Qualcosa di così personale.

CARLO MARIA MARTINI,Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera, Mondadori Milano, 2009,  pp.
120, Codice EAN: 9788804594680, € 17,50 Come e perché pregare? Carlo Maria Martini tocca uno dei temi più importanti non solo per il cristiano ma per chiunque si trovi ad affrontare le innumerevoli circostanze della vita.
“La preghiera – scrive il Cardinale – è la risposta immediata che ci sale dentro il cuore quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere, momenti in cui ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle immanenze quotidiane”.
Ma la preghiera è anche “la forza che si oppone alla paura di cambiare, di lanciarsi su nuove vie”.
<a href=”http://ads.bol.it/www/delivery/ck.php?n=ad042fd3&cb=%n” target=”_blank”><img src=”http://ads.bol.it/www/delivery/avw.php?zoneid=22&n=ad042fd3&ct0=%25c” border=”0″ alt=”” /></a> La preghiera è qualcosa di estremamente semplice, qualcosa che nasce dal cuore.
Con queste parole il cardinale Martini ci introduce nel tema del suo nuovo libro, dedicato a uno degli aspetti più intimi e delicati del rapporto con Dio: la preghiera.
E la risposta immediata che sale dal profondo quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere.
Il che può avvenire in molti modi, diversi per ciascuno di noi: davanti a un paesaggio di montagna, in un momento di solitudine nel bosco, ascoltando una musica.
Sono momenti di verità dell’essere, nei quali ci sentiamo come tratti fuori dalla schiavitù delle invadenze quotidiane, che ci sollecitano continuamente.
Facciamo un respiro più ampio del solito, avvertiamo qualcosa che si muove dentro di noi, ed ecco elevarsi una preghiera: Mio Dio ti ringrazio , Signore, quanto sei grande! .
Questo riconoscimento di Dio è la preghiera naturale, la preghiera dell’essere.
Ogni nostra preghiera parte da tale principio: l’uomo che vive a fondo l’autenticità delle proprie esperienze sente immediatamente, istintivamente, l’esigenza di esprimersi attraverso una preghiera di lode, di ringraziamento, di offerta.

La preghiera fragile dei vecchi vicini a Dio

Pubblichiamo un’anticipazione di “Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera” del cardinale Martini Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire.
Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado.
Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.
So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni.
Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento.
Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano.
Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto.
/ Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4.
Ma anche fino al verso 8).
In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.
La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola.
Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre.
Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento.
Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.
Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso.
Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata.
Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità.
Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani.
Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca.
Anzitutto nella Bibbia.
In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive.
Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25).
Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore».
La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano.
La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli.
Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.
Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano.
Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento.
Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte.
E ciò non è dato a tutti.
In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).
Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze.
Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto.
E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati! La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore.
Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano.
Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale.
Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente.
Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre.
Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore.
A noi non resterà che seguirlo docilmente.
in “la Repubblica” del 31 ottobre 2009

Le leggi razziali in Italia e il Vaticano

«Non comanderanno!» Udienza del conte Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, a mons.
Borgongini Duca, nunzio apostolico in Italia Roma, 2 Agosto 1938 …A fianco della questione dei neri, si dovrà trattare anche quella degli ebrei, per due ragioni: 1°) perché essi sono espulsi da ogni parte, e non vogliamo che gli espulsi credano di potere venire in Italia come nella terra promessa; 2°) perché è loro dottrina, consacrata nel Talmud, che l’ebreo deve mischiarsi con le altre razze come l’olio con l’acqua, ossia rimanendo di sopra, cioè al potere.
E noi vogliamo impedire che gli Ebrei in Italia abbiano posti di comando.
Appunto della Segreteria di Stato su certificati di battesimo falsi rilasciati a ebrei 2 aprile 1941 Qualche giorno fa persona attendibile mi disse che era bene diffidare dei certificati di battesimo rilasciati a non ariani battezzati dall’ufficio parrocchiale della Basilica di S.
Pietro, perché la data del battesimo era falsificata.
È una dolorosa constatazione: non a torto le autorità civili dubitano della veridicità di attestazioni ecclesiastiche…
Credo sia opportuno richiamare chi di dovere a una scrupolosa e doverosa esattezza di registrazione.
Accordo tra la Santa Sede e Governo fascista 16 agosto 1938 Gli ebrei, in una parola, possono essere sicuri che non saranno sottoposti a trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi che li ospitarono nella Città eterna e nelle terre del loro temporale dominio.
Ciò premesso, è vivo desiderio dell’On.
Capo del Governo che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo, si astengano dal trattare in pubblico di questo argomento; alla S.
Sede, allo stesso Sommo Pontefice non manca il modo d’intendersela direttamente in via privata con Mussolini e di proporgli quelle osservazioni che si credesse opportune per la migliore soluzione del delicato problema.
Il Vaticano e la frattura del 1938 di Emma Fattorini in “Il Sole 24 Ore” del 1° novembre 2009 La prossima settimana esce il nuovo libro dello storico gesuita Giovanni Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano (Jaca book, Milano, pagg.
320, € 28,00), con un’ampia raccolta di documenti inediti e un saggio introduttivo di Emma Fattorini, che qui in parte anticipiamo.
Le leggi razziali promulgate da Mussolini il 5 settembre del 1938 dividono in due il mondo cattolico.
L’antisemitismo, infatti, lungi dall’unificare i cattolici, diventa sempre di più un elemento di divisione all’interno della cattolicità.
I fedeli delle parrocchie come gli intellettuali e i sacerdoti esprimono giudizi e pratiche diverse nei confronti di quelli che solo molto tempo dopo saranno chiamati i loro “fratelli maggiori”.
I due principali quotidiani cattolici, ad esempio, «L’Italia» di Milano e «L’Avvenire d’Italia» di Bologna sono decisamente in polemica dura con le leggi razziali.
Del resto l’argomentazione “teologica” è anche alla base dell’offensiva fascista: ripetute saranno le accuse alla chiesa per non essere coerente con le sue posizioni antigiudaiche, per avere abbandonato troppo disinvoltamente la fortissima tradizione antisemita espressa da tante pagine della «Civiltà cattolica» alla quale Mussolini dirà di essersi ispirato: «C’è molto da imparare dai padri della Compagnia di Gesù.
(…) Il fascismo è inferiore, sia nei provvedimenti sia nella loro esecuzione, al rigore della Civiltà cattolica».
Alla rivista dei gesuiti sarà rimproverato, ad esempio, di non prendere sul serio il concetto di Volksgemeinschaft: essa rinnegherebbe l’importanza di tenere uniti comunità di razza, religione e nazione, non considererebbe la razza inscindibilmente legata all’italianità, di cui la religione dovrebbe farsi garante e custode.
La chiesa, insomma, viene accusata di abdicare alla sua funzione di custode delle radici spirituali della comunità nazionale, che verrebbe inquinata dal mescolamento razziale: il razzismo si presenta come «salvaguardia delle virtù tradizionali e intrinseche alla razza…
orbene questi sono principi eminentemente cattolici…
quella superiore eugenetica spirituale, che è rivolta alla salute e alla difesa delle anime umane».
Sbaglierebbe dunque in pieno la «Civiltà cattolica» quando distingue e contrappone nazione e razza.
A questo è dedicata la campagna della rivista «Difesa della razza» che, tra il novembre 1938 e il marzo del 1939, dedica ampio spazio ai rapporti tra «razza e cattolicesimo», dando voce a un liceale avanguardista che inneggia alla romanità pagana e al suo atto eroico contro la mollezza compassionevole dei cattolici.
Il cuore della polemica, come in tempi più recenti, diventa l’indispensabile contributo del cattolicesimo italiano all’identità nazionale.
L’intransigenza della chiesa cattolica a non discriminare ingiustamente chi appartiene a un’altra razza, paese, etnia ha dunque radici profonde, che sarebbe del tutto antistorico attribuire a un facile buonismo: rimanda a una fedeltà superiore a quella pur dovuta alla nazione, una idea di chiesa e di nazione, dei loro rapporti e delle reciproche responsabilità che già allora non trovava concordi tutti i cattolici italiani.
La propaganda fascista non prendeva di petto la questione, evitava le punte più odiose e cercava una complicità su temi ai quali la chiesa era particolarmente sensibile: i matrimoni misti rappresenterebbero un pericoloso «meticciato religioso» perché i figli, per quanto educati alla religione cattolica, sarebbero sempre stati degli «ebrei mascherati», dei «circoncisi dello spirito».
In più occasioni la propaganda fascista incita la chiesa a diffidare della conversione degli ebrei che farebbero professione di fede cattolica per evidente opportunismo: altro non sarebbero che degli infiltrati, in realtà «permanentemente e immutabilmente di razza ebraica».
È la antica e mai conclusa questione dei battesimi e delle conversioni fatte per convenienza.
Le risposte cattoliche sono imbarazzate riguardo alla autenticità delle crescenti conversioni e si concentrano sul dato giuridico-formale del valore probatorio del battesimo.
Ci si appella ancora una volta al Concordato, nella convinzione del tutto illusoria che quello strumento riesca a dirimere anche questioni di contenuto religioso così delicate e così intrecciate alle identità personali.
L’ultimo lavoro di Padre Sale, che arricchisce l’attuale panorama documentaristico con i materiali provenienti dall’archivio della «Civiltà cattolica», ci fa capire bene la persistente ambiguità degli ambienti curiali, in contrasto all’intransigenza di papa Ratti.
Lo storico gesuita conferma, attraverso questa nuova documentazione, le differenze tra le prudenti connivenze e la decisa contrarietà di Pio XI, dell’Azione cattolica e specialmente di Gian Battista Montini.
Il confronto con le leggi razziali diventa una cartina di tornasole che getta luce sulla difficile distinzione tra questione biologica e questione morale (quali sono – si chiedono molti cattolici – le differenze tra i concubinaggi con le popolazioni di colore e quelle con gli ebrei).
Ne risultano con chiarezza le ripetute ambiguità tra ragioni biologico-razziali e politico-religiose-morali.
Nel complesso, conclude Giovanni Sale, il piano giuridico prevalse sulla difesa del diritto naturale.
E ha ragione, il nodo reale non è tanto la percentuale di prudenza o il tasso di discrezione nel contrastare leggi odiose, ma l’avere tradito la difesa del diritto naturale.
Per questa difesa dovremo aspettare ancora molto tempo.

La sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso

Ancora una volta riesplode la polemica sul crocifisso.
Questa volta in seguito al pronunciamento della Corte Europea.
La redazione vuol fornire una rassegna delle diverse opinioni circolate sugli organi di stampa.
La sentenza della Corte di Strasburgo Il crocifisso, i giudici     e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante 
Tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani, la sentenza emessa ieri dalla Corte di Strasburgo – che proibisce l’esposizione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane perché sarebbe contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e al diritto dei bambini alla libertà di religione – ha colpito quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del Continente europeo.
“Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini fino allora assente”.
A scrivere queste parole, il 22 marzo 1988, era Natalia Ginzburg sulle pagine de “l’Unità”, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, allora organo del Partito comunista italiano.
Le parole della scrittrice, a oltre vent’anni di distanza, esprimono un sentimento ancora ampiamente condiviso in Italia.
Ne sono dimostrazione le tante reazioni seguite al pronunciamento della Corte europea.
Mentre il Governo italiano ha annunciato di aver presentato ricorso contro la sentenza, il mondo politico ha evidenziato quasi unanimemente la mancanza di buon senso insita nel provvedimento, ribadendo come la laicità delle istituzioni sia un valore ben diverso dalla negazione del ruolo del cristianesimo.
“Stupore e rammarico” sono stati espressi in particolare dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, in una severa dichiarazione trasmessa dalla Radio Vaticana e dal Tg1.
“È grave – ha affermato – voler emarginare dal mondo educativo un segno fondamentale dell’importanza dei valori religiosi nella storia e nella cultura italiana”.
E ha continuato:  “Stupisce poi che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale e spirituale del popolo italiano.
Non è per questa via che si viene attratti ad amare e condividere di più l’idea europea, che come cattolici italiani abbiamo fortemente sostenuto fin dalle sue origini”.
Di “visione parziale e ideologica” ha parlato la Conferenza episcopale italiana, sottolineando che nella decisione della Corte “risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale”.
Va ricordato che in Italia il Consiglio di Stato nel 2006 aveva già ritenuto legittime le norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole, affermando che questo non assume valore discriminatorio per i non credenti perché rappresenta “valori civilmente rilevanti e, segnatamente, quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale”.
In effetti la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.
Sotto altro profilo, la decisione dei giudici di Strasburgo sembra ispirata a un’idea di laicità dello Stato che porta a emarginare il contributo della religione alla vita pubblica.
Si potrebbe così prefigurare un futuro non tanto lontano fatto di ambienti pubblici privi di qualunque riferimento religioso e culturale nel timore di offendere l’altrui sensibilità.
In realtà, non è nella negazione, bensì nell’accoglienza e nel rispetto delle diverse identità che si difende l’idea di laicità dello Stato e si favorisce l’integrazione tra le varie culture.
“Il crocifisso rappresenta tutti” – spiegava Natalia Ginzburg – perché “prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti,  ebrei  e  non  ebrei  e  neri  e bianchi”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Il cardinale Bertone:  una vera perdita  “Questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute e ci toglie i simboli più cari”.
Lo ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, commentando stamane la sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso nelle aule scolastiche.
“Questa – ha aggiunto – è veramente una perdita.
Dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede”.
Dopo aver espresso “apprezzamento” per l’iniziativa del Governo italiano, che ha annunciato ricorso contro la decisione dei giudici europei, il porporato ha ricordato che il crocifisso “è simbolo di amore universale, non di esclusione ma di accoglienza”.
“Mi domando – ha concluso – se questa sentenza sia un  segno  di  ragionevolezza  oppure no”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Prova di accecata sentenziosità di Fabrizio D’Agostino in “Avvenire” del 4 novembre 2009 La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il principio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzione pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione.
La sentenza richiama sommariamente, ma con una certa precisione, le argomentazioni in base alle quali la magistratura italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo esclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia italiana, in esso si riassume una sensibilità diffusa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti.
In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non confessionale.
Gli spiriti veramente grandi l’hanno sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente dell’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, almeno avere tutti un profondo rispetto, se non vogliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli.
Tutto questo, evidentemente, non è stato percepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudiziaria, né è stato percepito dai giudici che alla fine hanno accolto le sue ragioni.
La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese.
Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragioni della storia e della cultura, l’illusoria pretesa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giunga ad impedire ai genitori di esercitare nei loro confronti quella specifica missione educativa, che è loro dovere e loro diritto.
E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudici della Corte europea non percepiscano di agire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, rendendo così l’Europa stessa sempre meno ‘amabile’ da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto.
Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa ancor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garantisce moltiplicando gli interdetti o marginalizzando le esigenze di visibilità della religioni, ma impegnandosi per garantire la loro compatibilità nelle complesse società multietniche tipiche del tempo in cui viviamo.
La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nell’abolizione di ogni riferimento, diretto o indiretto, a Dio.
Quando è così che la laicità viene pensata, propagandata e promossa si ottiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convivenza, ma una sua atrofizzazione.
La sensibilità religiosa, ci ha spiegato Habermas (un grande spirito laico) non è un residuo di epoche arcaiche, che la sensibilità moderna sarebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla modernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di ‘apprendimento complementare’, alla quale non può che ripugnare ogni logica di esclusione.
Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli educatori quello di indurre le giovani generazioni a vivere «come se Dio non ci fosse»? La Croce che non s’impone di Marco Politi in “il Fatto quotidiano” del 4 novembre 2009 La croce non si impone.
E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione.
Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni.
Il governo italiano, tanto attento alla fede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito deciso di presentare ricorso.
Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un “colpo mortale all’Europa”, mentre l’Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da respingere”.
Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenza del crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”.
Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo responsabile di chiarezza.
Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa».
Al contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle coscienze.
Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti.
Non è così.
O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale.
Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano.
Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio.
È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza.
Persino la cattolicissima Baviera – lo riferì a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione – ha affrontato il problema.
In quel Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano, le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza.
Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale.
Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione.
Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa.
Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria.
(Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali).
Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica.
La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso.
Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Ci voleva la tenacia di una madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo elementare principio.
Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli.
E loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”.
Sostiene la conferenza episcopale italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”.
È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare.
Il cattolicesimo non è più religione di Stato né esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.
«Sentenza rispettosa delle pluralità culturali» intervista a Clara Gallini a cura di Iaia Vantaggiato in “il manifesto” del 4 novembre 2009 A Clara Gallini, docente di etnologia e protagonista dell’antropologia italiana, chiediamo di commentare la sentenza di Strasburgo.
Lei è autrice di due libri, pubblicati rispettivamente da Boringhieri e dalla manifestolibri, «Croce e delizia» e «Il ritorno delle croci».
Come valuta questa sentenza? A me turba sempre constatare che la questione dei crocifissi venga dibattuta e sancita in sede legislativa o comunque giuridica.
La sentenza, comunque, mi sembra giusta ed equa, rispettosa delle diversità culturali che attraversano da sempre la storia europea.
E il suo giudizio da antropologa? Il mio punto di vista di antropologa è un po’ diverso da quello giuridico-normativo.
Si parla molto di radici cristiane dell’Europa ma mi sono interrogata e mi interrogo sul rapporto reale e concreto che i soggetti sociali hanno con i loro simboli.
Non è un rapporto definito una volta per tutte.
I simboli significano messaggi diversi a seconda dei soggetti che si rapportano a loro e persino dei luoghi, degli spazi reali o immaginari in cui i simboli si collocano.
Da antropologa mi è stato possibile constatare che i crocifissi sono quasi del tutto spariti dalle abitazioni, dove era possibile incontrarli come presenze forti, collocati a capo del letto e accompagnati dal ramo d’ulivo pasquale, segno di resurrezione.
Crocifissi collocati a capo del letto.
Ma perché proprio lì? È un etica diversa quella che si costruisce, almeno in Italia, nel secondo dopoguerra.
Un’etica che connetteva anche spazialmente e visivamente la casa con la chiesa, un’etica che trasformava il letto in luogo sacrificale in cui tutto si consumava tragicamente, dal nascere al morire.
Ora si nasce e si muore in altri luoghi.
Il letto non è più un altare e il luogo dell’amplesso si va trasformando anche con una affermazione, in positivo, dell’etica del piacere, l’esatto contrario dell’etica sacrificale che vedeva nel morto in croce il proprio centro.
A un certo punto, però, i crocifissi sono spariti dalle nostre stanze da letto.
Quando e perché? L’espulsione dalle pareti domestiche è avvenuta parallelamente al boom dei consumi e alla costruzione di altri modelli di vita familiare e domestica.
Peraltro, sono state mani concrete di persone quelle che hanno staccato questi sacri simboli dai luoghi in cui si trovavano per riporli altrove e dimenticarli in qualche ripostiglio.
Di questo ho scritto in «Croce e delizia».
Di una delle facce della medaglia, cioè, che si connette – per differenziarsi – all’altro aspetto, quello severo, drammatico, ufficiale che consiste nell’imposizione per legge del simbolo sacro cristiano all’interno degli spazi pubblici, argomento trattato ne «Il ritorno delle croci».
Sono due chiavi molto diverse, quella del privato e quella del pubblico e quella del pubblico si afferma attraverso atti che sono essenzialmente di natura politica.
In molti commentano la sentenza di Strasburgo come un «attentato» alle radici cristiane dell’Europa.
Non crede che la questione delle «radici» sia più complessa? Io credo che le radici cristiane esistano ma sono fluide, morbide, acquatiche e si sono sviluppate in direzioni molto diverse concorrendo, ciascuna a modo suo, a costruire il nostro panorama culturale.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sembra un po’ meno dibattuta.
Forse sbaglio ma mi sembra che chi parla di radici cristiane intenda sotto sotto e in modo mascherato dire radici cattoliche.
Radici cristiane verrebbero così a significare primato intellettuale e morale della chiesa cattolica.
Parlare di Europa cristiana senza tener conto delle guerre di religione, delle secessioni che hanno portato alla formazione di nuove chiese evangeliche, tacere tutto questo mi sembra un’operazione molto pericolosa.
Può farci un esempio? In questi giorni a Roma, a palazzo Venezia, è visitabile una grandiosa mostra titolata «Il potere e la grazia» che concerne il culto dei santi.
Non entro in merito ai discutibili criteri di scelta e organizzazione delle immagini.
Mi ha colpito però notare che già la prima fase di illustrazione ai materiali esposti concernesse le radici cristiane d’Europa.
Tutta la mostra espone una certa iconografia di santi cattolici più un certo numero di icone provenienti da chiese cristiane d’Oriente.
Termina inoltre con l’esposizione di uno splendido cavaliere armato che schiaccia la testa al Moro.
Sostenendo, sempre nelle spiegazioni, che l’immagine del cavaliere risignificasse le varie culture locali unificandole nelle diversità.
Bene, non ho visto in questa mostra alcun accenno al fatto che la grande contesa che dilaniò l’Europa opponendo i cosiddetti «protestanti» alla chiesa romana, toccò assieme alla questione della cristologia generale e del potere papale anche quella del culto dei santi, bollato di idolatria.
Torniamo al crocifisso.
Nel suo «Il ritorno delle croci», lei ricostruisce la storia di due grandi azioni simboliche compiute da Mussolini.
Ce ne parla? Sì, in quel libro parlo di quella che si chiamò «la restituzione delle croci», croci che erano state tolte dai luoghi laici più significativi della città di Roma quali il Campidoglio e il Colosseo.
Queste restituzioni si accompagnarono a grandi manifestazioni di folla – naturalmente organizzata – cui parteciparono autorità politiche e religiose e che segnarono la conclusione di tutta una storia pregressa che aveva visto togliere in vari modi il simbolo dai luoghi pubblici negli anni dell’affermazione di Roma capitale, quindi poco dopo il 1870.
Ancora una volta riesplode la polemica sul crocifisso.
Questa volta in seguito al pronunciamento della Corte Europea.
La redazione vuol fornire una rassegna delle diverse opinioni circolate sugli organi di stampa.
La sentenza della Corte di Strasburgo Il crocifisso, i giudici     e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante 
Tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani, la sentenza emessa ieri dalla Corte di Strasburgo – che proibisce l’esposizione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane perché sarebbe contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e al diritto dei bambini alla libertà di religione – ha colpito quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del Continente europeo.
“Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini fino allora assente”.
A scrivere queste parole, il 22 marzo 1988, era Natalia Ginzburg sulle pagine de “l’Unità”, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, allora organo del Partito comunista italiano.
Le parole della scrittrice, a oltre vent’anni di distanza, esprimono un sentimento ancora ampiamente condiviso in Italia.
Ne sono dimostrazione le tante reazioni seguite al pronunciamento della Corte europea.
Mentre il Governo italiano ha annunciato di aver presentato ricorso contro la sentenza, il mondo politico ha evidenziato quasi unanimemente la mancanza di buon senso insita nel provvedimento, ribadendo come la laicità delle istituzioni sia un valore ben diverso dalla negazione del ruolo del cristianesimo.
“Stupore e rammarico” sono stati espressi in particolare dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, in una severa dichiarazione trasmessa dalla Radio Vaticana e dal Tg1.
“È grave – ha affermato – voler emarginare dal mondo educativo un segno fondamentale dell’importanza dei valori religiosi nella storia e nella cultura italiana”.
E ha continuato:  “Stupisce poi che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale e spirituale del popolo italiano.
Non è per questa via che si viene attratti ad amare e condividere di più l’idea europea, che come cattolici italiani abbiamo fortemente sostenuto fin dalle sue origini”.
Di “visione parziale e ideologica” ha parlato la Conferenza episcopale italiana, sottolineando che nella decisione della Corte “risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale”.
Va ricordato che in Italia il Consiglio di Stato nel 2006 aveva già ritenuto legittime le norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole, affermando che questo non assume valore discriminatorio per i non credenti perché rappresenta “valori civilmente rilevanti e, segnatamente, quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale”.
In effetti la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.
Sotto altro profilo, la decisione dei giudici di Strasburgo sembra ispirata a un’idea di laicità dello Stato che porta a emarginare il contributo della religione alla vita pubblica.
Si potrebbe così prefigurare un futuro non tanto lontano fatto di ambienti pubblici privi di qualunque riferimento religioso e culturale nel timore di offendere l’altrui sensibilità.
In realtà, non è nella negazione, bensì nell’accoglienza e nel rispetto delle diverse identità che si difende l’idea di laicità dello Stato e si favorisce l’integrazione tra le varie culture.
“Il crocifisso rappresenta tutti” – spiegava Natalia Ginzburg – perché “prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti,  ebrei  e  non  ebrei  e  neri  e bianchi”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Il cardinale Bertone:  una vera perdita  “Questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute e ci toglie i simboli più cari”.
Lo ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, commentando stamane la sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso nelle aule scolastiche.
“Questa – ha aggiunto – è veramente una perdita.
Dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede”.
Dopo aver espresso “apprezzamento” per l’iniziativa del Governo italiano, che ha annunciato ricorso contro la decisione dei giudici europei, il porporato ha ricordato che il crocifisso “è simbolo di amore universale, non di esclusione ma di accoglienza”.
“Mi domando – ha concluso – se questa sentenza sia un  segno  di  ragionevolezza  oppure no”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Prova di accecata sentenziosità di Fabrizio D’Agostino in “Avvenire” del 4 novembre 2009 La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il principio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzione pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione.
La sentenza richiama sommariamente, ma con una certa precisione, le argomentazioni in base alle quali la magistratura italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo esclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia italiana, in esso si riassume una sensibilità diffusa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti.
In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non confessionale.
Gli spiriti veramente grandi l’hanno sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente dell’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, almeno avere tutti un profondo rispetto, se non vogliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli.
Tutto questo, evidentemente, non è stato percepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudiziaria, né è stato percepito dai giudici che alla fine hanno accolto le sue ragioni.
La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese.
Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragioni della storia e della cultura, l’illusoria pretesa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giunga ad impedire ai genitori di esercitare nei loro confronti quella specifica missione educativa, che è loro dovere e loro diritto.
E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudici della Corte europea non percepiscano di agire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, rendendo così l’Europa stessa sempre meno ‘amabile’ da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto.
Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa ancor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garantisce moltiplicando gli interdetti o marginalizzando le esigenze di visibilità della religioni, ma impegnandosi per garantire la loro compatibilità nelle complesse società multietniche tipiche del tempo in cui viviamo.
La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nell’abolizione di ogni riferimento, diretto o indiretto, a Dio.
Quando è così che la laicità viene pensata, propagandata e promossa si ottiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convivenza, ma una sua atrofizzazione.
La sensibilità religiosa, ci ha spiegato Habermas (un grande spirito laico) non è un residuo di epoche arcaiche, che la sensibilità moderna sarebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla modernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di ‘apprendimento complementare’, alla quale non può che ripugnare ogni logica di esclusione.
Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli educatori quello di indurre le giovani generazioni a vivere «come se Dio non ci fosse»? La Croce che non s’impone di Marco Politi in “il Fatto quotidiano” del 4 novembre 2009 La croce non si impone.
E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione.
Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni.
Il governo italiano, tanto attento alla fede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito deciso di presentare ricorso.
Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un “colpo mortale all’Europa”, mentre l’Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da respingere”.
Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenza del crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”.
Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo responsabile di chiarezza.
Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa».
Al contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle coscienze.
Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti.
Non è così.
O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale.
Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano.
Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio.
È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza.
Persino la cattolicissima Baviera – lo riferì a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione – ha affrontato il problema.
In quel Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano, le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza.
Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale.
Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione.
Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa.
Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria.
(Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali).
Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica.
La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso.
Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Ci voleva la tenacia di una madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo elementare principio.
Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli.
E loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”.
Sostiene la conferenza episcopale italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”.
È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare.
Il cattolicesimo non è più religione di Stato né esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.
«Sentenza rispettosa delle pluralità culturali» intervista a Clara Gallini a cura di Iaia Vantaggiato in “il manifesto” del 4 novembre 2009 A Clara Gallini, docente di etnologia e protagonista dell’antropologia italiana, chiediamo di commentare la sentenza di Strasburgo.
Lei è autrice di due libri, pubblicati rispettivamente da Boringhieri e dalla manifestolibri, «Croce e delizia» e «Il ritorno delle croci».
Come valuta questa sentenza? A me turba sempre constatare che la questione dei crocifissi venga dibattuta e sancita in sede legislativa o comunque giuridica.
La sentenza, comunque, mi sembra giusta ed equa, rispettosa delle diversità culturali che attraversano da sempre la storia europea.
E il suo giudizio da antropologa? Il mio punto di vista di antropologa è un po’ diverso da quello giuridico-normativo.
Si parla molto di radici cristiane dell’Europa ma mi sono interrogata e mi interrogo sul rapporto reale e concreto che i soggetti sociali hanno con i loro simboli.
Non è un rapporto definito una volta per tutte.
I simboli significano messaggi diversi a seconda dei soggetti che si rapportano a loro e persino dei luoghi, degli spazi reali o immaginari in cui i simboli si collocano.
Da antropologa mi è stato possibile constatare che i crocifissi sono quasi del tutto spariti dalle abitazioni, dove era possibile incontrarli come presenze forti, collocati a capo del letto e accompagnati dal ramo d’ulivo pasquale, segno di resurrezione.
Crocifissi collocati a capo del letto.
Ma perché proprio lì? È un etica diversa quella che si costruisce, almeno in Italia, nel secondo dopoguerra.
Un’etica che connetteva anche spazialmente e visivamente la casa con la chiesa, un’etica che trasformava il letto in luogo sacrificale in cui tutto si consumava tragicamente, dal nascere al morire.
Ora si nasce e si muore in altri luoghi.
Il letto non è più un altare e il luogo dell’amplesso si va trasformando anche con una affermazione, in positivo, dell’etica del piacere, l’esatto contrario dell’etica sacrificale che vedeva nel morto in croce il proprio centro.
A un certo punto, però, i crocifissi sono spariti dalle nostre stanze da letto.
Quando e perché? L’espulsione dalle pareti domestiche è avvenuta parallelamente al boom dei consumi e alla costruzione di altri modelli di vita familiare e domestica.
Peraltro, sono state mani concrete di persone quelle che hanno staccato questi sacri simboli dai luoghi in cui si trovavano per riporli altrove e dimenticarli in qualche ripostiglio.
Di questo ho scritto in «Croce e delizia».
Di una delle facce della medaglia, cioè, che si connette – per differenziarsi – all’altro aspetto, quello severo, drammatico, ufficiale che consiste nell’imposizione per legge del simbolo sacro cristiano all’interno degli spazi pubblici, argomento trattato ne «Il ritorno delle croci».
Sono due chiavi molto diverse, quella del privato e quella del pubblico e quella del pubblico si afferma attraverso atti che sono essenzialmente di natura politica.
In molti commentano la sentenza di Strasburgo come un «attentato» alle radici cristiane dell’Europa.
Non crede che la questione delle «radici» sia più complessa? Io credo che le radici cristiane esistano ma sono fluide, morbide, acquatiche e si sono sviluppate in direzioni molto diverse concorrendo, ciascuna a modo suo, a costruire il nostro panorama culturale.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sembra un po’ meno dibattuta.
Forse sbaglio ma mi sembra che chi parla di radici cristiane intenda sotto sotto e in modo mascherato dire radici cattoliche.
Radici cristiane verrebbero così a significare primato intellettuale e morale della chiesa cattolica.
Parlare di Europa cristiana senza tener conto delle guerre di religione, delle secessioni che hanno portato alla formazione di nuove chiese evangeliche, tacere tutto questo mi sembra un’operazione molto pericolosa.
Può farci un esempio? In questi giorni a Roma, a palazzo Venezia, è visitabile una grandiosa mostra titolata «Il potere e la grazia» che concerne il culto dei santi.
Non entro in merito ai discutibili criteri di scelta e organizzazione delle immagini.
Mi ha colpito però notare che già la prima fase di illustrazione ai materiali esposti concernesse le radici cristiane d’Europa.
Tutta la mostra espone una certa iconografia di santi cattolici più un certo numero di icone provenienti da chiese cristiane d’Oriente.
Termina inoltre con l’esposizione di uno splendido cavaliere armato che schiaccia la testa al Moro.
Sostenendo, sempre nelle spiegazioni, che l’immagine del cavaliere risignificasse le varie culture locali unificandole nelle diversità.
Bene, non ho visto in questa mostra alcun accenno al fatto che la grande contesa che dilaniò l’Europa opponendo i cosiddetti «protestanti» alla chiesa romana, toccò assieme alla questione della cristologia generale e del potere papale anche quella del culto dei santi, bollato di idolatria.
Torniamo al crocifisso.
Nel suo «Il ritorno delle croci», lei ricostruisce la storia di due grandi azioni simboliche compiute da Mussolini.
Ce ne parla? Sì, in quel libro parlo di quella che si chiamò «la restituzione delle croci», croci che erano state tolte dai luoghi laici più significativi della città di Roma quali il Campidoglio e il Colosseo.
Queste restituzioni si accompagnarono a grandi manifestazioni di folla – naturalmente organizzata – cui parteciparono autorità politiche e religiose e che segnarono la conclusione di tutta una storia pregressa che aveva visto togliere in vari modi il simbolo dai luoghi pubblici negli anni dell’affermazione di Roma capitale, quindi poco dopo il 1870.
Il cardinale Kasper ai credenti: “Non dormite, alzate la voce” intervista al cardinale Walter Kasper, a cura di Gian Guido Vecchi in “Corriere della Sera” del 4 novembre 2009 «Sa cosa penso, tutto sommato? Che noi cristiani stiamo dormendo.
Questa manifestazione di secolarismo aggressivo dovrebbe essere un segnale per svegliarci e alzare un po’ la voce».
Il cardinale Walter Kasper, 76 anni, presidente del pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, è una persona mite, finissimo teologo che fu assistente di Leo Scheffczyk e di Hans Küng e ha guidato le facoltà di Münster e Tubinga, insegnato a Washington, pubblicato opere tradotte in tutto il mondo come Il Dio di Gesù Cristo , un uomo di dialogo (da anni tiene per la Chiesa i rapporti con le altre confessioni cristiane e con gli ebrei) aperto al mondo laico e ai non credenti.
Essere miti, però, non significa dormire, sorride: «In alcuni ambienti europei, a Strasburgo e Bruxelles, vogliono costruire una realtà che non sarebbe più Europa, perché senza cristianesimo l’Europa non è.
Tale tendenza antistorica esiste, ha potere, e questo non si può tollerare: anche i politici che si dicono cristiani dovrebbero parlare…».
Per dire cosa, eminenza? «Nel centro di tutte le antiche città d’Europa c’è una cattedrale, vogliono abolire anche le cattedrali? Sono costernato all’idea che un tribunale europeo abbia potuto prendere una decisione del genere.
È radicalmente antieuropea.
Se si viaggia dalla Spagna all’Estonia e fino a Mosca, dappertutto si trova la Croce: dice la nostra cultura, è l’eredità comune che ha unito il continente, non si possono negare così le proprie radici».
La sentenza parla di «violazione della libertà religiosa»…
«Togliere il crocifisso dalle aule, semmai, è una violazione del sentire della maggioranza: i cristiani sono e restano la gran parte, soprattutto in Italia, e la maggioranza non può essere orientata dalla minoranza.
Ma non si tratta tanto di questo.
È chiaro che per noi cristiani è essenzialmente un simbolo religioso.
Oltre a questo, però, la Croce è un simbolo culturale».
A quanto pare, però, c’è chi si sente offeso…
«Il crocifisso è un segno di carità e di benevolenza, non può essere offensivo, non minaccia nessuno.
Dice l’amore e la misericordia di Dio, una misericordia che è per tutti, anche per i non credenti».
Ma la laicità? «La laicità è legittima, viviamo in una società pluralista nella quale convivono diverse fedi e idee, dobbiamo avere tolleranza e rispetto verso gli altri.
Questa decisione, tuttavia, è molto strana, non esprime laicità ma ideologia, un laicismo che si fa intollerante: voler togliere il crocifisso è intollerante».
Non c’è anche una responsabilità di chi ha stravolto e usato la Croce come un segno «contro» gli altri? «È vero, spesso nella storia è stata usata in questo modo.
Ma non credo che oggi nessuno possa intenderla così.
No, ciò che resta dopo aver tolto i simboli è il vuoto.
Il vuoto! È questo il senso della secolarizzazione? Che non c’è più nulla? Ma che cosa vuol dire?».
Il Papa, in volo verso Praga, diceva che le «minoranze creative determinano il futuro» e la Chiesa «deve comprendersi come minoranza creativa».
È questo il destino dei cristiani in Europa? «La Repubblica Ceca è un caso straordinario, ma nel resto d’Europa i cristiani non sono una minoranza: restano una grande maggioranza con una grande eredità culturale.
La Croce dice da dove veniamo, ha unito il continente, ci sono Stati come la Svizzera o la Svezia che l’hanno nella bandiera, un simbolo religioso divenuto simbolo nazionale! Ripeto: che cosa sarebbe l’Europa se i cristiani non ci fossero più? Non sarebbe più Europa».
Diceva che i cristiani devono «svegliarsi».
In che modo? «Mostrando la loro presenza.
La tolleranza verso gli altri è doverosa, ma ci siamo anche noi e abbiamo i nostri diritti.
Del resto siamo in democrazia, no ? Abbiamo le elezioni.
Io mi sono sempre lamentato che così poche persone vadano a votare per eleggere il Parlamento europeo.
E i parlamentari devono rispondere a coloro che li hanno eletti».
La condanna del cardinal Re “Sentenza che lascia sgomenti” intervista al cardinale Giovanni Battista Re, a cura di Orazio La Rocca in “la Repubblica” del 4 novembre 2009 «Sorpreso, perplesso, deluso e profondamente addolorato».
Lo smarrimento con cui Oltretevere è stata accolta la notizia della sentenza di Strasburgo contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane è sintetizzabile nelle parole con cui il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi, esprime tutta la sua «delusione mista a stupore, per un pronunciamento – confessa a Repubblica pur puntualizzando di parlare a titolo personale – incomprensibile, imprevisto e che non può non lasciare sgomenti».
Inequivocabili parole di condanna che il porporato – uno dei più influenti e riservati cardinali della Curia pontificia – pronunzia con estrema fermezza, senza tuttavia nascondere la speranza che il ricorso alla sentenza subito annunciato dal governo italiano possa vanificare in un futuro più o meno prossimo il pronunciamento della Corte europea.
«E meno male – commenta infatti il porporato riferendosi alle reazioni che sono state fatte a caldo dopo il pronunciamento di Strasburgo – che almeno le autorità governative italiane hanno immediatamente fatto sapere che si opporranno a questa decisione.
Ora occorrerà vedere come, in concreto, tutta la questione evolverà».
Cardinale Giovanni Battista Re, si sarebbe mai aspettato una sentenza che impone alle autorità del nostro paese di togliere i crocifissi dalle scuole pubbliche? Senza escludere che analoghe richieste si potranno fare anche per altri luoghi pubblici «No.
In verità, non me lo aspettavo proprio, come del resto qualsiasi persona di buon senso.
Per questo dico che è una sentenza che non riesco a capire.
Quando penso, poi, che qui si parla di un simbolo, il crocifisso, immagine che non può non essere emblema di umanità condivisa universalmente, nel mio animo accanto alla delusione prendono forma anche sentimenti di tristezza e dolore».
Perché così deluso? I giudici di Strasburgo forse hanno semplicemente preso atto del carattere multietnico e multireligioso verso cui si sta evolvendo la società europea.
«E invece io non posso non ribadire il mio grande stupore per quanto è stato deciso.
Dico questo perché temo che i giudici non hanno tenuto conto che il crocifisso è un simbolo universale di valori che stanno alla base della nostra identità europea.
E’ l’emblema della tradizione cristiana su cui si fonda la nostra civiltà».
Ma – al di là degli aspetti religiosi – il crocifisso cosa può rappresentare oggi per chi cristiano non è, segue altre religioni o non professa nessuna fede? «Il crocifisso è il segno di un Dio che ama l’uomo fino a dare la sua vita per lui.
E’ un Dio che ci educa all’amore, alla attenzione per ogni uomo, specialmente il più debole ed indifeso, e al rispetto verso gli altri, anche verso coloro i quali appartengono a culture o religioni diverse.
Come non condividere un simbolo così pieno di senso e di significato che ogni uomo di buona volontà in coscienza non può non capire e accettare?».
I giudici di Strasburgo fanno, però, riferimento al fatto che negli edifici pubblici, e quindi anche nelle scuole, la laicità è un valore da tutelare per il bene di tutti, credenti e non credenti.
«I veri sostenitori della laicità non devono dimenticare che l’autore del primo messaggio di laicità è stato proprio Gesù Cristo quando ha detto: ‘Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio’.
Non va poi ulteriormente dimenticato il fatto che la sana laicità include anche il rispetto profondo della coscienza di tutti e di ciascuno, e che il difensore della coscienza umana è stato proprio Cristo, crocifisso e risorto per l’umanità intera».
La battaglia su un simbolo di Stefano Rodotà in “la Repubblica” del 4 novembre 2009 Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.
Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale.
E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s’era parlato addirittura di una “fuga della Corte”, nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.
Nella decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non v’è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l’importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni.
La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione.
Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un “segno esteriore forte” della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, “possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna”.
Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori.
È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d’ogni diritto.
Non si può ricorrere, infatti, all’argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.
Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l’istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate.
Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev’essere ancor più sincera».
La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.
Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l’identità europea, che è “sintomo di una dittatura del relativismo”, addirittura “un colpo mortale all’Europa dei valori e dei diritti”.
Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato.
Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una “corte europea ideologizzata”, si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici “rossi”, che tanti guai sta procurando al nostro paese.
Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte “laicista” cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.
Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa.
In questo è la sua superiore laicità.
Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi.
L’ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell’Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell’Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell’uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a “radici cristiane”, che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l’Europa, anche intorno all’eguale diritto di tutti e di ciascuno.
Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza? Questa sentenza ci porta verso un’Europa più ricca, verso un’Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all’educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti.
Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d’ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato).
L’Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.
Nessuna legge lo prevede di Michele Ainis in “La Stampa” del 4 novembre 2009 Doveva arrivare un giudice d’Oltralpe per liberarci da un equivoco che ci portiamo addosso da settant’anni e passa.
In una decisione che s’articola lungo 70 punti (non proprio uno scarabocchio scritto in fretta e furia) ieri la Corte di Strasburgo ha messo nero su bianco un elenco di ovvietà.
Primo: il crocifisso è un simbolo religioso, non politico o sportivo.
Secondo: questo simbolo identifica una precisa religione, una soltanto.
Terzo: dunque la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede, o altrimenti a chi non ne ha nessuna.
Quarto: la supremazia di una confessione religiosa sulle altre offende a propria volta la libertà di religione, nonché il principio di laicità delle istituzioni pubbliche che ne rappresenta il più immediato corollario.
Significa che fin qui ci siamo messi sotto i tacchi una libertà fondamentale, quella conservata per l’appunto nell’art.
9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo? Non sarebbe, purtroppo, il primo caso.
Ma si può subito osservare che nessuna legge della Repubblica italiana impone il crocifisso nelle scuole.
Né, d’altronde, nei tribunali, negli ospedali, nei seggi elettorali, nei vari uffici pubblici.
Quest’obbligo si conserva viceversa in regolamenti e circolari risalenti agli Anni Venti, quando l’Italia vestiva la camicia nera.
Fu introdotto insomma dal Regime, ed è sopravvissuto al crollo del Regime.
Non è, neppure questo, un caso solitario: basta pensare ai reati di vilipendio, agli ordini professionali, alle molte scorie normative del fascismo che impreziosiscono tutt’oggi il nostro ordinamento.
Ma quantomeno in relazione al crocifisso, la scelta normativa del Regime deve considerarsi in sintonia con la Costituzione all’epoca vigente.
E infatti lo Statuto albertino, fin dal suo primo articolo, dichiarava che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».
Da qui figli e figliastri, come sempre succede quando lo Stato indossa una tonaca in luogo degli abiti civili.
Ma adesso no, non è più questa la nostra divisa collettiva.
L’art.
8 della Carta stabilisce l’eguale libertà delle confessioni religiose, e stabilisce dunque la laicità del nostro Stato.
Curioso che debba ricordarcelo un giudice straniero.
Domanda: ma l’art.
7 non cita a sua volta il Concordato? Certo, e infatti la Chiesa ha diritto a un’intesa normativa con lo Stato italiano, a differenza di altre religioni (come quella musulmana) che ancora ne risultano sprovviste.
Però senza privilegi, neanche in nome del seguito maggioritario del cattolicesimo.
D’altronde il principio di maggioranza vale in politica, non negli affari religiosi.
E d’altronde la stessa Chiesa venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli.
Se una religione è forte, se ha fede nella sua capacità di suscitare fede, non ha bisogno di speciali protezioni.
Il crocifisso e la caccia ai simboli che provoca soltanto danni di Alberto Melloni in “Corriere della Sera” del 4 novembre 2009 Torna per la millesima volta la querelle del crocifisso in aula.
Stavolta per una sentenza europea che arriva dopo che la Corte Costituzionale e la giustizia amministrativa avevano stroncato anni fa l’ennesimo tentativo di fare di quella scultura in stile Guido Reni l’oggetto di un c

Un ecumenismo nutrito dalla fedeltà alla tradizione.

Dichiarazione congiunta dell’arcivescovo di Westminster e dell’arcivescovo di Canterbury L’annuncio odierno della costituzione apostolica è una risposta di papa Benedetto XVI a numerose  richieste alla Santa Sede avanzate, negli ultimi anni, da gruppi di anglicani che desiderano entrare in comunione piena e visibile con la Chiesa cattolica e desiderano dichiarare che condividono una comune fede cattolica e accettano il ministero petrino, come voluto da Cristo per la sua Chiesa.
Papa Benedetto XVI ha approvato, nella costituzione apostolica, una struttura canonica che garantisce ordinariati personali, i quali permetteranno a personegià anglicane di entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica pur preservando elementi del peculiare patrimonio spirituale anglicano.
L’annuncio di questa costituzione apostolica pone fine a un periodo di incertezza per questi gruppi che hanno nutrito speranze di nuove modalità per ottenere l’unità con la Chiesa cattolica.
Spetterà ora a chi ha avanzato richieste alla Santa Sede rispondere alla costituzione apostolica.
La costituzione apostolica è un ulteriore riconoscimento della sostanziale coincidenza nella fede, nella dottrina e nella spiritualità della Chiesa cattolica e della tradizione anglicana.
Senza i dialoghi degli scorsi quarant’anni, questo riconoscimento non sarebbe stato possibile né si sarebbero nutrite speranze di unità piena e visibile.
In tal senso, questa costituzione apostolica è una conseguenza del dialogo ecumenico fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana.
Il dialogo ufficiale in corso fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana offre la base per una cooperazione permanente.
Gli accordi fra la Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica (ARCIC) e la Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica per l’Unità e la Missione (IARCCUM) rendono libero il cammino che percorreremo insieme.
Con la grazia di Dio e la preghiera siamo determinati a far sì che il nostro continuo impegno reciproco e le nostre consultazioni su queste e su altre materie continuino a essere rafforzati.
A livello locale, nello spirito della IARCCUM, desideriamo basarci sul modello di incontri comuni tra la conferenza episcopale cattolica dell’Inghilterra e del Galles e la House of Bishops della Church of England, concentrandoci sulla nostra missione comune.
Giornate comuni di riflessione e di preghiera sono cominciate a Leeds nel 2006, sono continuate a Lambeth nel 2008 e ulteriori incontri sono in preparazione.
Questa stretta cooperazione proseguirà man mano che cresceremo insieme nell’unità e nella missione, nella testimonianza del Vangelo nel nostro paese e nella Chiesa in generale.
Londra, 20 ottobre 2009 Vincent Gerard Nichols Arcivescovo di Westminster Dr Rowan Williams Arcivescovo di Canterbur Informazioni contestuali Sin dal secolo XVI, quando il Re Enrico VIII dichiarò l’indipendenza della Chiesa d’Inghilterra dall’autorità del Papa, la Chiesa d’Inghilterra creò le proprie confessioni dottrinali, usanze liturgiche e pratiche pastorali, incorporando spesso idee della Riforma avvenuta sul continente europeo.
L’espansione del Regno Britannico, congiunta all’apostolato missionario anglicano, comportò poi la nascita di una Comunione Anglicana a livello mondiale.
Nel corso dei 450 e più anni della sua storia, la questione della riunione tra anglicani e cattolici non è stata mai messa da parte.
Nella metà del XIX secolo, il Movimento di Oxford (in Inghilterra) mostrò un rinnovato interesse per gli aspetti cattolici dell’anglicanesimo.
All’inizio del XX secolo, il Cardinale Mercier, del Belgio, intraprese colloqui pubblici con anglicani al fine di esplorare la possibilità di una unione con la Chiesa Cattolica sotto la bandiera di un anglicanesimo “riunito ma non assorbito”.
Il Concilio Vaticano II nutrì ulteriormente la speranza per una unione, in particolare con il Decreto sull’ecumenismo (n.
13), il quale facendo riferimento alle Comunità separate dalla Chiesa Cattolica nel tempo della Riforma, ribadì: “Tra quelle [comunioni] nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, occupa un posto speciale la Comunione Anglicana.” Sin dal Concilio i rapporti tra anglicani e cattolici romani hanno creato un migliore clima di comprensione e mutua cooperazione.
La Anglican-Roman Catholic International Commission (ARCIC) ha prodotto una serie di dichiarazioni dottrinali nel corso degli anni, nella speranza di creare la base per una piena e visibile unione.
Per molti appartenenti alle due Comunioni, le dichiarazioni dell’ARCIC hanno messo a disposizione uno strumento nel quale la comune espressione della fede può essere riconosciuta.
È in questa cornice che si deve inquadrare il nuovo provvedimento.
Negli anni successivi al Concilio, alcuni anglicani hanno abbandonato la tradizione di conferire gli Ordini Sacri soltanto agli uomini chiamando al presbiterato e all’episcopato anche donne.
Più recentemente, alcuni segmenti della Comunione Anglicana si sono allontanati dal comune insegnamento biblico circa la sessualità umana – già chiaramente espresso nel documento dell’ARCIC “Vita in Cristo” – conferendo gli Ordini Sacri a chierici apertamente omosessuali e benedicendo le unioni tra persone dello stesso sesso.
Nondimeno, mentre la Comunione Anglicana deve affrontare queste nuove e difficili sfide, la Chiesa Cattolica rimane pienamente impegnata nel suo dialogo ecumenico con la Comunione Anglicana, in particolare attraverso l’attività del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Nel frattempo molti anglicani sono entrati individualmente nella piena comunione con la Chiesa Cattolica.
Talvolta sono entrati anche gruppi di anglicani, conservando una certa struttura “corporativa”.
Ciò è avvenuto, ad esempio, per la diocesi anglicana di Amritsar in India e per alcune singole parrocchie negli Stati Uniti che, pur mantenendo un’identità anglicana, sono entrate nella Chiesa Cattolica nel quadro di un cosiddetto “provvedimento pastorale”, adottato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e approvato da Papa Giovanni Paolo II nel 1982.
In questi casi, la Chiesa Cattolica ha frequentemente dispensato dal requisito del celibato ammettendo che quei chierici anglicani coniugati che desiderano continuare il servizio ministeriale come sacerdoti cattolici siano ordinati nella Chiesa Cattolica.
In questo contesto, gli Ordinariati Personali istituiti secondo la suddetta Costituzione Apostolica possono essere visti come un ulteriore passo verso la realizzazione dell’aspirazione per la piena e visibile unione nella unica Chiesa, che è uno dei fini principali del movimento ecumenico.
Congregazione per la Dottrina della Fede Roma, 20 ottobre 2009 Fino a ieri passavano alla Chiesa cattolica uno alla volta, i preti e vescovi della Comunione anglicana che si sentivano più d’accordo col papa di Roma che con le derive “moderniste” dell’anglicanesimo.
Negli Stati Uniti, per regolare tali passaggi, dal 1980 era in vigore una “Pastoral Provision” scritta dalla congregazione per la dottrina della fede e approvata da Giovanni Paolo II.
Grazie ad essa sono passati alla Chiesa cattolica circa ottanta preti anglicani, quasi tutti con moglie e figli.
E due anni fa anche un vescovo, Jeffrey Steenson, accolto con una cerimonia celebrata nella basilica romana di Santa Maria Maggiore.
Steenson, 57 anni, sposato con tre figli, è stato ordinato sacerdote e incardinato nella diocesi di Santa Fe, dove insegna patrologia in seminario.
A questi preti e vescovi hanno fatto seguito anche gruppi di fedeli, per loro decisione spontanea.
L’unico caso di passaggio in blocco di un’intera diocesi anglicana alla Chiesa cattolica è stato finora quello di Amritsar, nel Punjab indiano.
Si è verificato nel 1975.
Da oggi in avanti, però, le migrazioni collettive dall’anglicanesimo al cattolicesimo saranno un fatto non più eccezionale ma normale, grazie alla costituzione apostolica che Benedetto XVI si appresta a pubblicare.
La costituzione papale è ancora in fase di messa a punto.
Sarà pubblicata forse tra due settimane.
Ma il suo annuncio è già stato dato in forma solenne la mattina del 20 ottobre, in due conferenze stampa contemporanee: una a Roma, con il cardinale William Levada, prefetto della congregazione per dottrina della fede, e una a Londra, con l’arcivescovo cattolico di Westminster, Vincent G.
Nichols, e con il primate della Comunione anglicana, Rowan Williams (nella foto dell’Associated Press).
A Londra i due arcivescovi, cattolico e anglicano, hanno anche emesso una dichiarazione congiunta.
Altro elemento di indubbia novità.
Di solito, infatti, quando qualcuno abbandona una confessione cristiana e ne abbraccia un’altra, se ne va sbattendo la porta.
Questa volta, invece, è come se il passaggio sia benedetto di comune accordo dalle due parti.
Una sintonia che fa pensare a quanto sarebbe oggi vicina la riconciliazione tra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana se solo in quest’ultima non avesse avuto il via libera l’ordinazione al sacerdozio e all’episcopato di donne e di omosessuali conviventi, con le conseguenti drammatiche divisioni tra chi è d’accordo e chi no.
Una volta pubblicata la costituzione apostolica, le parrocchie e le diocesi anglicane che in questi ultimi anni hanno bussato a Roma per essere accolte nella Chiesa cattolica – dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti, dall’Australia e da altri paesi – potranno farlo nelle modalità indicate nella stessa costituzione.
I sacerdoti e i vescovi sposati, ricevuto l’ordine sacro, potranno riprendere a esercitare il sacerdozio, come già avviene per i sacerdoti sposati dei riti orientali, anche cattolici.
Le loro comunità faranno capo a “ordinariati personali” retti da vescovi non sposati ma celibi, anche qui in linea con la prassi costante delle Chiese cattoliche e ortodosse.
Per le liturgie continuerà a valere il rituale anglicano, peraltro già molto simile a quello cattolico.
Si calcola che in lista di attesa vi siano circa trenta vescovi e un centinaio di preti, con le rispettive comunità.
Metro di misura della conversione sarà l’accettazione del primato del papa e la condivisione della dottrina espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica.
In ogni caso, le comunità pronte a passare alla Chiesa cattolica fanno parte dell’ala “tradizionalista” della Comunione anglicana.
Così come tradizionaliste sono le comunità scismatiche lefebvriane con le quali Benedetto XVI sta intensificando gli sforzi perché rientrino nell’obbedienza di Roma.
E così come attaccate alla grande tradizione sono le Chiese ortodosse con cui l’incontro appare più fruttuoso, con l’attuale pontefice.
Dal 16 al 23 ottobre è in corso a Cipro il secondo round – il primo è stato a Ravenna nel 2007 – del dialogo tra cattolici ed ortodossi sulla questione del primato del papa, alla luce di come fu vissuto nel primo millennio.
Oggi più che mai, con Joseph Ratzinger papa, il cammino ecumenico appare non una rincorsa alla modernità, ma un ritrovarsi sul terreno della tradizione.
Qui di seguito, la dichiarazione congiunta diffusa a Londra il 20 ottobre dai capi della Comunione anglicana e della Chiesa cattolica d’Inghilterra e del Galles, più una nota retrospettiva emessa lo stesso giorno dalla congregazione per la dottrina della fede.
Sandro Magister La Chiesa romana accoglie il dissenso.
Quello degli anglicani tradizionalisti di Ludovica Eugenio A Roma è tempo di braccia aperte.
Ma solo a destra, a quanto sembra: oltre al dialogo avviato in questi giorni con gli scismatici lefebvriani in vista di una loro reintegrazione (v.
notizia su questo stesso numero), il Vaticano ha infatti deciso di fare posto, nella Chiesa cattolica, agli anglicani tradizionalisti che hanno chiesto di esservi accolti.
Il 20 ottobre scorso è stata annunciata la creazione di Ordinariati personali guidati da un vescovo per quegli anglicani che – riuniti sotto il cartello della Anglican Traditional Communion, soprattutto in seguito agli ultimi controversi sviluppi in alcune province anglicane (sacerdozio ed episcopato alle donne e ai gay, benedizione delle unioni omosessuali) – hanno chiesto già da qualche anno di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica.
Questa disposizione è contenuta in una Costituzione Apostolica che sarà pubblicata prossimamente (si parla dei primi di novembre).
Il provvedimento, presentato in conferenza stampa dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card.
William Levada, insieme al segretario mons.
Augustine Di Noia, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha preso in contropiede tanto il mondo cattolico quanto quello anglicano: se, infatti, negli anni passati sono stati autorizzati passaggi individuali nella Chiesa cattolica, specialmente in seguito alla decisione di far accedere le donne al sacerdozio, che tanto malcontento creò in seno all’ala più conservatrice della Chiesa anglicana, in questo caso la prospettiva è quella di un passaggio di interi gruppi o diocesi.
Il provvedimento è giunto a sorpresa, mettendo in serio disagio sia l’arcivescovo cattolico di Westminster mons.
Vincent Nichols, che il primate della Chiesa anglicana Rowan Williams, che da molto tempo sta tentando di salvare la Comunione anglicana dalla minaccia di uno scisma interno (ultimo, in ordine di tempo, l’intervento di Williams del luglio scorso, v.
Adista n.
91/09), per le logoranti tensioni che allontanano ogni giorno di più le diverse anime dell’anglicanesimo.
In una lettera scritta a vescovi e clero, Williams rivela tutto il suo sconcerto: “Mi dispiace – scrive – che non vi sia stata l’opportunità di avvertirvi prima.
Io stesso sono stato informato di questo annuncio molto tardi”.
Lo stesso 20 ottobre, in un comunicato stampa congiunto – evento, questo, del tutto singolare – i due leader religiosi inglesi hanno però cercato di dissimulare la propria sorpresa, affermando che “la Costituzione apostolica è un’ulteriore riconoscimento della sovrapposizione sostanziale tra Chiesa cattolica e tradizione anglicana per quanto riguarda la fede, la dottrina, e la spiritualità” e definendo il documento vaticano “conseguenza del dialogo ecumenico” condotto tra le due confessioni nel corso degli anni.
Gli anglicani che “passano” alla Chiesa cattolica – spiegano i due arcivescovi – “desiderano dichiarare che condividono una comune fede cattolica e accettano il ministero petrino così come voluto da Cristo per la sua Chiesa”: espressione, questa, che ha fatto fare un balzo sulla sedia a più di un anglicano, che vi ha visto una “capitolazione” di Williams al papa.
Ma per Williams l’annuncio del Vaticano non cambia le carte in tavola con la Chiesa cattolica: questo sviluppo non è, ha scritto nella lettera prima citata, “tesa a minacciare le relazioni esistenti tra le nostre due comunioni e non è un atto di proselitismo o di aggressione”; sarebbe un grave errore, inoltre, considerarlo una risposta alle difficoltà all’interno della Chiesa anglicana.
È rivolto, invece, a persone che avevano già “raggiunto la convinzione, in coscienza, che l’unità visibile con la Chiesa cattolica era ciò a cui Dio li stava chiamando”.
La Nota vaticana diffusa il 20 ottobre spiega in sintesi la natura dell’Ordinariato personale: “In questa Costituzione Apostolica – vi si legge – il Santo Padre ha introdotto una struttura canonica che provvede ad una tale riunione corporativa tramite l’istituzione di Ordinariati Personali, che permetteranno ai fedeli già anglicani di entrare nella piena comunione con la Chiesa Cattolica, conservando nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano”.
Concretamente, essa prevede “la possibilità dell’ordinazione di chierici sposati già anglicani come sacerdoti cattolici”, anche se, per ragioni storiche che abbracciano tanto la Chiesa cattolica quanto quella ortodossa, l’Ordinario dovrà essere un sacerdote o un vescovo non sposato (e dunque non potrà esserlo l’attuale leader della Traditional Anglican Communion, il vescovo anglicano australiano John Hepworth, ex prete cattolico, sposato due volte).
Quanto ai seminaristi, essi potranno ricevere la loro formazione accanto a quelli cattolici oppure in istituti separati.
Gli Ordinariati, si legge nella Nota, saranno istituiti previa consultazione con le Conferenze episcopali dei singoli Paesi e avranno una struttura simile a quella degli Ordinariati militari, senza chiedere la rinuncia ad un carattere prettamente anglicano nella spiritualità e nella liturgia: essa darà ai membri, ha garantito Levada, “l’opportunità di preservare quelle tradizioni anglicane che sono preziose per loro e conformi con la fede cattolica.
In quanto esprimono in un modo distinto la fede professata comunemente, tali tradizioni sono un dono da condividere nella Chiesa universale.
L’unione con la Chiesa non richiede l’uniformità che ignora le diversità culturali, come dimostra la storia del cristianesimo”.
Intanto, anche la Chiesa ortodossa in Italia, sulla scia della decisione presa dal Vaticano, ha deciso, “a fronte delle diverse sollecitazioni pervenute da membri di comunità anglicane e vetero-cattoliche italiane ed europee”, di avviare una pastorale per quei cristiani provenienti dall’anglicanesimo e dal vetero-cattolicesimo che desiderino ritornare all’Ortodossi a.
In una nota del 22 ottobre scorso, il Metropolita Basilio, primate della Chiesa ortodossa italiana, ricorda che “le Chiese ortodosse mantengono la piena successione apostolica e da sempre ammettono gli uomini sposati al sacerdozio: molte comunità di origine anglicana e vetero-cattolica sono rette da chierici sposati, che pertanto non avrebbe difficoltà a sottostare alla disciplina seguita anche dalla Chiesa ortodossa in Italia”.
in “Adista” – Notizie – n.
108 del 31 ottobre 2009 Quel Papa che pesca nell´acqua di destra di Hans Küng È una tragedia: dopo le offese già arrecate da Papa Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti, ora è la volta della Comunione Anglicana.
Essa conta pur sempre 77milioni di aderenti ed è la terza confessione cristiana, dopo la chiesa cattolica romana e quella ortodossa.
Cosa è successo? Dopo aver reintegrato l´antiriformista Fraternità San Pio X, ora Benedetto XVI vorrebbe rimpolpare le schiere assottigliate dei cattolici romani anche con anglicani simpatizzanti di Roma.
I sacerdoti e i vescovi anglicani dovrebbero potersi convertire più facilmente alla chiesa cattolica, mantenendo il proprio status, anche di sposati.
Tradizionalisti di tutte le chiese, unitevi – sotto la cupola di San Pietro! Vedete: il pescatore di uomini pesca soprattutto sulla sponda destra del lago.
Ma lì l´acqua è torbida.
Questo atto romano rappresenta niente meno che un drastico cambio di rotta: via dalla consolidata strategia ecumenica del dialogo diretto e di una vera riconciliazione.
E verso una pirateria non ecumenica di sacerdoti, cui viene persino risparmiato il medioevale obbligo di celibato, solo per render loro possibile un ritorno a Roma sotto il primato papale.
Chiaramente l´attuale arcivescovo di Canterbury, il Dr.
Rowan Williams, non era all´altezza della scaltra diplomazia vaticana.
Nel suo voler ingraziarsi il Vaticano apparentemente non ha compreso le conseguenze della pesca papale in acque anglicane.
In caso contrario non avrebbe firmato il comunicato minimizzante dell ´arcivescovo cattolico di Westminster.
Le prede nella rete di Roma non capiscono che nella chiesa cattolica romana saranno solo preti di seconda classe, e che alle loro funzioni i cattolici non possono partecipare? Il comunicato fa sfacciatamente riferimento ai documenti realmente ecumenici della Anglican Roman Catholic International Commission (Arcic), elaborati in anni e anni di laboriosi negoziati tra il romano Segretariato per l´Unione dei Cristiani e l´anglicana Conferenza di Lambeth: sull ´Eucarestia (1971), sull´ufficio e l´ordinazione (1973) nonché sull´autorità nella Chiesa (1976/81).
Gli esperti però sanno che questi tre documenti, a suo tempo sottoscritti da entrambe le parti, non sono mirati alla pirateria, bensì alla riconciliazione.
Questi documenti di vera riconciliazione offrono infatti la base per il riconoscimento delle ordinazioni anglicane, delle quali Papa Leone XIII nel 1896 aveva negato la validità con argomentazioni poco convincenti.
Dalla validità delle ordinazioni anglicane deriva anche la validità delle celebrazioni eucaristiche anglicane.
Sarebbe così possibile una reciproca ospitalità eucaristica, una intercomunione, un lento processo di unificazione tra cattolici e anglicani.
Ma la vaticana Congregazione per la dottrina della fede fece all´epoca in modo che questi documenti di riconciliazione sparissero il più rapidamente possibile nelle segrete del vaticano.
«Chiudere nel cassetto», si dice.
«Troppa teologia küngiana», recitava all´epoca un comunicato riservato della agenzia di stampa cattolica Kna.
In effetti avevo dedicato l´edizione inglese del mio libro «La Chiesa» all´allora Arcivescovo di Canterbury, Dr.Michael Ramsey in data 11 Ottobre 1967, quinto anniversario dell´apertura del concilio Vaticano secondo: nella «umile speranza che nella pagine di questo libro si ponga una base teologica per un accordo tra le chiese di Roma e Canterbury».
Vi si trova anche la soluzione alla spinosa questione del primato del papa, che da secoli divide queste due chiese, ma anche Roma dalle chiese dell´Est e dalle chiese riformiste.
Una «Ripresa della comunità ecclesiale tra la chiesa cattolica e la chiesa anglicana sarebbe possibile», se «da un lato alla chiesa d´Inghilterra fosse garantito di poter mantenere il proprio attuale ordine ecclesiale sotto il primato di Canterbury e dall´altro la chiesa d´Inghilterra riconoscesse il primato pastorale del soglio di Pietro come istanza superiore di mediazione e conciliazione tra le Chiese».
«Così», speravo io all´epoca, «dall´impero romano nascerà un Commonwealth cattolico!» Ma papa Benedetto vuole assolutamente restaurare l´impero romano.
Alla Comunione Anglicana non fa alcuna concessione, intende piuttosto mantenere per sempre il centralismo medioevale romano, – anche se impedisce un accordo delle chiese cristiane su questioni fondamentali.
Il primato del papa – dopo Papa Paolo VI bisogna ammetterlo il «grande scoglio» sulla via verso l ´unità della chiesa – non agisce apparentemente come «Pietra dell´unità».
Torna in auge il vecchio invito al «ritorno a Roma», ora attraverso la conversione soprattutto di sacerdoti, possibilmente in massa.
A Roma si parla di mezzo milione di anglicani con venti o trenta vescovi.
E gli altri 76 milioni? Una strategia dimostratasi fallimentare nei secoli passati e che condurrà nel migliore dei casi alla nascita di una minichiesa anglicana «unita» a Roma in forma di diocesi personali (non territoriali).
Ma quali sono le conseguenze odierne di questa strategia? 1.
Ulteriore indebolimento della chiesa anglicana: In Vaticano gli antiecumenici giubilano per l ´afflusso di conservatori, nella chiesa anglicana i liberali esultano per l´esodo di disturbatori simpatizzanti cattolici.
Per la chiesa anglicana questa scissione implica un´ulteriore corrosione.
Essa soffre già in conseguenza della nomina inutilmente osteggiata di un pastore dichiaratamente omosessuale a vescovo in Usa – effettuata mettendo in conto lo scisma della sua diocesi e dell ´intera comunità anglicana.
La corrosione è stata rafforzata dall´atteggiamento discordante dei vertici ecclesiastici nei confronti delle coppie omosessuali: alcuni anglicani accetterebbero senz ´altro la registrazione civile con ampie conseguenze giuridiche (tipo diritto di successione) e con eventuale benedizione ecclesiastica, ma non un «matrimonio» (da millenni termine riservato all ´unione tra uomo e donna) con diritto di adozione e conseguenze imprevedibili per i figli.
2.
Generale disorientamento dei fedeli anglicani: L´esodo dei sacerdoti anglicani e la proposta loro nuova ordinazione nella chiesa cattolica romana solleva per molti fedeli (e pastori) anglicani un pesante interrogativo: l´ordinazione dei sacerdoti anglicani è valida? E i fedeli dovrebbero convertirsi alla chiesa cattolica assieme al loro pastore? Che ne è degli immobili ecclesiatici e degli introiti dei pastori? 3.
Sdegno del clero e del popolo cattolico.
L´indignazione per il persistere del no alle riforme si è diffusa anche tra i più fedeli membri della chiesa.
Dopo il Concilio molte conferenze episcopali, innumerevoli pastori e credenti hanno chiesto l´abrogazione del divieto medioevale di matrimonio per i sacerdoti, che sottrae parroci già quasi a metà delle nostre parrocchie.
Ma non fanno che urtare contro il rifiuto caparbio e ostinato di Ratzinger.
Ed ora i preti cattolici devono tollerare accanto a sé pastori convertiti sposati? Cosa devono fare i preti che desiderano il matrimonio, forse farsi prima anglicani, sposarsi, e poi ripresentarsi? Come già nello scisma tra Oriente e Occidente (XI sec.), ai tempi della Riforma (XVI sec.) e nel primo Concilio vaticano (XIX sec.) la fame di potere di Roma divide la cristianità e nuoce alla sua chiesa.
Una tragedia.
in “la Repubblica” del 28 ottobre 2009 Porte aperte agli anglicani di Jérôme Anciberro Chi sono questi anglicani che presto entreranno nel grembo della Chiesa cattolica, come annunciato il 20 ottobre dalla Congregazione romana per la dottrina della fede? I membri della Traditional Anglican Communion (Comunione anglicana tradizionale, TAC), sarebbero la versione anglicana dei lefebvriani cattolici, come suggeriscono certi commentatori colpiti dalla coincidenza con l’inizio delle discussioni dottrinali tra Roma e gli integralisti della Fraternità San Pio X? Certamente no.
La dissidenza, o in ogni caso, la differenza, non ha nulla di straordinario per gli anglicani.
Diverse sensibilità (anglo-cattolica, calvinista, evangelica) hanno sempre coabitato in seno alla Comunione anglicana che è diretta solo simbolicamente dall’arcivescovo di Canterbury.
Numerose correnti protestanti (metodisti, in parte i battisti…) provengono dall’anglicanesimo.
Neanche i passaggi di laici o di preti anglicani al cattolicesimo sono rari.
Il grande teologo cattolico e cardinale John Henry Newman (1801-1890) era un ex prete anglicano.
Identità Da una trentina d’anni sono i problemi di morale sessuale (omosessualità in particolare) e dei ministeri (ordinazione delle donne), più dei problemi liturgici o dogmatici ad essere al centro dei dibattiti nell’anglicanesimo e ad aver ampiamente determinato le opposizioni interne, giungendo a determinare l’uscita dalla Comunione anglicana.
La TAC, che ci tiene alla sua identità anglocattolica e raggruppa solo alcune decine di migliaia di fedeli (essa stessa ne annuncia 400 000 (1) ), è quindi uno dei molteplici raggruppamenti di Chiese che hanno rotto con la Comunione anglicana a partire dalla metà degli anni ’70 a proposito dell’ordinazione delle donne.
Ma anche buona parte delle Chiese rimaste nella Comunione anglicana, che siano di sensibilità anglo-cattolica o protestante, condividono le visioni dei secessionisti su questa stessa questione e su altre (rifiuto delle benedizioni di coppie omosessuali, per esempio).
L’incontro dei Global South Anglicans, che raggruppano in seno alla Comunione anglicana le Chiese del Sud (tra le altre…) che rifiutano le innovazioni delle Chiese del Nord, ha tuttavia esortato i fedeli in un comunicato pubblicato il 25 ottobre a “restare fermi” sull’eredità anglicana e a proseguire la loro “vocazione comune”.
Niente indica quindi per il momento che un movimento di fondo dell’anglicanesimo “conservatore” sia in cammino verso il cattolicesimo.
Altro elemento di complessità: non sembra che i tradizionalisti della TAC abbiano il minimo problema con il Vaticano II…
Resta il fatto che la risposta positiva di Roma alla richiesta della TAC di rientrare nella Chiesa cattolica e l’annuncio di soluzioni canoniche che permettano un’accoglienza più ampia degli anglicani in generale apra delle prospettive per il cattolicesimo, per esempio sulla questione dei preti sposati, una specificità anglicana alla quale i nuovi entranti non hanno alcuna ragione di rinunciare.
Ma bisognerà aspettare la pubblicazione tra qualche giorno della costituzione apostolica annunciata da Roma per saperne di più.
(1) La Comunione anglicana invece riunisce 77 milioni di fedeli.
in “Témoignage chrétien” n° 3368 del 29 ottobre (traduzione: www.finesettimana.org Lontano dalla realtà di Giovanni Maria Vian Ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà.
A farlo è purtroppo, di nuovo, Hans Küng, il teologo svizzero suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede.
E questo benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d’un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico.
Da allora, più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI.
Come fa adesso – rilanciato con clamore in Inghilterra da “The Guardian” e in Italia da “la Repubblica”, che certo non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo – a proposito dell’annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l’entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani.
Un gesto che è volto a ricostituire l’unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un’astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra.
Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale e in alcuni tratti rasentano la comicità, ignorando volutamente i fatti e arrivando persino a dileggiare il primate anglicano, che ha firmato una dichiarazione congiunta con l’arcivescovo di Westminster.
Purtroppo però l’articolo del teologo svizzero circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI.
Per riassumere l’attuale situazione a cui sarebbe giunta con l’attuale Papa la Chiesa cattolica Küng scrive che si tratta di una tragedia.
Non occorre scomodare termini tanto iperbolici per definire il suo articolo, anche se resta molta amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico.
in “L’Osservatore Romano” del 29 ottobre 2009 La Chiesa insorge contro il teologo Küng di Orazio La Rocca «Lontano dalla realtà».
«Critiche ingiuste, aspre e senza fondamento», ma soprattutto «false e inesatte».
Se non è una scomunica nel senso più classico del termine, poco ci manca.
Anche perché, a richiamare con uno sferzante commento il teologo svizzero Hans Küng per le accuse rivolte – ieri su Repubblica – al Papa in seguito alla decisione di accogliere nella Chiesa cattolica i tradizionalisti anglicani (compresi vescovi, pastori e seminaristi sposati), è l’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede oggi in edicola.
L’altolà arriva sotto forma di editoriale pubblicato, autorevolmente, in prima pagina e firmato dal direttore del giornale vaticano, lo storico Giovanni Maria Vian, il quale – fin dalle prima battute – lamenta che «ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà».
Da qui il titolo dell’editoriale con un eloquente «Lontano dalla realtà» che, in un certo senso, controbatte l’altrettanto eloquente titolo del testo di Küng – «Quel Papa che pesca nell’acqua di destra» – nel quale si accusa, tra l’altro, Ratzinger di voler «rimpolpare» le file cattoliche aprendo le porte della Chiesa di Roma ai gruppi più reazionari e conservatori, come dimostra la cancellazione della scomunica ai vescovi lefebvriani ed ora col sì agli anglicani tradizionalisti.
Decisione, quest’ultima, definita da Küng «una tragedia» per l’ecumenismo «dopo le offese già arrecate da Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti».
Critiche, richiami ed accuse seccamente rispedite al mittente, anche se il giornale della Santa Sede non nasconde il timore che «l’articolo circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI».
Un testo scritto – per di più – da un teologo, Hans Küng, «suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede».
Un incontro clamoroso ed inatteso «benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng – ricorda Vian con una malcelata vena polemica – fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d’un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico».
«Da allora – prosegue il direttore del quotidiano pontificio – più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI».
«Come fa adesso, rilanciato con clamore in Inghilterra da The Guardian e in Italia da la Repubblica, che certo – teme Vian – non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo, a proposito dell’annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l’entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani.
Un gesto che è volto a ricostituire l’unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un’astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra».
«Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale…», conclude Vian, dopo aver espresso tutta la sua «amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico».
in “la Repubblica” del 29 ottobre 2009

Testimoni del nostro tempo: John Henry Newman

Quando Newman fu elevato alla dignità cardinalizia (1879), scelse come motto le parole cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore.
Tale motto ci presenta la figura di Newman come uomo di dialogo.
In questo contesto può essere opportuno ricordare tre caratteristiche che hanno contraddistinto l’impegno dialogico di Newman.
 La prima caratteristica è la passione per la verità.
Sin dalla sua “prima conversione” (1816) Newman cercò la luce della verità e seguì questa “luce benevola” con grande fedeltà.
Promosse il Movimento di Oxford (1833) per riportare la Chiesa d’Inghilterra alla libertà e alla verità delle origini.
Si convertì al cattolicesimo proprio perché trovò in esso la pienezza della verità (1845).
Nel suo lavoro su Lo sviluppo della dottrina cristiana scrisse:  “Vi è una verità; vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori; si deve temere l’errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l’acquisizione della verità non assomiglia in nulla all’eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla (…) Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza”.
Newman fu un appassionato ricercatore e veneratore della verità:  nell’impegno personale, nei rapporti con gli altri, nel confronto con le scienze, nella lotta contro la faziosità delle ideologie del suo tempo.
In modo lungimirante presentì il sorgere e il diffondersi di teorie relativistiche, secondo le quali si danno soltanto opinioni diverse, non verità che richiedono un assenso incondizionato.
Newman fu dominato dalla persuasione che la verità esiste, che solo dalla ricerca della verità fluisce il vero dialogo, che solo la verità ci fa autentici e liberi e ci apre la strada verso la realizzazione di noi stessi.
Tale passione per la verità spinse Newman a un costante impegno per la formazione integrale dell’uomo.
Affermò in un sermone:  “Voglio che un intellettuale laico sia religioso e un devoto ecclesiastico sia intellettuale”.
Quando gli fu affidata la responsabilità pastorale per i fedeli di Littlemore, presso Oxford, fece costruire in quel villaggio sia una scuola sia una Chiesa – segno eloquente del suo impegno per la formazione integrale delle persone.
Nel suo saggio su L’idea di Università ribadì che le molteplici dimensioni del sapere formano un tutt’uno e non possono essere separate, frammentate.
L’università ha il compito di offrire una formazione universale, non escludendo dal confronto sereno e aperto nessuna dimensione del sapere.
Per Newman fu evidente che a detta formazione universale appartiene anche quella etico-religiosa, la quale possiede una sua propria razionalità, che va rispettata, difesa e promossa.
Quanto alla formazione dei fedeli laici, che gli stava molto a cuore, Newman scrisse:  “Voglio un laicato non arrogante, non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma fatto di uomini che conoscono la loro religione, che vi entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che sanno quello che possiedono e quello che non possiedono, che conoscono la propria fede così bene che sono in grado di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da poterla difendere.
Voglio un laicato intelligente e ben istruito (…) Desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto fra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo (…) Sono sicuro che non diventerete meno cattolici familiarizzandovi con questi argomenti, purché manteniate viva la convinzione che lassù c’è Dio, e ricordiate che avete un’anima che sarà giudicata e dovrà essere salvata”.
Newman si distinse per uno straordinario impegno formativo, valorizzando pienamente lo sviluppo di tutte le scienze e ribadendo nel contempo il ruolo insostituibile che svolgono la fede e la morale per la crescita integrale della persona e per il bene della società.
L’impegno di Newman per la formazione trovò espressione in una terza caratteristica:  la sua premura di stabilire relazioni personali.
Guidando il Movimento di Oxford, ribadì l’importanza della testimonianza personale.
In tutta la sua vita accompagnò molti nel loro cammino umano e spirituale.
Scrisse più di ventimila lettere che costituiscono una prova impressionante del suo zelo per le anime, della sua capacità di dialogare e di relazionarsi con altri.
Uno dei suoi Sermoni all’Università di Oxford si intitola Il contagio personale della verità.
In tale sermone Newman parte dalla constatazione che nessuno può essere conquistato alla causa della verità con le sole argomentazioni razionali.
La verità, così scrive, “è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri o argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all’influenza personale di uomini (…) che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli”.
Newman invita tutti a occuparsi della verità sul piano della ricerca intellettuale, ma al tempo stesso sottolinea che influisce di più – sul permanere, sullo svilupparsi e sul comunicarsi della verità – colui che vive la verità e ne diventa un testimone.
Scrisse circa la forza persuasiva di un tale testimone:  “Mentre egli è sconosciuto al mondo, nell’ambito di quanti lo conoscono egli ispirerà ben altri sentimenti che non sia solita destare la mera superiorità intellettuale.
Gli uomini illustri agli occhi del mondo sono molto grandi alla distanza.
Avvicinati, rimpiccioliscono.
Ma l’attrattiva che si sprigiona da una santità ignara di essere tale è di una forza irresistibile; persuade i deboli, i timidi, gli incerti, chi è alla ricerca della verità”.
Non deve meravigliarci, pertanto, che, quando fu onorato con la porpora, Newman scelse, come motto, le parole cor ad cor loquitur.
Secondo lui, la verità viene trasmessa soprattutto cor ad cor:  in modo personale, tramite l’esempio, la fedeltà e l’amore di testimoni convinti e credibili.
Il processo di beatificazione di Newman, iniziato già nel 1958, era ormai prossimo a concludersi nel momento in cui si è celebrato il nostro convegno; a pochi mesi di distanza, in data 3 luglio 2009, Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante un miracolo, attribuito proprio all’intercessione del venerabile servo di Dio John Henry Newman.
Fra qualche mese, quindi, verrà proclamato beato.
L’avvenimento conferma e propone alla venerazione di tutta la Chiesa ciò di cui sono da sempre ben consapevoli studiosi e amici di Newman, e quanti si accostano senza pregiudizi alla sua figura e ai suoi scritti:  il noto convertito inglese non fu soltanto un pensatore con doti eccezionali, ma un uomo nel quale la genialità del pensiero faceva tutt’uno con la santità della vita quotidiana.
 Quando egli in tarda età sentì dire che l’avrebbero chiamato santo, scrisse:  “Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo.
I santi non sono letterati, non amano i classici, non scrivono romanzi.
Sono forse, alla mia maniera, abbastanza buono, ma questo non è alto profilo (…) Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe”.
Lungo tutta la sua vita Newman pensò di essere ben lontano dalla perfezione cristiana.
Ma dalla sua “prima conversione” la sua aspirazione fu tutta rivolta a Dio, che aveva riconosciuto come il fulcro della sua vita.
Da allora in poi seguì due principi:  “La crescita è la sola dimostrazione della vita” e “la santità piuttosto che la pace”.
Il genio di Newman, sebbene sempre ammirato e venerato, fu riscoperto dal concilio Vaticano II, di cui è stato un precursore profetico.
Jean Guitton scrisse in proposito nel 1964:  “I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico.
E come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati.
Così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman”.
Il Vaticano II ha recepito e consacrato tante intuizioni di Newman, ad esempio sul rapporto tra fede e ragione, sul significato della coscienza, sull’educazione universitaria, sul valore dei Padri e della storia in generale, sul mistero della Chiesa, sulla missione dei laici, sull’ecumenismo, sul dialogo con il mondo contemporaneo – grandi tematiche che vengono ampiamente trattate nel presente volume.
Nei pronunciamenti del Magistero postconciliare la dottrina di Newman viene continuamente valorizzata.
Basta menzionare alcuni documenti di particolare rilevanza dottrinale in cui si trovano riferimenti espliciti al pensiero di Newman:  le Lettere encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio come anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che contiene non meno di quattro testi di Newman (cfr.
nn.
157, 1723, 1778, 2144) – un fatto notevole, perché di solito il Catechismo cita solo autori già canonizzati.
Accanto al suo pensiero forte, gli ultimi Pontefici presentano come esemplare anche la vita di Newman.
Limitiamoci a citare tre testi significativi.
In un discorso del 7 aprile 1975, rivolto ai partecipanti di un simposio accademico Paolo VI disse:  Newman, “che era convinto di essere fedele tutta la sua vita e con tutto il suo cuore votato alla luce della verità, diventa oggi un faro sempre più luminoso per tutti quelli che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione sicura attraverso le incertezze del mondo moderno – un mondo che egli stesso profeticamente aveva preveduto”.
In una lettera del 14 maggio 1979, indirizzata all’arcivescovo di Birmingham in occasione del centenario del cardinalato di Newman, Giovanni Paolo II scrisse:  “L’elevazione di Newman a cardinale, come la sua conversione alla Chiesa cattolica, è un avvenimento che trascende il semplice fatto storico e l’importanza che ciò ha avuto per il suo Paese.
I due eventi hanno inciso profondamente nella vita della Chiesa molto al di là dei confini dell’Inghilterra.
Il significato provvidenziale e l’importanza di questi eventi per la Chiesa in generale sono stati più chiaramente compresi nel corso di questo nostro secolo.
Lo stesso Newman, con visione quasi profetica, era convinto che egli stava lavorando e soffrendo per la difesa e la promozione della causa della religione e della Chiesa non solo nel periodo a lui contemporaneo ma anche per quello futuro.
La sua influenza ispiratrice di grande maestro della fede e di guida spirituale viene percepita sempre più chiaramente proprio nei nostri giorni”.
Il cardinale Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, disse in una conferenza tenuta nel 1990, parlando del suo incontro con Newman nel seminario di Frisinga:  “La dottrina di Newman sulla coscienza divenne per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti con il suo fascino.
La nostra immagine dell’uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza.
Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo.
Goering aveva detto del suo capo:  “Io non ho nessuna coscienza.
La mia coscienza è Adolf Hitler”.
L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi.
Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il “noi” della Chiesa non si fondava sull’eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza.
Tuttavia proprio perché Newman spiegava l’esistenza dell’uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l’anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all’individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all’arbitrarietà”.
Nel famoso Biglietto-Speech, pronunciato in occasione del ricevimento della bolla di nomina a cardinale, Newman, guardando alla sua vita passata, confessò:  “Nel corso di lunghi anni ho fatto molti sbagli.
Non ho nulla dell’alta perfezione che si riscontra negli scritti dei santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile a essere corretto, ho temuto l’errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo alla misericordia di Dio”.
Queste parole mostrano l’umiltà propria soltanto di un vero uomo di Dio.
Tutta la vita di Newman fu dedicata al servizio della verità e alla lotta contro il liberalismo religioso e morale (da non confondersi con il liberalismo politico), che considerava il più subdolo nemico della fede.
Ebbe uno spiccato senso della vicinanza di Dio, valorizzò pienamente la ragione e le capacità naturali dell’uomo, compì il suo dovere con grande competenza e dedizione, amò la Chiesa e toccò la coscienza e il cuore di tantissime persone di ogni ceto sociale.
Nei suoi ultimi anni condusse una vita di preghiera e di raccoglimento ancora più intensa.
Per la fedeltà alla chiamata di Dio dovette sopportare innumerevoli sofferenze che resero più nobili e più carichi di attrattiva perfino i tratti del suo volto.
Il quotidiano londinese “The Times” pubblicò il giorno seguente la morte di Newman, avvenuta l’11 agosto 1890, un lungo elogio funebre che terminava con le seguenti parole:  “Di una cosa possiamo essere certi, cioè che il ricordo di questa pura e nobile vita durerà e che (…) egli sarà santificato nella memoria della gente pia di molte confessioni in Inghilterra (…) Il santo che è in lui sopravvivrà”.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009) Il libro Una ragionevole fede raccoglie gli atti del convegno internazionale su John Henry Newman che si è svolto a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il 26 e il 27 marzo 2009 (Milano, Vita e Pensiero, 2009, pagine 252, euro 20).
Pubblichiamo quasi per intero la prefazione dei curatori.

Matteo Ricci: dialogando col Dragone

«Possiamo imparare a essere saggi in tre modi.
Il primo è quello « dell’imparare a riflettere, ed è il migliore.
Il secondo è l’imitazione, ed è il più facile.
Il terzo è affidarsi all’esperienza, ed è il più doloroso».
Non sappiamo se Matteo Ricci conoscesse questo frammento dei Dialoghi (Lün-yü) di K’ung futzu, il “maestro K’ung” che, col nome latinizzato di Confutius, egli aveva considerato come una guida per condurre – attraverso la riflessione, l’esempio e la maturazione umana – anche il cinese verso l’uomo nuovo cristiano.
Certo è che egli studiò e seguì quei percorsi di sapienza per compiere una delle esperienze più alte e intense di dialogo interculturale e interreligioso.
La mostra e i saggi di questo catalogo sono quasi la cristallizzazione simbolica di un simile itinerario che ha reso il gesuita maceratese un precursore e un emblema anche nei secoli successivi.
La sua forte consapevolezza apostolica La sua forte consapevolezza apostolica e missionaria, la poliedrica formazione che spaziava nello stesso orizzonte scientifico (egli, tra l’altro, era contemporaneo di Galileo), la straordinaria capacità di ermeneutica del messaggio profondo sotteso alla tradizione confuciana e alla cultura cinese, la sua acuta disponibilità a riflettere, imitare e vivere la realtà cinese (per usare la trilogia sopra evocata da Confucio) lo rendono un importante testimone di un fenomeno che è capitale anche ai nostri giorni per il cristianesimo, quello dell’inculturazione o acculturazione.
Alcuni considerano i due termini come sinonimi, altri operano tra essi sottili distinzioni, altri poi li oppongono tra loro: ad esempio, nell’Enciclopedia Europea (III, 956) il termine “acculturazione” è inteso nel senso negativo di assorbimento e dissoluzione distruttiva delle diversità etnico-culturali dei vari popoli a causa della globalizzazione imposta dall’Occidente.
È indiscutibile che questo rischio esiste ed è da imputare a un’inculturazione o acculturazione di implicita impronta “coloniale”, impositiva e non propositiva e dialogica, lontana quindi dall’atteggiamento di Ricci.
Noi usiamo ora il più comune termine “inculturazione”, apparso per la prima volta nel linguaggio ecclesiale nel Messaggio al popolo di Dio (n.
5) del Sinodo dei Vescovi del 1977.
In realtà, già nel 1953 il missiologo Pierre Charles intitolava così un articolo apparso sulla «Nouvelle Revue Théologique»: Missiologie et acculturation (optando, però, per l’altro termine, “inculturazione”).
Il Concilio Vaticano II esprimeva la stessa idea ricorrendo a due termini tardo-latini, adaptatio e accommodatio (si veda, ad esempio, Ad gentes n.
22).
In pratica potremmo definire questo approccio missionario-pastorale-culturale come una scelta che riconosce la differenziazione delle culture e sceglie di innestare in esse il seme del Vangelo così che, sulla base di una mutua fecondazione (tra seme e terreno fertile), si compia un’autentica incarnazione e una rigenerazione benefica dello stesso Vangelo nel nuovo contesto.
Questa scelta pastorale, teologica e culturale fu così formalizzata da Giovanni Paolo II in un discorso tenuto in Kenya nel1980: «L’acculturazione o inculturazione sarà realmente un riflesso dell’incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano».
Questa impostazione – come sottolineava il Papa – appartiene alla stessa logica dell’Incarnazione.
Non solo perché il messaggio evangelico dev’essere sale, lievito, seme, luce, per usare note metafore bibliche, ma anche perché la stessa Parola di Dio non è un aerolito piombato dal cielo, uno scrigno di teoremi teologici preconfezionati, una fredda pietra preziosa da custodire, bensì un seme che è cresciuto nella terra della sarx, ossia della “carne” della storia e della cultura umana.
Si pensi solo al confronto dinamico che intercorre tra la Rivelazione anticotestamentaria e le varie civiltà, dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica, mentre il cristianesimo si è vivacemente confrontato e anche affrontato col giudaismo palestinese e della Diaspora, con la cultura greco-romana, con le forme gnostiche e cultuali pagane.
Giovanni Paolo II, nel 1979, affermava davanti alla Pontificia Commissione Biblica che, ancor prima di farsi carne «la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche».
La scelta dell’inculturazione non è, quindi, di tattica missionaria o al massimo di larga strategia pastorale, ma è strutturale alla stessa fede cristiana.
La Rivelazione biblica è, infatti, frutto del congiungimento tra Logos e sarx, in analogia a quanto accade nel Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’umanità.
Diventano, così, molto meno paradossali certe espressioni dei Padri, come quella della Prima Apologia di s.
Giustino che nel II secolo affermava: «Del Logos divino fu partecipe tutto il genere umano e coloro che vissero secondo il Logos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come, fra i Greci, Socrate ed Eraclito e altri come loro» (46, 2-3).
È naturale che questa imprescindibile inculturazione deve, però, custodire l’autenticità del messaggio, senza deformarlo o stingerlo col rischio di estinguerlo.
In questa luce si comprende quanto sia al tempo stesso necessario, ma anche rischioso e delicato, il processo di evangelizzazione interculturale che ancor oggi è programmatico per la Chiesa e che ha in Matteo Ricci quasi l’alfiere e il testimone più incisivo e significativo.
in “Il Sole-24 Ore” del 25 ottobre 2009

Il mandarino di Cicerone

La mostra dedicata al gesuita Matteo Ricci che apre il 29 ottobre al Braccio di Carlomagno si gioca su una idea geniale dell’allestitore scenografo Pierluigi Pizzi.
Dal momento che il percorso espositivo si disloca in due parti, una dedicata a Roma, alla Compagnia di Gesù e all’Europa fra XVI e XVII secolo, l’altra che ha per argomento la Cina abitata, penetrata, capita e acculturata da Matteo Ricci, ecco allora che i colori dominanti sono due.
Un azzurro algido e luminoso (“azzurro Sassoferrato”, lo chiama Pizzi, con riferimento al noto pittore della Riforma cattolica) per la pars occidentis, il rosso imperiale per la zona che ospita le opere e i documenti della Cina.
 Del resto la mostra voluta con determinazione ammirevole da monsignor Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia, ha un titolo che prefigura e replica l’idea dei due colori.
Il gesuita di Macerata, fra Roma e Pechino, si colloca oggettivamente “ai crinali della storia”.
Perché negli anni che stanno fra il 1580 e il 1610 – gli anni della missione cinese di padre Matteo – sembrò possibile vedere, come dal vertice di una alta montagna, il possibile dialogo, la fruttuosa contaminazione fra due mondi l’uno all’altro incogniti, apparentemente incomunicabili, sigillati dalla loro stessa diversità.
Una mostra che, come questa, intende mettere in figura un tempo grandiosamente cruciale della storia, deve saper usare con didattica efficace il sistema dei simboli.
Pierluigi Pizzi ci riesce magnificamente.
Due infatti sono i fuochi che catturano l’attenzione del visitatore e intorno ai quali si organizza e si irradia il percorso espositivo.
Uno è l’altare di Confucio, prestito della Sezione missionaria etnologica dei Musei Vaticani.
Fiammeggiante di lacca e di oro, di dimensioni imponenti, fronteggiato da un Budda pensoso e compassionevole, rappresenta perfettamente la raffinata filosofica religiosità cinese.
A fare da contraltare, nel senso letterale oltre che simbolico del termine, c’è la gloria barocca di Pier Paolo Rubens.
Dalla chiesa genovese del Gesù viene la grande tela che racconta l’apoteosi di sant’Ignazio di Loyola e dei suoi seguaci.
Rubens è emozione ed è passione, la sua pittura sontuosa smagliante che rielabora Raffaello e Caravaggio, che non teme lo splendore del Vero e trasfigura il tutto nella visione ottimistica e trionfalistica di una Chiesa alla conquista del mondo, è l’altra faccia della medaglia.
È il punto di partenza, religioso e culturale, dal quale Matteo Ricci partiva quando lasciò il Collegio romano per l’impero di mezzo.
Intorno ci sono i quadri del fiammingo Seghers (anch’essi prestiti dei Musei Vaticani) con i protagonisti della evangelizzazione, Francesco Saverio e Ignazio di Loyola.
C’è un intenso ritratto di quest’ultimo rappresentato al tavolo di lavoro, raro e pressoché incognito dipinto proveniente dal Gesù di Roma, forse attribuibile al Ribera.
Ci sono i ritratti dei Papi capaci di reggere la Chiesa nei tempi di ferro che videro, in Europa, le guerre di religione e il confronto armato con l’islam.
La battaglia di Lepanto di Paolo Veronese, prestata dal veneziano Museo dell’Accademia, è davvero l’emblema di un’epoca.
Era il 1571 quando l’armata navale guidata da Giovanni d’Austria spezzava l’assalto del turco alla fortezza Europa.
Nello stesso anno il giovane Matteo Ricci entrava nell’ordine gesuita.
Si preparava a diventare il Li Madou che i cinesi ancora oggi onorano come uno dei padri identitari della loro grande storia.
Non è senza significato se nel Millennium Center di Pechino, immenso edificio politico cerimoniale che celebra i fasti della nazione e del partito, il gigantesco rilievo in marmi policromi dedicato alla storia della Cina, dal primo imperatore ai protagonisti del Novecento, porti due sole immagini di stranieri, entrambi italiani.
Uno è Marco Polo alla corte di Kubilai Kan, l’altro è Matteo Ricci che, dalla terrazza della Città proibita, in veste di mandarino confuciano, scruta il cielo.
Li Madou portò in Cina la geometria di Euclide, l’astronomia, la meccanica, la cartografia.
Portò il De amicitia di Cicerone trasformato in un delizioso libretto mandarino dedicato a un alto dignitario un po’ confuciano, un po’ animista, un po’ (forse) cristianizzante.
Portò dunque la cultura d’Occidente, significata in mostra da astrolabi, planetari, rappresentazioni della città e dell’impero.
Portò anche, naturalmente, la dottrina cristiana ma lo fece usando come apripista la scienza e la tecnica, patrimonio condiviso per l’Occidente come per l’Oriente, e muovendosi in ogni caso con mano leggera, con straordinaria capacità mimetica, con rispetto assoluto e squisito per la cultura e per le tradizioni del Paese che aveva deciso di fare suo.
Si fece cinese fra i cinesi, assunse anche negli abiti l’iconografia del funzionario imperiale, fu cerimonioso e obliquo, iperbolico e burocratico, poetico e pragmatico come costume ed etichetta richiedevano.
Se non si fosse comportato in questo modo non avrebbe avuto gli onori che la Cina moderna gli riconosce e che permette a noi di collocarlo, davvero, ai crinali della storia.
Una storia troppo presto interrotta ma che oggi, in tempi di integrazione fondata sul dialogo e quindi sul rispetto e sulla conoscenza, appare più che mai attuale.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009)

Una donna a capo dei protestanti tedeschi

Margot Kässmann, piccola donna energica di 51 anni dallo sguardo luminoso, è stata eletta ieri presidente del consiglio della Chiesa protestante della Germania (EKD), succedendo al vescovo Wolfgang Huber, a capo dei 25 milioni di protestanti del suo paese.
Così, è sulle prime pagine dei giornali insieme ad Angela Merkel, anche lei protestante, rieletta cancelliera al Bundestag.
Questa coincidenza sottolinea, secondo gli osservatori, il posto delle donne nella società tedesca.
Il sinodo della Chiesa protestante, organismo che elegge il consiglio della Chiesa, aveva già messo a capo del sinodo stesso, nel maggio scorso, Katrin Göring Eckardt, tra l’altro deputata dei Verdi.
Madre di quattro figlie, Margot Kässmann, fino ad oggi vescovo di Amburgo, era stata designata nel 2006 “donna dell’anno” da una rivista con programmi televisivi di grande tiratura.
Una popolarità a volte fastidiosa, conquistata affrontando apertamente le prove della vita, come l’operazione di cancro al seno nel 2006.
Ma, alcuni mesi dopo, lei affrontava un’altra prova, il suo divorzio dopo ventisei anni di matrimonio.
Anche in quel caso, lei scelse la trasparenza: “Per quanto riguarda la mia unione, non volevo credere che fosse un fallimento, e mi sono stati necessari diversi anni per ammettere che il mio ex-marito ed io non saremmo invecchiati insieme”, scrive in un libro intitolato In der Mitte des Lebens (“Nel mezzo della vita”), pubblicato in settembre.
Dimostra la stessa franchezza rispetto alla sua Chiesa: il giubileo della Chiesa protestante nel 2017 (1) non sarà, assicura, un “culto di Lutero”, figura di cui lei non vuole nascondere le ombre, come i suoi rapporti con gli ebrei, la fine della sua vita che impregnò negativamente la Chiesa o la sua mancanza di solidarietà rispetto ai contadini che si erano ribellati ai principi.
Monsignor Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale cattolica tedesca, ha subito salutato con favore l’elezione di Margot Kässmann invitandola a lavorare con i vescovi cattolici.
Una cooperazione che potrebbe tuttavia rendere più complicato questo accesso di una donna a capo dei protestanti, ritengono certi osservatori, alla vigilia del secondo Kirchentag ecumenico nel 2010 a Monaco.
Ma, “al di là dei nostri profili particolari, quello che ci unisce è più importante di quello che ci separa”, afferma Margot Kässmann, che ha dietro di sé una lunga esperienza in seno al Consiglio ecumenico delle Chiese.
in “La Croix” del 29 ottobre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

Livelli di eccellenza nelle scuole cattoliche inglesi

Nei rapporti degli ispettori dell’Isi sulle scuole cattoliche vengono anche evidenziati i rapporti eccellenti che le scuole indipendenti cattoliche sono in grado di sviluppare con le comunità locali.
In molti casi gli ispettori hanno notato che i giovani studenti di questi istituti partecipano anche ad azioni di solidarietà verso i più bisognosi nell’ambito delle iniziative intraprese dal Catholic Fund for Overseas Development (Cafod) o dalla società di san Vincenzo de’ Paoli.
Gli ispettori dell’Isi hanno anche sottolineato che le scuole indipendenti cattoliche vengono frequentate anche da giovani le cui famiglie appartengono a una diversa confessione.
Questa apertura ai ragazzi di fedi diverse, e il rispetto con cui essi vengono trattati nell’ambito scolastico, ha maggiormente convinto i membri dell’Isi ad assegnare una valutazione di eccellenza agli istituti d’istruzione cattolici.
Nel comunicato congiunto, firmato dalla responsabile del Cesew, Oona Stannard, e dal presidente del Cisc, Joseph Peake, si sottolinea che quando l’insegnamento riguarda temi che possono avere diverse interpretazioni, gli insegnanti delle scuole cattoliche enfatizzano l’importanza del rispetto di ciascuna opinione ed esortano gli allievi ad ascoltare le posizioni divergenti e a formare il proprio giudizio dopo una seria riflessione.
Nel documento si sottolinea l’importanza della formazione degli insegnanti che nelle scuole cattoliche hanno la libertà di scegliere tra diversi metodi d’insegnamento purché questi siano rispettosi della dignità umana di ciascuna persona e riconoscano il ruolo essenziale della comunità d’appartenenza.
Sempre in tema di educazione, si è tenuto a Londra il congresso “Keeping Faith in the System”, a cui hanno partecipato oltre duecento rappresentanti di scuole gestite da organizzazioni religiose.
L’incontro era stato inaugurato dal deputato Ed Balls, Secretary State of Department for Children, Schools and Families che nel 2007 aveva pubblicato un rapporto sull’importanza del ruolo delle scuole gestite da organizzazioni religiose nel sistema scolastico dell’Inghilterra e del Galles.
Nel suo intervento, Ed Balls ha sottolineato che “l’entusiasmo, il dinamismo e il successo delle scuole gestite da religiosi non sono mai stati così forti come ora.
Ho constatato personalmente come questi istituti usano il proprio carisma per formare giovani che hanno un forte sentimento per la comunità e un indiscutibile rispetto per gli altri, anche per quelli che appartengono ad altre fedi e si sono formati in diversi contesti culturali”.
Per Ed Balls, le scuole gestite dai religiosi “sono tra i migliori esempi che abbiamo di promozione della coesione sociale perché offrono una formazione migliore di quella che spesso viene offerta in scuole d’altro tipo.
Le scuole gestite da religiosi hanno quindi un ruolo fondamentale per il nostro sistema educativo”.
Il deputato inglese aveva evidenziato che il rendimento scolastico degli studenti delle scuole gestite da religiosi è in media del 10 per cento migliore rispetto agli alunni che frequentano altre scuole.
Nel corso del convegno, ha preso la parola Oona Stannard secondo cui nelle scuole gestite da organizzazioni cattoliche “l’insegnamento ai giovani è nel contesto della nostra tradizione religiosa ma si moltiplicano le forme di collaborazione anche con altri istituti scolastici gestiti da religiosi appartenenti a diverse Chiese cristiane”.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009) L’educazione impartita agli studenti nelle scuole cattoliche in Inghilterra e nel Galles corrisponde ai massimi parametri di qualità richiesti dalle due più note organizzazioni d’ispezione scolastica:  questo è quanto viene sottolineato in un recente comunicato congiunto diffuso dal Catholic Education Service for England and Wales (Cesew) e dal Catholic Indipendent Schools’ Conference (Cisc).
Nel documento si fa riferimento agli eccellenti risultati delle ispezioni effettuate, nel corso dell’ultimo anno scolastico, dall’Indipendent School Inspectorate (Isi) e dall’Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills (Ofsted).
Per gli ispettori dell’Ofsted, nelle scuole cattoliche si raggiungono i massimi standard di qualità per quanto riguarda gli insegnamenti di temi a carattere spirituale, morale, sociale e culturale.
“Vi è una forte evidenza – affermano gli ispettori nel loro rapporto – dell’impatto positivo che le scuole indipendenti a gestione religiosa hanno sullo sviluppo sociale, morale spirituale e culturale dei loro giovani studenti che vengono formati per divenire dei buoni cittadini”.