Fao: «Più di un miliardo gli affamati nel mondo»

Rischio paesi ricchi.
Anzi: persino nei Paesi ricchi registriamo un aumento degli affamati del 15,4% rispetto allo scorso anno.
È il principale risultato contenuto nell’edizione 2009 dello Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo (Sofi 2009) che lancia oggi alla vigilia della Giornata mondiale dell’alimentazione che si celebra domani.
Che segnala un’amara sorpresa: percentualmente sono i Paesi ricchi ad aver visto il numero delle persone che hanno fame crescere di più, registrando un aumento del 15,4% e raggiungendo la quota assoluta di 15 milioni di affamati.
Il record negativo di insicurezza alimentare lo mantiene la regione Asia-Pacifico con 642 milioni di persone che hanno fame (+10,5%), seguita dall’Africa Subsahariana con 265 milioni (+11,8%), dall’America Latina con 53 milioni (+12,8%) e infine dal Nord ed est Africa con 42 milioni (+13,5%).
100 milioni di persone affamate in più.
«Rispetto allo scorso anno oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini in più, un sesto di tutta l’umanità hanno fame nel 2009 – scrivono nell’introduzione il direttore generale della FAO Jacques Diouf e la direttrice esecutiva del PAM Josette Sheeran, che per le Nazioni Unite -.
La crisi dei prezzi delle materie prime alimentari del 2006-2008 ha portato fuori dalla portata del reddito di queste persone tutti gli alimenti di base e nonostante i ribassi alla fine del 2008 erano in media ancora del 17% più alti di due anni prima della crisi.
Questo ha costretto molte famiglie povere a scegliere tra cure sanitarie, scuola e cibo».
L’importanza dell’agricoltura.
Il messaggio lanciato al nuovo Vertice per la sicurezza alimentare vedrà i Capi di Stato e di Governo nuovamente a Roma dal 16 al 18 novembre prossimi è molto chiaro: c’è bisogno di una strategia a due tempi: un intervento d’emergenza, con voucher alimentari, aiuti e reti di sicurezza e welfare immediato, e a medio termine un vero programma di sostegno all’agricoltura contadina.
«Nei tempi di crisi passati si è sempre assistito a una riduzione degli interventi pubblici a sostegno dell’agricoltura.
Ma l’unico strumento efficace per vincere la povertà – avvertono i due responsabili delle Nazioni Unite – è assicurarsi un settore agricolo in piena salute».
Avvenire 14 ottobre 2009 Nel mondo nel 2009 siamo arrivati ad avere 1.02 miliardi di persone affamate.
È la prima volta che accade dal 1970 e, mentre nel Vertice per la sicurezza alimentare di due anni fa i capi di Stato e di Governo avevano confermato l’obiettivo assunto con la Dichiarazione del Millennio di dimezzare il numero di chi ha fame entro il 2015, oggi l’obiettivo è definitivamente archiviato. 

Il cielo tra fisica e metafisica

“Una volta mi ero trovato in un monastero in cui si pregava per una badessa ormai agli estremi.
Un giorno fu esposto un annuncio che diceva:  “Ci si deve attendere il peggio”.
Il peggio, sembrava dire, sarebbe stato che ella andasse in cielo”.
Con questo aneddoto segnato da un’ironia bonaria ma non per questo meno pungente, il benedettino Jean Leclercq, importante studioso di san Bernardo e della letteratura cristiana medievale, evocava un simbolo tanto esaltato da tutte le civiltà ma anche un po’ esorcizzato proprio per la sua “trascendenza” rispetto all’orizzonte terreno ove abbiamo ben piantati piedi e radici.
In modo analogo il celebre asserto finale della Critica della ragion pratica kantiana – “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma:  il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” – è nei nostri giorni gaudenti decisamente accantonato.
Il cielo, infatti, è nascosto spesso da una coltre di smog e la legge morale è subito tacitata dalla sguaiatezza e dalla superficialità.
Eppure da quando l’uomo ha conquistato la stazione eretta e ha levato il capo verso l’alto, il cielo ha continuato ad attirare.
Ricordo una bella ballata di uno scrittore a me molto caro per amicizia, Luigi Santucci:  in essa una tartaruga ribaltata dal calcio di un passante, dopo il primo smarrimento, si lasciava conquistare dalla nuova contemplazione degli spazi celesti che prima le era vietata.
Nel suo Diario Anna Frank scriveva:  “Prova anche tu, una volta che ti senti solo o infelice o triste, a guardare fuori dalla soffitta quando il tempo è bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare il cielo senza timori, sarai sicuro di essere puro dentro e tornerai a essere felice”.
E a lei faceva eco Etty Hillesum quando nel suo intenso diario composto nel lager di Auschwitz annotava al 14 luglio 1942:  “Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera”.
Nell’immensità cosmica celeste, però, da secoli puntano il loro sguardo anche gli strumenti delle rilevazioni astrofisiche e non solo l’occhio vivido del poeta o del credente.
E anche la visione scientifica non è priva di fremiti e di emozioni, al punto tale che in passato s’intrecciavano – persino nello stesso Galileo – senza imbarazzi astronomia e astrologia.
Lo stesso scienziato moderno, configgendo i suoi telescopi più sofisticati in quelle distese sterminate, non di rado adotta categorie, linguaggi, schemi interpretativi di matrice simbolica per formulare le sue teorie.
Per questo la mostra “Astrum 2009”, collocata nell’Anno internazionale dell’astronomia e nel quarto centenario dell’invenzione del telescopio, si presenta attraverso una serie di strumenti e di testi non riducibili a meri mezzi di ricerca attorno a quelle che sono ancor oggi classificate come “meccaniche celesti”, ma capaci anche di evocare quell’infinito che ci avvolge e ci sconvolge, ci attira e ci impaura.
Noi che non siamo scienziati, percorrendo l’affascinante itinerario espositivo della mostra, siamo invitati a non perdere mai questa straordinaria dualità che è in noi.
Certo, siamo uomini che rilevano i “fenomeni”, la “scena” come si è soliti dire oggi, ma al tempo stesso non esitiamo a investigare anche sul “fondamento” della realtà.
Fisica e metafisica, certo, corrono su livelli diversi:  sono i due famosi non-overlapping-magisteria, cioè i due percorsi conoscitivi non sovrapponibili della scienza e della filosofia o teologia o poesia, come diceva lo scienziato americano Stephen Gould.
Eppure questi due percorsi non si respingono, anzi, nella nostra conoscenza si guardano, dialogano e si ascoltano reciprocamente.
Il cielo, così, è il “continente universale, lo spacio immenso, l’eterea regione per la quale tutto discorre e si muove”, come scriveva Giordano Bruno in uno dei suoi Dialoghi italiani, quello “de l’infinito universo e mondi”, ma è anche la suprema metafora della trascendenza, dell’oltre e dell’altro rispetto al qui e al noi immanente.  La stessa Bibbia rivela questa duplicità.
Innanzitutto, infatti, essa ci offre una precisa cosmologia, ovviamente modellata sulla scienza arcaica, fiorita in Mesopotamia, in Egitto e in Persia, e non priva di una sua analisi sofisticata.
Il cielo, così, è tratteggiato come una gigantesca cupola luminosa detta in ebraico raqia’, cioè firmamento, sostenuta da colonne cosmiche le cui fondazioni penetrano, oltre la superficie terrestre orizzontale, nell’abisso caotico e infernale, antipodo del cielo.
Una cupola sopra la quale freme l’oceano celeste, il cui flusso d’acqua, regolato da grandi serrande, può disseminare sulla terra la pioggia benefica o il diluvio devastatore.
È per questo che appare, fin dalla prima, famosa pagina biblica della creazione del cielo e della terra (capitolo 1 della Genesi), la distinzione tra le “acque superiori” celesti e quelle “inferiori” dello sterminato bacino del mare.
Dal colossale serbatoio celeste scendono, dunque, acqua, grandine, brina, neve, venti, nubi e tempeste:  “Dal Signore degli eserciti sarai visitata – canta Isaia (29, 6) – con tuoni, rimbombi e rumore assordante, con uragano e tempesta e fiamme di fuoco divoratore”.
Il mirabile Salmo dei sette tuoni, il 29, è tutto scandito dal risuonare della parola onomatopeica ebraica qôl che significa sia “tuono” sia “voce” (divina).
Le immagini per raffigurare la cupola celeste si moltiplicheranno:  essa è simile a un rotolo dispiegato, dice Isaia (34, 4), che ricorre anche all’idea di un velo o di una tenda da beduini distesa dal Creatore con un gesto possente (40, 22); è una specie di basamento per un palazzo reale divino dal quale – è lo stesso testo isaiano ad affermarlo in modo pittoresco – Dio “siede e di lassù gli abitanti del mondo sembrano cavallette”.
Sulla maestosa volta del cielo sono appesi “i grandi luminari”, cioè il Sole e la Luna, veri e propri orologi cosmici e liturgici per le stagioni, per il calendario delle feste e per il ritmo circadiano; su quella volta sono fissate le stelle e le costellazioni – l’Orsa, Orione e le Pleiadi sono citate ad esempio in Giobbe 9, 9 – e i pianeti, Venere, “Lucifero”, è evocato da Isaia (14, 12), mentre Saturno, “Chiion”, da Amos (5, 26).
È significativo osservare che, mentre nell’antico Vicino Oriente il Sole, la Luna e gli astri sono divinità, per la Bibbia essi sono “laicamente” semplici creature comandate dal Creatore nel loro lavoro e nelle loro orbite:  “Sorge il Sole, tramonta il Sole affannandosi verso quel luogo da cui rispunterà” (Qohelet, 1, 5); Dio “ha assegnato al Sole una tenda:  esce come uno sposo dalla stanza nuziale, si esalta come un eroe che corre sulla sua strada; sorge da un estremo del cielo, la sua orbita raggiunge l’altro estremo:  al suo calore non v’è riparo!” (Salmi, 19, 5-7).
Tuttavia non c’è soluzione di continuità quando si passa dalla rilevazione sperimentale “scientifica” alla celebrazione del valore simbolico che astri e spazi cosmici contengono.
Scegliamo solo un paio di esempi, desunti dal Salterio.
Pensiamo al salmo 19 che introduce una sorprendente “narrazione” che il cielo personificato e il ritmo temporale ci rivolgono, senza ricorrere a parole; eppure si tratta di una voce potente e planetaria.
Ecco il canto del salmista:  “I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani, il giorno al giorno affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette la notizia, senza linguaggio e senza parole, senza che si oda la loro voce.
Eppure per tutta la Terra si espande il loro annunzio, sino ai confini del mondo va il loro messaggio” (vv.
2-5).
“Dio ha dato un tal linguaggio alla sua creazione che, parlando di se stessa, essa non può non parlare di Lui, Dio”, commentava Karl Barth.  La lezione teologica del cielo può essere altre volte inquietante ed esaltante al tempo stesso.
È il caso di quel gioiello assoluto che è il salmo 8.
Nel “silenzio eterno degli spazi infiniti”, quella “canna pensante” che è l’uomo – per usare la famosa espressione di Pascal – è solo un granello microscopico.
Ancor più insignificante è la sua entità di fronte a un Dio creatore che ricama nel cielo con le sue dita le costellazioni e i pianeti.
Eppure è proprio questo Dio che si china sull’uomo e lo incorona rendendolo di poco inferiore a se stesso, sovrano dell’orizzonte cosmico.
Ascoltiamo il corpus centrale dell’inno nella versione poetica di David Maria Turoldo:  “Quando il cielo contemplo e la Luna / e le stelle che accendi nell’alto, / io mi chiedo davanti al creato:  / cosa è l’uomo perché lo ricordi? / Cosa è mai questo figlio dell’uomo / che tu abbia di lui tale cura? / Inferiore di poco a un dio, / coronato di forza e di gloria! / Tu l’hai posto Signore al creato, / a lui tutte le cose affidasti:  / ogni specie di greggi e d’armenti, / e animali e fiere dei campi, / le creature dell’aria e del mare/ e i viventi di tutte le acque” (vv.
4-9).
L’intreccio tra meteorologia e simbologia teologica è adottato in modo folgorante anche da Gesù quando protesta perché i suoi interlocutori sanno usare il cielo solo come campo di previsioni climatiche, pur legittime, e non lo considerano anche come segno di intuizioni epocali trascendenti:  “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite:  “Viene la pioggia”, e così accade.
E quando soffia lo scirocco, dite:  “Farà caldo”, e così accade.
Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Luca, 12, 54-56).
È forse un po’ anche per questo che spesso spiritualità cristiana e scienza si sono abbracciate, a partire da personaggi come Isidoro, vescovo di Siviglia (VI-VII secolo), che nei suoi Etymologiarum sive originum libri xx distingueva tra astronomia e astrologia, ma intrecciava filologia e allegoria.
O come il teologo raffinato Beda il Venerabile (VIII secolo) che era già allora convinto della sfericità della Terra (“come una palla da gioco”), che tentava di calcolare l’età del nostro pianeta rispetto al cosmo e che si cimentava nella cronologia (De temporum ratione).
L’elenco potrebbe continuare a lungo seguendo un qualsiasi manuale di storia dell’astronomia:  il monaco benedettino Abelardo di Bath (XII secolo), traduttore di testi scientifici arabo-indiani, l’arcidiacono catanese Enrico Aristippo (XII secolo), divulgatore dell’Almagesto di Tolomeo, per non parlare dei grandi Cusano, Copernico, Clavius, anch’essi religiosi.
Curiosa è la passione astronomica di alcuni Papi, a partire dal celebre Silvestro ii (Gerberto d’Aurillac), costruttore di astrolabi e sfere armillari e scienziato poliedrico, passando attraverso Gregorio XIII, l’artefice dell’omonimo calendario, per giungere a Pio x che sapeva approntare orologi solari, senza dimenticare la gloriosa Specola Vaticana, fondata nel 1789, esaltata dalle ricerche astrofisiche del gesuita Angelo Secchi, il primo classificatore delle stelle sulla base dei loro spettri.
Questa istituzione è all’origine della citata mostra “Astrum 2009” che si inaugura giovedì nei Musei Vaticani.
Le stelle, quindi, s’accendono non solo per consegnare la loro luce agli astronomi ma anche per far brillare gli occhi dell’anima, nella fede e nella poesia, tant’è vero che nell’Apocalisse Cristo non esita a presentarsi come “la stella radiosa dell’alba” (22, 16).
C’è il rischio, però, che il clamore, l’eccitazione e la distrazione ci impediscano di contemplare il cielo sia come realtà sia come simbolo.
Diceva il filosofo cinese Han Fei (III secolo prima dell’era cristiana):  “Nell’acqua di uno stagno si specchia il cielo.
Ma se vi getti un sasso, l’immagine si romperà in cerchi concentrici e il cielo sparirà”.
(©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)

La mostra «Astrum 2009»

Nella mattinata di martedì 13 ottobre, nella Sala Stampa della Santa Sede, è stata presentata la mostra “Astrum 2009: astronomia e strumenti.
Il patrimonio storico italiano quattrocento anni dopo Galileo” che sarà aperta presso i Musei Vaticani dal 16 ottobre al 16 gennaio.
Oltre al direttore della Specola Vaticana, il gesuita José Gabriel Funes, al presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Tommaso Maccacaro, e alla curatrice della mostra, Ileana Chinnici, alla conferenza stampa sono intervenuti il direttore dei Musei Vaticani e il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, nell’occasione, hanno scritto per il nostro giornale.
Come ci ricorda in apertura di catalogo padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, gli indiani del Keat Peak nella riserva dell’Arizona dove sono installati i telescopi più potenti del mondo, chiamano the people with long eyes (“la gente dagli occhi lunghi”) gli scienziati e i tecnici che di notte si ritirano nei loro misteriosi avamposti ipertecnologici a scrutare i limpidi cieli stellati del deserto di altura.
Ci vogliono occhi lunghi per guardare le stelle, per penetrare la profondità dei cieli.
Però, non bastano gli occhi che Dio ci ha dato.
Ci vogliono strumenti assai più efficaci, ausili conoscitivi e tecnici molto più elaborati e affidabili perché lo sguardo diventi davvero lungo.
Gli indiani del Keat Peak lo hanno capito, gli uomini di ogni epoca e di ogni cultura lo hanno sempre saputo.
La mostra che i nostri Musei ospitano nella sala polifunzionale – dal 16 ottobre al 16 gennaio – voluta e promossa dall’Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e dalla Specola Vaticana, intende offrire alla ammirazione e alla riflessione del pubblico una vasta selezione dell’imponente patrimonio di strumentazione astronomica di interesse storico posseduta dagli istituti italiani.
Nell’Anno internazionale dell’astronomia, celebrativo di Galileo e del suo Sidereus nuncius, a quattro secoli dalla scoperta e prima applicazione del telescopio, la mostra curata da Ileana Chinnici con la cooperazione dei Musei Vaticani e, in particolare, di Andrea Carignani, ci racconta la straordinaria avventura.
Come, seguendo quali percorsi conoscitivi e servendosi di quali strumenti – dall’astrolabio arabo di Ibn Sahid el Ibrahim del 1096 al telescopio di ultimissima generazione che la Specola Vaticana utilizza e che è situato a 3200 metri di altezza sul monte Graham in Arizona – la comunità scientifica internazionale, prima e soprattutto dopo Galileo, ha saputo allungare lo sguardo verso cieli sempre più remoti e sempre più incogniti.
Fino ad arrivare un giorno – l’augurio è di Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica – a risolvere il mistero della nostra apparente solitudine cosmica.
Questo è l’argomento della mostra che, nell’anno di Galileo, i Musei Vaticani ospitano.
Non c’è chi non veda la straordinaria rilevanza culturale e anche “politica” dell’evento.
Si spiegano così l’alto patronato concesso dal segretario di Stato vaticano e dal presidente della Repubblica italiana, le prestigiose presentazioni in catalogo (Città del Vaticano – Livorno, Musei Vaticani – Sillabe) del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, e del cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, e l’indirizzo di saluto del ministro italiano dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini.
Due cose hanno mosso gli uomini a scrutare i cieli: la curiosità e lo stupore.
Non si può vivere sulla Terra senza cercare di capire l’infinito incognito che ci circonda e ci sovrasta.
Come spiegare le fasi della Luna e i movimenti degli astri? Perché il Sole sale e discende, stagione dopo stagione, i gradini del cielo? Perché la caduta dei meteoriti che incendiano le notti d’estate e perché l’apparizione delle comete portatrici di prodigi e di presagi? Quanto è grande il firmamento, quanto distano dalla Terra le stelle a noi più vicine? Quali leggi governano – forse immutabili ed eterne, forse in continua evoluzione – l’universo di cui facciamo parte? Sono domande che gli uomini si sono posti da sempre.
Ne abbiamo una rappresentazione splendida nel mosaico del Museo nazionale di Napoli proveniente da Pompei e databile al I secolo prima dell’era cristiana, che ci presenta una pensosa raccolta di filosofi e di scienziati intenti a riflettere e a disputare di fronte a un globo celeste.
Sono domande che per trovare parziali e provvisorie risposte hanno avuto bisogno degli strumenti rari e sofisticati che la mostra ci offre.
Eppure la curiosità o per meglio dire l’ansia di conoscenza è sempre preceduta dalla emozione e l’emozione produce “stupore” che è sentimento profondamente umano, di segno evocativo e fantastico.
Il cuore poetico di una mostra gremita di strumenti che hanno permesso agli uomini di scrutare la infinitudine dei cieli è rappresentato, per me storico dell’arte, dalle otto tele di Donato Creti, gioiello della Pinacoteca Vaticana.
Osservazioni astronomiche si intitola la celebre serie, perché ogni tela raffigura fenomeni celesti: il Sole, le mutazioni della Luna, la cometa, i pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.
La cosa per me straordinaria è che protagonista di ogni dipinto è il corpo celeste oggetto di astronomica osservazione ma è anche la persona (o le persone) che lo guardano.
Donato Creti, l’artista che dipinse le otto tele nel 1711 su commissione del conte bolognese Luigi Marsili, il quale volle farne dono a Papa Clemente xi, viene dalla tradizione stilistica di Guido Reni.
Governano la sua pittura gli ideali classici della venustà, della amabilità e della grazia.
Questa volta, di fronte a un soggetto iconografico così inusuale, è lo stupore a guidare il suo pennello.
Noi entriamo con Donato Creti nel blu profondo, nel nero luminoso di una grande notte italiana, entriamo nei tramonti infuocati dell’estate, nella luce grigio-azzurra di un’alba serena e proviamo gioia e stupore di fronte ai prodigi che il cielo ci regala.
Dietro gli strumenti astronomici allineati dalla mostra – cannocchiali e telescopi, sfere armillari e globi celesti – in molti casi veri e propri capolavori di saperi scientifici e di talenti tecnologici, ci sono la curiosità e lo stupore.
Sono i sentimenti che Donato Creti ha messo in figura nelle sue tele.
Grazie a lui possiamo meglio capire le ragioni profonde che sempre hanno guidato l’uomo sulle strade impervie e tuttavia affascinanti e in ogni caso non contrastabili, della conoscenza.
di Antonio Paolucci (©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)

Il voto di religione in decimi

Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
Repubblica  14 settembre 2009 Il passaggio dai giudizi ai voti in tutte le materie deve valere anche per l’ora di religione.
Come aveva già anticipato un mese fa Repubblica.it, è questa l’opinione del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, che su questo argomento ha intenzione di chiedere un parere al Consiglio di Stato.
Immediata la protesta dell’opposizione che rivendica la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla Costituzione.
Inoltre, aggiunge il Pd, la Corte Costituzionale si è già espressa in merito stabilendo la facoltatività dell’ora di religione e quindi non può essere equiparata alle altre materie.
Così come i docenti di religione non possono partecipare agli scrutini, come ha stabilito il Tar del Lazio l’estate scorsa.
Ai giornalisti che le chiedevano se il voto di religione debba far media con gli altri, il ministro Gelmini ha risposto: “Il voto in religione oggi non c’è.
Ancora esiste un giudizio.
Il nostro intendimento è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato per evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
“Il ministro Gelmini non sa di cosa parla, oppure fa di nuovo e solo propaganda” sostengono Manuela Ghizzoni e Maria Coscia, deputate Democratiche della commissione Cultura di Montecitorio.
“La Corte Costituzionale, infatti, ha già stabilito il principio di facoltatività dell’ora di religione, nel rispetto della laicità dello Stato, in base al quale è necessario garantire pari dignità ai ragazzi di ogni culto”.
“Purtroppo – aggiungono – il nuovo sistema di valutazione che ha fatto venir meno il criterio di un giudizio globale sui rendimenti scolastici lascia spazio anche a questo tipo di ‘pensate’: siamo convinte – concludono – che il Consiglio di Stato rispedirà al mittente la proposta”.
L’ora di religione “non può essere valutata come una normale materia curriculare” afferma il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo.
“Il ministro Gelmini deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione – spiega Pantaleo – deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi, e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare”.
“Piuttosto il ministro dovrebbe preoccuparsi – osserva il sindacalista – del fatto che si nega, per effetto di pesantissimi tagli, il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
Non permetteremo – ammonisce Pantaleo – di trasformare la scuola pubblica italiana, che dovrebbe essere laboratorio interculturale, in una istituzione confessionale e autoritaria”.
(13 ottobre 2009) A conferma delle anticipazioni di stampa (Avvenire, agosto 2009), il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, nel corso delle celebrazione della VIII Giornata europea dei genitori e della scuola presso il ministero dell’istruzione, ha ufficialmente comunicato che è sua intenzione chiedere al Consiglio di Stato la fattibilità dell’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti.
Dopo la riforma della valutazione disposta dalla legge 169/2008 che ha previsto che ogni disciplina sia valutata con voto in decimi, è rimasto insoluto il problema della religione cattolica che, in base ad un articolo del Testo unico sulle norme per l’istruzione (art.
309), continua ad essere valutata con una nota riguardante l’interesse e il profitto dell’alunno verso tale insegnamento.
“Il nostro intendimento – ha detto il ministro – è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato onde evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009 VALUTAZIONE IRC: VOTO IN DECIMI O GIUDIZIO?       IL NODO DELLA VALUTAZIONE   Stralcio da:  Sergio Cicatelli, Voto decimale e Irc.
Il nodo della valutazione,  Insegnare Religione n.
2 2008-2009   «Vogliamo avviare una riflessione sulla ricaduta che il ritorno del voto decimale potrebbe avere sull’Irc.
Fin dal primo momento, infatti, numerosi Idr hanno scorto nella formulazione del DL 137 la possibilità di far rientrare anche l’Irc in questa piccola rivoluzione docimologica.
In base all’articolo 3, a partire dall’anno scolastico 2008-09 nelle scuole del primo ciclo (primaria e secondaria di I grado), «la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite è espressa in decimi».
Lo stesso articolo prosegue dicendo che «è altresì abrogata ogni altra disposizione incompatibile con la valutazione del rendimento scolastico mediante l’attribuzione di voto numerico espresso in decimi».
È soprattutto quest’ultima postilla a suscitare le speranze degli Idr di uscire dal ghetto della valutazione separata, ma il cammino non è così rapido come potrebbe sembrare a prima vista.
  Anzitutto va osservato che il DL 137/2008 si riferisce solo alle scuole del primo ciclo, lasciando fuori le scuole superiori, dove la valutazione è sempre stata numerica.
Se anche dovesse esserci una modifica delle regole valutative per l’Irc, questa sarebbe – almeno nell’immediato – limitata al primo ciclo di istruzione.
Ma sarebbe comunque il segnale di una svolta nella storia della disciplina.
Sono ormai trent’anni, dall’entrata in vigore della legge 517/77, che nelle scuole elementari e medie sono scomparsi i voti numerici, sostituiti da giudizi analitici nelle singole discipline e globali sul livello di maturazione dell’alunno.
La scuola superiore è rimasta fuori da questa trasformazione, ma si è spesso pensato che anch’essa dovesse adeguarsi a un’innovazione che aveva anticipato con la riforma degli esami di maturità del 1969.
Come qualcuno ricorderà, infatti, quell’esame si concludeva con un giudizio “integrato” da un voto in sessantesimi (e anche l’ammissione all’esame si basava su giudizi privi di qualsiasi accompagnamento numerico).
Ma il più diretto potere comunicativo del voto finale ha fin dall’inizio fagocitato la più elaborata funzione del giudizio   Sull’Irc ha pesato finora l’effetto della legge 824, che risale al 1930 ed è attuativa del primo Concordato.
Essa stabiliva all’art.
4 che «per l’insegnamento religioso, in luogo di voti e di esami viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae».
All’epoca, le valutazioni di tutti gli ordini e gradi di scuola erano formulate attraverso voti e la «speciale nota» serviva a distinguere l’Ir dal resto del curricolo, perché l’Ir veteroconcordatario era espressione della religione di Stato allora vigente in Italia e poteva quindi presentarsi nella forma di una vera e propria catechesi di Stato, che doveva essere tenuta fuori dal percorso scolastico vero e proprio, nonostante la pomposa (ma di fatto vuota) formula concordataria che voleva l’Ir «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica».
  Ad una scuola piegata alle finalità religiose ha fatto seguito, dopo l’Accordo di revisione del 1984, un Irc inserito «nel quadro delle finalità della scuola», con una significativa inversione di ruoli che finora è sfuggita al legislatore ordinario, il quale ha accolto acriticamente il dettato della legge del 1930 nel Testo Unico di legislazione scolastica (art.
309 del DLgs 297/94), convalidando in epoca recente criteri e procedure che affondavano le loro radici in un diverso e superato contesto giuridico e culturale.
Senza nemmeno tenere conto del fatto che ormai l’uso del voto era limitato alla sola scuola superiore, mentre il ricorso a giudizi verbali nelle scuole elementari e medie aveva annullato da tempo la “diversità” dell’Ir/Irc rispetto al restante processo di valutazione scolastica.
D’altra parte, il medesimo art.
309 del Testo Unico aveva recepito anche novità di altro genere relative alla valutazione e derivanti principalmente da un ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati all’indomani della firma dell’Intesa Cei-Mpi sull’Irc: si trattava essenzialmente della scheda di valutazione separata «da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica» e non più «da inserire nella pagella scolastica», come recitava la legge del 1930».
    LEGGE 169   Stralcio da: Sergio Cicatelli, Il Decreto Gelmini è legge.
Quali effetti sull’Irc.
  Con la votazione in Senato del 29 ottobre scorso il DL 137, meglio noto come decreto Gelmini, è stato convertito nella legge 169 del 30-10-2008.
Il 31 ottobre la legge è apparsa sulla Gazzetta Ufficiale ed è quindi è efficace a tutti gli effetti.
[…]   In materia di valutazione numerica del profitto è stato aggiunto un giudizio analitico ai voti decimali, per evitare di ridurre tutta l’operazione valutativa a un fatto di mera contabilità.
La promozione alla classe successiva potrà essere negata solo con decisione unanime degli insegnanti nella scuola primaria e con decisione a maggioranza nella secondaria di I grado.
L’aspetto più rilevante per l’Irc è la scomparsa della frase che nel testo iniziale del DL 137 abrogava tutte le norme in contrasto con le nuove disposizioni (e che faceva sperare nel superamento del divieto di voto anche per l’Irc).
Con questa modifica acquista maggior forza il regolamento che dovrà coordinare tutte le norme vigenti in materia di valutazione e stabilire eventuali ulteriori modalità applicative della nuova impostazione.
Il problema principale è la tempistica di questo regolamento, dato che i voti numerici dovranno essere assegnati nel corso degli scrutini che, nelle scuole che adottano il trimestre, potrebbero svolgersi già nel prossimo mese di dicembre.
Al momento non ci sono notizie certe sull’uscita del regolamento e sul suo contenuto.
Vedremo se arriverà in tempo e se conterrà istruzioni sulla valutazione dell’irc.
  La situazione è estremamente confusa e molte scuole hanno adottato con solerzia i voti anche per l’Irc mentre altre sono rimaste ancorate ai vecchi giudizi.
L’unica cosa certa, per ora, è che la norma riguarda solo la valutazione esterna, quella decisa in sede di scrutinio, e non quella relativa alle singole prove cui sono sottoposti gli alunni nel corso dell’anno: per queste verifiche è sempre possibile usare qualsiasi modalità valutativa, numerica o verbale, purché dichiarata e comprensibile.
D’altra parte, l’uso del voto o del giudizio è solo una modalità comunicativa che non dovrebbe incidere, in teoria, sulla natura della valutazione.
È ovvio che un voto numerico anche per l’Irc sarebbe motivo di minore discriminazione (lino ad oggi non avvertita nelle scuole del primo ciclo perché si adottava il giudizio in tutte le materie), ma va anche ricordato che “fare media” è più un fatto di immagine che di sostanza.
L’alunno viene promosso non sulla base della media dei voti ma della decisione espressa dal consiglio di classe, di cui fa parte con voto deliberante anche l’Idr.
Il nodo fondamentale è perciò l’applicazione del controverso comma della revisione dell’Intesa del 1990, in cui si dice che il voto dell’Idr in sede di scrutinio finale, se determinante, diviene un giudizio iscritto a verbale.
Sulla controversa interpretazione di questo passo la giurisprudenza amministrativa si è ormai espressa più volte e risulta esistere una sola sentenza contraria del Tar Piemonte, contro una decina favorevoli di altri Tar.
Lo stesso Mistero, con una nota del 24-10-2005, prot.
9830, ha dichiarato che «il voto del docente di religione, quando è determinante, diventa giudizio motivato, ma ad avviso della scrivente [D.G.
Ordinamenti], non perde la rilevanza del voto».
Si spera che si possa superare al più presto il limite nella comunicazione della valutazione, ma l’efficacia dell’Irc ai fini della carriera scolastica dell’alunno sembra essere assicurata.
[…]   Sergio Cicatelli       PER IL MOMENTO   Non essendoci un riferimento esplicito nella Legge 169, sembra che tutto debba restare come prima, lasciando in vigore ciò che dice l’articolo 309 del Testo unico che, in proposito, dispone: “Per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Mentre sembra ritornare la diatriba sul voto di religione con il ministro Gelmini a favore e il segretario della Cgil-scuola contrario, Francesco Scrima, segretario generale della Cisl-scuola, va oltre la polemica e proprone una soluzione di ampio respiro.
Tutti gli insegnamenti obbligatori od opzionali – sostiene Scrima – devono essere oggetto di valutazione con pari dignità delle discipline e delle attività.
“Tutto ciò che si fa a scuola deve essere valutato e considerato nel giudizio complessivo che si esprime sull’apprendimento, l’impegno e il risultato educativo che il ragazzo raggiunge.” “Se è ammessa l’opzione di avvalersi o non avvalersi di un insegnamento – aggiunge Scrima con riferimento evidente all’insegnamento della religione – devono essere previste e garantite possibilità alternative altrettanto significative e valide”.
 Dopo aver dichiarato che quel che non viene valutato viene svalutato, il comunicato della Cisl-scuola (www.cislscuola.it) invita a non trattare la questione su un piano strumentale e ideologico.
tuttoscuola.com mercoledì 14 ottobre 2009 Come era prevedibile, la dichiarazione del ministro Gelmini per proporre il voto in decimi anche all’insegnamento della religione cattolica, ha provocato le prime reazioni negative del fronte laico.
Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc Cgil ha infatti dichiarato che il ministro Gelmini “deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare.” Il ministro Gelmini, nel suo intervento alla VIII Giornata europea dei genitori e della scuola, oltre a  parlare di possibile valutazione dell’Irc con voto in decimi come le altre materie, si era spinta a prospettarne le conseguenze, in caso di parere favorevole del Consiglio di Stato, con “l’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti”.
Pantaleo ha richiamato l’attenzione del ministro sul fatto per effetto dei tagli di organico si sta negando il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009

Poveri perchè soli

Sua Em.za Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI, è intervenuto l’8 ottobre 2009 a Roma, presso la Sala Protomoteca in Campidoglio, in occasione della pubblicazione de “La povertà alimentare in Italia.
Prima indagine quantitativa e qualitativa”.
L’indagine è promossa dalla Fondazione per la Sussidiarietà e dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus.
Ulteriori informazioni sono disponibili nei siti internet www.sussidiarietà.net e www.bancoalimentare.it Documenti allegati:Relazione Card.
Bagnasco.doc

Il paradosso dei cattolici

L’esistenza nella galassia cattolica di “cattolici democratici” è di per sé stessa la dimostrazione di una difficoltà non risolta nel rapporto tra democrazia e cattolicesimo.
Se la difficoltà non ci fosse, l’aggettivo specificativo sarebbe superfluo.
Il fatto che vi siano cattolici che si auto-definiscono democratici significa sì che il cattolicesimo è compatibile con la democrazia, ma anche che la democrazia non è coessenziale al cattolicesimo, perché esso contempla anche l’antidemocrazia.
Se poi consideriamo che i cattolici democratici, per loro stesso riconoscimento, nel loro mondo sono oggi minoranza, la conclusione preoccupante è che, dalla maggioranza, le regole della democrazia, se sono accettate, lo sono non per adesione, ma per sopportazione o per opportunità: se e finché non si prospettino convenienze migliori.
Queste affermazioni possono sembrare temerarie, considerando il contributo cattolico alla lotta di liberazione, all’elaborazione della Costituzione e alla partecipazione alla vita democratica nei decenni che ne sono seguiti.
Ma, per l’appunto, il mondo cattolico è una galassia dove c’è di tutto e quel contributo alla democrazia, che nessuno potrebbe negare o sminuire, si accompagna al permanere di atteggiamenti d’altro genere, riserve mentali e aperte contraddizioni.
Una frattura profonda ha separato, fin dalle origini, la democrazia moderna dal mondo cattolico e questa frattura, evidentemente, non è completamente sanata.
La ricorrente accusa di “relativismo” rispetto ai “valori” è solo una denuncia aggiornata dei “deliramenti” democratici d’un tempo (enciclica Diuturnum illud del 1881).
Nel contesto di questa diffidenza antica si sviluppa la testimonianza che Rosy Bindi, una delle voci più impegnate a difendere l’identità e l’eredità dei cattolici democratici, ha reso in un libro-intervista con Giovanna Casadio (Quel che è di Cesare, Laterza, pagg.
144, € 10).
È una testimonianza di quel che la fede cristiana può portare come contributo all’ethos democratico.
Ma è anche la prova della tensione che deriva non – come talora erroneamente si dice – dall’essere cittadino e credente al tempo stesso (come se la democrazia dovesse essere necessariamente atea o agnostica), ma dall’essere al tempo stesso cittadino e membro della Chiesa cattolica, quando essa – per così dire – si pone (in misura più o meno stringente, si è sempre posta) come organizzazione dell’obbedienza nelle cose temporali.
Non sono le fedi, laiche o religiose, a creare difficoltà.
Esse, in quanto vissute nella libertà e nella responsabilità, non impediscono la democrazia, anzi l’arricchiscono.
È nella duplice appartenenza allo Stato democratico e alla Chiesa come potere disciplinare, la radice della difficoltà.
Due lealtà possono entrare in conflitto; doveri diversi possono contrapporsi.
Il cittadino, per rispettare se stesso, dovrebbe negare il credente; il credente, per non contraddire il suo vincolo confessionale, dovrebbe negare il cittadino.
Non è vero, infatti, che le due appartenenze si completino a vicenda.
Il conflitto è in agguato.
La democrazia presuppone l’apertura al dialogo fecondo, cioè non per finta, in vista di accordi e, ove occorra, di compromessi.
Esige, in una parola, atteggiamenti non dogmatici ma laici.
L’appartenenza alla Chiesa può invece creare situazioni drammatiche di aut-aut: o dentro o fuori, o obbedienza o tradimento e scomunica.
Due logiche che, quando si scontrano radicalmente, creano difficoltà e sofferenze che possono risolversi solo con la capitolazione di una delle due parti.
Anche il famoso caso, citato anche nell’Intervista, di Alcide De Gasperi che resiste al Diktat politico del Papa minacciando le dimissioni da presidente del Consiglio, ne è la riprova.
Fu Pio XII a recedere, cioè a capitolare.
Non fosse stato così, le dimissioni di De Gasperi, dal punto di vista dei suoi doveri civili sarebbero state non una dimostrazione di laicità, ma a sua volta una capitolazione di fronte a una pretesa clericale.
Tra i doveri civili, non c’è infatti quello di lasciare il proprio posto, se la Chiesa si inalbera.
La riflessione di Rosy Bindi tocca molti problemi, di teoria e di pratica politica, e li tocca in modo tale da mostrare le possibilità d’integrazione del cattolicesimo democratico nella vita politica comune, al di là dello steccato confessionale.
E mostra altresì il contributo di umanità, giustizia e solidarietà ch’esso è in grado di dare, un contributo al quale i non cattolici non possono essere indifferenti.
Ma questa riflessione non tace le difficoltà che derivano dalla posizione politica che la Chiesa Cattolica è venuta assumendo negli ultimi anni, con l’allontanamento progressivo dallo spirito del Concilio Vaticano II.
È un regresso, le cui conseguenze sono denunciate a chiare e brucianti lettere, con espliciti riferimenti alla politica della CEI del cardinal Ruini: «Purtroppo, smarrita la memoria storica e rimossi i fondamenti della Costituzione e del Concilio Vaticano II, siamo finiti dentro la contraddizione strumentale che la destra sta facendo della religione.
C’è un ritorno al passato, abbiamo bruciato un secolo di storia».
C’è solo da aggiungere due cose: che “quest’uso blasfemo della fede” non è solo della “destra” e trova spesso la calda riconoscenza della gerarchia ecclesiastica.
Gli ambienti curiali, cattolici e atei, denigrano questo genere di considerazioni come trita lamentazione sul “concilio tradito”.
Non è così.
È invece la puntuale registrazione di una strategia fatta innanzitutto di irrigidimenti disciplinari nei confronti dei fedeli, frequentemente richiamati all’ordine gerarchico perfino in occasioni elettorali, e poi di accordi di potere tra vertici della Chiesa e vertici politici, dove l’obbedienza prestata dai cattolici alla gerarchia diventa strumento di pressione, se non di ricatto, nei confronti dell’autorità civile.
Tutto questo si è visto all’opera con i “non possumus”, i “richiami impegnativi”, l’appoggio o il ritiro dell’appoggio a questa o quella formazione politica, a questo o quel governo, fino a condizionarne l’esistenza o la sopravvivenza.
Una Chiesa così potrà pure richiamarsi, davanti al popolo dei suoi credenti, alla propria funzione di traghettatrice delle loro anime nel mondo che ha da venire; ma, per l’intanto nel mondo che c’è, essa è una struttura di potere (cioè di peccato), che divide gli animi e fa della fede religiosa, usata in quei modi, una ragione di conflitto.
Rosy Bindi cita un insegnamento di Pierre Claverie, il domenicano ucciso nel 1996 in Algeria, a causa del suo impegno alla comprensione tra i popoli, un insegnamento che contiene la chiave per comprendere come una fede religiosa può integrarsi nella democrazia, cioè in una “vita buona” per tutti: «Esiste solo un’umanità plurale e quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare in nome della verità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione.
Nessuno possiede la verità, ognuno la cerca (…) spigolando nelle altre culture, negli altri tipi di umanità, ciò che anche gli altri hanno compreso, hanno cercato nel loro cammino, verso la verità: Sono credente, credo che c’è un Dio, ma non pretendo di possedere quel Dio.
Non si possiede Dio.
Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità degli altri».
Questo è l’atteggiamento di umiltà e, al tempo stesso, di fiducia negli esseri umani e di disponibilità al lavoro comune che costituiva l’anima del Concilio Vaticano II, di cui la Gaudium et spes è l’espressione: la libertà dei credenti in re sociali, accanto agli uomini di buona volontà, la loro responsabilità di fronte a Dio e ai propri fratelli, il divieto di invocare l’autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, divieto che, simmetricamente, non poteva non implicare l’astensione della Chiesa stessa da interventi vincolanti la coscienza dei cattolici.
La presenza cattolica nelle società umane era concepita come lievito che opera dall’interno, dipendendo dalla forza persuasiva della testimonianza che può venire dalla vita cristiana, vissuta con coerenza.
C’è un’immagine, nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) del papa Paolo VI che esprime bene quest’idea: i centri concentrici in cui si diffonde la testimonianza cristiana, fino a raggiungere l’intera umanità.
Nell’insegnamento del Concilio, quella che, legittimamente, per i credenti è verità si trasforma, nei confronti della società nel suo complesso, in esempio, carità.
È l’unico modo per porsi in posizione amichevole.
Invece, ora assistiamo, nell’insegnamento del papa Benedetto XVI, all’insistenza sempre più marcata sulla verità unita in binomio alla ragione: la verità della Chiesa è unica verità di ragione, e la ragione è universale.
Così, la verità cattolica pretende che non solo i credenti ma anche i non credenti pieghino il ginocchio.
Quest’audace operazione teologica si trasforma in una pretesa universalistica della Chiesa.
I non credenti, per così dire, impenitenti, diventano nemici non solo della verità, ma anche della ragione.
Un innegabile capovolgimento del Concilio.
In questo contesto si spiega l’invito che il papa Benedetto XVI rivolge ai non credenti affinché essi, per quanto privi di fede, si adattino ad agire veluti si Deus daretur, come se Dio (anche per loro) esistesse.
Non sarebbe la fede a esigerlo, ma la ragione.
A questo detto papale Bindi, nelle pagine finali, esprime la sua adesione.
Questo è forse l’unico mio punto di dissenso, tra le tante cose che l’intervista ci dice e che testimoniano dell’appassionata ricerca dell’Autrice circa il modo d’essere, senza contraddizione, cristiana e cittadina, insieme.
Gli inviti al come se sono inaccettabili.
L’agire come se Dio esistesse è una provocazione nei confronti dei non credenti.
Essi dovrebbero contraddire la loro coscienza e seguire non la loro ragione, ma quella proclamata dalla Chiesa come verità.
Il rispetto reciproco non è compatibile con questo genere di inviti.
in “la Repubblica” del 6 ottobre 2009

A Barack Obama il Nobel per la pace

È Barack Obama il premio Nobel per la pace 2009.
La commissione di Oslo ha deciso di assegnare il riconoscimento al presidente degli Stati Uniti, insediatosi alla Casa Bianca da meno di un anno.
La motivazione è legata agli sforzi per il dialogo mostrati dal presidente nel corso dei primi mesi del suo mandato: «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli».
Hanno pesato a favore della scelta gli appelli di Obama per la riduzione degli arsenali nucleari e il suo impegno per la pace globale MOTIVAZIONE).
Primo afro-americano a rivestire la carica più alta del paese, Obama ha chiesto il disarmo nucleare e sta lavorando dall’inizio del suo mandato per riavviare le trattative di pace in Medio Oriente.
Il riconoscimento di 10 milioni di corone svedesi (1,4 milioni di dollari) sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre.
Il portavoce del presidente americano, Robert Gibbs, ha comunicato che Obama devolverà in beneficenza l’intera somma, senza però specificare a quale istituzione il denaro sarà consegnato.
DECISIONE ALL’UNANIMITA’ – La decisione è stata presa all’unanimità, ha detto il presidente della commissione norvegese per il Nobel, Thorbjoern Jagland.
La commissione ha riconosciuto gli sforzi del presidente statunitense per ridurre gli arsenali nucleari e lavorare per la pace nel mondo.
«Obama ha fatto molte cose» ha detto Jagland durante la conferenza stampa a Oslo, «ma è stato riconosciuto soprattutto il valore delle sue dichiarazioni e degli impegni che ha assunto nei confronti della riduzione degli armamenti, della ripresa del negoziati in Medio Oriente e la volontà degli Stati Uniti di lavorare con gli organismi internazionali».
Non deve invece avere pesato il fatto che Obama ha rifiutato nei giorni scorsi di incontrare un altro past-laureate per la pace, il Dalai Lama (che lo vinse nel 1989), leader del governo tibetano in esilio, per evitare di compromettere i rapporti con la Cina in vista della prossima visita ufficiale che il capo della Casa Bianca effettuerà a Pechino.
«SONO ONORATO» – La notizia è arrivata quando negli Usa era notte fonda e Obama è stato svegliato dai suoi collaboratori che gli hanno comunicato le decisioni dell’accademia norvegese del Nobel.
Il presidente si è detto «onorato» della decisione, anche «se non sono sicuro di meritarlo»: ricevo il premio «con umiltà», ha aggiunto, facendo poi sapere che andrà personalmente a Oslo per ritirare il riconoscimento.
Più tardi una breve conferenza del presidente Usa: «Sono sorpreso e profondamente commosso.
Non sono sicuro di meritare di essere al fianco delle persone straordinarie che hanno ispirato me ed il mondo intero.
Accetto questo premio come chiamata all’azione per tutte le nazioni di fronte alle sfide del ventunesimo secolo.
Un premio non per i risultati ma per gli ideali» I PRECEDENTI – Obama non è il primo inquilino (o ex inquilino) della Casa Bianca a ricevere il riconoscimento.
Nel 1906 toccò infatti a Theodor Roosevelt (e l’anno successivo sarebbe stato assegnato al primo e unico italiano a conquistare questo tipo di riconoscimento, il giornalista e scrittore pacifista brianzolo Ernesto Teodoro Moneta) e nel 2002 a Jimmy Carter.
Nel 2007 venne invece assegnato ad Al Gore, vicepresidente ai tempi di Clinton.
Altro esponente di primo piano dell’amministrazione usa insignito del premio è stato all’ex segretario di Stato Henry Kissinger nel 1973, assieme al vietnamita Le Duc Tho (quest’ultimo tuttavia, unico caso fino ad ora nella storia del premio per la pace declinò il riconoscimento per la difficile situazione che viveva allora il suo Paese).
I CASI CONTROVERSI – Attorno alle nomination per il Nobel per la pace, l’unico tra i premi in memoria dello scienziato svedese che viene assegnato a Oslo e non a Stoccolma (un retaggio di quando, ai tempi in cui visse Nobel, la Norvegia era ancora sotto la monarchia svedese), si scatenano spesso dubbi e polemiche.
Basti pensare che in passato tra i candidati a riceverlo ci fu anche Stalin (nominato due volte, nel 1945 e nel 1948, ufficialmente per l’impegno nel far finire la seconda guerra mondiale), che però non lo vinse mai.
E la candidatura l’ha mancata per poco Adolf Hitler: era stato nominato nel 1939 da un parlamentare svedese che poi però cambiò idea e ritirò la sua proposta.
E’ invece rimasta, ma senza seguito, la nomination di Benito Mussolini.
Per contro, tra coloro che non lo ottennero mai nonostante ne avesse chiaramente i requisiti, ci fu il mahatma Gandhi, che non a caso viene definito il «missing laureate»: di nomitanion ne ricevette diverse, in almeno cinque anni diversi, e probabilmente sarebbe stato anche insignito del premio.
Ma è morto assassinato nel 1948 prima che una decisione in tal senso potesse essere presa e per statuto il Nobel non può essere assegnato a persone decedute.
L’APPLAUSO DEL GOVERNO ITALIANO – La notizia dell’assegnazione del premio a Obama ha raggiunto anche il governo italiano, riunito in Consiglio dei ministri.
E lo stesso Silvio Berlusconi, nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha rivelato che l’esecutivo ha tributato un applauso in onore del presidente usa.
Un presidente destinatario di tale premio, ha detto il premier, « È un investimento sul futuro, perchè è un presidente Nobel per la Pace sarà tenuto a un comportamento assolutamente ecumenico nei confronti di tutti».
Il Nobel a Obama, ha poi sottolineato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, «non è una forzatura in nessun modo, ma è solo la testimonianza che la comunità internazionale è tutta accanto a lui per incoraggiarlo ad andare avanti con più forza, proprio contro i suoi detrattori».
Al.
S.
09 ottobre 2009 Corriere della Sera Grande è stato lo stupore e la meraviglia all’annuncio che il Premio Nobel per la pace per il 2009 è stato assegnato al giovane, semplice, religioso Presidente nero degli USA, quel Barak Obama che già tanta ammirazione ha suscitato per il suo comportamento spontaneo e le sue dichiarazioni politiche che si possono così sintetizzare: disarmo e non proliferazione, promozione della pace, preservazione del pianeta e un’economia che offra opportunità a tutti..
E’ presidente degli Stati Uniti dal novembre del 2008, dopo una clamorosa vittoria contro lo sfidante repubblicano, John McCain divenendo – così- il primo presidente afroamericano nella storia degli States.
La speranza e l’idealismo unificatore sono i grandi temi che hanno richiamato grandi folle ad ogni sua apparizione pubblica, evocando paragoni con Martin Luther King e John F.
Kennedy.
L’atmosfera intensa dei comizi di Obama, che spinge qualcuno ad ascoltare a mani giunte le sue parole, non è dovuta solo alla sua indubbia abilità oratoria, ma anche al contenuto del suo messaggio.
La promessa di “cambiare” le cose a Washington è per lui solo il primo passo verso il progetto ben più audace ed ambizioso di “cambiare l’America e poi il resto del mondo”.
A porlo sulla mappa politica degli Stati Uniti e nel cuore della gente fu uno straordinario discorso alla Convention Democratica del 2004, intitolato “L’Audacia della Speranza”, dove l’idealismo di impronta kennedyana era esaltato da una oratoria alla King(per forza, è stato un buon predicatore della sua chiesa cristiana) Senza dimenticare che la speranza per un mondo migliore è una “radice” molto profonda del Vangelo e Obama(= Benedetto)la sta mettendo in pratica.
Nulla lo spaventa o lo intimorisce e non ha paura di correre incontro ai “nemici”.
Proprio come suggerisce Gesù.
La sua infanzia è stata difficile, come grande è la sua carriera.
Nato il 4 agosto 1961 a Honolulu (Hawaii) da un padre di colore (giunto negli Usa dal Kenya con una borsa di studio) e da una madre bianca (nata in Kansas e poi trasferita nelle Hawaii con i genitori) Barack Hussein Obama ha avuto una infanzia instabile: a due anni ha perso la figura del padre (andato via da casa per studiare ad Harvard), a sei anni è finito in Indonesia (col nuovo marito della madre), a dieci anni è tornato da solo nelle Hawaii per vivere con i nonni materni.
Bravissimo negli studi, entra poi alla Columbia University a New York, lavora come assistente sociale a Chicago, viene accettato alla prestigiosa Harvard Law School.
Rifiuta le offerte d’impiego delle corporation di New York per tornare a Chicago per inseguire una missione sociale e anche l’amore: qui vive infatti Michelle Robinson, la ragazza che dopo un paio di anni diventerà sua moglie e la madre delle loro due bambine, Malia e Natasha.
A Chicago svolge opera di assistenza legale per i poveri ed insegna legge.
Ma i suoi obiettivi sono più ambiziosi.
Nel 1996 viene eletto al Senato dell’Illinois.
Nel 2000 si candida al Congresso Usa come deputato ma viene battuto.
Nel 2004 ci riprova, stavolta per il Senato Usa, e vince alla grande diventando il quinto senatore nero nella storia del Congresso americano.
Nel 2007 si candida alla Casa Bianca: l’annuncio ufficiale arriva il 10 febbraio dalla stessa piazza davanti al Campidoglio di Springfield (Illinois) dove Abramo Lincoln quasi 150 anni prima aveva pronunciato uno storico discorso sulla necessità di restare uniti.
Un simbolismo perfetto.
Il 4 novembre del 2008 la trionfale vittoria che lo conduce alla Casa Bianca, da dove, in pochi mesi, rilancia il dialogo con il mondo musulmano, affronta il delicato tema dei rapporti con l’Iran, avvia una intensa campagna contro la proliferazione nucleare, solo per citare i principali temi della sua azione in ambito internazionale.
Questo nostro mondo, così difficile e complicato, con immensi problemi, eppure con lui troverà la strada verso la pacificazione e – probabilmente, sebbene sia ancora un obiettivo tanto lontano- la fratellanza.

Libri elettronici

Dopo aver lanciato uno dei primi negozi on line di ebook, Barnes&Noble ha attrezzato ognuno dei suoi negozi reali di una rete wireless alla quale qualsiasi cliente può collegarsi gratuitamente.
Il nuovo lettore di libri digitali, con schermo da sei pollici e tastiera virtuale, dovrebbe arrivare sugli scaffali statunitensi il prossimo mese, a un prezzo non ancora noto.
Attualmente il lettore più economico sul mercato è il Reader Pocket Edition di Sony, venduto a 199 dollari.
In settimana Amazon ha invece ridotto il prezzo del “Kindle due” di 40 dollari, a 259 dollari, dopo averlo portato da 359 a 299 dollari nel mese di luglio.
Secondo il sito Gizmodo – noto per i suoi scoop in campo tecnologico – il lettore di Barnes&Noble dovrebbe integrare il sistema operativo Android di Google.
Per il mercato statunitense dei libri digitali – rilanciato proprio da Amazon – è attesa un’impennata nella prossima stagione natalizia.
Per gli analisti di Forrester Research, nel 2009 le vendite di lettori digitali raggiungeranno i tre milioni di unità solo in America, con Amazon al 60 per cento di market share e Sony al 35 per cento.
Intanto il Kindle, il lettore digitale della Amazon, si prepara a sbarcare in oltre cento Paesi, tra cui in particolare la Cina e l’India.
Inoltre i vertici di Amazon stanno studiando metodi con cui allargare l’offerta di testi.
Le ripercussioni del successo di Kindle sul mondo dell’editoria potrebbero essere molto significative: i libri elettronici costano in media molto meno degli equivalenti cartacei.
Inoltre, Kindle permetterebbe di effettuare un abbonamento ai maggiori quotidiani a un prezzo molto ridotto.
Al momento – riferiscono fonti di stampa – le vendite di Kindle stanno andando molto bene, il che spiega anche perché il prezzo del lettore digitale possa essere regolarmente abbassato.
(©L’Osservatore Romano – 11 ottobre 2009) Il mercato del libro digitale si allarga a macchia d’olio.
Barnes&Noble, la prima catena di librerie degli Stati Uniti, si prepara ad entrare nel promettente mercato dei libri elettronici.
L’azienda sarebbe infatti pronta a competere con Amazon e Sony, due colossi del settore, lanciando un proprio lettore di ebook.
Lo rivela “The Wall Street Journal”, che cita fonti informate sul progetto.
La mossa – dicono gli esperti – punta a limitare un possibile monopolio in un settore all’avanguardia.

XXVIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

..
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Sapienza 7,7-11 Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
Il brano appartiene alla seconda parte del libro della Sapienza, là dove viene presentato Salomone, il saggio per antonomasia e la sua ricerca per la sapienza.
Dopo una prima parte che metteva in luce la piccolezza di Salomone (cf.
7,1-6), il nostro brano mette in luce il valore della sapienza.
L’idea madre sta qui: la sapienza è superiore a tutte le ricchezze.
— Il v.
7 da l’intonazione perché qualifica la sapienza come dono di Dio, un bene che si chiede a Lui.
Si tratta quindi di una realtà qualitativamente diversa da tutte quelle che l’uomo può acquisire da sé.
— I vv.
8-10 fanno l’inventario dei beni solitamente ricercati: potere (v.
8), ricchezza (v.
9), salute e bellezza (v.
10).
Viene utilizzata la tecnica del contrasto e della sproporzione: non è neppure ipotizzabile un raffronto tra questi beni e la sapienza, tanto questa li supe-ra di gran lunga.
— Il v.
11 recupera tutti i beni, come corredo della sapienza.
Quindi, sembra suggerire l’autore, non viene snobbato nulla di quanto l’uomo incontra sulla terra.
L’implicita raccomandazione – sull’esempio di Salomone che sceglie e preferisce la sa-pienza – è di ricercare i beni del cielo (tale è appunto la sapienza), sapendo che «tutte que-ste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7,33).
Seconda lettura: Ebrei 4,12-13 La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
Tra le ricchezze che il cristiano deve ricercare e possedere, va senz’altro annoverata la Parola di Dio.
Il testo è un minuscolo ma prezioso trattato sul suo valore.
La Parola di Dio, presentata sotto la metafora della spada (cf.
Ef 6,17; Ap 1,16), è detta viva (in greco posto enfaticamente all’inizio), forse perché compie azioni importanti, vitali.
È attribuita alla Parola una specie di personificazione (cf.
Is 55,10ss.), che si manifesta anche nella caratteristica dell’essere efficace e tagliente.
Ad esso viene attribuito un potere di discernimento che spesso la coscienza non possiede, perché intrappolata nei meandri di false rappresentazioni.
La Parola di Dio svolge quindi la preziosa funzione di indagare, illuminare, orientare.
Una vera bussola che il Signore pone sul cammino del credente e della comunità, per rendere più sicuro il suo cammino.
Dono di Dio, è una ricchezza offerta agli uomini.
Vangelo: Marco 10,17-30 [In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?».
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».
Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!».
I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?».
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».] Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito».
Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
Esegesi La professione di fede di Pietro divide in due parti il Vangelo secondo Marco: se prima Gesù era impegnato ad annunciare la Buona Novella a tutti, ora, senza rinunciare ad istru-ire la folla, coagula il suo interesse sul gruppo dei Dodici che ha fatto l’opzione per Lui.
Troviamo materiale eterogeneo quanto a genere letterario, perché composto da un rac-conto di vocazione, da un ammonimento e da una risposta all’implicita richiesta di Pietro; però comune è la tematica, quella della ricchezza, una specie di filo conduttore che rinsal-da le diverse parti.
In dettaglio: — Gesù incontra un ricco e lo chiama alla sua sequela, vv.
17-22; il racconto è animato dal movimento iniziale di correre incontro a Gesù in contrasto con quello finale di allonta-namento; il primo movimento sottintende una gioia della ricerca, il secondo è accompa-gnato da tristezza.
— Colloquio di Gesù con i discepoli sulla ricchezza come ostacolo per l’ingresso nel re-gno dei cieli; la difficoltà viene superata dalla potenza divina, vv.
23-27.
— Problema di Pietro circa la ricompensa alla sequela e la conseguente risposta di Gesù; esiste una ricompensa immediata e una futura, vv.
28-31.
L’insegnamento rimbalza dai discepoli a tutti gli uomini che vogliono mettersi alla se-quela di Cristo; esso porta luce e orientamento e, per il cristiano, diventa norma di vita.
Notiamo un inizio elettrizzante di uno che corre incontro a Gesù: si presagisce qualcosa di interessante.
Al movimento spaziale l’evangelista Matteo aggiunge anche un movimen-to temporale: secondo lui si tratta di un giovane: per Marco è chiaramente un adulto per-ché dirà «fin dalla mia giovinezza».
Oltre alla corsa, il mettersi in ginocchio davanti a Gesù, denota la stima verso il maestro di Nazaret.
C’è grande aspettativa.
— «Maestro buono…
Nessuno è buono, se non Dio solo».
L’appellativo, di uso raro e insolito, sembra rifiutato da Gesù.
In realtà, egli aiuta a capire dove sta la vera e unica sorgente della bontà, alla quale tutti devono attingere: il Padre; ce lo rammenta sempre la liturgia: «Padre santo, fonte di ogni santità…» (Prece eucaristica II).
Chi ricerca la vita eterna, deve orientarsi verso quel Dio che ha espresso la sua volontà di santità nel decalogo.
— «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…».
Gesù cita la quintessenza dell’al-leanza al Sinai: si allinea con la migliore tradizione biblica di cui afferma l’autenticità e di cui conferma la continuità.
La proposta della ‘seconda tavola’, quella che contiene i doveri verso il prossimo, dimostra che qui si gioca la veridicità dell’amore a Dio.
— La risposta piace ma non propone nulla di nuovo: «Maestro, tutte queste cose le ho os-servate fin dalla mia giovinezza».
L’uomo che sta davanti a Gesù sente il bisogno di qualcosa che vada oltre; a lui il merito di aver intuito che Gesù può indicare quel qualcosa.
— Il salto di qualità arriva negli atteggiamenti e nei sentimenti prima ancora che nelle parole.
L’evangelista Marco ha regalato all’umanità il particolare stupendo dello sguardo e dei sentimenti di Gesù: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò».
È un dettaglio di toccante tenerez-za, esclusivo del secondo vangelo.
La forza di quello sguardo e la carica di quell’amore spingono ad accogliere il novum che l’uomo aveva vagamente percepito in Gesù e che ora si sente proporre: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un te-soro in cielo; e vieni! Seguimi!».
— Tutto gravita attorno a due poli che bilanciano la risposta: «Va’, vendi» e «Vieni! Se-guimi!».
Sono due coppie di imperativi che vivono un drammatico contrasto: movimento di allontanamento il primo, di avvicinamento il secondo.
L’originalità sta nel prospettare la povertà evangelica e la sequela di Cristo, l’una come condizione dell’altra: «Il vero modo di tesorizzare presso Dio è quello di dare.
Uno non ha quanto ha accumulato, bensì quanto ha donato» (S.
Fausti).
In ogni caso ci si deve allontanare da qualcosa per incamminarsi dietro a Qualcuno.
Idee e progetti che prima si realizzavano in proprio, ora si realizzano in società, meglio, in comunione.
— Gesù chiama quell’uomo a diventare suo discepolo; gli propone l’ideale suggestivo e arduo della sequela.
Scrive Kirkegaard: «Diventare discepolo consiste nell’essere intima-mente coinvolto in un drammatico e salutare confronto di contemporaneità con Cristo, in-vece di mantenersi nello stato di ammiratore disimpegnato».
La vocazione a seguire Gesù esige un legame con la sua persona, perché Gesù non promette altro che se stesso e una rottura con il presente.
Al di fuori di questa comunione saranno solo idee e progetti avventizi e sterili, destinati a vita breve e senza seguito.
Il Cristo non chiede di essere sradicati o isolati, propone invece il legame e la comunione con Lui.
Praticamente Gesù dice al ricco: «Seguimi!».
Lui e Lui solo è la meta dei comandamenti, la loro pienezza Gesù riprende la domanda del suo interlocutore che voleva qualcosa di più.
La risposta è Gesù stesso: è Lui che fa la differenza con la risposta tradizionale, pur valida, ma insufficiente.
— Quell’uomo ha paura dell’ignoto e preferisce l’ancoraggio al presente; perde il suo entusiasmo iniziale, smorzandosi in una tristezza che lo incupisce e lo allontana.
La con-clusione dell’episodio è quanto mai laconica: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni».
Con il «se ne andò rattristato» si registra prima la tristezza che si e dipinta sul volto, all’esterno, seguita dalla motivazione «a queste parole»; si dà poi l’analisi psicologica dello stato d’animo con quel «scuro in volto» seguito dalla seconda motivazione «possedeva infatti molti beni».
La tristezza esteriore è più immediata ed è causata dalle parole di Gesù ha valore più transitorio.
L’afflizione invece pesca nel profondo, intacca tutta l’esistenza e proviene dalla ricchezza alla quale l’uomo è schiavisticamente legato.
Dalla corsa iniziale all’allontanamento finale: qui sta la miserevole vicenda di chi si ar-ricchisce davanti agli uomini e non davanti a Dio.
— Sussiste per tutti il pericolo della ricchezza (vv.
23-27).
L’accaduto diventa occasione per un salutare monito a tutta la comunità ecclesiale.
Le parole di Gesù «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» ghiacciano l’uditorio e gettano nella costernazione i discepoli.
Va ricordato che i discepoli erano cresciuti alla teologia dell’Antico Testamento che considerava la prosperità materiale come il sacramento della benedizione divina.
Non si sa fin dove la predicazione profetica e la teologia dei salmi fossero riuscite a intaccare lo zoccolo duro dell’opinione popolare, del resto ampiamente accolta e propagandata dalla classe dei sadducei.
Di fatto coesistevano l’ideale dei poveri di JHWH che ponevano la loro fiducia esclusivamente in Dio e la prassi dei ricchi che si ritenevano depositari della benevolenza divina perché potevano disporre di beni materiali.
A Gesù spetta il non facile compito di ribaltare un pensiero comune e di profilarne un altro.
Quasi incurante dello shock provocato, rincara la dose: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!».
Gesù non fa sconti.
Secondo lo stile orientale, l’idea viene sostenuta da un paragone: « È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
È una iperbole cioè una voluta esagerazione per far capire il messaggio (fallaci i tentativi di trasformare kamelos ‘cammello’ in kamilos ‘gomena corda di nave’, oppure di pensare ad una porticina delle mura di Gerusalemme denominata ‘cruna dell’ago’).
Davanti ad una reale e consistente difficoltà, la soluzione viene dal Signore: «tutto è possibile presso Dio»; la frase, presa da Gn 18,14 (Sara e Abramo) ricorda il potere di Dio.
— Se quell’uomo ha fallito, i discepoli hanno lasciato tutto e seguito il Maestro, implicitamente viene chiesto che cosa toccherà loro (cf vv.
28-31).
La risposta di Gesù è inaspettata e, come sempre, profonda: viene promessa una ricompensa futura, definitiva e una immediata, provvisoria.
La prima è la «vita eterna», quella vita che il ricco aveva ricercato ma pure rifiutato, quella nella quale è impossibile entrare se si è ricchi.
Quella provvisoria sta nel fatto che i discepoli di Cristo, rinunciando alla casa, alla famiglia e alla proprietà, ritrovano una nuova famiglia ed una casa nella comunità cristiana.
Il pensiero è ben illustrato da Mc 3,34-35 dove Gesù aiuta a superare i legami familiari giuridici per ritrovare i legami della fede.
Meditazione La sezione centrale del vangelo di Marco (i capitoli 8-10) presenta un tema dominante, quello della sequela, plasticamente raffigurato dalla via che sale a Gerusalemme percorsa da Gesù con i suoi discepoli.
Su questa strada avviene un incontro: un uomo ricco si avvi-cina a Gesù e lo interroga.
E proprio attraverso il dialogo che si intesse tra quest’uomo e Gesù, attraverso la desolante conclusione a cui giunge il cammino di ricerca di quel ricco, attraverso le reazioni dei discepoli, spettatori attoniti di questo episodio, Marco ci offre alcune sfumature che caratterizzano le esigenze della sequela: le condizioni per «avere in eredità la vita eterna» (10,17); la scoperta di quel ‘Maestro buono’ che può insegnare e fare dono della vita; la scelta di seguire questo maestro e le condizioni per essere suo discepolo; il discernimento sui beni terreni e il rapporto tra ricchezza e sequela.
E certamente quest’ultimo aspetto sembra catturare l’attenzione di quell’uomo ricco che, con tanto entusiasmo, era corso da Gesù ponendogli quell’interrogativo esistenziale, l’interrogativo sulla vita vera, la vita ‘senza fine’.
A partire da questa domanda rivolta a quel ‘Maestro buono’ (cfr.
10,17-18) e dalle successive risposte, l’uomo ricco è posto di fronte ad alcune scelte: dove sta la vera vita? I beni terreni possono assicurare la vita? Scegliere la vita o scegliere i beni? Possedere ricchezze o lasciarle per seguire quel ‘Maestro buono’? È dunque necessario un discernimento e questo deve illuminare il rapporto con le ricchezze materiali e la loro relazione con ciò che veramente può dare valore a una esistenza.
In sé la ricchezza non è un male; anzi, nel linguaggio biblico, è segno di benedizione di Dio.
Ma resta pur sempre una realtà ambigua, soprattutto quando cattura il cuore dell’uomo, rendendolo estraneo a Dio, in quanto crea una sorta di dimenticanza nei suoi riguardi e provoca attorno a sé ingiustizia sociale e avidità (si pensi alle parabole del ricco stolto e del ricco gaudente in Lc 12,13.21 e 16,19-31).
Soprattutto di fronte alla vita elargita da Dio, ogni ricchezza materiale assume un valore diverso.
Come suggerisce il testo del libro della Sapienza (prima lettura), una vita illuminata dalla saggezza che viene da Dio non può essere paragonata con nessun bene materiale: «tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento» (Sap 7,9).
Il discernimento per giungere a una scelta ‘sapienziale’ della vita può esser illuminato solo dall’incontro con la parola di Dio, quella parola che – come dice la lettera agli Ebrei (seconda lettura) – «è viva, efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio» e «che discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
E proprio sulla strada che conduce a Gerusalemme, quell’uomo ricco è chiamato a fare questa scelta, in un confronto con la parola di Dio, con quel maestro buono che dona la vita.
Soffermiamoci su alcuni elementi che caratterizzano la dinamica di questo incontro.
Notiamo anzitutto come all’incontro con Gesù, quell’uomo è condotto a partire da una ricerca personale, una ricerca sincera e motivata: «gli corse incontro…e gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità al vita eterna?”» (Mc 10,17).
La risposta di Gesù rimanda il ricco semplicemente alla parola di Dio, alla via dei comandamenti (e in particolare quelli che evidenziano le relazioni con il prossimo).
Ed è appunto il cammino a cui quest’uomo ha cercato di essere fedele «fin dalla giovinezza» (10,20).
Ma attraverso la risposta di Gesù, la ricerca di quest’uomo deve aprirsi a un salto di qualità, a un incontro.
Si è rivolto a Gesù, l’ha chiamato ‘Maestro buono’ e ora deve prendere coscienza di ciò che cerca veramente e chi è colui al quale ha rivolto la sua domanda: «perché mi chiami buono?» (10,18).
Per avere «in eredità la vita eterna» (10,17, questo è ciò che aveva chiesto l’uomo ricco a Gesù), è necessario compiere una scelta.
E la scelta per quell’uomo è essere discepolo del ‘Maestro buono’, seguire colui che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
«Una cosa sola ti manca…» (10,21): a quell’uomo non basta essere un giusto (osservare i comandamenti) per avere la vita; deve diventare un discepolo di colui che dona la vita.
Questa è la radicalità della chiamata che Gesù rivolge a quel ricco.
E la radicalità dell’appello è caratterizzata anzitutto dallo sguardo che Gesù rivolge a quell’uomo: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò…» (10,21).
Prima di chiamare alla sequela, Gesù ama colui che invita ad essere suo discepolo.
E per quell’uomo, desideroso di fare qualcosa per possedere la vita, anzitutto è richiesto di accogliere un amore gratuito.
Sta qui la radicalità: nella sequela non si è protagonisti, ma si accoglie la gratuità di un dono, l’amore di Cristo.
Ma la scelta di seguire Gesù è radicale anche perché richiede un abbandono di ciò che fino a quel momento ha catturato la vita di quell’uomo, le ricchezze: «Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (10,21).
Per seguire Gesù è ri-chiesta una libertà da ciò che ostacola questo cammino; è necessario fare un vuoto, ma che deve esser però riempito da un tesoro vero, l’amore di Cristo e l’amore per Cristo.
A questo punto per quell’uomo si pone il discernimento: che cosa è più importante? Che cosa o chi preferire? E la risposta data dall’uomo ricco è purtroppo un fallimento.
L’incontro si conclude con una scelta mancata, una ricerca e un desiderio di vita frustrati.
Dalla gioia iniziale che aveva portato quell’uomo a correre incontro a Gesù, alla tristezza finale di un cuore incapace di scegliere tra la Vita e le cose che compongono la vita, ma che di fatto non la contengono.
E Marco sembra insistere su questa tristezza: «A queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato…» (10,22).
È la tristezza di un cuore che non riesce a liberarsi e che la parola di Gesù ha fatto emergere (cfr.
Eb 4,12-13); è la tristezza di una ricerca fallita.
«Se ne andò»: è proprio il contrario della sequela.
Ma lo sguardo e la parola che Gesù rivolge ai discepoli sconcertati da ciò che avevano visto, è come un’ultima apertura per comprendere cosa significa seguire Gesù.
In fondo, ricorda Gesù ai discepoli, un ricco non può entrare nel regno di Dio: «Quanto è difficile entrare nel regno di Dio!» (10,24).
E subito aggiunge: è «impossibile agli uomini» (10,27).
Nella prospettiva umana, seguire Gesù, accettare le condizioni di questa sequela, lasciare ciò che ostacola la sequela, è assurdo e impossibile (l’immagine della cruna dell’ago e del cammello).
A meno che l’uomo si affidi radicalmente alla potenza dell’amore di Dio, si af-fidi, in qualche modo, allo sguardo di amore di Gesù.
Allora essere discepolo è possibile per ogni uomo, anche per un ricco (come è capitato a Zaccheo: cfr.
Lc 19,1-10), perché «tut-to è possibile a Dio» (10,27).
Diventare discepoli o entrare nel Regno, non è frutto dell’abilità e degli sforzi umani: è un dono della potenza salvifica di Dio.
A Lui è necessario affidarsi ed accogliere quella parola e quello sguardo di amore (cfr.
10,21) che rendono libero l’uomo e lo cambiano.
Ti mancava una cosa sola Non sappiamo il tuo nome, ma meglio così, sei tutti noi.
Eri ancor giovane, dice qual-cuno, ma avevi già un passato da raccontare e una posizione ce l’avevi, economica e non solo.
Eri anche una persona perbene, un bravo ragazzo, come si dice.
Vorremmo tornare a quel tuo incontro straordinario con Gesù, il giorno che passò dal tuo paese.
Chissà anche tu quante volte ci sarai ritornato su, col pensiero, nella tua vita di poi, nelle notti insonni o nelle pause del giorno.
Dovevi esserne rimasto affascinato.
Dovevi aver detto anche tu: “Nessuno parla come costui!”.
Quel giorno, mentre stava andandosene, non hai voluto perdere l’occasione di incontrarlo.
Ti sei slanciato verso di lui senza ch’egli ti cercasse (o non era forse lui quella nostalgia d’infinito che già bruciava in te?), gli sei caduto alle ginocchia, come i tuoi servi davanti a te, gli ha posto la domanda cui solo lui, ne eri certo, poteva rispondere: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”.
Forse ne avevi sentito parlare da lui, fatto sta che tu ci credevi, che la tua storia non sarebbe finita su questa terra.
Il Maestro t’aveva rimesso, al di là di ogni infatuazione, davanti all’Unico buono.
Lui dunque da amare anzitutto.
E t’aveva snocciolato i comandamenti delle relazioni umane secondo Dio.
Non era facile per te esservi fedele, ma ce l’avevi fatta.
Non avevi ammazza-to nessuno, lasciavi ad ognuno la sua donna e i suoi beni, e mai nessuno avevi danneggia-to con la menzogna e l’inganno.
Tuo padre e tua madre li avevi rispettati, ci mancherebbe altro.
Con che gioia hai detto a Gesù: “Ho sempre obbedito a questi comandamenti”.
Gesù non ti ha guardato, semplicemente, come si guarda uno che parla; ti fissò, dice Marco, che, benché di poche parole, precisa: ti amò.
Era come se volesse per primo offrirti quel più d’amore che stava per chiederti.
“Una sola cosa ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.
Non avresti mai pensato che ti chiedesse tanto.
Forse un’elemosina più consistente, pensavi, una preghiera più lunga, una penitenza.
Ti è mancato il fiato.
In un istante hai ri-visto tutto quello che avevi e quello che speravi di avere.
Il frutto delle fatiche dei tuoi pa-dri e tue a chi non ne aveva diritto? e poi… seguire Gesù: dove? con che prospettive? Inutile chiederti com’è stato che hai scelto liberamente eppure sei rimasto triste.
La co-nosciamo questa tristezza, questa falsa libertà.
Il dramma di non volare alto per godere a bassa quota eppure rimanere infelici.
L’impotenza di vedere il bene, di volerlo anche, sen-za riuscire a sceglierlo.
Eccome, se ti capiamo.
Vorremmo però capire che cosa non ha funzionato nella tua storia, cioè nella nostra.
Anche Simone e Andrea non avevano ancora capito niente di Gesù, anzi, non gli avevano neppure fatto la tua bella domanda, e forse non erano neppure osservanti come te.
Eppu-re, subito, l’hanno seguito.
Perché loro sì e tu no? “Perché aveva molti beni”, sembra aiutarci Marco.
Il mistero della ricchezza! S’attacca al cuore, alla mente, alla volontà come una zavorra.
Uno apre le ali e non sa più volare.
Uno prova ad amare e non dà che qualche battito.
Uno prova a camminare, ma non ce la fa a trascinare tutto.
Ad ascoltare, ma le orecchie sono tappate.
A vedere, ma è come se non vedesse.
Esigenze, esigenze, esigenze.
Guai se manca una cosa, guai se non c’è l’altra.
A differenza di te che almeno te ne sei andato triste e hai misurato l’enorme nostalgia che, chissà, forse un giorno avrebbe potuto spingerti a tornare, noi invece crediamo che si può mettere insieme l’avere molto e la vita eterna, l’accumulo dei beni e la fede in Gesù Cristo.
Credici, amico lontano, siamo ben più disgraziati noi.
Fa’ una cosa, regalaci un po’ della tua tristezza, anzi tutta.
La conoscenza di sé e conoscenza di Dio La tradizione islamica ha conservato un hadît secondo il quale chi conosce se stesso co-nosce il suo Signore.
Un passo neotestamentario è significativo di questa ricerca concomi-tante di sé e di Dio.
In Mc 10,17-22, «un tale», un personaggio anonimo, dunque in cerca della propria identità, corre da Gesù e si getta ai suoi piedi interrogandolo su come ottenere la vita eterna (v.
17).
In questa persona (che non è «un giovane» come in Mt 19,20 e neppure «un capo» come in Lc 18,18, ma appunto solo «un tale») si coniugano dunque ricerca di Dio e ricerca di identità personale.
E questa ricerca si esprime in una domanda: «Che cosa devo fare?» (v.
17).
La risposta di Gesù non è estrinseca, non è rivolta verso l’esterno, non è sbilanciata sul piano del «fare», ma propone un itinerario interiore.
Gesù pone una contro-domanda che conduce il suo interlocutore a interrogarsi sul movente profondo, sul perché di quella ricerca.
Gesù lo fa andare al fondo di se stesso.
L’itinerario che Gesù propone comprende infatti, anzitutto, la conoscenza di sé, l’ordinamento delle relazioni umane con gli altri, con le realtà esterne, con la propria storia famigliare (i comandi etici del decalogo ricordati nel v.
19).
Quindi, la rivelazione della povertà profonda, della mancanza che abita il suo interlocutore («una cosa ti manca»: v.
21), non dopo però avergli apprestato lo spazio di amore al cui interno accogliere tale rivelazione e superarla grazie alla relazione con Gesù stesso (v.
21: «Gesù fissatelo lo amò e gli disse: “…
vieni e seguimi”»).
Conoscenza di Dio e conoscenza di sé, dice questo testo, passano attraverso l’adesione alla persona di Gesù Cristo.
L’anonimo interlocutore di Gesù però rifiuta il rischio del farsi amare e di ricevere la propria identità nella relazione con un altro, e così resta senza nome, senza volto, definito solamente da ciò che ha, da ciò che possiede: «Se ne andò afflitto perché aveva molti beni» (v.
22).
(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi.
Emergenza di un tema e sue ambiguità, Ma-gnano, Qiqajon, 1999, 12-13).
Quello che non abbiamo cercato “Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato.
Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui.
La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato.
A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.
(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).
Incontrare Cristo «Incontrare Cristo significa mettervi sulla strada dell’esperienza dell’amore, della gioia, della bellezza, della verità.
Decidere di non custodire e di non approfondire il segreto dell’incontro con lui equivarrebbe a condannarsi a una vita senza senso e senza amore.
Vorrei soprattutto dirvi, non abbiate paura, non abbiate timore di aprirvi a Cristo, di entrare nel suo mistero».
(Card.
C.M.
Martini).
«Non potete servire a Dio e a mammona» Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26).
La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli».
Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» ( 16,1 -13).
In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo.
Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.
La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona».
Eppure questo non significa un masochismo pauperista.
Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola.
La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).
(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).
Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro? Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi.
Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro.
È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria.
Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.
Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria.
Ci sono persone che non ne han-no mai abbastanza.
Vogliono averne sempre di più.
Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia.
In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro.
Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso.
Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri.
Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri.
Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità.
Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri.
O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano.
Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.
Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro.
Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo.
Uno accetta più rischi, l’altro me-no, perché preferisce dormire sonni tranquilli.
Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente.
Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avi-dità.
E sono necessari criteri etici.
Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici.
Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia.
Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità.
È necessaria soprattutto la libertà interiore.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).
Che cosa è tuo? «A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro.
Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso po-sto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riser-vato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti.
Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi.
Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.
Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti.
Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno? Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente.
Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno.
E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.
Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur po-tendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra.
Così commetti ingiustizia contro al-trettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.
(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).
Preghiera Sono io, Signore, Maestro buono, quel tale che tu guardi negli occhi con intensità di amore.
Sono io, lo so, quel tale che tu chiami a un distacco totale da se stesso.
È una sfida.
Ecco, anch’io ogni giorno mi trovo davanti a questo dramma: alla possibilità di rifiutare l’amore.
Se talvolta mi ritrovo stanco e solo, non è forse perché non ti so dare quanto tu mi chiedi? Se talvolta sono triste, non è forse perché tu non sei il tutto per me, non sei veramente il mio unico tesoro, il mio grande amore? Quali sono le ricchezze che mi impediscono di seguirti e di gustare con te e in te la vera sapienza che dona pace al cuore? Tu ogni giorno mi vieni incontro sulla strada per fissarmi negli occhi, per darmi un’al-tra possibilità di risponderti radicalmente e di entrare nella tua gioia.
Se a me questo passo da compiere sembra impossibile, donami l’umile certezza di credere che la tua mano sempre mi sorreggerà e mi guiderà là, oltre ogni confine, oltre ogni misura, dove tu mi attendi per donarmi null’altro che te stesso, unico sommo Bene.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Una scomoda croce nel deserto

Il caso della croce della riserva naturale del Mojave è arrivato alla Corte Suprema degli Stati Uniti dopo otto anni di controversie, nate quando Frank Buono, già assistente alla soprintendenza del parco, ha avanzato richiesta formale al National Park Service (Nps) – cui la Riserva fa parte – di rimuovere la croce lì impiantata sin dal 1934.
Trovandosi su un terreno appartenente al Governo degli Stati Uniti – è la tesi di Buono – la sua esistenza costituisce una violazione del principio di imparzialità del Governo rispetto alle diverse fedi, violando così la establishment clause del primo emendamento della Costituzione.
L’intera vicenda giudiziaria è emblematica e ricca di spunti di riflessione.
Nel 1934 l’associazione Veterans of Foreign War, un’organizzazione privata, decise di onorare i caduti della prima guerra mondiale impiantando una croce di legno alta otto piedi in cima a un’altura rocciosa, Sunrise Rock, su un terreno pubblico che ora fa parte appunto della riserva naturale del Mojave.
Nel corso degli anni, altri gruppi privati e singoli individui hanno sostituito la vecchia croce di legno con altre più nuove, fino a quella corrente, eretta nel 1998 da Henry Sadoz, un privato cittadino.
Nel 1999, un residente dello Utah ha chiesto all’Nps, l’organo che sovrintende alla gestione dei parchi negli Stati Uniti, il permesso di erigere uno stupa, una sorta di memoriale buddista, vicino alla croce.
L’Nps ha respinto la richiesta, affermando che la legge proibisce ai privati di installare memoriali e altri impianti permanenti su proprietà federali senza autorizzazione delle autorità pubbliche.
Rifiutando il memoriale buddista, l’Nps ha inoltre annunciato l’intenzione di rimuovere la croce da Sunrise Rock, la quale, fra l’altro, non sarebbe mai stata formalmente autorizzata.
Le dichiarazioni dell’Nps hanno da subito innescato una serie di polemiche e accesi dibattiti.
Nel dicembre del 2000 è intervenuto il Congresso degli Stati Uniti, che, attraverso un provvedimento legislativo ha di fatto vietato di rimuovere la croce, proibendo l’uso di fondi federali a tale scopo.
La controversia però non si è esaurita.
Nel marzo del 2001, l’ex assistente alla soprintendenza Buono ha adito le vie legali presso la corte distrettuale del distretto centrale della California sostenendo che l’Nps dovesse rimuovere la croce.
Nel gennaio del 2002, mentre il caso Buono giaceva ancora presso la corte distrettuale, il Congresso degli Stati Uniti è intervenuto nuovamente, dichiarando la croce memoriale nazionale e inserendola in un ristretto gruppo formato da altri 45 memoriali nazionali, tra i quali i famosi Washington Monument e il Jefferson Memorial.
Poco dopo, nel luglio 2002, la corte distrettuale ha sentenziato che la croce del Mojave costituisce una violazione dell’establishment clause e ha ordinato all’Nps di rimuoverla.
Anche in questo caso il Congresso ha deciso di intervenire, con un altro provvedimento, proibendo la rimozione e, nel 2003, approvando un’altra legge con la quale si è stabilito di cedere la proprietà di cinque acri della riserva nazionale del Mojave, attorno alla croce in questione, alla Veterans of Foreign War.
Sandoz, a sua volta, ha poi donato alla stessa riserva cinque acri confinanti di sua proprietà.
La legge a ogni buon conto ha stabilito che se usati per finalità diverse da quelle del mantenimento del memoriale, i cinque acri tornino nella proprietà del Governo.
Nel giugno del 2004, la corte d’appello del nono circuito, in un’opinione informale scritta dal giudice Alex Kozinski, confermava la sentenza della corte distrettuale, in quanto la croce viola l’establishment clause.
Il Governo non ha presentato opposizione.
Ciononostante, l’Nps ha proseguito nei passi per il trasferimento della proprietà di Sunrise Rock all’associazione dei veterani, causando la reazione di Buono, che ha chiesto alla corte distrettuale un’ingiunzione, in seguito accordata, di rimozione della croce e di proibizione al trasferimento della proprietà.
Un nuovo ricorso alla Corte d’appello si è risolto con la conferma della decisione della corte distrettuale e quindi la vicenda è approdata, nel febbraio scorso, alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Essendo il National Park Service sotto la giurisdizione del Dipartimento degli interni, il cui segretario è Ken Salazar, la causa è appunto fascicolata con il titolo Salazar vs Buono.
Nella sua memoria presentata alla Corte Suprema, Salazar ha puntato soprattutto su due argomentazioni.
In primo luogo ha sollevato un’eccezione di competenza della corte distrettuale a seguito della mancanza di titolo giuridico da parte di Buono, il quale, secondo la legge, deve dimostrare di avere sofferto un qualche danno, cosa ardua, essendo fra l’altro, un cattolico praticante.
Riguardo al merito della questione, invece, Salazar afferma che, non essendo più su terreno governativo, a seguito della decisione del Congresso del 2003, la croce non costituisce un endorsement del Governo rispetto al messaggio religioso e quindi non viola più l’establishment clause.
La posizione di Buono è invece la seguente: il suo diritto a rivolgersi alla corte è affermato da precedenti disposizioni della Corte Suprema che riconoscevano tale diritto a chiunque avesse avuto “un diretto e non voluto contatto con un simbolo religioso in una proprietà pubblica”.
Nel suo caso, Buono si sarebbe sentito offeso nell’imbattersi nella croce come cittadino, perché la croce testimonia la preferenza del Governo per una fede a scapito delle altre.
Inoltre, Buono contesta la possibilità da parte della Corte Suprema di esprimere sentenza riguardo al fatto che la croce violi o no l’establishment clause, perché sul punto si è già espressa la Corte d’appello nel 2004, senza che il Governo abbia fatto ricorso.
Secondo Buono, la Corte Suprema può solo giudicare se il provvedimento del Congresso del 2007, con il quale veniva trasferita la proprietà di Sunrise Rock all’associazione di veterani ponga fine o meno a tale violazione.
Chiaramente, secondo Buono la violazione persiste, perché anzitutto il Governo ha consentito a creare un memoriale nazionale prevedendo come unico simbolo la croce e non anche altri simboli religiosi.
In secondo luogo perché in realtà tale proprietà non è pienamente trasferita, in quanto condizionata proprio al mantenimento del memoriale.
Il Governo dunque rimane, per così dire, complice del messaggio religioso.
Il caso, quale ne sia l’esito, avrà, come detto, conseguenze importanti.
Se la Corte Suprema deciderà a favore di Buono, tale decisione imporrà ai Governi locali, statali e federale di rimuovere molti simboli religiosi dai memoriali disseminati nel territorio degli Stati Uniti.
Al contrario, se l’Alta corte afferma che la croce non viola l’establishment clause, molti Governi potrebbero essere autorizzati a dare preferenza a un gruppo religioso rispetto a un altro in parchi ed edifici pubblici.
Se infine la Corte Suprema decidesse che Buono non ha titoli per adire le vie legali si avrebbero conseguenze evidenti sulla possibilità dei cittadini di presentare reclami su argomenti simili.
La decisione della Corte Suprema è importante poi, come accennato, anche per un altro motivo: consentirà di osservare qual è la posizione del nuovo giudice Sonia Sotomayor sul rapporto fra Stato e religione, dopo che questa ha preso il posto di David Souter, considerato un fervente partigiano dell’assoluta indipendenza dello Stato dalle confessioni religiose.
(©L’Osservatore Romano – 8 ottobre 2009) Sono previste per oggi, 7 ottobre, le audizioni, presso la Corte Suprema degli Stati Uniti, delle parti coinvolte nel procedimento Salazar vs Buono, un caso che, partendo dalle dispute attorno a una piccola croce posta all’interno della riserva naturale del Mojave – nella contea di san Bernardino, in California – è arrivato a coinvolgere il tema della libertà religiosa negli Stati Uniti.
La decisione della Corte sarà importante anche per verificare la condotta del nuovo giudice Sonia Sotomayor sui delicati temi religiosi e sul rapporto fra Stato e religione.