sensazione di sperimentazione, in modo che potesse capire nella maniera migliore cosa intendevo dire.
  Che fase sta attraversando oggi il cinema israeliano? Israele è un paese democratico e non crea alcun problema ai suoi cineasti.
Quindi, come un po’ in tutti i paesi, dal punto di vista finanziario è difficile fare un film, ma non dal punto di vista della censura.
  Come mai ha impiegato così tanto tempo per realizzare il film? Perché avevo bisogno di prendere le distanze dagli eventi reali, di fare il film come regista, non come qualcuno che sapeva.
  La visione dei soldati israeliani riportata dal film è quella di persone che sembrano pensare tutt’altro che alla guerra… Ho posto gli attori in un determinato stato mentale, in modo da rendere la realtà della situazione raccontata.
Gli attori si sono preparati moltissimo, in modo che formassero un insieme con i  cameraman e la  troupe.
Lei ha un ricordo spaventoso di quel conflitto, vero? Ho combattuto in quella guerra, ed ho ancora  ricordi sensoriali, come l’odore di carne bruciata dalle bombe al fosforo, e dell’anima, come quello del 6 giugno alle 6.15 del mattino, quando allora 20enne uccisi un uomo, per la prima volta nella mia vita.
 La realtà è che in ogni conflitto devi sopravvivere di fronte alla tua stessa morte: la tua anima è lacerata dal dissidio tra l’istinto di sopravvivenza e la morale.
Lei ha girato Lebanon dopo vent’anni, perché? Per  prendere la giusta distanza dagli eventi.
La sequenza delle scene, l’abbinamento tra immagini iperrealistiche e scorci surreali sono stati frutto di un processo lungo e calcolato, per portare il pubblico ad un viaggio consapevole.
Chi venderà il suo film? La francese Celluloid Dreams venderà il film sul mercato internazionale.
L’inglese Metrodome in partenariato con Rialto Distribution ha già acquisito i diritti del film per il Regno Unito, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda ed intende distribuirlo nella primavera 2010.
E per finire, desideriamo informare che fra le molte  storie di confine che il cinema odierno ci narra, quella del film  “Le cerf-volant” (L’aquilone) della libanese Randa Chahal Sabbag, ebbe Il Leone d’argento per il Gran Premio della Giuria a Venezia 60.
  Alla regista chiedemmo: Crede nel  processo di pace in Medio Oriente? Mi spiace dirlo, ma penso che non ci sia nessun processo di pace.
Gli animi di tutti sono sempre inquinati da un modo di comportarsi ideologico che vuole la guerra, la violenza, la separazione.
Israele rifiuta  uno stato ai palestinesi e questi rispondono con i kamikaze.
Ma la cosa più preoccupante è che in questo momento tutto il mondo è posseduto da un’ideologia guerresca.
Mai parole furono più profetiche.
Trama: Prima guerra del Libano, giugno 1982.
Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana.
Ma i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale.
Quando scende la notte i soldati feriti restano rinchiusi nel centro della città, senza poter comunicare con il comando centrale e circondati dalle truppe d’assalto siriane che avanzano da ogni lato.
Gli eroi del film sono una squadra di carristi – Shmulik, l’artigliere, Assi, il comandante, Herzl, l’addetto al caricamento dei fucili, e Yigal, l’autista – quattro ragazzi di vent’anni che azionano una macchina assassina.
Non sono coraggiosi eroi di guerra ansiosi di combattere e di sacrificarsi.
Il carro armato è una macchina di morte e di distruzione la cui natura corazzata protegge chi è all’interno dagli attacchi dal mondo esterno.
Questo mezzo potente è però dotato di un occhio non indifferente che scruta la realtà che lo circonda, uno sguardo che osserva, ma non a senso unico.
La guerra, con la sua crudeltà, scruta nel profondo dell’animo dei carristi, offrendo loro scenari di morte, violenza e desolazione.
Spesso le vittime del carro armato sembrano osservare direttamente i loro carnefici.
E’ un illusione naturalmente, eppure la forza di penetrazione di quello sguardo così lontano e così apparentemente innocuo ha effetti devastanti in cui si rifugia nella falsa protezione di quel ventre di metallo.
Grazie a un montaggio sonoro di rara potenza, che da allo spettatore la sensazione di trovarsi davvero nel carro armato, nell’assordante sferragliare di meccanismi, fuoco e vapore, la pellicola di Maoz diventa, nella sua claustrofobia soffocante, una sorta di esperienza totale.
Lebanon è anche un impressionante spaccato dei risvolti psicologici che caratterizzano la violenza imperante da decenni in medio oriente.
Un film duro, nelle immagini, nei dialoghi e nei suoni, tecnicamente inesorabile ed estremamente scorrevole, pur nel suo orrore.
Il film Lebanon Titolo originale:          Lebanon Nazione:Israele Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 92′ Regia: Maoz Shmulik Cast:    Oshri Cohen, Zohar Shtrauss, Michael Moshonov, Itay Tiran, Yoav Donat, Reymond Amsalem, Dudu Tassa Sceneggiatura: Samuel Maoz  Fotografia: Giora Bejach  Montaggio: Arik Lahav-Leibovich  Scenografia: Ariel Roshko / Musica: Nicolas Becker Produzione: United King Films, Metro Comunications, Paralite Films, Ariel Films, Arsam International / Israele, 2009  Durata 93 minuti Data di uscita:            Venezia 2009 Lebanon, il film di Samuel Maoz ,è Leone d’Oro della 66a Mostra del Cinema di Venezia Il film di Maoz è ambientato, appunto, nella prima guerra del Libano, nel giugno 1982.
Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana ma i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale.
Gli eroi sono quattro ragazzi di vent’anni ansiosi di combattere e sacrificarsi.
E’ una storia che il regista ha vissuto anche nella realtà: arruolato ventenne, Maoz fu tra i primi soldati israeliani a varcare la frontiera con il Libano nel giugno del 1982.
Coinvolto nei primi scontri, ferito superficialmente a una gamba, il futuro regista avrebbe rimosso quell’episodio fino a quando, due anni fa, non si sarebbe risolto ad affrontare di petto la sua memoria personale e quella collettiva della sua generazione.
Maoz, ritirando il premio, ha detto di voler dedicare la sua vittoria «alle migliaia di persone nel mondo che tornano dalla guerra come me sani e salvi», persone che «si sposano, hanno figli, ma dentro i ricordi rimangono stampati nel cuore».

Prontuario giuridico per gli insegnanti di Religione Cattolica

Questo prontuario in formato “quaderno a sequenza alfabetica”, vuole essere un agile strumento di lavoro, dalla consultazione rapida ed efficace, da utilizzare per una migliore conoscenza dei diritti e dei doveri degli IdR e per una corretta collocazione del loro ruolo e della disciplina all’interno del sistema scolastico pubblico statale.
Per la consultazione: Prontuario IdRI parte                                             > > >   more Prontuario IdRII parte

Caterina addormentata nelle mani del Padre…

Caterina addormentata nelle mani del Padre… Caro direttore, la mia Caterina ha gli occhi bellissimi.
La sua giovinezza ora è distesa su un letto di luce e di dolore.
E’ come una Bella addormentata.
Ma crocifissa.
Mi trovo involontariamente “inviato” nelle regioni del dolore estremo e in questo panorama dolente – se un angelo tiene guinzaglio l’angoscia – ci sono diverse cose che mi pare di cominciare a capire.
La prima notizia è che il mio cuore batte.
Il nostro cuore continua a battere.
So bene che normalmente la cosa non fa notizia.
Neanche la si considera.
Finchè non capita che a tua figlia, nei suoi 24 anni raggianti di vita, alla vigilia della laurea in architettura per cui ha studiato cinque anni, d’improvviso una sera il cuore si ferma e senza alcuna ragione.
Si ferma di colpo (o, come dicono, va in fibrillazione).
Lì, quando ti si spalanca davanti quell’abisso improvviso che ti fa urlare uno sconfinato “noooooo!!!”, cominci a capire: è la cosa meno scontata del mondo che in questo preciso istante il cuore dei tuoi bimbi, il mio cuore o il tuo, amico lettore, batta.
Quante volte ho sentito don Giussani stupirci con questa evidenza: che nessuno fa battere volontariamente il proprio cuore.
E’ come un dono che si riceve di continuo senza accorgersi.
Istante per istante dipendiamo da Qualcun Altro che ci dà vita… Ci illudiamo di possedere mille cose, di essere chissacchì, ma così clamorosamente non possediamo noi stessi.
Un Altro ci fa.
In ogni attimo.
Vengono le vertigini a pensarci.
Allora si può solo mendicare, come poveri che non hanno nulla, neanche se stessi, un altro battito e un altro respiro ancora dal Signore della Vita (“Gesù nostro respiro”, diceva un grande santo).
Certo, si ricorre a tutti i mezzi umani e a tutte le cure mediche.
Sono eccezionali e personalmente debbo ringraziare degli ottimi medici, competenti e umani.
Ma anch’essi sanno di avere poteri limitati, non possono arrivare all’impossibile, non potrebbero nulla se non fosse concesso dall’alto e poi se non fossero “illuminati” e guidati.
Rex tremendae maiestatis… E’ Lui il padrone e la fonte della vita e di ogni cosa che è.
E i nostri bambini e le nostre figlie sono suoi.
E’ teneramente loro Padre.
Allora – con tutte le nostre pretese annichilite e l’anima straziata – ci si scopre poveri di tutto a mendicare la vita da “Colui che esaudisce le preghiere…”.
Mendico di poter avere un sorriso da mia figlia, uno sguardo, una parola… D’improvviso ciò che sembrava la cosa più ovvia e scontata del mondo, ti appare come la più preziosa e quasi un sogno impossibile… Son pronto a dare tutto, tutto quello che ho, tutto quello che so e che sono, darei la vita sessa per quel tesoro.
Ci affanniamo sempre per mille cause, obiettivi, ambizioni che ci sembrano importanti da farci trascurare i figli.
Ma oggi come appare tutto senza alcun valore al confronto dello sguardo di una figlia, alla sua giovinezza in piena fioritura… Un gran dono ha fatto Dio agli uomini rendendoli padri e madri: così tutti possono sperimentare che significhi amare un’altra creatura più di se stessi.
E così abbiamo una pallida idea del Suo amore e della Sua compassione per noi… Caterina è una Sua prediletta, come tutti coloro che soffrono.
Mi tornano in mente le parole di quella canzone spagnola cantata dalla mia principessa e dedicata alla Madonna, “Ojos de cielo”, che dice: “Occhi di cielo, occhi di cielo/non abbandonarmi in pieno volo”.
Riascolto il suo canto, con il nodo alla gola, come la sua preghiera: “Se guardo il fondo dei tuoi occhi teneri/mi si cancella il mondo con tutto il suo inferno./ Mi si cancella il mondo e scopro il cielo/quando mi tuffo nei tuoi occhi teneri./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/non abbandonarmi in pieno volo./ Occhi di cielo, occhi di cielo,/tutta la mia vita per questo sogno…/ Se io mi dimenticassi di ciò che è sincero/ i tuoi occhi di cielo me lo ricorderebbero,/ se io mi allontanassi dal vero./ Occhi di cielo…” E infine quest’ultima strofa che oggi suona come un presagio: “Se il sole che mi illumina un giorno si spegnesse/e una notte buia vincesse sulla mia vita,/i tuoi occhi di cielo mi illuminerebbero,/ i tuoi occhi sinceri, che sono per me cammino e guida./Occhi di cielo…”.
E’ con questa speranza certa che subito ho affidato il mio tesoro e la sua guarigione nelle mani della sua tenera Madre del Cielo.
Per le parole, chiare e intramontabili di Gesù che ci incitano “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, che promettono “qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome, egli ve la darà” e che esortano a implorare senza stancarsi mai come la vedova importuna del Vangelo (che – se non altro per la sua insistenza – verrà esaudita).
Sappiamo che la Regina del Cielo è con noi: pronta ad aprirci le porte dei forzieri delle grazie.
E’ lei infatti il rifugio degli afflitti e la nostra meravigliosa Avvocata che può ottenere tutto dal Figlio.
Già il primo miracolo, a Cana, gli fu dolcemente “rubato” da lei che ebbe pietà di quella povera gente… In questi giorni ho ricordato le parole del Montfort e quella di S.
Alfonso Maria de’ Liguori, “Le glorie di Maria”.
E’ stupefacente come duemila anni di santi e sante ci invitano a essere certi del soccorso della Madonna perché “non si è mai sentito che qualcuno sia ricorso alla tua protezione, abbia implorato il tuo aiuto, abbia cercato il tuo soccorso e sia stato abbandonato” (San Bernardo).
“Ogni bene, ogni aiuto, ogni grazia che gli uomini hanno ricevuto e riceveranno da Dio sino alla fine del mondo, tutto è venuto e verrà loro per intercessione e per mezzo di Maria” (S.
Alfonso), perché così Dio ha voluto.
Infatti “nelle afflizioni tu consoli” chi in te confida, “nei pericoli tu soccorri” chi ti chiama: tu “speranza dei disperati e soccorso degli abbandonati”.
Misero me se non la riconoscessi come Madre, convertendomi (questo significa: “Sia fatta la tua volontà”) e lasciandomi guarire nell’anima.
Per ottenere anche la guarigione del corpo.
Ma quanto è commovente accorgersi di avere una simile Madre quando si sente concretamente il suo mantello protettivo fatto dai tanti fratelli e sorelle nella fede, pronti ad aiutarti, dai giovani amici di Caterina, bei volti luminosi che condividono l’esperienza cristiana suscitata da don Giussani, dai tantissimi amici di parrocchie, comunità, dagli innumerevoli conventi di clausura e santuari – compresi radio e internet – dove in questi giorni si invoca la Madonna per Caterina.
Come non commuoversi? Ho ricevuto decine di mail anche da persone lontane dalla fede che, per la commozione della vicenda di mia figlia, sono tornate a pregare, si sono riaccostate ai sacramenti dopo anni.
E hanno compreso di avere una Madre buona che si può implorare e che non delude.
Ma è anzitutto della mia conversione che voglio parlare.
Ci è chiesto un distacco totale da tutto ciò che non vale e non dura.
Perché solo Dio non passa.
Cioè resta l’amore.
Così quando ho saputo dei 4 mila bambini malati di un lebbrosario in India che, con i missionari (uomini di Dio stupendi e immensi), hanno pregato per la guarigione di Caterina, dopo l’emozione ho capito che quei bimbi da oggi fanno parte di me, della mia vita e della mia famiglia.
E così pure i poveri moribondi curati da padre Aldo Trento in Paraguay che hanno offerto le loro sofferenze per Caterina.
Voglio aiutarli come posso.
Portando tutto il dolore del mondo sotto il mantello della Madre di Dio, affido a lei la guarigione di Caterina, perché torni a cantare “Ojos de cielo” per tutti i poveri della nostra Regina.
“Mia Signora, tu sola sei la consolazione che Dio mi ha donato, la guida del mio pellegrinaggio, la forza della mia debolezza, la ricchezza della mia miseria, la guarigione delle mie ferite, il sollievo dei miei dolori, la liberazione dalle mie catene, la speranza della mia salvezza: esaudisci le mie suppliche, abbi pietà dei miei sospiri, tu che sei la mia regina, il rifugio, l’aiuto, la vita, la speranza e la mia forza” (S.
Germano).
(su “Libero” del 6 ottobre 2009)

“Chiesa e Stato, venti anni dopo il crollo del muro di Berlino”.

Sua Em.za il Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha partecipato dal 1° al 4 ottobre, a Parigi (presso la Maison de la Conférence des évêques de France), all’Assemblea Plenaria dei Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa.
Tema dell’incontro è stato “Chiesa e Stato, venti anni dopo il crollo del muro di Berlino”.
In vista di definire i vari modelli e soluzioni giuridiche adottate dai singoli Stati europei per inquadrare giuridicamente la Chiesa cattolica nel proprio paese e regolare i rapporti con essa e le sue strutture, in particolare pastorali, sociali e educative, il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) ha promosso un’inchiesta.
Questa deve permettere di rispondere a diverse questioni: qual è l’inquadramento giuridico della Chiesa cattolica negli Stati europei? Quali sono le leggi e i concordati finora abrogati? Come vengono sovvenzionati le istituzioni ecclesiali (scuole, ospedali…) di pubblica utilità? Come influiscono i vari atti, trattati e accordi adottati presso le istituzioni europee nel contesto locale? E quali sono gli aspetti comunitari della religione? Nel corso di questo incontro annuale, i risultati di questa indagine europea saranno presentati ai Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa.
La seconda parte dei lavori si è concentrata invece sul servizio del CCEE alla Chiesa in Europa con la presentazione delle attività delle varie Commissioni CCEE: della CEEM (Commissione Episcopale Europea per i Media); della Commissione “Migrazioni”; della Commissione “Catechesi, scuola e università”; del Servizio Europeo per le Vocazioni (EVS) e della Commissione “Ambiente”).
Parte dei lavori è stata dedicata al tema della collaborazione tra il CCEE ed altri organismi continentali quali il SECAM (Symposium of Episcopal Conferences of Africa and Madagascar) e il CELAM (Consejo Episcopal Latinoamericano).
Riguardo alle attività del CCEE nell’ambito del dialogo ecumenico è stato presentato il programma del 2° Forum cattolico-ortodosso (Isola di Rodi, Grecia, 23-27 novembre 2009) sul tema La relazione Chiesa e Stato.
Nel corso dell’incontro, i presidenti hanno ricevuto inoltre alcune brevi comunicazioni su temi di attualità: la visita di Papa Benedetto XVI in Repubblica Ceca (26-28 settembre 2009); l’Anno Sacerdotale (19 giugno 2009-19 giugno 2010); l’attenzione della Chiesa Cattolica per le popolazioni in Terra Santa; il rapporto Chiesa e Media nell’ultimo anno; l’ideologia dei gender nel panorama legislativo europeo e questioni attuali di bioetica.
Documenti allegati:Intervento Card.
Bagnasco.doc

L’antisemitismo cristiano ha origini pagane

Ma alla fine del regno di Nerone le cose cambiarono.
Nel maggio del 66 con un banale pretesto— gli abitanti avevano rifiutato di andare in processione a salutare due coorti dell’imperatore — il procuratore romano della Giudea, Gessio Floro, scatenò le sue truppe contro il mercato superiore di Gerusalemme provocando in un solo giorno tremilaseicento morti, la maggior parte donne e bambini.
Energica fu la reazione giudaica, che portò alla costituzione di uno Stato indipendente; anche se gli abitanti di Gerusalemme restarono divisi tra coloro che volevano riprendere un percorso di pace e quelli intenzionati a insistere sul terreno delle armi.
La situazione, però, in quel momento era ancora recuperabile.
A provocare la rottura di questo equilibrio fu, nel giugno del 68, la morte di Nerone.
Quando l’imperatore fu ucciso dal liberto Epafrodito, Tito Flavio Vespasiano, un soldato assai capace (ma niente di più) che si era distinto vent’anni prima nella conquista della Britannia, colse l’occasione derivatagli dall’essere comandante in campo della guerra in Giudea per sfruttare la guerra stessa e con essa dare la scalata al potere nella capitale dell’impero sconvolta dalle divisioni per la successione tra Galba, Otone e Vitellio.
Vespasiano riuscì nel suo intento (69) grazie anche ai consigli di Giuseppe, un sacerdote gerosolimitano che, dopo aver comandato le truppe ribelli in Galilea, era stato catturato dai romani e si era messo a disposizione del futuro imperatore vaticinando per lui fin dal 67 (cioè ben prima della morte di Nerone) l’ascesa al sommo incarico.
Giuseppe avrebbe poi spiegato nei sette magnifici libri della Guerra giudaica di cui si è detto all’inizio — scritti nel 70 quando il figlio di Vespasiano, Tito, distrusse la città e il Tempio — come i suoi antichi correligionari si erano fatti sopraffare.
Nonostante le successive sollevazioni in Cirenaica e in Egitto (72) e l’ultimo tentativo di resistenza a Masada (73).
E qui si arriva alla parte più interessante del libro di Goodman, dove si approfondisce quel che rese per così dire definitiva la crisi del 70.
La Storia dell’antisemitismo scritta da Léon Poliakov a ridosso del processo di Norimberga e pubblicata poi negli Anni Cinquanta (in Italia da Sansoni) dedica un numero di pagine davvero limitato alla origine dei sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei che pure si registrano prima dell’età cristiana: «Non scopriamo nell’antichità pagana—scrisse Poliakov—quelle reazioni passionali collettive che in seguito renderanno la sorte degli ebrei così dura e precaria».
Riconosceva, Poliakov, che si deve fare un’eccezione per la città di Alessandria, dove esisteva una grande comunità ebraica e i conflitti tra gli ebrei e la popolazione greca erano «frequenti e acuti» così che dovettero registrare ripetute «esplosioni di collera popolare contro gli ebrei».
Ma, aggiungeva, «come regola generale l’Impero romano dell’epoca pagana non ha conosciuto l’antisemitismo di Stato».
E con questo ridimensionava del tutto le espressioni antiebraiche che troviamo in abbondanza negli scritti di Diodoro Siculo, Filostrato, Pompeo Trogo, Giovenale, Tacito, Orazio, Valerio Massimo e Seneca.
Qualche decennio dopo Peter Schäfer in Giudeofobia.
L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci) si è soffermato—in base a un’ampia documentazione — su un’indicazione che il re greco di Siria Antioco VII ricevette dai suoi consiglieri all’epoca dell’assedio di Gerusalemme (135 a.C.) secondo cui non ci si doveva limitare a espugnare la città ma sarebbe stato opportuno «estirpare completamente la razza dei giudei ».
A partire da ciò Schäfer ha sostenuto che si può parlare di antisemitismo in pieno rigoglio «ben prima dell’avvento del cristianesimo ».
Ne è nato un dibattito dalle evidenti implicazioni.
E furono in molti a polemizzare — sia pure tra le righe — con Schäfer.
Uno per tutti lo studioso di Oxford Jasper Griffin il quale (recensendo Giudeofobia su «La Rivista dei libri», settembre 1999) riconobbe che sì, anche in età precristiana «ci furono casi in cui si proiettarono sugli ebrei fantasie di sacrifici umani e giuramenti ratificati con sangue umano» ma, aggiunse, «sono storie rare, che si narravano anche al riguardo di altri gruppi, druidi, cristiani, congiurati di Catilina e non erano dunque prerogativa esclusiva degli ebrei».
Adesso la discussione è destinata a riaprirsi per merito di un voluminoso saggio di Martin Goodman, la cui parte conclusiva prende in esame lo scontro che oppose Roma a Gerusalemme tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo dopo Cristo.
Una resa dei conti spietata che, secondo le stime contenute nella Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, provocò oltre un milione e centomila morti.
Cifra sbalorditiva per l’epoca.
Era inevitabile, si chiede l’autore, l’urto tra romani e giudei che ebbe come esito, nel 70 d.C., quella carneficina e soprattutto la distruzione del Tempio di Gerusalemme? O quantomeno era inevitabile che quel conflitto assumesse un tratto per così dire definitivo? Assolutamente no.
Anzi, la tesi di tutta la prima parte del libro di Goodman Roma e Gerusalemme.
Lo scontro delle civiltà antiche, che Laterza sta per mandare in libreria nell’impeccabile traduzione di Michele Sampaolo, è che quei due mondi avrebbero potuto benissimo coesistere come avevano fin lì coesistito: fu la lotta per il potere a Roma che provocò la catastrofe.
In che senso? L’occupazione romana della regione si era protratta per oltre un secolo (dal 37 a.C.) senza che mai si dovessero affrontare crisi di quelle proporzioni.
Dapprima per effetto della repressione messa in atto da Erode; successivamente (dal 6 al 66 d.C.) non ci fu bisogno neanche di quella.

Women Without Men

Women Without Men Titolo originale: Zanan-e Bedun-e Mardan Nazione: Germania Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 95′ Regia: Shirin Neshat Sito ufficiale: www.bimfilm.com Cast: Pegah Feridon, Shabnam Tolouei, Orsi Tóth, Arita Shahrzad Produzione: Essential Filmproduktion Distribuzione: BimDistribuzione Data di uscita: Venezia 2009 DOMANDE & RISPOSTE “Women Without a Men”, la parola a Shirin Neshat L’artista iraniana esprime tutta la necessità di libertà e democrazia, tuttora assenti nel suo Paese, attraverso il suo primo film, presentato in concorso a Venezia 66.
Come è riuscita ad adattare un romanzo così complesso e delicato come “Women Without a Men”, scritto da Shahrnush Parsipur? Stiamo parlando di una figura di spicco della letteratura iraniana, che è stata costretta ad anni di carcere per le sue idee e che attualmente vive in esilio.
Appena uscito, il suo libro è stato bandito, e per me è un grande privilegio aver potuto rapportarmi alle sue pagine.
Leggo i suoi libri da quando sono piccola e ne sono sempre rimasta affascinata anche per il suo singolare stile visionario, che ho sempre pensato potesse adattarsi ad immagini di grande impatto.
Libertà e democrazia sono gli elementi portanti di una storia che si basa sulla forza delle tre protagoniste… Sono i temi centrali del film, ma anche della mia stessa vita.
Purtroppo si tratta di elementi assenti nella società iraniana di oggi.
Ne ho voluto parlare, a prescindere dalla contestualizzazione storica, che però dimostra come, in tanti anni, non si sia fatto alcun passo avanti da questo punto di vista.
I tre personaggi femminili del film provengono da classi sociali completamente diverse, ma sono tutte unite dagli stessi ideali di libertà e democrazia, appunto.
Anzi, la violenza sulle donne che lei racconta è estremamente attuale… Purtroppo, sì.
Sembra incredibile quanti elementi in comune ci siano tra le manifestazioni di protesta e gli scontri che racconto nel film e quelle avvenute pochi mesi fa nel nostro Paese.
La gente è cambiata in questi ultimi cinquant’anni, così come le ideologie, ma la lotta No.
Io ho voluto dare un chiaro messaggio: nessuno si deve arrendere anche se la vittoria sembra lontana, perché prima o poi arriverà.
Perché ha voluto a lavorare con lei il compositore musicale Ryuichi Sakamoto? Ho incontrato il maestro Sakamoto a New York e gli ho chiesto di lavorare alla partitura musicale del mio film perché volevo che gli conferisse un respiro internazionale come aveva già fatto in passato per grandi autori come Bertolucci.
Ero convinta che l’incontro della sua cultura con quella iraniana avrebbe dato dei risultati sorprendenti.
Così è stato.
A quale Cinema fa riferimento la sua espressione artistica? Ho amato molto il film “Persepolis” e la regista è una mia amica anche se il suo approccio autobiografico è differente rispetto al mio.
Ognuna delle mie tre protagoniste porta con sé una parte di me e dei miei dilemmi, come accade anche nel romanzo dove i tre personaggi principali sono il frutto dei desideri della signora Parsipur.
Perché, da artista affermata in un altro campo, ha sentito la necessità di fare Cinema? Per mettermi alla prova e verificare se le mie capacità espressive hanno valore anche in un campo differente.
Inoltre, il Cinema mi concede molte più potenzialità espressive di qualsiasi altra arte visiva, perché è la più completa.
».
La mezzaluna di miele, il sigheh.
L’Iran naviga tra crisi nucleare e minacce di sanzioni economiche, crisi interne e internazionali.
Eppure sulle prime pagine dei giornali di recente ha tenuto banco l’hojatoleslam Mostafa Pour Mohammadi, ministro dell’interno, quando ha dichiarato che il matrimonio temporaneo è la miglior soluzione per ridurre i problemi sociali.
«L’innalzamento dell’età del matrimonio ha creato numerosi problemi nella nostra società», ha spiegato il ministro durante un forum sul hejab (il copricapo femminile prescritto dall’islam) a Qom, la città delle maggiori scuole teologiche sciite dell’Iran.
«Può l’Islam restare indifferente verso la passione erotica che dio ha concesso a un ragazzo di 15 anni? Non si può ignorare le esigenze sessuali dei giovani.
Il matrimonio temporaneo è la soluzione».
Non è difficile comprendere perché il ministro si rivolga ai giovani: il 60% dei 70 milioni di iraniani ha meno di 30 anni.
Anche se fa un curioso effetto sentire parole simili, proprio mentre è in corso l’operazione di polizia più severa da anni contro le ragazze che si mostrano in pubblico con abiti «non-islamici», o i ragazzi vestiti in modo «disordinato»…
Il «matrimonio temporaneo» (in farsi sigheh) è una pratica propria dell’islam sciita duodecimano, benché non sia contemplata dal Corano (che anzi sembra escluderlo, ad esempio dove condanna il concubinaggio).
E’ un contratto di matrimonio di cui i contraenti definiscono la durata («da un minuto a 99 anni»).
Oggi gran parte dei saggi (mufti) sunniti lo vieta, mentre il clero sciita iraniano lo considera legittimo; afferma che è stato praticato sotto il profeta Maometto prima di essere vietato da Omar, il secondo califfo.
Alcuni citano Moussa Kazem, settimo Imam degli sciiti, che autorizzava il matrimonio temporaneo per celibi o uomini sposati lontani dalle loro spose…
Certo è che il matrimonio temporaneo era praticato in Iran anche prima della Rivoluzione islamica e oggi è previsto dal codice civile: un uomo ha diritto di stipulare fino a quattro matrimoni permanenti simultanei e un numero infinito di matrimoni temporanei successivi.
In un matrimonio temporaneo gli sposi devono accordarsi per non avere figli; se un figlio nasce però avrà tutti i diritti di un bambino nato da un matrimonio permanente, almeno in teoria.
Gli incontri sul web Non esistono statistiche precise sul matrimonio temporaneo oggi.
Non c’è dubbio però che sia diffuso, e l’uso di siti web per trovare partners lo testimonia.
Può capitare di trovare annunci come quello di Mina, 41 anni, rimasta vedova: si dichiara disponibile a un matrimonio temporaneo e invita l’interessato a prendere contatto via e-mail precisando le richieste, la dote (che secondo la sharia è un obbligo dello sposo) e la durata desiderata.
In un altro annuncio Mohsen, un ragazzo di diciotto anni, vorrebbe sperimentare un matrimonio temporaneo, vuole una moglie religiosa ed è pronto a offrirle in dote una moneta d’oro al mese.
Lo spazio virtuale è il luogo migliore per incontrare le offerte; i siti di matrimoni temporanei più frequentati hanno più di 1000 utenti al giorno.
Il discorso del ministro Pour Mohammadi ha scatenato polemiche (secondo il portavoce del governo però parlava «nella sua qualità di chierico ed esperto religioso, ma la questione non interessa l’esecutivo»).
Resta da chiedersi cosa significhi il matrimonio temporaneo nella società iraniana oggi, e perché un ministro trovi necessario incoraggiarlo.
Sembra che l’establishment iraniano veda nell’unione «a tempo determinato» un modo per rincorrere una società che cambia.
Il primo leader della repubblica islamica a parlarne pubblicamente in questi termini è stato Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, allora presidente della Repubblica, negli anni ’80: per lui era una soluzione sanzionata dalla sharia per proteggere la società dall’«inquinamento morale».
Riprendeva le argomentazioni dall’ayatollah Mottahari, uno dei «padri» ideologici della Rivoluzione islamica del ’79, defunto discepolo di Khomeini, il quale considerava il matrimonio temporaneo utile per evitare l’adulterio: «Oggi i giovani, maschi e femmine, raramente si sposano in giovane età.
Nei tempi moderni, il divario tra la pubertà naturale e la pubertà sociale non cessa di allargarsi.
Siccome l’istinto sessuale esiste, che fare? Proporre a ragazzi e ragazze di astenersi? Permettere loro di avere relazioni sessuali illegali? Il matrimonio temporaneo è una risposta».
E’ proprio il ragionamento del ministro Pour Mohammadi.
Assume tutt’altro aspetto, il matrimonio temporaneo, se si pensa che nel 1994 il governo aveva pensato di creare delle «Istituzioni di Castità», case dove contrarre un matrimonio temporaneo anche per poche ore: case chiuse con legittimazione islamica? Il progetto è stato archiviato tra le polemiche, ma era andato molto vicino a essere messo in pratica.
Forse mostrava il vero volto del matrimonio temporaneo.
Nella società reale infatti c’è un forte discriminazione culturale e di classe: in quelle medie e istruite il matrimonio temporaneo non esiste.
E’ praticato invece dai ceti più bassi, ultrareligiosi e tradizionalisti: da chi non può permettersi un matrimonio vero per ragioni economiche, ma non oserebbe una relazione libera per convinzioni religiose (o controllo sociale).
A volte poi maschera la prostituzione vera e propria: le formalità del contratto sono minime, tempo e compenso («dote») sono pattuiti in anticipo, una relazione commerciale con un’ipocrita copertura religiosa.
Una paradossale scappatoia Certo, negli anni cupi della rivoluzione, quando i Pasdaran arrestavano le coppie non sposate che si mostravano in pubblico, il matrimonio temporaneo è stato praticato anche da persone che non ci credono, per legittimare una relazione con un documento ufficiale che dà molti vantaggi pratici, tra cui poter viaggiare insieme: una coppia iraniana non può prendere una camera in nessun albergo in Iran senza un certificato di matrimonio.
Mercimonio, scappatoia, o valvola di sfogo degli impulsi sessuali giovanili con una copertura di legittimità: in ogni caso il matrimonio temporaneo suscita critiche molto dure tra i sostenitori dei diritti delle donne.
La giurista Shirin Ebadi, Nobel per la pace, si è sempre espressa in modo contrario.
La sociologa Fatemeh Sadeghi sottolinea quanto sia contraddittoria l’ideologia che sostiene il matrimonio part-time: «La struttura religiosa “santifica” la famiglia, ma poi predica il matrimonio temporaneo che in pratica indebolisce l’istituzione della famiglia».
Un religioso riformista, l’hojatoleslam Yousefi Ashkevari, fa notare che il matrimonio temporaneo «svaluta» la donna: in una società tradizionalista, dove la verginità della sposa è considerata indispensabile, una ragazza che sia stata sposata in via temporanea difficilmente troverà un matrimonio «vero».
E i giovani, obiettivo dichiarato del ministro Pour Mohammadi? Molti di loro respingono il matrimonio temporaneo, soluzione tradizionale che non risponde all’aspirazione più comune: frequentarsi liberamente e senza doversi sposare.
Ragazze e ragazzi non possono incontrarsi nei luoghi pubblici se non con molte limitazioni: e così il regime islamico li spinge (soprattutto nelle classi medie e occidentalizzate) a incontrarsi più spesso nella sfera privata, ormai l’unico spazio di libertà.
Paradossi di un sistema che impedisce ai giovani di frequentarsi e avere libere relazioni amicali e affettive: poi però offre loro un matrimonio part-time per sfogare le «esigenze sessuali».
Farian Sabati scrive : Può sembrare strano, ma a contrarre più facilmente il sigheh(il matrimonio temporaneo) sono sempre più spesso le giovani benestanti: non hanno voglia di impegnarsi in un’unione definitiva, coinvolgendo le famiglie.
E non considerano più la verginità fondamentale e in ogni caso hanno denaro a sufficienza per farsi ricucire l’imene in una clinica privata pagando l’equivalente di poche centinaia di euro.
Per loro il matrimonio temporaneo, contratto davanti a un mullah per avere un pezzo di carta da mostrare alla polizia religiosa, è un modo per andare a fare il fine settimana tranquilli.
Il sigheh è quindi diventato un business….
Il matrimonio in Iran L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
La Repubblica Islamica dell’Iran, un tempo conosciuta come Persia, è un paese mediorientale, situato nel sud-ovest asiatico.
La lingua ufficiale è il persiano (farsi) e la religione quella musulmana, di indirizzo sciita.
La forte religiosità è la caratteristica culturale che emerge maggiormente fra tutte e pervade tutti gli aspetti della vita quotidiana.
L’Iran è una teocrazia basata sulla teoria dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini di una dittatura religiosa chiamata velayat-e faqih, essa dà al Leader Supremo il ruolo di tutore della nazione, ed è stato stabilito che questo regime religioso debba prendere il posto di tutte le leggi religiose minori.
Secondo la concezione teocratica fondamentalista della natura della donna e dell’uomo e dei loro ruoli nella società, la donna è considerata fisicamente, intellettualmente e moralmente inferiore all’uomo.
E il risultato è che le donne non possono partecipare alla pari in nessun campo di azione sociale o politica.
L’età legale nella quale le ragazze possono sposarsi è di 9 anni lunari (8 anni e 9 mesi sul calendario solare).
La poligamia è legale: gli uomini possono avere fino a 4 mogli.
Gli uomini hanno il potere di prendere tutte le decisioni riguardanti la famiglia, inclusa la libertà di movimento delle donne e la custodia dei figli.
Nella maggior parte dei casi in Iran il matrimonio è combinato, infatti le madri scelgono le spose per i propri figli maschi: seguendo l’esempio della tradizione antica in alcuni casi si prediligeva cercare la futura sposa tra le bambine nate in famiglie di amici e parenti, in altri ci si recava nei bagni pubblici o alle feste.
Quando il ragazzo arriva all’età giusta per il matrimonio allora la famiglia del futuro sposo si reca a casa della fidanzata prescelta, portando con sé dolci e fiori.
In questa fase, detta “khastegari”, sono i padri dei futuri sposi che discutono sul matrimonio, se manca la figura maschile all’interno della famiglia, viene chiamato lo zio più anziano.
Questa stadio comprende anche il “mehrie” che è un regalo tradizionale che il ragazzo deve offrire alla donna e che comprende sempre il corano, il nabat (cristalli di zucchero che si sciolgono nel té) e le monete d’oro (o soldi, che vengono dati in caso di divorzio come risarcimento); e viene inoltre stabilita la data in cui avverrà il matrimonio.Due o tre giorni prima del vero e proprio fidanzamento viene celebrata attraverso una semplice festa a casa della sposa l’”hanabandun”, rituale durante il quale si balla, si mangia e gli sposi si prendono per le mani, le quali precedentemente sono state spalmate con la henna (un tipo di colorante spesso usato anche in India).
Questo gesto segna la definitiva e perenne unione dei due amanti.
Un altra usanza, però ormai desueta, che veniva svolta in questa festa è la depilazione del viso della futura sposa, che fino ad allora non era stata fatta.Successivamente si giunge al momento del fidanzamento ufficiale in cui vi è nuovamente una festa e i due ragazzi si scambiano gli anelli davanti ai parenti.
Nel frattempo la futura sposa porta la propria dote nella casa in cui andranno ad abitare dopo la celebrazione del matrimonio.
La fase del fidanzamento può durare un paio di mesi ma anche diversi anni.
In Iran il matrimonio si celebra davanti al mullah, il quale secondo la religione islamica è un notaio che fa parte del clero ed è il responsabile dei matrimoni e dei divorzi.
Si giunge quindi all’ “aghakonun”, che è il vero e proprio matrimonio: i ragazzi sono seduti di fronte ad uno specchio, con delle candele e il libro sacro islamico, il Corano.
La sposa, come nella tradizione occidentale, è vestita di bianco.
Durante questa fase il mullah recita per tre volte una preghiera, poi domanda una volta allo sposo se vuole prendere in moglie la ragazza, dopo il suo consenso chiede per tre volte alla donna, inserendo nella domanda tutte le condizioni stabilite precedentemente durante il “khastegari”, se acconsente al matrimonio.
Dopo l’assenso della sposa l’unione dei due ragazzi è ufficiale e consacrata.
La sera stessa si continua con festeggiamenti, in cui si mangia e soprattutto si balla.
Viene anche annunciato il giorno in cui i novelli sposi accoglieranno in casa gli amici e i parenti per ricevere i regali.
A Shahrnush Parsipur, autrice di: Women Without Men, è stato chiesto come vede l’attuale situazione delle donne Ha così risposto: “In Iran vi è l’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani.
Come negli anni Ottanta.
Oggi il popolo iraniano è ostaggio del governo”.
– Come vede la condizione attuale delle donne? «Le donne possono andare a scuola, prendere un dottorato di ricerca, ma poi magari devono subire il matrimonio combinato, un classico.
Conosco il caso di una donna vittima dei soprusi del marito, che veniva picchiata.
Ma quando si è rivolta ai giudici per ottenere il divorzio, le hanno risposto che questo accadeva perché non si comportava secondo i canoni.
Solo dopo molti anni, corrompendo i funzionari, è riuscita a ottenere il divorzio.
Se una ragazza viene violentata, la prima cosa che si dice è: qual è stato il tuo comportamento, cosa hai fatto per provocare l’uomo? Alla fine dunque la colpa è sempre della donna».
– Il suo libro è stato pubblicato in Iran? «Non ufficialmente, ma lo si trova nella cosiddetta borsa nera della letteratura ed esiste una versione in persiano Iran, 1953: sullo sfondo tumultuoso del colpo di stato, tramato dalla CIA, i destini di quattro donne convergono in un bellissimo giardino di orchidee dove troveranno indipendenza, conforto e amicizia.
La regista mostra un’incisiva riflessione di un momento cruciale della storia che ebbe come conseguenza la Rivoluzione islamica e che portò l’Iran a essere come oggi la conosciamo.
La regista iraniana Shirin Neshat, Leone d’argento per la migliore regia a Venezia ’66, sfilando sul red carpet, ha indossato la sciarpa verde del movimento a sostegno di Mussavi e ha dichiarato: ”Il mio Paese un giorno sarà libero.
Women Without Men, parla dei giorni cruciali del ’53 .
Vuole essere un messaggio per tutti gli iraniani che credono di perdere la speranza.
Non sentiamoci sconfitti, un giorno ce la faremo”.
Speriamo.
Intanto la violenza contro le donne non solo in Iran, dove sarà difficilissimo estirpare, ma anche in altre parti del mondo è diventata endemica.
Chi è Shirin Neshat Nata il 26 marzo 1957 a Qazvin, Iran, è un artista di arte visiva contemporanea, conosciuta soprattutto per il suo lavoro nei video, nella fotografia e nel cinema Vive attualmente tra il suo paese di origine e New York.
Attraverso il suo lavoro analizza le difficili condizioni sociali all’interno della cultura islamica,con particolare attenzione al ruolo della donna.
Il suo lavoro esplora il significato sociale, politico e psicologico dell’essere donna nelle società islamiche contemporanee.
Non ama le rappresentazioni stereotipate dell’ Islam, i suoi obiettivi artistici non sono esplicitamente polemici.
Piuttosto, il suo compito riconosce le forze intellettuali e religiose complesse che modellano l’identità delle donne musulmane nel mondo intero.
Come fotografa e video-artista, Shirin Neshat è famosa per i suoi ritratti di corpi di donne interamenti ricoperti da scritte in calligrafia persiana.
Inoltre ha diretto parecchi video, tra cui Anchorage (1996), proiettato su due pareti opposte: Shadow under the Web (1997), Turbulent (1998), Rapture (1999) e Soliloquy (1999) Nelle sue fotografie e nei suoi video ci mostra attraverso immagini piene di tensione dei corpi velati, dei martiri (uomini o donne), persone sottomesse, che ogni giorno devono fare i conti con la violenza ed il terrorismo.
Ha partecipato anche alla Biennale d’arte nel 1999, ricevendo un lusinghiero successo di critica.
Ora ha deciso fortissimamente, di esplorare il campo cinematografico.
E non si può dire che le sia andata male, visto il successo che ha riscosso il suo primo lungometraggio, così dolente e così simbolico.
Proprio come è l’Iran in questi tempi.
Non è da trascurare che la sua famiglia è benestante, segue uno stile di vita occidentale, il padre fisico e la madre casalinga hanno una ammirazione per lo Scia di Persia.
E’ cresciuta in un clima filo-occidentale ed educata in una scuola cattolica e poi a Los Angeles per completare gli studi.
Mentre è a Los Angeles avviene il colpo di stato in Iran e la situazione cambia radicalmente.
Si sposta a San Francisco e poi a New York dove lavora per un’organizzazione no profit.
Nel 1990 torna in Iran spinta anche dalla ricerca delle proprie origini, trova un paese completamente cambiato rispetto a quello che aveva lasciato.
Qui matura l’idea della serie di Women of Allah.
Tornando in Iran Shirin Neshat ha cercato di leggere profondamente dentro la cultura islamica e di andare oltre lo stereotipo della donna in secondo piano, per mostrare la forza, la personalità e il carattere delle donne.
Ecco come descrive il suo viaggio in Iran in un’intervista al TIME: Neshat: “Durante il regime dello Scia c’era un ambiente molto aperto.
C’era una specie di diluizione tra Occidente e Oriente – nel modo di vedere e nel modo di vivere.
Quando tornai ogni cosa sembrava cambiata.
Sembrava che ci fossero pochi colori.
Tutto era bianco o nero.
Tutte le donne indossavano il nero chador.
Fu uno shock immediato.
Il nome delle strade era cambiato dal vecchio nome persiano nel nuovo nome arabo islamico.
Questo slittamento dall’identità persiana verso una più islamica creò una sorta di crisi.
Penso che ora tutto ciò sia accompagnato da un grande senso di vuoto”.
Attualmente vive a New York e i suoi lavori recenti risentono della sofferenza per la separazione coatta dal suo paese di origine.
Nella stessa intervista, spiega chiaramente la sua situazione e il significato di Women of Allah.
I passaggi più interessanti sono: il contrasto tra il senso di indipendenza che sente in America e il senso di isolamento e la perdita di punti di riferimento: “Non posso chiamare casa nessun luogo”.
Il contrasto tra l’individualismo americano e l’appartenenza a una collettività.
Il suo lavoro rappresenta il desiderio di riconciliazione con il suo passato e la sua cultura.
Alla domanda sulla fascinazione dell’Islam in Occidente, risponde che guardare una cultura così diversa pone degli interrogativi e che la realtà non è quella che ci si immagina.
L’Islam è visto come una minaccia come lo era l’Unione Sovietica.
L’Islam non rientra nella mentalità razionale dell’Occidente.
La sua intenzione come artista è quella di cercare il dialogo e di sovvertire uno stereotipo.
La donna è sì vittima e sottomessa, ma anche forte e consapevole.
Le scritte sulle mani e sulla bocca sono il pensiero non detto di queste donne, che non possono parlare ma hanno un loro pensiero.
Alla domanda perché nelle sue fotografie le donne hanno le pistole, risponde perché non si può separare l’idea della religione dalla politica e dalla violenza.
In pratica cerca di rappresentare il paradosso del martirio.
Il martire è al confine tra l’amore per Dio, la fede e la devozione, e il crimine e la crudeltà dall’altro.
La storia dell’Islam è caratterizzata dall’ossessione della morte e dal rifiuto del mondo materiale così la morte è vista come premio.
Le ultime parole dell’intervista sono molto commoventi : “Mi piacciono le opere che mi tolgono il fiato o che mi fanno piangere quasi come un’esperienza mistico religiosa.
Sto creando una piccola esperienza per la gente in modo che la possa tenere con se non come una pesante liquidazione politica, ma come qualcosa che tocchi al massimo livello di emozione”( Neshat,TIME Aprile 2004, http://www.eruditiononline.com/04.04/shirin_neshat_interview.htm) Woman Without Men è un film intenso e dal carattere fortemente rivoluzionario.
Le immagini, nitide e piene di particolari, omaggiano l’arte pittorica, richiamano antiche iconografie, diventano simboliche.
Lo spettatore si ritrova davanti a un vero e proprio affresco eseguito con tanta luce e tante ombre.
Il tutto, inserito nel contesto storico del 1953, anno in cui il golpe ordito da Stati Uniti e Gran Bretagna riuscì a deporre il governo democratico di Mossadegh per restaurare il potere dello Scià.
Le donne ne sono protagoniste:c’è Fakhri, moglie insoddisfatta che riesce a scappare e a comprare una tenuta in cui rifugiarsi.
Poi Munis, interessata alle vicende politiche.
E infine Faezeh, incastrata dal rapporto col fratello.
Le tre donne si conosceranno e finiranno per imparare l’amarezza della vita.
Film storico, diviso tra sogno e realtà , con le musiche di Ryuichi Sakamoto si vivono i conflitti interiori e le ansie scatenate da una voglia di libertà che nessun governo può mettere a tacere.
Incredibili, poi, i momenti in cui assistiamo ai soprusi di una società maschilista e chiusa.
Ottusa e cieca.
Ossessivamente rinchiusa in ambiti culturali soffocanti.
Le donne, in questo universo stretto, devono nascondersi, sono obbligate ad abbassare lo sguardo, sono impossibilitate dal muoversi.
Le uniche ancore di salvezza sono la cultura, tenuta segreta come un peccato, e la propria immaginazione.
Un film che fa riflettere e sembra mostri l’attuale situazione di tante donne musulmane, l’ultima – in ordine di tempo- quella povera ragazza diciottenne, Sanaa, trucidata dal padre perché osteggiava il suo legame con un cattolico.
E poi parlataci dell’integrazione!

Velo islamico

II velo è simbolo di obbedienza a Dio, di modestia e pudore.
Alle donne sarebbe consentito mostrare soltanto il viso, le mani e i piedi considerati non sessualmente provocanti.
Ma è anche vero che in alcuni paesi musulmani, come I’Afghanistan, le donne sono nascoste sot­to tuniche che le rivestono completamente dalla testa ai piedi.
Dall’altro lato c’è chi invece ritiene che lo higab non abbia rnai costituito un dogma: il Corano non ne parla e le quattro grandi scuole giuridiche dell’islam, ufficialmente riconosciute come ortodosse (hanafita, malikita, shafi’ita, hanbalita) non hanno mai sostenuto una teoria sul velo.
Lo higab sarebbe entrato in scena solo successivamen­te per una questione di necessità, quando le contaminazioni del inondo esterno (già nel XIV secolo coll’invasione mongola) e i processi di modernizzazione (della secon­da metà del Novecento) richiesero una di­fesa strenua di un’identità in crisi.
Ciò che negli elementi più estremisti si traduce in una chiusura e in un’opposizione anti-oc­cidentale.
In questo senso, il velo diventa il simbolo di un’appartenenza che può, secondo il governo francese, intaccare la laicità dello stato.
Ed è così che, nel 2004, la Francia promulga la cosiddetta legge sulla laicità per ciui «nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici è proibito portare segni o abiti con i quali gli alunni manifestino ostenta­tamente un’appartenenza religiosa».
Ol­tre al velo islamico, le croci di una certa di­mensione, la kippah ebraica, il turbante sikh.
Questo provoca reazioni opposte non soltanto tra i musulmani, ma anche tra i cattolici.
Giovanni Paolo II ha condanna­to la laicità che si fa laicismo.
Sarnir Khalil Samir, gesuita e autorevole islamologo, ha invece salutato con favore la legge perché mette un freno al «desiderio separatista» dell’islam.
I musulmani si sono divisi tra chi, come Dalil BuBaker, presidente del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), ritiene inammissibile un’ingeren­za del mondo islamico negli affari dello stato (ospitante) e afferma «siamo cittadini francesi e applichiamo la legge france­se», e chi, come l’Unione delle organizza­zioni islamiche di Francia, i Fratelli Mu­sulmani in Giordania, o l’Iran si è opposto alla legge perché attacca «la libertà reli­giosa».
Per Al Qaeda «si tratta di un altro segno dell’odiosa crociata scatenata dagli occidentali contro i musulmani».
Non è facile indicare con certezza quanti siano i veli islamici, diversi per cultura e tra­dizioni anche all’interno dello stesso pae­se.
Questi i più comuni: burqa, chador; ha’ik, higab, jalabiya, niqab.
Il burqa, diffuso in Af­ghanistan, è un velo integrale dai colori ge­neralmente accesi (arancione, verde, az­zurro) che copre completamente la don­na, dalla testa ai piedi, lasciando aperta so­lo una finestrella a rete davanti agli occhi per consentirle di vedere il mondo esterno.
Lo chador è nero e avvolge il corpo completamente, lasciando scoperto l’ovale del viso.
È usato soprattutto in Iran, dove è obbligatorio dalla rivoluzione del 1979 gui­data dall’ayatollah Khomeini.
L’ ha’ik è una stoffa tessuta in maniera tradizionale, di la­na (in Marocco) o seta (Algeria), che av­volge il capo e il corpo.
L’ higab è composto da due pezzi: un copricapo che nasconde la testa e un velo che, appoggiato sopra, scende sulle spalle ed è legalo sotto al men­to o appuntato con una spilla.
E utilizzato in Egitto, Siria, Giordania e Marocco.
Lo jalabiya è un lungo camice di tela, usato an­che dai più antichi coltivatori del Nord Africa, i fellahin dell’Egitto (coltivatori insediati lungo la valle e il Delta del Nilo).
Il niqab è un velo che copre la testa e il viso della donna lasciando scoperti gli occhi e può essere molto raffinato ed elegante o pesante e nero.
Sull’obbligo di indossare il velo (higab, in arabo) non c’è unicità di vedute nel mon­do islamico.
La discordanza deriva dall’in­terpretazione che si dà ai precetti del Cora­no, fonte primaria della fede e del diritto musulmani, ed esprime solitamente, rna non necessariamente, una contrapposizio­ne tra islam moderato e fondamentalista.
Semplificando, da un lato c’è chi sostiene che l’uso del velo non dovrebbe essere mes­so in discussione: il Corano si esprimereb­be esplicitamente in tal senso nelle sure XXIV, 31 e XXXIII, 59.
 

La Chiesa e la nuova realtà dell’Africa che non è il mendicante

Si è aperto il Sinodo dei vescovi per l’Africa.
Dopo il viaggio di Benedetto XVI in Camerun e Angola lo scorso marzo, la Chiesa convoca ora i suoi stati generali sul «continente malato».
Qui il cattolicesimo ha conosciuto una crescita imponente nel Novecento.
I cattolici sono passati da meno di due milioni del 1900 a oltre 160 milioni di oggi.
Il tempo del colonialismo è stato anche quello di un’intensa stagione missionaria.
La Chiesa non se n’è andata dal continente a seguito delle potenze coloniali.
Dagli anni 50 ha africanizzato i suo quadri, assumendo un volto africano.
Eppure ha conosciuto gravi difficoltà e persecuzioni.
Non solo i cattolici.
Il patriarca ortodosso di Etiopia, Paulos (invitato a parlare al Sinodo), ha conosciuto la dura repressione del dittatore Menghistu, che ha lo ha incarcerato e ha assassinato tanti religiosi.
Negli anni 90, la Chiesa in Africa ha avuto un ruolo centrale nelle transizioni dalla dittatura alla democrazia.
Grandi figure di cattolici si sono imposte fin dall’indipendenza, come il senegalese Senghor (uno dei pochi leader del suo tempo a lasciare spontaneamente il potere) o il presidente Nyerere della Tanzania.
E oggi? Il cattolicesimo è in una condizione di passaggio, pur continuando a essere una delle più grandi risorse umane dell’Africa.
Ma in che senso? La Chiesa è sfidata dalla vitalità dell’islam, talvolta radicale.
Ma anche da un messaggio cristiano alternativo: Chiese libere, sette, propongono un cristianesimo, caldo, miracolistico, sentimentale.
Benedetto XVI ha parlato dei rischi del «fondamentalismo religioso, mischiato con interessi politici ed economici»: «Gruppi che si rifanno a diverse appartenenze religiose — ha detto ieri — si stanno diffondendo nel continente africano; lo fanno nel nome di Dio… insegnando e praticando non l’amore e il rispetto della libertà, ma l’intolleranza e la violenza».
La Chiesa risente della diminuzione e dell’invecchiamento dei missionari dell’Occidente.
In Africa le chiese cattoliche sono sempre piene, ma in alcuni Paesi il cattolicesimo ha una posizione meno centrale di ieri ed è maggiormente sfidato dal pluralismo religioso e culturale.
Sono problemi chiari a Benedetto XVI che, nell’anno sacerdotale, guarda con attenzione ai 34 mila preti africani.
L’Africa conta su preti giovani, coraggiosi, generosi ma talvolta tentati dall’esercizio di un «potere» clericale.
Non si può generalizzare, ma lo stile del potere, tipico delle società africane, può contagiare vescovi e preti.
Questa situazione ha una ricaduta sui laici cattolici.
Le grandi figure di «laici» (Nyerere o Senghor) sono tramontate.
I laici (e le religiose), decisivi nella vita della Chiesa, in Africa sono spesso solo i collaboratori del prete.
Lo si vede dall’assenza dei cattolici in molte classi dirigenti.
Il Sinodo africano darà vitalità alla Chiesa nel continente in tutte le sue componenti? Papa Ratzinger ha proposto, da subito, non aggiustamenti strutturali, ma la «misura alta della vita cristiana, cioè la santità».
Di fronte ai vescovi si apre lo scenario delle guerre, delle pandemie e della povertà del continente.
Ma l’Africa non è tutta «nera».
Malgrado le crisi, torna al centro dell’interesse mondiale.
Lo si vede dalla politica attiva della Cina.
In un recente convegno, promosso dalla Fondazione Banco di Sicilia e da Ambrosetti, è stato rilevato come l’Africa sia una grande opportunità per l’impresa europea.
Ben 33 Paesi africani crescono da un punto di vista economico.
Sta emergendo una giovane generazione, pronta a cogliere le occasioni della globalizzazione, con un orizzonte culturale diverso da quello tradizionale.
Quando si parla di cultura africana bisogna stare attenti, perché il discorso sull’autenticità africana rischia di rivelarsi una costruzione ideologica e passatista.
La cultura africana oggi è più moderna delle rappresentazioni etnico-folcloristiche o tradizionali, fatte da europei o africani.
La comprensione dell’Africa deve essere più articolata che quella dolorosa ma semplificata del tempo delle dittature.
La società, fattasi complessa, non è più così naturalmente religiosa, come si è tanto detto.
Se larghe masse sono ancora in bilico tra passato e futuro, tanti africani hanno compiuto un salto in avanti.
Per la rapidità dei cambiamenti, forse i vescovi cattolici dovranno rileggere la realtà e non affidarsi a stereotipi, per capire meglio il mondo dei loro fedeli.
Ne ha dato l’esempio il Papa, parlando di forza attrattiva del «materialismo pratico».
Persistono gravi situazioni di miseria, guerra e malattie.
La cura dell’Aids necessita di importanti risorse.
L’Africa da sola non ce la fa.
Richiede aiuto, investimento, inserimento nella rete mondiale.
Può, però, dare molto a tutti i livelli.
Non è il mendicante del mondo.
È significativo che, nell’anno della crisi economica, la Chiesa ponga l’Africa al centro: «L’Africa rappresenta un immenso polmone spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza», ha detto il Papa.
Ma questo polmone può ammalarsi.
I vescovi cattolici non possono gestire solo un grande patrimonio religioso, ma andare in profondità e rischiare la via del futuro.
in “Corriere della Sera” del 5 ottobre 2009

“Don Luigi Sturzo uomo dello Spirito”

“Don Luigi Sturzo uomo dello Spirito” è il tema del convegno internazionale che si tiene dal 2 al 4 ottobre a Catania e a Caltagirone per i cinquant’anni dalla morte del sacerdote calatino fondatore del Partito popolare italiano.
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento del vescovo Mariano Crociata segretario generale della Conferenza episcopale italiana.  Sono stato colpito dall’opportunità che ci viene data di riflettere sulla figura di don Luigi Sturzo, sulla sua vita, il suo pensiero, le sue opere, mentre è in pieno svolgimento l’Anno sacerdotale voluto dal Santo Padre Benedetto XVI, a 150 anni dalla morte di san Giovanni Maria Vianney.
A uno sguardo non superficiale, infatti, appare un numero imprevisto di analogie tra il cammino del prete di Caltagirone e quello del curato d’Ars.
Davvero una sorpresa: l’amore indefesso per il sacerdozio, la completa dedizione all’eucarestia come sacramento vivificante, l’obbedienza alla Chiesa e ai superiori, la fortezza umana sposata a una infinita umiltà, una salute che faceva penare, il coraggio d’intraprendere cose nuove, il non fermare il proprio ministero sul sagrato dell’edificio di culto…
Ma forse stiamo parlando della verità più profonda del ministero ordinato, la stessa verità che troveremmo in ogni prete vero, che dovremmo poter trovare in ogni prete.
Una verità, quella del servizio presbiterale, che don Sturzo ha illustrato e che in parte non piccola ha contribuito con la sua vita a scoprire, o almeno a rivelare a una porzione significativa di popolo di Dio.
Ci accorgiamo di ciò facilmente se proviamo a guardare al prete con l’aiuto dei documenti del Concilio.
Fin dall’inizio della Presbyterorum Ordinis il prete è definito per il suo dedicarsi al servizio della celebrazione, all’annuncio della parola di Dio, al servizio per l’edificazione del popolo santo.
Tutto quello che sappiamo della vita di don Luigi Sturzo si snoda come una trama dal principio alla fine unificata dal costante primato accordato alla celebrazione della messa.
Egli la visse con una intensità resa possibile da un costante lavoro di distinzione del valore di questa azione sacramentale dal resto delle pratiche di devozione, che non disprezzò ma che seppe dimensionare orientando la propria vita di credente e di prete su ciò che noi oggi, grazie al Concilio, professiamo con rinnovata certezza quale fonte e culmine della vita cristiana.
Quando fu posto di fronte all’alternativa tra servizio ministeriale e altri pur meritevoli e preziosi impegni, don Luigi Sturzo fece ciò che richiedeva il restare ciò che era divenuto: un prete.
Ci insegnò una strada per far crescere la Chiesa e la fede attraverso il provvidenziale crogiolo della modernità e ci insegnò un sentiero di testimonianza della fede nella polis fino ad allora ignorato, se non ritenuto impossibile o addirittura sbagliato.
Se la nostra fede e la nostra Chiesa respirano, se sanno respirare a pieni polmoni della libertà che questi tempi ci consentono e a cui quasi ci obbligano, se la fede non è impaurita dalla coscienza, questo è ancora merito suo.
Come Rosmini, come Manzoni, come Montini, don Luigi ci ha aiutato a sondare nuove dimensioni di quella misura alta di umanità che è la santità, come spesso ci ha ricordato Giovanni Paolo II.
Ed in più, don Luigi ci ha insegnato quanto sia vero che nella Chiesa si può edificare senza primeggiare, si può fare molto con poco potere.
Di quale magistero e di quale edificante testimonianza è stato capace permanendo nel servizio, quello vero e pesante, quello spesso incompreso, non quello che si menziona solo come fosse un soprannome dato a cariche, prestigio, o visibilità! Possiamo chiederci se don Sturzo è stato un modello di prete.
È difficile dirlo.
Certo non credo sia immaginabile né tanto meno auspicabile nelle odierne circostanze un prete segretario di partito.
Ma forse questa domanda non è di particolare utilità.
Posto che fu testimone credibile, e che è ancora, e forse più di allora, testimone credibile, che importa se possa essere o meno anche un modello? Non abbiamo, forse oggi più che mai, bisogno di credenti, e di preti, che sappiano vivere la fedeltà nell’immaginazione, nella scelta, piuttosto che nella mera ripetizione? E se ci poniamo in questa prospettiva, ecco che la memoria di don Luigi si rivela feconda per la vita; ecco che l’istanza di fedeltà al vangelo e alla Chiesa, che sta di fronte a ogni battezzato e a ogni prete, si fa più bella.
Quella di don Luigi è una testimonianza feconda e di grande ammaestramento non per il grado di ripetibilità della sua esperienza, ma per l’intensità che essa raggiunse in alcune dimensioni, e che raggiunse sempre cercando nella vita soprannaturale la verità e la radice di ogni trama e di ogni istante della nostra vita terrena.
Don Luigi ci dà misure d’intensità che ci spronano e ci confortano insieme.
Pensiamo alla intensità della sua vita interiore.
Soprattutto i giovani dovrebbero essere informati sul regime, sul realismo e sulla qualità evangelica della sua vita di preghiera, per la maggior parte nascosta, non spettacolarizzata.
A noi può a volte persino spaventare la durata e la profondità dell’immergersi di don Luigi nel mistero di Dio a partire dalla parola di Dio.
Ma non solo a partire dalle Scritture.
Come potremmo infatti comprendere don Sturzo se separassimo la sua passione militante per lo studio dalla sua vita di preghiera? Forse proprio questa è una delle grandi sfide che ci troviamo dinanzi nell’atto d’accingerci ad affrontare l’emergenza educativa.
Giova alla preghiera cristiana una contrapposizione allo studio? Giova forse allo studio dei credenti una sua contrapposizione alla preghiera? Come per san Tommaso, anche per don Luigi questa contrapposizione non aveva alcuna legittimità, mentre noi, tante volte, ci ostiniamo a costruire tanto devozionalismo e anti-intellettualismo su questa nefasta e fuorviante opposizione! Pensiamo all’intensità con cui don Luigi ha saputo vivere l’obbedienza.
Quante carriere, quanta mondanità d’ogni genere don Sturzo ha saputo evitare o lasciare anche per obbedienza! Un’obbedienza non cieca, un’obbedienza non passiva, un’obbedienza forte, un’obbedienza senza adulazione o abiure.
Quanto conflitto gli ha generato dentro quella obbedienza.
Con la sua vita di libertà mai rinnegata, don Sturzo ci offre una misura d’obbedienza che ci aiuta rendendoci innanzitutto molto, molto umili.
Pensiamo ancora alla intensità con cui don Luigi ha vissuto la lotta, l’agonia del sano agonismo.
Una lotta interiore e pubblica.
Quanta poca ricerca di pace e di consenso a ogni costo nella sua vita spirituale, quale altissima e non infantile idea della comunione ecclesiale, comunione tra persone diverse e libere.
Pensiamo – ed è l’ultimo cenno, che però non posso non fare – alla intensità con cui don Luigi ha sempre cercato la via del rinnovamento, personale, ecclesiale, civile.
Pensiamo a come è riuscito a farsi aprire la mente e il cuore dagli studi romani, a come è riuscito a farsi mutare dall’esperienza pastorale e socio-politica dei primi anni dopo il ritorno in Sicilia, infine a come ha saputo farsi cambiare dall’esperienza durissima dell’esilio – come non attenerci ancora oggi saldamente alla sua dura denuncia delle tre “male bestie”: statalismo assistenzialista, cultura della spesa pubblica, partitocrazia? Forse don Luigi non sarà un modello ripetibile, ma di certo è testimone e sprone a una misura elevatissima d’intensità nella vita interiore, d’intensità nell’obbedienza ecclesiale, di intensità nel coraggio dell’agonismo, e d’intensità nel coraggio del rinnovamento.
(©L’Osservatore Romano – 4 ottobre 2009)

Io sono un sogno di Dio

Don Giò e il desiderio del vero Il desiderio del vero.
Non c’è passo o azione umana che non siano dettati ultimamente da un insopprimibile desiderio di bene, di felicità, di compimento.
Eppure non è frequente oggi incontrare un giovane che viva di questo desiderio: “Voglio diventare sacerdote ed essere santo”.
Altri sono i modelli sociali di riferimento, altre le aspirazioni inculcate e che difficilmente fanno coincidere il sogno della propria realizzazione umana con l’appagamento dei desideri più profondi e veri.
O, almeno, questa è la realtà dipinta e ingigantita dai mass media.
Perché il mondo dei giovani non è poi così piatto e uniforme e, guardando bene, c’è anche chi, come Giò, è “lieto di giocarsi unicamente per il Signore”.
Giò è il nomignolo che gli amici hanno familiarmente affibbiato a Giovanni Bertocchi.
Un ragazzo come tanti, nato nel 1975 in una famiglia cattolica della provincia di Bergamo.
E che a 14 anni entra in seminario per conseguire la maturità classica e vi rimane fino all’ordinazione sacerdotale – il 3 giugno 2000 – divenendo così per tutti don Giò.
Un prete giovane, dedito al proprio ministero, plasmato dalla misericordia del Signore.
Una presenza cristiana tra le famiglie e i giovani della parrocchia.
Senza gesti eclatanti, ma nell’ordinarietà e nella semplicità del lavoro pastorale.
Fino al 30 aprile 2004, quando fatalmente cade sotto gli occhi attoniti dei suoi ragazzi, nella palestra dell’oratorio San Giovanni Bosco di Verdello, centro di settemila anime in provincia di Bergamo.
A cinque anni dalla morte e nel clima dell’Anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI, i genitori hanno acconsentito ad aprire una finestra sul mondo interiore di questo giovanissimo sacerdote.
È nato così, grazie al lavoro di Arturo Bellini – sacerdote e giornalista bergamasco – un libro che ne raccoglie il diario spirituale (Giovanni Bertocchi, Io sono un sogno di Dio, Padova, Edizioni Messaggero Padova, 2009, pagine 240, euro 13).
Don Bellini ha conosciuto don Giò nel 1998, due anni prima dell’ordinazione sacerdotale, quando il giovane seminarista – allora ancora senza il don – per la prima volta arrivò a Verdello con i compagni di teologia per la “Missione giovani”.
E lo ricorda così: “Mi colpì per la sua sensibilità e la sua capacità di dare volto alla figura di Gesù e di parlare di Gesù”.
E quando poi, dopo l’ordinazione, don Giò fu destinato proprio all’oratorio di Verdello, “trovai un giovane presbitero preparato e intelligente, creativo e appassionato di Gesù e del Vangelo, contento di essere prete”.
Un sacerdote “attento ai segni di Dio” nella propria storia e nella vita dei ragazzi che gli erano stati affidati, “sensibile al nuovo, ma rispettoso sempre di quel che altri avevano costruito”, un “paziente e fedele lavoratore nel campo di Dio”.
Quella di don Giò è dunque la piccola grande storia di un seminarista e poi di un sacerdote che – spiega don Bellini – “non ha fatto cose straordinarie, ma ha vissuto in modo appassionato l’ordinario della sua vita, la sua relazione con Dio e la relazione con le persone affidate al suo ministero”.
Un itinerario umano fatto di tante piccole tappe, dubbi, indecisioni, entusiasmi e scoperte.
Scrive infatti sulla sua agenda Giò appena diciassettenne: “Oggi ho capito che non c’è bisogno che io faccia grandi cose.
La santità devo costruirla con l’aiuto di Dio nelle piccole cose di ogni giorno.
Le grandezze che il Signore mi darà la grazia di vivere saranno frutto dei miei piccoli passi quotidiani”.
Il diario spirituale di Giò abbraccia un periodo di quindici anni: dall’entrata in seminario nel settembre 1989 – “per me è l’inizio di una nuova bellissima esperienza” – all’improvvisa morte nella primavera del 2004.
Contiene riflessioni tracciate con grafia minuta su agende e quadernetti insieme ad appunti di scuola, disegni e note musicali, impegni da ricordare.
Linguaggio e stile sono espressione di un figlio dell’epoca moderna, di una cultura dell'”io” sempre più invadente.
E anche se non sembra esserci stata la precisa volontà di tenere un diario, di fatto egli scrive in modo rapido ed essenziale i suoi pensieri e le sue domande sulla vocazione, sulla preghiera, sul senso della vita, dell’amore e della sofferenza umana.
Senza nulla censurare.
Talvolta, di fronte alla vocazione che lo chiama a vivere nella verginità, scoprendosi a “rincorrere il proprio cuore che corre più veloce di un motore”.
Altre, denunciando il proprio disimpegno: “Non prego molto, soprattutto non mi confesso…”.
Altre, ancora, manifestando il desiderio di abbandono a Dio: “Voglio essere un libro aperto (aperto come le braccia e le mani di Cristo sulla Croce!).
Voglio migliaia di pagine bianche su cui sia Tu a scrivere il resto della mia storia”.
Don Giò non idealizza e non teorizza la figura del prete.
Sa che il “successo” del sacerdote sta nella fedeltà a ciò che è indispensabile per essere segno della misericordia di Dio.
E dono e gratuità – lo ricorda in primo luogo a se stesso – sono gli unici tratti caratteristici: “La mia scelta di vita come sacerdote implica per se stessa il dono di te all’altro.
Devi essere tutto a tutti.
Tutto per i ragazzi, per i loro bisogni.
Tutto per i genitori, con la fatica dell’educare.
Tutto per la comunità che a volte ha sete di Dio, altre no…
Tutto per i baristi dell’oratorio, per le signore delle pulizie, per i catechisti, per gli anziani, per i malati, per la scuola…”.
Una vocazione vissuta nella consapevolezza e nell’esperienza dell’abbraccio misericordioso di Dio.
Come quella volta che in seminario, confuso e in cerca di conferme, d’improvviso notò sopra la propria testa il volo di una rondine che aveva fatto il nido proprio sopra una finestra del cortile.
Per circa un quarto d’ora rimase a guardare l’andirivieni della rondine che portava il cibo ai suoi piccoli che allungavano il collo con il becco aperto e l’accoglievano con garriti di gioia.
“Uno spettacolo troppo bello per vederlo da solo e così corsi a chiamare alcuni miei compagni per guardarlo insieme.
Rimasi nel cortile con due o tre di loro per una decina di minuti, ma della rondine nessuna traccia e il nido era diventato silenzioso.
I miei compagni rientrarono a studiare e io rimasi ancora lì fuori incantato da quella visione e stranamente sereno e felice: avevo capito che il Signore aveva preparato quello spettacolo apposta per me e per nessun altro.
Anch’io dovevo preparare qualcosa per Lui.
La mia vita doveva essere il mio regalo per Lui”.
di Fabrizio Contessa GIOVANNI BERTOCCHI, Io sono un sogno di Dio, Diario spirituale 1989-2004,  Edizioni Messaggero Padova, 2009, ISBN: 978-88-250-2399-2 , pagine 240, € 13,00 Contenuto Il diario spirituale di don Giò abbraccia un periodo di 15 anni: dal tempo del seminario che culmina con l’ordinazione sacerdotale il 3 giugno 2000, alla morte nel 2004.
Nel diario c’è la «piccola» storia di un giovane che si è ritrovato a pensare di essere un sogno di Dio; vi è la traccia della sua anima che si racconta con sincerità e libertà e che lo ha portato a comunicare con giovanile entusiasmo la speranza che gli bruciava in cuore.
Destinatari Tutti, in particolare i giovani Autore Giovanni Bertocchi nasce nel 1975 e a 14 anni entra in seminario a Bergamo dove consegue il diploma di maturità classica.
Nel 2000 completa gli studi e ottiene il bacellierato in teologia; a giugno dello stesso anno viene ordinato sacerdote.
Il 30 aprile 2004, cadendo nella palestra dell’oratorio parrocchiale, muore sotto gli occhi dei suoi ragazzi.