La Chiesa cattolica nella Germania comunista

La divisione della Germania in seguito alla seconda guerra mondiale ha determinato profondi cambiamenti nello scenario ecclesiastico.
Parti delle diocesi di Paderborn, Würzburg, Fulda e Osnabrück sono state separate di colpo dalle loro sedi vescovili – dato che erano situate sul territorio della zona un tempo di occupazione sovietica, in seguito passata alla Deutsche Demokratische Republik (Ddr), la Repubblica democratica tedesca.
In particolare, è apparso eclatante il caso della diocesi di Berlino.
Solo la diocesi di DresdenMeissen era situata interamente nel territorio della Ddr, come pure residui dell’arcidiocesi di Breslavia, da cui in seguito è sorta la diocesi di Görlitz.
Solo a fatica i vescovi con sedi nella Repubblica federale tedesca hanno potuto mantenere rapporti con i loro fedeli nella Ddr.
Come soluzioni d’emergenza era previsto che i vescovi, per le loro comunità situate nella Ddr, nominassero dei rappresentanti dotati di pieni poteri straordinari.
In tal modo era possibile salvaguardare l’azione pastorale e l’unità ecclesiastica, laddove la costituzione di una conferenza di ordinari tedesco-orientale da parte di Pio xii teneva conto delle esigenze pratiche.
Ma lo scioglimento delle strutture ecclesiastiche dal loro vincolo con le diocesi tedesco-occidentali avite, allo scopo di conseguire un’identica copertura di territorio statale e struttura gerarchica, corrispondeva anch’esso alle aspirazioni d’autonomia statale e di riconoscimento internazionale da parte della dirigenza della Ddr.
Mentre le analoghe intenzioni della dirigenza della Ddr nei confronti delle comunità locali protestanti furono coronate da successo e queste si separarono dalla Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd), si opposero energicamente la Conferenza dei vescovi tedeschi e il Governo della Repubblica federale.
A entrambi premeva sottolineare l’unità della Germania, anche sotto l’aspetto ecclesiastico, insistendo sullo status quo.
La Santa Sede venne incontro alle concrete esigenze pastorali, creando nel 1973 per le parti delle diocesi tedesco-occidentali situate nella Ddr i cosiddetti Uffici diocesani di Erfurt-Meiningen, Magdeburgo e Schwerin, e nominando per ciascuno d’essi un amministratore apostolico, mentre la giurisdizione del vescovo occidentale restava sospesa, ma non veniva soppressa.
Nel 1976 fu costituita la “Conferenza dei vescovi di Berlino”, che divenne un necessario forum di comunicazione per gli amministratori apostolici, come pure per i vescovi di Berlino e Dresden-Meissen.
Un’ulteriore iniziativa auspicata dalla diplomazia della Ddr e progettata dall’arcivescovo Casaroli, segretario del Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, ossia quella di innalzare gli Uffici vescovili al rango di Amministrazioni apostoliche, non fu più messa in atto, poiché Paolo VI morì il 6 agosto 1978 e Giovanni Paolo II inaugurò un nuovo corso.
Se Paolo VI era partito dal presupposto d’una durata imprevedibile del sistema sovietico e quindi s’era adoperato per trovare un modus vivendi – o meglio, non moriendi – con Mosca, al fine di garantire la sopravvivenza della Chiesa nel blocco orientale, Giovanni Paolo II s’impegnò invece in un confronto risoluto.
Quindi tramontarono anche le aspirazioni dirette alla costruzione di una struttura gerarchica circoscritta al territorio della Ddr.
Solo dopo la caduta del Muro ha potuto configurarsi un nuovo ordinamento ecclesiastico, senza che fosse connesso a implicazioni politiche.
Nel 1994 furono erette le diocesi di Magdeburgo ed Erfurt, per cui si pose fine all’ordinamento provvisorio in vigore fino a quel momento.
Per quanto riguarda l’organizzazione ecclesiastica, la situazione pastorale, religiosa nella Ddr era determinata dalla circostanza che con la Riforma del XVI secolo erano stati soppressi una quindicina di diocesi e numerosi conventi.
A eccezione di pochi territori – pensiamo all’Eichsfeld, a Oberlausitz, come pure a singoli conventi – fin dalla guerra dei Trent’anni la vita ecclesiastica cattolica nel territorio di quella che sarebbe diventata la Ddr si era estinta.
Una situazione completamente nuova si è profilata solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, a causa della quale circa un milione e mezzo di fuggiaschi o profughi cattolici affluirono nel territorio della futura Ddr.
Alcuni hanno ipotizzato che le potenze vincitrici avessero in programma una mescolanza confessionale connessa a questo processo.
In tal modo ha avuto origine una diaspora cattolica negli odierni nuovi Länder federali.
La situazione dei cattolici era quindi molto difficile, perché questi territori già all’epoca della Repubblica di Weimar, anzi già verso la fine del xix secolo, a causa della propaganda ateistica dei socialisti, erano stati largamente scristianizzati.
Durante gli anni del nazismo l’ideologia del sangue e del suolo, cioè della razza, contribuì alla diffusione della religione neopagana della razza germanica, che accentuò ulteriormente la scristianizzazione.
Quindi l’ateismo connesso al regime della Sed (il partito socialista unitario tedesco) ha avuto gioco facile.
Di conseguenza la fede dei cattolici che vivevano in quest’ambiente è stata sottoposta alle prove più ardue.
La Chiesa cattolica, nella Ddr, si trovava in una duplice situazione di diaspora.
Sul piano confessionale, rispetto alla popolazione di religione evangelica, rappresentava una quantité négligeable.
Protestanti e cattolici, però, cominciarono a considerarsi sempre più, in un certo senso, come piccole oasi in un deserto di ateismo.
Un’esperienza che ha portato a una forma di solidarietà e a una vicinanza ecumenica.
Nelle questioni di attualità, soprattutto quelle legate alla politica ecclesiastica, si trovava un accordo – il rapporto con gli organi dello Stato e del partito era molto diverso.
Un parallelo cattolico rispetto al modello protestante di una “Chiesa nel socialismo” non è esistito in nessuna fase.
Piuttosto il contrasto con l’ideologia dominante era univoco.
La resistenza cattolica si è diretta non tanto contro lo Stato di per sé, ma contro l’ideologia che ne era alla base.
Questa differenza affonda le sue radici fin nell’epoca della Riforma.
Soprattutto nei territori di Prussia-Brandeburgo, in conseguenza della Riforma la sovranità sulla Chiesa era stata rivendicata dai principi dei singoli territori, che si sentivano summi episcopi delle loro Chiese territoriali.
Questo sistema di governo ecclesiastico su base territoriale da parte dei signori ebbe naturalmente come conseguenza una particolare prossimità o dipendenza della Chiesa dallo Stato.
Nel mio luogo d’origine, Ansbach – un principato del Brandeburgo – ancora alla fine del XVIII secolo il ii Senato della Camera della guerra e del demanio svolgeva le funzioni di suprema autorità ecclesiastica.
Questa dipendenza s’è mantenuta oltre la fine della monarchia.
Ben diversa si presentava la situazione dei cattolici, che in particolare in seguito alle leggi bismarckiane connesse al Kulturkampf (dopo il 1870) erano stati sottoposti a una persecuzione più grave che sotto il regime nazista.
Durante questa fase furono scacciati o incarcerati nove dei dodici vescovi prussiani.
Un destino che fu condiviso da centinaia di sacerdoti.
Queste esperienze vissute nel passato hanno segnato in modo duraturo l’atteggiamento dei cattolici nei confronti del potere statale.
A ciò s’è aggiunta l’esperienza del periodo nazista, che “fa capire la strategia difensiva adottata dai vertici della Chiesa cattolica nella Ddr fino agli anni Ottanta, orientata a compartimentare la limitata sfera ecclesiastica interna” (H.
Heineke).
Quindi, da parte cattolica, s’è mantenuta una distanza nei confronti degli organi statali e partitici, senza tuttavia provocarli con una resistenza aperta.
I contatti comunque necessari con queste istanze furono affidati dai vescovi a singoli sacerdoti, che dovevano agire su loro incarico e secondo le loro direttive.
A questo punto è naturale chiedersi se dalle cerchie del clero siano usciti collaboratori o fiancheggiatori della Stasi, i servizi segreti della Ddr.
Per quanto è consentito dire allo stato attuale della ricerca, la rigida regolamentazione di questi contatti era in grado d’impedire una simile collaborazione a livello diffuso.
Se il ministero per la Sicurezza dello Stato ha perseguito l’obiettivo d’esercitare pressioni sulla Chiesa cattolica per pilotarla, attraverso informazioni informali nel senso della politica ecclesiastica condotta dallo Stato-Sed, si è trattato di un tentativo fallito.
Di 183 dirigenti che tra il 1950 e il 1989 hanno lavorato per la Caritas, solo tre hanno avuto contatti cospirativi con la Stasi.
Quattro sacerdoti agivano su disposizioni dei vescovi.
L’altro risvolto di questo modello pastorale della distanza nei confronti dello Stato e di una società plasmata dal materialismo comunista, consisteva nel percepire e criticare la vita ecclesiastica concentrata “intorno al campanile” come un cristianesimo da sacrestia angusto e segregato.
Per un altro verso, per la piccola Chiesa cattolica della diaspora il legame con Roma era stato importante da sempre.
Dopo l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II questo legame s’è rivelato decisivo per una riorganizzazione della vita ecclesiastica.
In questo contesto il Papa non solo ha offerto sostegno ai vescovi, ma li ha invitati ad avviare un rapporto con le cerchie evangeliche impegnate “per la giustizia, la pace e la preservazione della creazione”.
Ma con ciò siamo già alle soglie dell’anno 1989.
Ancora oggi sono vivide le immagini che si sono presentate allo sguardo dello spettatore nella tarda estate del 1989 a Lipsia: erano le famose dimostrazioni del lunedì, la prima delle quali ebbe luogo il 4 settembre.
Meta delle dimostrazioni era la chiesa di San Nicola, nella quale si concludevano con la preghiera della pace.
Lo stesso accadeva in numerose città della Ddr.
Era la comunità evangelica che aveva aperto le sue chiese a questo scopo e aveva appoggiato in vari modi le dimostrazioni.
A questo punto è legittimo interrogarsi sull’eventuale impegno cattolico nel processo di svolta.
In confronto al ruolo svolto dalle comunità evangeliche, esso appare più modesto.
Ma questa circostanza non deve meravigliare, dato che i cattolici rappresentavano solo una esigua minoranza.
La quota di protestanti sulla popolazione complessiva, che ammontava all’85 per cento nel 1950, si era ridotta al 25 per cento nel 1989, quella dei cattolici era passata dal 10 per cento al 5 per cento.
Naturalmente i cattolici non possedevano chiese che avrebbero potuto accogliere una moltitudine di persone per la preghiera della pace – a eccezione delle note enclavi cattoliche di Eichsfeld e Oberlausitz.
Tuttavia, non poche comunità cattoliche si sono impegnate in misura più modesta anche politicamente.
Così molti cattolici si comportavano da oppositori; insieme con i protestanti si impegnavano per l’ambiente e nei movimenti pacifisti e si schieravano nelle dimostrazioni del lunedì.
Il vescovo di Dresda, Reinelt, ha riferito, per esempio, di aver spesso accompagnato coloro che dimostravano contro il regime della Ddr insieme con il vescovo evangelico locale – quest’ultimo a Lipsia, Reinelt a Dresda.
Le singole parrocchie offrivano gli spazi dove i membri democratici della comunità, critici verso il regime, s’incontravano e si scambiavano le loro opinioni.
Inoltre, bisogna aggiungere che i cattolici della Germania Est guardavano indubbiamente con attenzione agli eventi in Polonia, dove dopo la quasi profetica omelia di Pentecoste pronunciata da Giovanni Paolo II a Varsavia, nel 1979, s’era messo in moto un movimento che alla fine avrebbe portato agli avvenimenti del 1989.
Il Papa allora aveva citato il versetto della liturgia di Pentecoste: “Emitte Spiritum tuum…
et renovabis faciem terrae.” Poi aveva battuto al suolo energicamente il suo bastone pastorale e aveva proseguito: “Questa terra qui”.
In polacco “terra” significa anche “Paese”! Consentitemi di citare, per ricapitolare, cosa scrive nel suo nuovo libro Urbi et Gorbi – Christen als Wegbereiter der Wende Joachim Jauer, che è stato per anni corrispondente della Zdf nella Ddr e in Europa orientale: “Sono senz’altro più numerosi i protagonisti evangelici rispetto a quelli cattolici, e questo non stupisce.
Ci troviamo qui, nel paese di Lutero, nell’ex Ddr.
Le piccole comunità cattoliche qui sono sorte solo dopo la seconda guerra mondiale, dagli insediamenti di profughi della Boemia o della Slesia.
Questa è la prima osservazione.
La seconda è che i vescovi cattolici volevano salvaguardare il loro piccolo gregge e hanno quasi innalzato un baluardo difensivo intorno a loro.
Questo ha fatto sì che la piccola Chiesa cattolica, sul territorio della Ddr, abbia potuto preservare i suoi fedeli dalla perdita della fede molto più della grande Chiesa evangelica, dalla quale i capi della Sed…
sono riusciti ad allontanare una quantità, addirittura milioni, di persone.
Questo tra i cattolici non è stato possibile…
Ma queste notizie non arrivavano all’opinione pubblica.
Anche per noi corrispondenti era quasi impossibile aver accesso a queste informazioni…
Non ho mai…
potuto fare un servizio in una chiesa cattolica…
Da questo emerge…
un’immagine distorta, come se i cattolici addirittura non fossero esistiti”.
Ma subito dopo la svolta si è visto che esistevano e non erano rimasti affatto inattivi.
Il teologo evangelico Erhard Neubert, sbalordito ed evidentemente contrariato per il gran numero di cattolici che dopo il 1990 si sono assunti responsabilità politiche nei nuovi Länder federali, scrisse nel 1991: “Abbiamo esautorato la Sed, e ora il potere l’hanno preso i cattolici”.
La tesi della rivoluzione protestante è falsa quanto quella della presa del potere da parte dei cattolici dopo il 1990.
Che i cattolici, in rapporto alla loro quota nella popolazione complessiva, fossero rappresentati politicamente in modo sproporzionato, era dovuto al fatto di essere impegnati prevalentemente nella Christlich Demokratische Union (Cdu).
A questo si aggiungeva che il programma della Cdu si inseriva nella tradizione della dottrina sociale cattolica, che non era affatto ignota ai cattolici impegnati della Ddr.
Inoltre, si è potuto accertare che fin dagli anni Settanta si è verificata nella Ddr un'”ascesa silenziosa” dell’élite cattolica verso posizioni direttive non politiche in ambito accademico, nella sanità e nelle professioni tecniche.
A differenza dei laici attivi durante la svolta, i vescovi si sono espressi e comportati con discrezione in relazione alla politica.
Questo non esclude che, per esempio, il vescovo di Magdeburgo, Braun, già nel settembre 1989, abbia formulato apertamente delle critiche nei confronti del regime della Sed.
Il vescovo Reinelt di Dresda, all’inizio dell’ottobre 1989, ha cercato d’impedire personalmente violenti scontri fra dimostranti e servizi di sicurezza nella piazza della stazione di Dresda; e il 16 ottobre, due giorni dopo l’esautoramento del capo dello Stato della Ddr, Erich Honecker, ha chiamato i cattolici ad impegnarsi nella politica.
Questo appello è stato prontamente raccolto dalle comunità.
Potrebbero essere citati ancora altri esempi.
In ogni caso, si può parlare anche d’una partecipazione dei cattolici alla svolta.
Quando è caduto il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, alcuni vescovi tedeschi – fra i quali quello di Berlino, Sterzinsky, che aveva assunto la sua carica solo in settembre – si trovavano a Roma per incontrare papa Giovanni Paolo II.
Quando i vescovi, sorpresi dagli eventi, si sono accomiatati dal Papa per affrettarsi a tornare in patria, Giovanni Paolo II li ha congedati con queste parole: “Fate di tutto, per unirvi anche voi, seppure come un piccolo gregge, a tutti gli uomini di buona volontà, in particolare ai cristiani evangelici, per rinnovare la faccia della terra nel vostro Paese nella forza dello Spirito divino”.
Un’eco significativa della famosa predica di Pentecoste pronunciata a Varsavia nel 1979.
A questo punto è opportuno chiedersi se questo è accaduto, se la faccia della terra sia stata effettivamente rinnovata nei nuovi Länder federali.
Ora, sul piano organizzativo la risposta può essere affermativa.
In questo arco di tempo nei nuovi Länder federali sono state create le strutture gerarchiche, e le relazioni fra Stato e Chiesa sono state regolate da concordati.
Dal 1989 sono stati fondati 26 conventi maschili, 24 conventi femminili e numerosi movimenti religiosi – come per esempio Comunione e liberazione, Cursillo de Cristiandad, Mariage Encounter, Emmanuel e altri – hanno intrapreso la loro attività apostolica.
A questo si aggiunge la fondazione di 58 nuove scuole cattoliche.
Tutto ciò conferma anche per la Chiesa nella ex Ddr la validità del motto di Montecassino: Succisa virescit.
Sono ormai trascorsi vent’anni dalla svolta, dalla liberazione della Chiesa nella Germania orientale.
A questo punto, si è tentati di chiedersi se a questo processo sia connessa anche una corrispondente influenza sulla società dei nuovi Länder.
Fino a oggi non è possibile dare una risposta positiva a tale proposito, se si considera l’alta percentuale di voti che ha ottenuto nelle elezioni degli ultimi due decenni il partito succeduto alla Sed, la Pds, legata come in precedenza all’ideologia marxista.
Anche lo schieramento estremista di destra ha un seguito tutt’altro che modesto.
Comunque, oggi, non è ancora il momento per interrogarsi su un’eventuale influenza cristiana sulla società della ex Ddr a seguito della svolta.
Circa cento anni di scristianizzazione di questi Länder – prima a causa del materialismo volgare del tardo Ottocento e poi delle ideologie irreligiose del Novecento – hanno contribuito al sorgere, in questi luoghi, di un clima spirituale e sociale che non è affatto favorevole al diffondersi del messaggio cristiano.
Ma questa situazione non deve assolutamente indurre alla rassegnazione, deve piuttosto essere riconosciuta e raccolta dalla Chiesa in Germania come una sfida.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009)

VI edizione di ABCD

Dall’11 al 13 novembre 2009 la Fiera di Genova ospiterà la VI edizione di ABCD, Salone Italiano dell’Educazione.
ABCD è il luogo di confronto dove convergono ed interagiscono gli operatori e i fruitori del “sistema educazione” attraverso incontri, iniziative, seminari, dedicati ai temi di maggiore attualità: dalla prevenzione alimentare alla conoscenza del territorio, dall’orientamento all’uso delle tecnologie multimediali e digitali, dai temi dell’università e della ricerca alle nuove tecnologie.
La manifestazione di quest’anno si presenta arricchita da nuovi e stimolanti contenuti in grado di rispondere alle esigenze dei visitatori e delle aziende specializzate nella fornitura di prodotti e servizi per la scuola e l’educazione.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è presente alla manifestazione con un proprio spazio espositivo all’interno del quale, in collaborazione con l’ANSAS, allestirà una piccola aula multimediale, dove docenti esperti condurranno esercitazioni sull’uso delle LIM.
Nello stand saranno presenti anche gli Uffici Scolastici Regionali della Liguria, del Piemonte, della Lombardia, dell’Emilia Romagna e della Toscana che presenteranno delle best practices prodotte dalle scuole del territorio di propria competenza.
Di particolare importanza è il convegno internazionale “LIM e contenuti digitali – modifica degli ambienti di apprendimento”, promosso dal Dr.
Giovanni Biondi – Capo Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali del MIUR – che si terrà presso la Sala Liguria mercoledì 11 novembre 2009 dalle ore 10,30 alle ore 13,00.
La nota del 5 ottobre 2009 prot.n.
14940
prevede l’esonero dal servizio dei docenti interessati alla manifestazione.
Ulteriori informazioni possono essere reperite sul sito ABCD – Salone Italiano dell’Educazione

Sovranità, decentramento, regole.

V.
CAMPIONE, A.POGGI, Sovranità, decentramento, regole.
I livelli essenziali delle prestazioni e l’autonomia delle istituzioni scolastiche,  Il Mulino, Bologna 2009,ISBN: 8815130799,Pagine: 217, € 18.00 Fra i problemi che il nostro paese deve affrontare nella riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione, raramente viene citato quello relativo all’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Eppure la costruzione di una cittadinanza unitaria “sociale” come limite al potere “politico” di differenziazione costituisce uno dei problemi cardine di ogni sistema realmente decentrato.
Le formule utilizzate in alcune costituzioni europee per legittimare una competenza dello Stato finalizzata a soddisfare i LEP sono il frutto dell’espansione dell’idea saldamente radicata nelle costituzioni democratiche di eguaglianza sostanziale, che implica non solo interventi dei pubblici poteri ma ancor più esige che gli stessi interventi siano finalizzati a rimuovere le disuguaglianze di fatto.
In questo volume si cerca di mettere in evidenza come l’introduzione di norme federalistiche renda non più rinviabile la precisa individuazione dei LEP.
In altri termini non è possibile sviluppare la forma federalista dello Stato e decidere di conseguenza di assicurare il mantenimento di standard adeguati in alcuni campi fondamentali (sanità, assistenza e, appunto, istruzione) senza definire preliminarmente i LEP.
Il punto di equilibrio va individuato nei contenuti con cui riempire quanto prescritto dalla Costituzione, da leggere in termini di difesa dei diritti e di adempimento degli obblighi di prestazione, piuttosto che come la semplice definizione di competenze dello Stato.

In Usa boom dei libri elettronici

SCOMPARSA – Scrive il Washington Post: «I tomi pesanti che ci portavano dietro sembrano destinati a scomparire».
Al momento, le vendite dei libri elettronici sono solo l’1,5 per cento del totale.
Ma Steve Haber, un dirigente della Sony, ritiene che raggiungeranno presto il 50 per cento: «I miei nipoti», riferisce, «non prendono più in mano un libro.
Accade in tutte le famiglie dei miei amici».
E aggiunge che in America si compra ormai il 20 per cento dei libri online.
Conclude Haber: «Le mega catene di librerie sanno quale sarà il mercato del futuro, stanno lanciando i loro lettori elettronici, stanno mettendo a disposizione dell’acquirente i titoli di cui dispongono».
PREZZI – Il prezzo non è modico, va dai 200 dollari in su, ma l’iniziativa ha un successo enorme.
Un’analista, Sarah Rotman Epps, ha detto al Washington Post che con Kindle la Amazon ha innescato un trend che rivoluzionerà l’editoria.
«È anche questione di soldi: in media un nuovo best seller costa 15 dollari se stampato, ma solo 8 dollari se elettronico, una differenza sostanziosa».
Ne soffrono persino i tascabili, le cui vendite allo scorso agosto sono scese del 9 per cento.
Secondo l’analista, gli entusiasti dei libri elettronici ne leggono 3–4 al mese, hanno dai 40 ai 50 anni, un reddito annuo di oltre 100 mila dollari, e usano quotidianamente’internet: «I loro figli», afferma, «ne seguiranno in massa l’esempio.
Avremo un boom simile a quello delle foto digitali».
Il re del settore è l’ultimo Kindle, che contiene 1.500 titoli, ciascuno dei quali può essere scaricato in appena 60 secondi.
Ginny Wolfe, una private contractor che lavora in Afganistan, lo ha voluto con sé: «Una volta partendo mi riempivo una valigia di libri.
Adesso il Kindle mi offre più di quanto abbia bisogno».
È la fine della editoria tradizionale? Non secondo lettori come Hilton Henderson: «Per me leggere un libro su uno schermo à come fare sesso cibernetico», protesta Henderson.
Haber, il dirigente della Sony, lo contesta: «Prendete in mano un lettore elettronico e vedrete che qualche ragazza vi avvicinerà subito».
Ennio Caretto 05 novembre 2009 È il boom dei libri elettronici.
L’anno scorso, nonostante la crisi finanziaria ed economica, le loro vendite sono salite del 68,4 per cento e quest’anno, allo scorso agosto, di ben il 177 per cento.
Inoltre i libri elettronici hanno invaso le biblioteche pubbliche, e quella di Amazon, Kindle, è diventata la favorita dei giovani.
Mentre l’editoria tradizionale ha registrato una battuta d’arresto, quella elettronica prevede di arrivare a 10 milioni di lettori.
È una parte modesta del mercato, ma l’unica in inarrestabile espansione.

«Il crocifisso resterà nelle aule»

Il Governo italiano presenterà ricorso contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha disposto la rimozione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, riunito oggi a palazzo Chigi, confermando quanto riferito dal giudice Nicola Lettieri, che difende l’Italia davanti alla Corte di Strasburgo.
Lo si apprende da fonti governative secondo le quali a occuparsi della questione sarà il ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009)  Oggi sono state distribuite quattromila croci francescane ai ragazzi fuori da alcuni licei di Roma.
L’iniziativa è stata voluta da Aldo Di Biagio, responsabile Italiani nel mondo del Pdl, per protestare contro la sentenza della Corte europea per i Diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule delle scuole.
“Distribuire la croce francescana tra i giovani ha rappresentato per me un sincero invito alla riflessione – ha detto – e soprattutto un segnale di apertura al confronto ed al dialogo interreligioso che proprio questo simbolo vuole evidenziare.
Qualcosa di profondamente lontano dall’immagine quasi oppressiva e provinciale che una certa Europa ha voluto definire in questi giorni”.
La singolare protesta si è svolta davanti ad alcuni istituti del centro della Capitale, in particolare al liceo Visconti in piazza del Collegio Romano, dove era presente lo stesso Di Biagio.
“I giovani hanno apprezzato – ha commentato – molti si sono fermati a parlare con me e con i miei collaboratori per capire, chiedere e dare il pieno sostegno all’iniziativa.
Molti di loro dimostrano di comprendere che parte della cultura italiana ed europea trae origine proprio da quel pezzetto di legno, e che questa ricchezza identitaria e culturale si colloca ben oltre le posizioni e le ortodossie confessionali”.
“Questo è lo spirito dell’interrogazione presentata a Frattini e a Ronchi a firma mia e di molti colleghi del Pdl – ha spiegato poi – in cui chiediamo quali provvedimenti intendono predisporre al fine di garantire il mantenimento di un simbolo culturale e valoriale come il crocifisso nell’ambito degli spazi pubblici e quali iniziative intendono valorizzare e sostenere al fine di aprire un confronto con le istituzioni europee finalizzato al chiarimento della posizione italiana a sostegno della piena valorizzazione del simbolo come espressione dell’identità cristiana dell’Italia e dell’Europa intera”.
 “Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Il crocifisso, il suo potere unisce destra e sinistra di Pippo Delbono in l’Unità del 6 novembre 2009 “Non sarebbe forse meglio, al posto dei crocifissi scrivere sui muri, citando altre parole del Cristo, «Ama il prossimo tuo come te stesso»?” (ndr.: è incredibile che il crocifisso non indichi più, per molti, l’amore del prossimo) Meno bugie più Vangelo di Enzo Mazzi in il manifesto del 6 novembre 2009 “Non risulta per niente vero che è consentito vedere nella croce il simbolo della prevalenza dell’amore sul potere, come sostiene un teologo alla moda come Vito Mancuso (la Repubblica di ieri 4 novembre).
Tutti i movimenti popolari rivoluzionari animati dal Vangelo che hanno visto nella croce il segno della liberazione storica e non solo della redenzione sacrificale trascendente sono stati repressi spesso nel sangue.” “«meno croce e più Vangelo» valeva anche nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso” Il Concordato crocifisso di Massimo Faggioli in Europa del 6 novembre 2009 “A chi vuole argomentare la difesa del crocifisso col Concordato, non si può non richiamare un immortale aforisma di Carl Schmitt, ripubblicato nel 2005 in Un giurista davanti a se stesso: «Nel Vangelo il Cristo muore per la sua pena; oggi stipulerebbe invece un Concordato con i suoi aguzzini».
Ai teologi di corte e (per parafrasare Franz Overbeck) ai «friseur della parrucca teologica» dell’Italia berlusconiana non resta che scegliere tra il Crocifisso e il Concordato.
Il crocifisso? Non lo ricordo di Aldo Maria Valli in Europa del 6 novembre 2009 “Sinceramente non ricordo se nelle aule scolastiche che ho frequentato, tutte di scuole statali, ci fosse o meno il crocifisso.,,,” Quei cattolici in fila alle primarie di Angelo Bertani in Europa del 6 novembre 2009 “chi sono i cattolici e che cosa sta loro a cuore? (…) Quelli che difendono il crocifisso come simbolo della tradizione occidentale contro gli invasori islamici, o quelli che lo considerano l’esempio di Colui che ha dato la vita per gli altri? Anche per il Pd si pone una domanda: di quali cattolici cercare il consenso? I cattolici credenti e coerenti sono molto più numerosi di quanto si creda, anche se più umili e meno chiassosi….” Crocefisso, non tutto è diritto di Raniero La Valle in Liberazione del 5 novembre 2009 “La sentenza è ineccepibile: una volta investita del caso, la Corte non poteva che decidere così…
Ma mi dispiace che…
ci sia una gara per dire che il crocefisso andrebbe mantenuto perché avrebbe cessato di essere un simbolo religioso, e sarebbe invece “un simbolo della storia e della cultura italiane”, “dell’identità italiana”…
Questa posizione è infatti atea, ma è devota, e tende a lucrare i benefici della religione come religione civile.
E io dico la verità: se il Crocefisso diventasse la bandiera di un’identità, di un nazionalismo, di un razzismo, di una lotta religiosa…
e cessasse di essere la memoria di un Dio che si è fatto uomo…
e che “avendo amato i suoi fino alla fine” ha accettato dai suoi carnefici la sorte delle vittime, e continua a salire su tutti i patiboli innalzati dal potere, dal danaro e dalla guerra, allora io non vorrei più vedere un crocefisso in vita mia.” Il patto del crocifisso Il Vaticano «apprezza» il governo italiano di Fulvio Fania in Liberazione del 5 novembre 2009 “la gerarchia preferisce mettere in secondo piano il carattere religioso di quel simbolo, anteponendone il “valore culturale” o di identità italiana ed europea.
Un’operazione che viene duramente contestata dalle altre comunità cristiane…
«Grande spazio all’inquietudine dei cattolici – denunciano gli evangelici – nessuna attenzione invece al plauso dei protestanti» per una sentenza che è giudicata positivamente dalla moderatora valdese Maria Bonafede, dalla presidente dell’Unione battista Anna Maffei e dall’Alleanza evangelica italiana.” No, laicità non significa togliere il crocefisso, simbolo d’amore di Aurelio Mancuso in gli Altri del 5 novembre 2009 “So che mi attirerò le ire di tante e di tanti, ma trovo la polemica sul crocefisso inutile, sopra le righe e soprattutto ipocrita…
Mi permetto di rilevare che la sottrazione di quel simbolo non sarebbe oggi una vittoria della libertà sulle visioni autoritarie, ma sarebbe interpretato dai più come un protervo gesto di violenza culturale…
Strappare il crocefisso da quei muri…
significa offendere non Dio, ma l’amore che milioni di italiani hanno nei confronti di questo simbolo di genuina pietas.” Crocifisso, “Noi Siamo Chiesa”: La fede si vive nelle coscienze di Vittorio Bellavite in www.noisiamochiesa.org del 5 novembre 2009 “Non ci si rassegna al superamento di una cultura della cristianità.
L’ostilità alla sentenza della Corte di Strasburgo è la conseguenza di questo atteggiamento generale…
Il crocefisso è un simbolo religioso…
Come simbolo (improprio) dell’identità e della cultura nazionale esso viene usato strumentalmente da tutta la destra miscredente (quella degli atei devoti e di quelli che adorano il Dio Po) e da quella cristiana fondamentalista.
Il Vaticano e la CEI non riescono ad avere una posizione più equilibrata…
anzi, contribuiscono ad alimentare rivendicazioni e acide polemiche.” Le Comunità Cristiane di base: Meno croce e più Vangelo di Comunità Cristiane di base in MicroMega-online del 4 novembre 2009 “Sappiamo di essere controcorrente perché la maturazione della società, della realtà religiosa e della politica sul tema della laicità è un percorso lungo e conflittuale.
Ma non siamo affatto soli.
“Meno croce e più Vangelo” valeva nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso.
Meno croce e più Vangelo valeva per un cattolico come Mario Gozzini, il senatore della legge sulla umanizzazione del carcere” La scuola del crocefisso di Lidia Ravera in l’Unità del 5 novembre 2009 “Insomma, sgombriamo il cuore e la mente dal cumulo di gravi problemi che ci attanagliano e discutiamo, alla radio, in tivù, su tutti i giornali del tema più urgente, scottante, ammaliante: bisogna staccare il crocefisso dal muro dietro la cattedra oppure no? …
Stacchiamolo e facciamola finita.
Abbiamo ben altro per la testa!” Il crocifisso, i giudici e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante in L’Osservatore Romano del 5 novembre 2009 “la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.” Crocifisso braccio di ferro inutile di Gian Enrico Rusconi in La Stampa del 5 novembre 2009 “Questo conflitto investe in profondità convinzioni ed emozioni…
Va respinta con energia l’accusa che chi…
vorrebbe rimuovere dallo spazio pubblico scolastico il segno della fede cristiana è una persona intollerante…
Lo stesso vale per l’accusa di rinnegare la tradizione popolare nazionale…
Il fondo della contraddizione è toccato dai leghisti che da una parte contestano e sbeffeggiano l’identità nazionale, e dall’altro difendono il crocifisso nelle scuole come simbolo intoccabile di tale identità…
La vera novità è non eludere il problema, parlarne in modo responsabile e pacato…” Quel richiamo all’amore vale per l’intera umanità di Vito Mancuso in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Dietro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo vi è la preoccupazione in sé legittima di tutelare la libertà, in particolare la libertà religiosa dei bambini che potrebbe venir minacciata dalla presenza di un crocifisso nelle aule scolastiche.
In realtà vi sono precisi motivi che rivelano l’infondatezza di tale preoccupazione, e mostrano al contrario che dal crocifisso scaturisce uno sprone all’esercizio della libertà in modo giusto e coraggioso.” “Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Bertone: l’Europa lascia solo le zucche di Halloween di Orazio La Rocca in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Sulla sentenza della Corte di Strasburgo, che condanna l’Italia a togliere i crocifissi dalle scuole pubbliche, spira aria di rivolta anti europea.” La carica dei sindaci-crociati “E noi li distribuiamo in piazza” di Paolo Griseri in la Repubblica del 5 novembre 2009 “L’epicentro dello scontro è Abano Terme, dove risiede la famiglia italo-finlandese che con la sua protesta ha causato il pronunciamento di Strasburgo…
il sindaco leghista del vicino paese di Cittadella: «Suggerisco al sindaco di Abano di revocare la residenza alla famiglia italo finlandese…».
In tutto questo frastuono di minacce e spacconate a difesa dei simboli, stona l’invito di don Antonio, parroco di Abano che indica nello stile di vita e nell’esempio il fondamento del cristianesimo e sintetizza: «Protesta chi il Crocifisso non lo ha dentro».
Ma nell’Italia che sembra la Vandea, la sua è una voce che grida nel deserto.” In croce di Agostino Paravicini Bagliani in la Repubblica del 5 novembre 2009 “La croce è un simbolo conosciuto da molte civiltà, dalla Cina all’Egitto, dall’Asia all’Africa.
Perché è un simbolo dell’asse del mondo…
Se nell’arte cristiana la rappresentazione della croce occupa un posto preminente, la sua storia non fu affatto lineare…
fu a lungo simbolo di potenza e di gloria e come tale accompagnò l’affermazione storica del Cristianesimo a Roma…
diventerà anche l’elemento centrale della rappresentazione iconografica dell’opposizione…
tra la chiesa cristiana e il giudaismo…
servì anche ad accompagnare la riconquista della Spagna araba, le crociate e ben altre lotte anche di natura politica…
Il segno della croce fu però anche usato per superstizione…” «Non è una sentenza coercitiva, non c’è nessuna possibilità di coercizione che ci impedisca di tenere i crocefissi nelle aule».
In una conferenza stampa a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi torna a parlare della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule scolastiche.
Il premier ha ribadito tutte le sue perplessità nei confronti di questa decisione spiegando che qualunque sia l’esito del ricorso presentato dal governo italiano «non ci sarà capacità coercitiva».
DECISIONE NON RISPETTOSA DELLA REALTA’ – Berlusconi ha poi aggiunto che la decisione della Corte dei diritti dell’uomo «Non è rispettosa della realtà: l’Europa tutta e in particolare l’Italia non può non dirsi cristiana.
Quando sono stato presidente del Consiglio Europeo – ha ricordato ancora il premier -condussi una battaglia per introdurre nella Costituzione le radici giudaico-cristiane, ma Paesi laici e laicisti come la Francia di Chirac si opposero e siccome serviva l’unanimità non riuscimmo a introdurle».
Comunque, «Se c’è una cosa su cui anche un ateo può convenire è che questa è la nostra storia.
Ci sono 8 paesi d’Europa che hanno la croce nella loro bandiera…
Cosa dovrebbero fare cambiare la loro bandiera?».
CEI – La conferenza episcopale italiana ha espresso apprezzamento per le parole del premier, che ritiene «non vincolante» la decisione della Corte di Strasburgo sul crocifisso.
«Non posso che confermare quanto finora detto dalla stragande maggioranza degli italiani, governo compreso – dice monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Amelia-Terni e responsabile della Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso -.
C’è un tale consenso contro la sentenza di Strasburgo che mostra quanto essa tenga poco conto della realtà di un Paese».
06 novembre 2009

XXXII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Preghiere e Racconti   L’offerta della vedova Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più.
Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte.
Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza.
Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.
(E.
MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 123-124).
Essere dono Ognuno è chiamato ad essere dio.
Ma essere dio non vuol dire  avere tutto, servirsi di ogni cosa  e di ogni uomo; non vuol dire essere un “potente” per opprimere gli altri.
Essere dio vuol dire  essere un potente che dona agli altri il suo potere; vuol dire dare un senso di eternità a ciò che ci circonda, dare speranza ai disperati, gioia a chi piange, luce a chi non vede…Vuol dire indicare Dio a chi crede che Dio non esista.
(O.
OLIVIERO, L’amore ha già vinto.
Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 22).
Il mendicante e il re Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto.
In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.
Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato.
Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina.
Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare.
Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro.
Si rammaricò.
Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.
Si privò di tutto quanto aveva per vivere «Chi usa misericordia verso il povero, presta a interesse al Signore» (Pr 19,17).
[…] Colui che presta denaro ai poveri del Signore, attende dal Signore la ricompensa della vita eterna.
Del resto, anche il beato apostolo Paolo nel suo insegnamento attesta che, tra le preoccupazioni di tutte le chiese, quella che lui ha per i poveri non è di certo la più piccola.
Dice infatti: «Soltanto ricordiamoci dei poveri, cosa che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10); e in un altro passo esclama: «Niente abbiamo portato venendo in questo mondo, e niente possiamo portar via» (1Tm 6,7); e ancora: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7).
[…] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell’animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare.
Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali.
Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà.
Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio.
[…] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.
(PAOLINO DA NOLA, Lettere 34,2-4, PL 61,345C.346A-C).
La pietra preziosa «Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese.
Il monaco gliela diede immediatamente.
Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.
Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore.
Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”» (Anthony de Mello).
Le persone sono doni Qualche tempo fa, ho ricevuto un articolo non firmato intitolato Le persone sono doni.
Vorrei parafrasarne alcuni passi come segue: «Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti.
Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente.
Alcuni vengono strapazzati durante l’invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l’involucro ed è importante rendersene conto.
È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall’involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c’è bisogno dell’aiuto altrui.
Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati.
Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono.
Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia.
E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni.
Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu.
Siamo doni vicendevoli».
(J.
POWELL, Parlami di te.
So ascoltare il tuo Cuore, Milano, Gribaudi, 2005, 24-25).
I valorosi sono sempre tenaci? “I valorosi sono sempre tenaci?”.
Dal cielo, il Signore sorride contento, perché era ciò che Egli voleva: che ciascuno avesse nelle proprie mani la responsabilità della propria vita.
In fin dei conti aveva dato ai propri figli il più grande di tutti i doni: la capacità di scegliere e di decidere i propri atti.
Soltanto gli uomini e le donne segnati nel cuore dalla fiamma sacra avevano coraggio di affrontarLo.
E soltanto questi conoscevano il cammino per tornare al Suo amore, giacché capivano finalmente che la tragedia non era una punizione, ma una sfida.
Elia rivide a uno a uno tutti i suoi passi: dal momento in cui aveva lasciato la falegnameria, aveva accettato la propria missione senza discutere.
Anche se fosse stata vera, e lui pensava che lo fosse, Elia non aveva mai avuto l’opportunità di vedere che cosa accadeva nei cammini che aveva rifiutato di percorrere.
Perché aveva paura di perdere la fede, la dedizione, la volontà.
Riteneva che fosse molto rischioso sperimentare il cammino delle persone comuni: alla fine avrebbe potuto anche abituarsi e amare ciò che vedeva.
Non capiva che anche lui era una persona come tutte le altre, anche se udiva gli angeli e riceveva di tanto in tanto qualche ordine da Dio: era talmente convinto di sapere ciò che voleva da essersi comportato proprio come coloro che non avevano mai preso una decisione importante nella vita.
Era sfuggito al dubbio.
Alla sconfitta.
Ai momenti di indecisione.
Ma il Signore era generoso, e lo aveva condotto nell’abisso dell’inevitabile per dimostrargli che l’uomo deve scegliere, e non accettare, il proprio destino.
(Paulo COELHO, Monte Cinque, Bompiani, Milano, 1998, 206-207).
Preghiera Signore Gesù, che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchirci con la tua povertà, aumenta la nostra fede! È sempre molto poco ciò che abbiamo da offrirti, ma tu aiutaci a consegnarlo senza esitazione nelle tue mani.
Tu sei il Tesoro del Padre e il Tesoro dell’umanità: in te si riversa la pienezza della divinità, eppure tu attendi ancora, da noi, l’obolo di ciò che siamo, perfino del nostro peccato.
Crediamo che tu puoi trasformare la nostra miseria in beatitudine per molti, ma tu insegnaci la generosità e l’abbandono confidente dei poveri in spirito! Vogliamo accettare la sfida della tua parola e donarti tutto, anche il necessario per l’oggi e il domani: tu stesso fin d’ora sei la Vita per noi.
              * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
    Lectio – Anno B   Prima lettura: 1Re 17,10-16          In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta.
Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna.
La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane».
Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto.
Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni.
La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
           Dopo l’annuncio della siccità (v.
1) e la chiamata da parte di Dio con il ritiro al torrente Cherit (vv.
2-7), ora Elia deve spostarsi a Sarepta, circa 15 km a sud di Sidone, sulla costa fenicia, terra dalla quale proveniva Gezabele, nemica dichiarata di JHWH e dunque di Elia stesso.
In quel territorio Elia non si trova più sotto la giurisdizione di Acab.
L’ordine può essere stato dato da Dio a motivo della persecuzione, che ormai potrebbe essere aperta (cf.
18,10).
Proprio una vedova, che già per il suo stato sociale era condannata agli stenti, viene individuata come sostegno del profeta.
Umanamente questo è paradossale, ma è sempre Dio a garantire la vita al di là delle umane risorse e aspettative.
     Nell’antico vicino oriente le vedove erano riconoscibili per l’abito da lutto che esse indossavano, segno permanente della loro incompletezza dopo la perdita dello sposo (cf.
Gn 38,13; Gdt 10,3).
Entrato in città, Elia ne scorge una che raccoglie la legna destinata a cuocere le ultime poche risorse che sono rimaste per lei e suo figlio: un pugno di farina e una goccia d’olio.
La vedova a cui Elia è inviato è sul lastrico, rassegnata ormai alla morte e alla cui alternativa non vede esonerato neanche il proprio figlio.
     La donna esaudisce prontamente il desiderio di Elia in merito alla sete, come del resto prevede il grande senso di ospitalità orientale, ma recrimina per la richiesta di cibo.
Il fatto che la donna invochi JHWH nella sua risposta ad Elia può dipendere dal fatto di avere riconosciuto in lui un ebreo sia per l’abbigliamento che per la pronuncia.
Secondo l’uso orientale la donna giura per la divinità dell’ospite.
Il giuramento rivela che quanto viene asserito dalla donna è vero ed importante.
     Alla comprensibile protesta della donna Elia risponde non trascurando i suoi legittimi bisogni, ma invitandola a farli precedere da un atto di fede attraverso l’oracolo che egli pronuncia.
Il contenuto delle parole di Elia non sono semplicemente un rovesciamento di prospettiva di futuro che aveva la vedova, la quale si sentiva ormai alla fine, ma anche una indicazione chiara di colui che offrirà la soluzione.
L’oracolo profetico è chiaramente forgiato sulla fede monoteista israelitica secondo la quale JHWH è l’unico Signore del creato dal quale la pioggia dipende.
Vi è qui un chiaro atteggiamento polemico verso il culto forestiero di cui Gezabele era promotrice e che riconosceva in Baal il dio della fecondità, manifestata appunto nei riguardi della terra con la pioggia.
     Colui che regola i cicli naturali, che detiene il controllo delle riserve celesti (Gb 38,22-30) ha certamente potere anche sulla dispensa della vedova.
Essa si fida della parola di Elia e il miracolo si compie.
Attraverso il suo profeta Dio stesso si è presentato a quella diseredata non per toglierle il poco che le era rimasto, ma per aggiungere vita e speranza.
     A causa di questo episodio Elia viene considerato nella pietà giudaica il patrono dei casi impossibili.
  Seconda lettura: Ebrei 9,24-28          Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
       Già il v.
11 del nostro capitolo aveva parlato del santuario non fatto da mani di uomo.
Ora, riprendendo la liturgia del giorno dell’espiazione, si parla ancora del rapporto simbolico che intercorre tra il tempio di Gerusalemme, imponente costruzione umana, e il santuario celeste.
In 8,2 l’autore aveva già trattato di questo simbolo molto lontano dalla realtà che esso rappresenta, dal momento che il vero santuario in cui Cristo è entrato è il cielo stesso.
Lì Gesù si trova direttamente di fronte al Padre e diventa il nostro avvocato, come veniva ricordato nel passaggio della scorsa domenica in 7,25.
     Ritornando alla liturgia dello jom kippur, cioè del giorno della espiazione, Gesù viene paragonato al sommo sacerdote, ma per istituire un contrasto.
Mentre il primo doveva annualmente «comparire», in modo solenne per indicare l’entrata del gran sacerdote nella parte più sacra del tempio, il santo dei santi, per Gesù non è così.
Egli non ha bisogno di reiterare la sua offerta, perché per la purificazione dal peccato non si serve del sangue di terzi, che nel caso del sommo sacerdote era addirittura di animale, sangue di cui idealmente veniva rivestito e dal quale veniva protetto nel suo accesso al Santo dei santi; sangue che non era in grado di purificare dai peccati.
Per questo il sacrificio, anche se svolto con la maggiore solennità, aveva una scadenza annuale che già in se stessa era dichiarazione di limitatezza.
     Il v.
26 si apre con un ragionamento che procede per assurdo, per condurre alla comprensione della efficacia di quanto è stato compiuto da Cristo.
Se fossero valsi per Lui i criteri che regolavano l’espiazione nell’antico culto, egli avrebbe dovuto accompagnare tutta la storia umana, fin dalle sue origini, con il sacrificio.
Infatti la storia degli uomini è storia di peccatori e di miserie.
Al contrario, una sola volta, nella pienezza dei tempi, cioè nel momento stabilito dal Padre, Gesù è «apparso» prima nel tempo, dimensione in cui si commettono i peccati, e, dopo aver consumato in esso il sacrificio di se stesso, è «apparso» nel santuario celeste rivestito del proprio sangue che lo qualifica come efficace espiatore ed intercessore.
È pertanto sul sangue stesso di Gesù che si basa l’assoluta validità del suo sacrificio e dunque la sua non reiterabilità.
     Nei vv.
27-28 vi è un nuovo confronto tra Gesù e l’esperienza umana.
Per l’uomo dopo la morte viene il giudizio, per Gesù invece vi sarà una seconda «apparizione».
Il tratto più interessante di questi versetti è il modo in cui viene presentata la parusia, perché certamente di essa parla l’autore quando dice che Cristo «apparirà una seconda volta».
Il ritorno finale viene descritto rifacendosi ancora alla liturgia del giorno della espiazione.
Quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi tutto il popolo rimaneva fuori in attesa di lui che uscendo avrebbe portato il perdono divino.
Così nel suo ritorno finale Cristo uscirà come vero sommo ed eterno sacerdote dal santuario celeste per portare la salvezza a coloro che lo attendono.
Prevale qui un aspetto positivo della venuta finale descritta come il compimento dell’attesa della sospirata, completa assoluzione.
        Vangelo: Marco 12,38-44          In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.
Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.
Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete.
Tanti ricchi ne gettavano molte.
Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
    Esegesi      Il brano evangelico è diviso in due sezioni.
La prima è costituita dai vv.
38-40 che contengono l’ultimo insegnamento impartito da Gesù nel capitolo 12 di Marco.
La seconda, introdotta da un cambiamento di luogo, occupa i vv.
41-44 con la vedova additata ad esempio di vera pietà.
     Uno sguardo d’insieme alla tradizione sinottica ci avvertirebbe che l’atteggiamento polemico di Gesù verso gli scribi fu forte e non raro; basterebbe ricordare il capitolo 23 di Matteo.
La comunità primitiva si preoccupò subito di conservare memoria degli insegnamenti di Gesù in questa materia per ricavare anche da essi uno stile nuovo di vita al suo interno.
Il vangelo di Marco ha conservato poco materiale a questo proposito, e la parte che ci tocca leggere in questa domenica è la più polemica.
Gli scribi vengono presi di mira a causa della loro preoccupazione per l’esteriorità.
Probabilmente la loro condizione di studiosi e di esperti del testo sacro era manifestata nell’abbigliamento da un mantello apposito che essi si ponevano sulle spalle.
Altri segni di distinzione ai quali erano particolarmente attaccati erano gli atti di omaggio e di riguardo che venivano loro riservati in pubblico, innanzitutto nelle piazze, dove un gran numero di persone potevano assistere agli atti di deferenza che ricevevano.
Anche nelle case private, in occasione di banchetti, e persino nei luoghi di culto, le sinagoghe, desideravano essere in rilievo occupando i primi posti.
L’ultima apostrofe che Gesù riserva loro riguarda la vita di pietà vissuta in pubblico come atto di esibizionismo religioso.
     Staccata dal piano esteriore è la loro avidità che prende di mira le persone meno tutelate: le vedove.
Professionalmente gli scribi offrivano la loro consulenza in materia legale, il che equivaleva in una società e cultura come quella giudaica, ad una competenza religiosa perché tutto veniva regolato alla luce della Thorà.
Essi però erano esosi per le loro prestazioni persino con i meno abbienti.
Le parole con le quali Gesù conclude le considerazioni a loro riguardo sono assai dure.
All’affermazione alla quale essi tanto tengono per il presente farà seguito una condanna più pesante di quella riservata al popolo.
Forse si può notare qui una fine ironia: a queste persone esasperatamente preoccupate di primeggiare sarà data loro la possibilità di farlo persino nella dimensione definitiva, ma in un modo negativo.
     La seconda sessione del nostro brano (vv.
41-44) narra un episodio che si svolge in un ambiente specifico del grande complesso del tempio.
Si tratta di un corridoio dell’atrio, luogo in cui anche le donne potevano recarsi.
In questo corridoio vi erano tredici urne nelle quali venivano deposte le offerte dei devoti.
Ad introdurre il denaro nel contenitore era un sacerdote al quale l’offerente indicava lo scopo di quanto consegnava.
Le urne si distinguevano proprio anche per la speciale destinazione data all’offerta e dunque all’uso che ne sarebbe stato fatto.
Anche in questo ambiente non manca l’ostentazione che fa da legame narrativo con la sezione precedente: i ricchi gettano molto danaro.
Proprio questo filo conduttore ci porta a scoprire che la pericope liturgica si gioca sul contrasto.
     All’esteriorità e all’avidità di cui si è parlato si contrappone la generosità e la pochezza della vedova.
Di proposito viene detto che la somma in suo possesso è cost

Vita e cosmo a rapporto

Inizia  il 6 novembre presso la Casina Pio iv la settimana di studi “Astrobiology” promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
Pubblichiamo l’introduzione al programma dei lavori del presidente del comitato scientifico organizzativo e del direttore della Specola Vaticana.
  L’astrobiologia è lo studio del rapporto della vita con il resto del cosmo:  i suoi temi principali includono l’origine della vita e la materia che l’ha preceduta, l’evoluzione della vita sulla Terra, le sue prospettive future sulla Terra e al di fuori di essa e l’eventualità che ci sia vita altrove.
Dietro a ognuno di questi temi vi è un insieme multidisciplinare di questioni che coinvolgono la fisica, la chimica, la biologia, la geologia, l’astronomia, la planetologia e altre discipline, ognuna delle quali si collega più o meno strettamente alle questioni centrali dell’astrobiologia.
Spinta da nuove possibilità di esplorazione scientifica sulla Terra e al di fuori di essa, l’astrobiologia sembra assurgere a disciplina scientifica a sé stante.
Lo studio dell’astrobiologia è piuttosto appropriato per la Pontificia Accademia delle Scienze che si basa su una collaborazione pluridisciplinare.
 La settimana di studio promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze ha un programma ambizioso:  riunire scienziati illustri nei diversi campi, condividere i risultati più recenti delle loro ricerche e offrire una prospettiva più ampia del modo in cui questi risultati incidono su altre aree dell’astrobiologia.
Raggiungere questi obiettivi non sarà facile perché il linguaggio di ognuna delle discipline rappresentate dai relatori non è completamente comprensibile.
Come spiegare a un astronomo la complessità dei marker chimici dell’attività biologica in antichi sedimenti della Terra? Oppure, come illustrare con l’accuratezza necessaria a un biologo molecolare le più recenti tecniche astronomiche per l’individuazione dei pianeti? Il paradosso dell’astrobiologia sta nel fatto che, sebbene la si possa considerare una disciplina circoscritta e specializzata, non si può sperare di comprendere adeguatamente la vastità delle discipline tradizionali che ne costituiscono la spina dorsale.
La settimana di studio, dunque, è veramente un corso interdisciplinare per esperti di una determinata materia per acquisire conoscenza e comprensione in altre materie più distanti, ma sempre sotto la giusta e ragionevole denominazione di astrobiologia.
In effetti non si tratta di nulla di nuovo:  sono 13 anni che l’astrobiologia è riconosciuta come una nascente disciplina autonoma.
Gli scienziati sono stati educati a comprendere gli uni le materie degli altri.
Tuttavia, a volte, ciò avviene nell’ambiente della frenetica “conferenza annuale”, quel fenomeno del sapere moderno in cui il massimo numero di interventi viene compresso nel tempo di pochi giorni e si crea una specie di bazar intellettuale dove gli scienziati acquistano frammenti preziosi di informazioni – generalmente, per facilità, nella propria disciplina – cercando di assicurarsi che i concorrenti non stiano vendendo proprio la merce che vogliono vendere loro, o dove (raramente) si avventurano in sessioni estranee alla propria competenza per scervellarsi su quanto viene detto.
Ovviamente si svolgono anche seminari di astrobiologia e di altre scienze, più concentrati, ma spesso riguardano una sottodisciplina.
In un qualsiasi mese dell’anno, geologi possono incontrarsi a Vancouver per approfondire i risultati più recenti sulla studio della comparsa più antica dei fossili sulla Terra, mentre a Rio de Janeiro astronomi presentano nuovi dati sull’abbondanza di elementi che formano la vita in vicine regioni in cui si formano stelle, a Potsdam intanto studiosi dei pianeti discutono dell’ultima prova dell’esistenza della vita sotto la superficie ossidante di Marte.
Questa settimana di studio non è un evento unico, ma è relativamente raro.
Una settimana intensiva in cui astrobiologi in relativo isolamento confrontano i propri campi di ricerca e cercano di comprenderli è un’impresa difficile, ma entusiasmante.
Per fare tutto ciò in un lasso di tempo determinato, abbiamo selezionato accuratamente i relatori che possono rendere i loro specifici campi di ricerca comprensibili a astrobiologi di altri campi, a laici intelligenti e a chi può collegare quelle ricerche ai più ampi problemi dell’astrofisica.
Il programma è suddiviso in otto sessioni.
La prima, “L’origine della vita”, riguarda il difficile quesito sui meccanismi che hanno permesso alle molecole di organizzarsi in modo da consentire l’inizio della vita.
La vita, come la conosciamo sulla Terra, è basata su una struttura di proteine e di polimeri acidi nucleici che trasportano le informazioni per costruire proteine dai loro aminoacidi costitutivi.
Seppur complessa, la vita è una chimica organica molto specifica e selettiva.
Infatti, dell’ampia gamma di possibili acidi organici che i sistemi abiotici possono produrre, la vita ne utilizza solo un manipolo.
Parimenti, utilizza ampiamente solo aminoacidi “di sinistra” e zuccheri “di destra”.
Nella biochimica della vita c’è molto di più, ma questo è un esempio della sfida che chimici e biochimici affrontano nel cercare di comprendere in che modo la cacofonia della chimica organica abiotica si è evoluta nella sinfonia strutturata della vita.
Nello stesso modo ricavare dallo scarso materiale geologico delle prime fasi della Terra qualche indicazione sulle condizioni ambientali nelle quali si è formata la vita è un compito estremamente difficile, perché l’attività geologica, ossia le forze della tettonica, l’erosione, gli impatti del materiale asteroidale, ha cancellato del tutto le prove dell’ambiente terrestre nel mezzo miliardo di anni successivo alla sua formazione.
La seconda sessione, “Abitabilità nel tempo”, riguarda il problema di come la Terra sia riuscita a sostenere la vita per tutta la sua lunga storia geologica.
Qui il materiale geologico è maggiore di quello risalente al periodo in cui si presume la vita abbia avuto inizio (e dovrebbe essere chiarito che non abbiamo un’idea precisa di quando questo sia accaduto).
Tuttavia, ora i processi sono molto complessi:  una varietà di gradazioni spaziali, temporali ed energetiche entrano in gioco.
Il Sole stesso, che spesso è tacitamente considerato come il sostenitore stabile dell’acqua allo stato liquido, che è essenziale per la vita come la conosciamo, era circa il 30 per cento meno luminoso di oggi all’inizio della storia della Terra.
Tuttavia la prova geologica dell’esistenza di acqua allo stato liquido sulla superficie della Terra quando il Sole era così pallido suggerisce che la nostra atmosfera deve aver causato un effetto serra molto più forte di quello odierno e anche piuttosto diverso.
Episodi di seria glaciazione nelle testimonianze geologiche suggeriscono che, di quando in quando, il “termostato” atmosferico non ha funzionato.
In che modo la vita, perfino a livello molecolare, e l’ambiente abbiano interagito nel corso del tempo geologico è il tema della terza sessione, “Ambiente e genomi”.
I tracciati molecolari delle reazioni biochimiche che sostengono la vita restano nella testimonianza geologica, suggerendoci i cambiamenti avvenuti nel corso di lunghi periodi di tempo.
Lezioni da forme di vita che vivono in ambienti estremi, come i venti sottomarini e i deserti più aridi della Terra, contribuiscono all’interpretazione di queste testimonianze.
La comparsa relativamente improvvisa di vita animale, tarda nella storia della Terra, resta un mistero la cui soluzione si potrebbe trovare sia nell’ambiente sia nei meccanismi del genoma.
La Terra sembra essere unica nel nostro sistema solare in quanto ad abbondanza di vita e, ciononostante, non possiamo essere sicuri che non ci sia vita su Marte o altrove nel sistema solare.
La quarta sessione, “Individuare la vita altrove”, si occupa delle prospettive e delle tecniche per individuare la vita in una varietà di ambienti altrove nel sistema solare, al di là di Marte fino agli asteroidi e ai satelliti di Giove e di Saturno.
Indipendentemente dall’esistenza di vita altrove nel nostro sistema solare, la vasta galassia della Via Lattea di cui siamo parte contiene più di cento miliardi di stelle.
Se i pianeti sono una caratteristica comune di tali stelle, non potrebbe esserlo anche la vita? Le tre sessioni successive studiano in modo sistematico l’individuazione, la formazione e le proprietà dei pianeti intorno ad altre stelle:  “pianeti extrasolari”.
La quinta sessione, “Strategie di ricerca di pianeti extrasolari”, spiega le varie tecniche utilizzate per individuare pianeti intorno ad altre stelle e determinare le loro proprietà.
Conosciamo già 380 pianeti extrasolari e gli studi suggeriscono che il 10 per cento di stelle con proprietà simili a quelle del nostro Sole ha almeno un pianeta.
La sesta sessione, “Formazione di pianeti extrasolari”, descrive dettagliatamente in che modo si formano i pianeti come parte del processo di formazione delle stelle.
Occorre domandarsi cosa determina il momento in cui un pianeta roccioso come la Terra si forma in opposizione a un gigante gassoso come Giove e se il processo di formazione del pianeta è materialmente differente intorno a stelle molto più piccole del nostro Sole.
La settima sessione, “Proprietà dei pianeti extrasolari”, riguarda modelli computerizzati, dati astronomici e alcune ipotesi sulla questione delle proprietà dei pianeti extrasolari come funzione delle proprietà delle stelle originarie e delle distanze da esse.
Molto del fascino dell’astrobiologia deriva dal chiedersi se forme di vita senziente esistono in altri mondi e se forme di vita diverse dalla nostra di fatto coesistono con noi, oggi, nel nostro mondo.
L’ottava sessione, “Intelligenza altrove e vita ombra”, studia entrambe le questioni.
La ricerca di vita intelligente altrove è condotta ascoltando il cosmo con radiotelescopi nello sforzo di cogliere un segnale di origine indiscutibilmente artificiale.
La ricerca sul nostro pianeta di una vita con una biochimica diversa da quella nota, la cosiddetta  “vita  ombra”,  è  una possibilità affascinante, ma piena di difficoltà.
L’astrobiologia si sforza di utilizzare una vasta gamma di tecniche scientifiche, focalizzate su obiettivi che vanno dalle molecole nelle cellule al vasto mondo intorno a noi, affinché il posto dell’umanità nel cosmo possa essere maggiormente apprezzato.
È il riconoscimento della notevole complessità di tutto ciò che è in e intorno a noi ed è il modo in cui il XXI secolo realizza l’esortazione del salmista di ricercare (Salmi, 111, 2).
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009)

Costruire un gruppo di lavoro di Insegnanti di Religione Cattolica

(1) G.
P.
QUAGLINO, S.
CASAGRANDE, A.
CASTELLANO, Gruppi di lavoro.
Lavori di gruppo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.
(2) G.
CURSIO, No stress.
Strumenti per la prevenzione del burnout degli Idr, SEI, Torino 2007.
(3) KLAUS W.
VOPEL, Manuale per animatori di gruppo , LDC, Leumann ( Torino) 1998.
(4) KLAUS W.
VOPEL, Op.
Cit., p.
162.
2.
I comportamenti di disturbo nei lavori di gruppo: risorsa e resistenza al cambiamento.
Docenti di religione cattolica di varie regioni italiane si incontrano per la prima volta, talvolta senza conoscersi, con bisogni di ordine socio-relazionale e bisogni di compito che spesso per tanti motivi di ordine organizzativo (tempi stretti, relazioni ecc.) non vengono presi in considerazione.
Talvolta gli strumenti di conoscenza di queste preziose informazioni sono poco conosciuti o svalutati in quanto nell’organizzazione dei corsi di formazione si è spesso preoccupati di far apprendere i contributi degli esperti, tenendo conto però solo dell’aspetto contenutistico.
C’è una preoccupazione di formare il docente dal punto di vista dei contenuti che deve insegnare, dimensione rilevante ma non sufficiente per attivare processi di apprendimento.
La programmazione dei tempi formativi è prevalentemente centrata sulle relazioni di contenuto degli esperti e meno sulle importanti dinamiche relazionali che potrebbero mettere i colleghi nella condizione di condividere bisogni socio-relazionali e bisogni di compito (progetti, ipotesi di lavoro ecc).
Che cosa ho potuto notare nella mia esperienza di facilitatore di gruppi di lavoro? Quando vengono poco ascoltati i bisogni socio-relazionali e vengono sopravvalutati i bisogni di compito (programmare, progettare, ipotizzare ecc.) nei gruppi si evidenziano i seguenti fatti:  i partecipanti rispondono in maniera apatica impegnandosi al minimo, presentando ai colleghi l’eventuale relazione in maniera formale, con la preoccupazione di eseguire un compito non pensato, condiviso, lavorato insieme;  il gruppo si divide in partecipanti che si aspettano qualcosa e da gregari che si sentono frustrati dalla situazione di gruppo;  si creano lotte di potere tra partecipanti particolarmente ambiziosi;  vengono prese decisioni senza la convinzione di tutti;  i conflitti non agiti vengono proiettati sul compito da realizzare;  i partecipanti non si sentono sufficientemente informati e tendono ad ottenere informazioni solo attraverso il pettegolezzo.
Questi segnali sono il risultato di uno squilibrio tra i bisogni di compito ed i bisogni psicosociali come fa rilevare l’autore Klaus W.
Vopel.
Secondo l’esperienza e gli studi dell’autore su citato (3) i partecipanti ad un lavoro di gruppo in particolare nella prima fase mettono in atto in forma inconsapevole i seguenti comportamenti:  evitare lo svolgimento del compito di gruppo  non far mettere in questione l’abituale concetto di sé  respingono le richieste sociali  proteggono la propria individualità  evitano nuovi punti di vista o sentimenti spiacevoli  manipolano altre persone portandole indirettamente a soddisfare desideri che non vengono espressi chiaramente.
Caro collega, ascoltare e accogliere sono i due atteggiamenti che a mio parere è importante avere nel primo periodo del lavoro di gruppo.
Non avere fretta di fare notare subito le resistenze che si mettono in atto per evitare il compito di gruppo.
E’ chiaro che questo risulta assai difficile se il gruppo in pochissimo tempo deve presentare dei lavori all’assemblea durante un convegno.
In questo caso ci sono i colleghi di buona volontà che fanno il lavoro di tutti ma non è un lavoro con tutti.
2.1 I segnali di disturbo dei singoli partecipanti quando iniziano a lavorare orientati verso un obiettivo.
Tacere.
I primi minuti sono quelli più complessi da gestire perchè come facilitatori non sappiamo come interpretare il silenzio.
Si tratta di una esperienza abbastanza frustrante che può essere percepita come una critica indiretta all’operato dello stesso facilitatore.
In brevi attimi possono venire proiettati e attivati tanti ricordi ed esperienze passate riattivate dalla figura stessa del facilitatore oppure di qualche partecipante.
Il silenzio dei singoli partecipanti può essere problematico e bloccante per tutte quelle persone che hanno una esperienza di partecipazione attiva nei lavori di gruppo.
Quando è l’intero gruppo che fa silenzio è probabile – e questo è successo in molte mie attività di lavoro – che gli obiettivi del lavoro da svolgere non sono chiari, e non sono chiare le motivazioni.
Talvolta capita che il lavoro che si fa in gruppo non risponde alle domande/aspettative dei partecipanti.
Mi è capitato di lavorare con colleghi che erano stati “mandati” dai propri responsabili dell’ufficio scuola ritrovandosi completamente fuori luogo, disorientati.
Queste persone nel lavoro di gruppo per timore di sbagliare tendono a rimanere per tutto il tempo in silenzio, oppure se sono abituati a parlare tanto, parlano di tutto senza orientarsi con le riflessioni verso la soluzione del problema ed il raggiungimento degli obiettivi del gruppo.
Adesso tocca a te Il silenzio può dunque esprimere aspetti molto diversi della situazione del gruppo e quindi non c’è un “prontuario” che ci dice come gestirlo.
Il facilitatore rispetto a questi eventi, per poter comprendere, dovrà rintracciare le sue domande interne, ripensare ad una esperienza vissuta …  Come facilitatore ero preoccupato del silenzio? Qual è stata la mia risposta emotiva?  Il gruppo era preoccupato di questo silenzio?  Se ci siamo accorti che il partecipante pensava ad altro che cosa abbiamo fatto?  Qual è stato il messaggio specifico del silenzio?  Quali segnali non verbali nel gruppo commentano il silenzio? Il lavoro che ti invito a fare è importante perché ti consente di prendere contatto con la tua esperienza interna e migliorare il nostro servizio al gruppo nel ruolo di facilitatore.
Dalla mia esperienza questo lavoro di autovalutazione va fatto subito dopo aver lavorato con il gruppo.
Può darsi che in questo momento tu ricordi poco di una esperienza di conduzione del passato.
Il poco che ricordi prova comunque a scriverlo… Parlare troppo “… i partecipanti a gruppi di lavoro e di apprendimento che prendono troppo spesso la parola, spesso non si accorgono che monopolizzano la discussione.
Spesso credono di sapere più degli altri e sopravvalutano le loro capacità.
Altri possono parlare troppo per difendersi e nascondere il loro senso di inferiorità.
Altri vogliono consolidare la loro influenza sul gruppo brillando intellettualmente…” (4) Adesso tocca a te  Come ti sentivi di fronte ad un collega che durante un lavoro di gruppo tendeva a parlare troppo?  Ritieni per la tua esperienza che “cambiare discorso” rispetto all’obiettivo del gruppo sia un fattore di disturbo? Generalizzare Ci possono essere partecipanti nel gruppo di lavoro che tendono a “generalizzare” invece di raccontare il qui e adesso, parlano in modo impersonale usando spesso il “noi”, si riferiscono a principi teorici generali, mentre parlano ci si rende conto che in realtà non sono in contatto con nessun partecipante… parlano a tutti e non comunicano con nessuno.
Preferiscono cioè parlare al gruppo intero anziché rivolgersi ad un singolo partecipante.
Domandare in continuazione  Le domande fatte di continuo possono significare… Adesso tocca a te  Come facilitatore quando ti sei trovato di fronte ad un collega che faceva domande di continuo, cosa hai provato? Come hai gestito la situazione? Frequente interpretare Siamo abituati a interpretare il nostro comportamento e quello degli altri, tendiamo a riflettere più che sentire, cerchiamo cause dei nostri comportamenti, talvolta con il troppo pensare aggrediamo il nostro mondo interno che ha bisogno di essere accolto, ascoltato.
Questo richiede attenzione e capacità di fermarsi.
Con il pensiero e un buon libro che abbiamo letto possiamo fare molte analisi, rischiamo in questo modo però di diventare saggi molto noiosi che hanno le risposte per tutti.
Facilitatori senza contratto Coloro che agiscono come se fossero il “secondo io” del facilitatore.
Questi partecipanti al gruppo di lavoro ripetono quello che il facilitatore dice e fa, sono una cassa di risonanza, tendono a dare ordini, delle volte si possono presentare come servitori diligenti che preparano la sala per l’incontro, vanno in giro a chiamare i ritardatari, escono perché hanno una telefonata urgente, vanno a recuperare carta e matita per il lavoro… tutto questo senza che nessuno del gruppo o il facilitatore stesso glielo abbia chiesto.
“Gli incendiari” Sono persone che possono essere dominate da un pensiero magico: per crescere bisogna svelare sempre il conflitto, pretendono che tutti i partecipanti del gruppo svelino subito i loro interessi e limiti, sono persone che spingono all’apertura e pensano che dopo una “urlata” di gruppo le cose andranno meglio.
Il contatto sereno talvolta può essere percepito come maschera, per queste persone la verità sta nel fare conflitto.
Adesso tocca a te…  Come facilitatore di gruppo come vivi dentro un conflitto?  Quali sono i motivi che di solito generano conflitti?  Che cosa pensi dei conflitti? Bisogna evitarli? Clowns di gruppo Disturbano con scherzi fuori posto e di solito il messaggio che mandano è: “non sono convinto del mio valore, quando scherzo gli altri mi prestano attenzione”.
Mancare e tardare I motivi di questo comportamento possono essere molteplici, il facilitatore deve essere attento a formulare determinate ipotesi che poi dovrà verificare con la persona che fa ritardo o non partecipa al lavoro di gruppo.
Queste persone possono esprimere la loro opposizione all’attività di gruppo o nei confronti del facilitatore oppure può essere che l’attività stessa procura paura.
Colloqui “fuori la porta” E’ tipico di quelle persone che mentre un componente del gruppo parla o parla il facilitatore bisbigliano tra di loro, capita di solito che avviene tra due persone ma può avvenire anche con un numero maggiore.
Sono quelle persone che dicono il loro parere sul lavoro fatto o da fare dopo che l’incontro è finito, al momento dei saluti.
Sono i parlatori del retroscena che decidono come comportarsi per il prossimo incontro mentre escono, oppure al bar, oppure aspettando l’autobus oppure in macchina… Per concludere Il clima comunicativo del gruppo comprende anche i momenti di noia e di disturbo, sono tutti stimoli che se adeguatamente rilevati possono consentire al gruppo di evolvere verso il compito.
Fare del disturbo un motivo di apprendimento, utilizzare il segnale della noia per riorientare i lavori, ecco perché è necessario fare una riflessione clinica sul proprio vissuto di facilitatore per ricercare tutte quelle strategie ed errori che abbiamo individuato nel percorso di gruppo.
Riflettere costantemente sulla propria pratica, fare della propria esperienza una buona pratica.
Termino questi appunti di viaggio dicendoti che la prossima volta presenterò alcune delle strategie per gestire i comportamenti di disturbo di cui abbiamo parlato in questo testo.
Sarei felice se tu inviassi alla redazione di questa rivista le tue esperienze circa l’essere facilitatore in gruppo in particolare come tu hai gestito o gestisci i disturbi nella tua esperienza formativa.
Condividere è l’espressione più piena ed umana del nostro essere professionisti dell’educazione.
1.
Appunti per condividere.
Il metodo.
Caro collega, cara collega, come te anche io insegno, meglio cerco di insegnare religione cattolica nelle scuole superiori di secondo grado e nella della mia esperienza di formazione professionale mi sono talvolta trovato in difficoltà quando si trattava di fare i “lavori di gruppo” nei corsi di formazione.
I convegni che ho frequentato prevedevano i cosiddetti laboratori didattici.
Spesso durante questi “lavori di gruppo” intuivo alcuni nodi problematici che segnalavano una difficoltà a lavorare insieme, forse talvolta condizionati da una idea quasi magica e cioè che tutti riteniamo di sapere lavorare in gruppo mentre in realtà creare – costruire un gruppo di lavoro richiede conoscenza di modelli, procedure ben precise e tanta voglia di mettersi in discussione in prima persona.(1) Da vari anni ricerco e sono curioso per trovare modalità di collaborazione e costruire gruppi di lavoro facendo anche esperienza con colleghi che insegnano religione cattolica.
Ritengo che la pratica della collaborazione sia una via che permette di prevenire quel complesso fenomeno dello stress professionale chiamato burnout.(2) Scopo di questi appunti è quello di condividere con te, i miei interrogativi, le mie curiosità, le strade possibili che possono aprirsi per costruire realmente tra noi una comunità di apprendimento.
Tutto quello che succede in un lavoro di gruppo a livello di dinamiche interne è assai difficile conoscerlo; io condividerò con te la mia esperienza di facilitatore dei lavori di gruppo, cercando di documentare quello che vedo, mi affido alla mia sensibilità, alla mia esperienza ai miei studi per condividere con te un possibile punto di vista che, ripeto, è il mio punto di vista.
Che contributo dà la lettura di questi appunti di viaggio al tuo sviluppo professionale? Imparerai a riconoscere il tuo stile naturale di condurre un gruppo.
Conoscerai alcuni dei principali comportamenti di disturbo da parte dei singoli partecipanti al gruppo di lavoro.
Adesso tocca a te.
La parte più importante di questi appunti ritengo sia proprio questa: a te il compito di esplorare la tua esperienza interna rispetto alla conduzione dei gruppi e provare a renderla esplicita, a darle un nome.
È la dimensione più importante.
Se vuoi diventare facilitatore dovrai costantemente esplorare la tua dimensione interna, fare costante autoanalisi rispetto al tuo modo di lavorare in gruppo.
Di pubblicazioni “fai da te” su come si deve gestire un gruppo ne esistono tantissime e sono importanti, ma quello che è più importante per un formatore è ascoltare la propria dimensione interiore rispetto all’esperienza che sta mettendo in atto.
Diventiamo esperti nella misura in cui ascoltiamo quello che succede dentro di noi.
Dovrai avere con te il taccuino di viaggio e provare a rispondere a queste domande, prima di leggere gli appunti che seguono.
 Per la tua esperienza quali sono i principali disturbi che ostacolano un gruppo di lavoro, formato da insegnanti di religione, a raggiungere gli obiettivi stabiliti?  Quali sono le qualità che ti riconosci in merito alla conduzione dei gruppi?

Il crocifisso e la scuola

Mi piacerebbe che il crocifisso esistesse nei cuori prima che sui muri pubblici, nelle coscienze prima che nei tribunali e nelle scuole.
  Di: Maria de falco marotta.
Ogni tanto, qualcuno ce l’ha con il crocifisso.
Da togliere assolutamente, altrimenti deconcentra le coscienze di chi lo guarda( magari, visto che oggi nessuno si turba più per niente).
Così ha deciso la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo contro la presenza del crocifisso in classe.
Quel simbolo  è parte della nostra storia e della nostra cultura.
Non contrasta con la libertà di religione o di educazione(di fatto, ogni alunno può scegliere quale seguire).
Per i cristiani e’ un simbolo di fede, della vicinanza di Dio all’umanità’ fino ad assumerne fisicità, sofferenza, dolore e morte.
Per tutti indistintamente e’ segno di innocenza,mitezza, sacrificio di sé per gli altri.
Quella croce per nessuno e’ ragione di oppressione, costrizione o intolleranza.
Per tutti – anche per gli atei- e’ motivo di solidarietà e amore.
Tanto per far capire, provasse qualcuno a togliere il Corano dalle moschee che sono- prima di tutto scuole.
Si griderebbe allo scandalo e alla Fatwa.
Noi cristiani siamo proprio “deboli” come Gesù.
Oggi nessuno di noi alzerebbe la mano contro il fratello diverso.
E proprio non capisco il perché di questa sentenza della Corte di Strasburgo, anzi la capisco appieno.
Come si è tolto dal Documento fondativo della Comunità europea almeno un accenno alle radici cristiane d’Europa, oggi si pretende di imporre ad uno Stato quale è l’Italia, di estirpare le sue antiche fondamenta, solo per la ragione che ad una tizia disturba che i suoi figli( mi piacerebbe interrogarli…) vedono il crocifisso nelle loro classi.
In qualunque tempo il crocifisso significa questo: la potenza divina si è fatta inerme, rifiuta la spada  non solo per la conquista ma anche per l’autodifesa e sceglie di morire su un patibolo infame.
Un simbolo per la non violenza come fonte di storia.
Sono convinta anche che non sono i crocifissi esibiti a fare cristiana una società, ma i cristiani, se sono capaci di pace e di giustizia, di adorazione e di rivolta di fronte all’oppressione e al massacro dei più deboli.
Chi ha paura del Crocifisso?   C’è da chiedersi perché molti temono che il crocifisso stia lì su quella parete, non da oggi.
Non si tratta di accendere la miccia di una guerra di religione, né di affermare una supremazia della cultura cattolica sulle altre.
C’è solo di affermare che questa cultura c’è, che non si può pensare al futuro, ad un’integrazione di culture diverse, senza conoscere la propria storia e soprattutto senza amarla.
Ogni tanto in molte scuole il crocifisso è sparito dalla parete sulla quale era appeso.
La croce se ne stava buona ad assistere alle lezioni, appesa con un chiodo sopra alla lavagna e non aveva mai turbato la crescita degli alunni, né offeso i ragazzi di altre religioni.
Non si tratta di un simbolo di una supremazia, rappresenta la storia a cui apparteniamo.
Di seguito, propongo delle riflessioni pluraliste, sul perché e per come il Crocifisso debba essere o non essere sulle pareti delle istituzioni pubbliche italiane.
I pareri sono di ieri e di oggi, per tale motivo, possono apparire “superati”.
Ma le buone idee, non sono mai superate.
 Non togliete quel crocifisso  Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule di scuola.
Il nostro è uno Stato laico che non ha il diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso.
La signora Maria Vittoria Montagnana, insegnante a Cuneo, aveva tolto il crocifisso dalle pareti della sua classe.
Le autorità scolastiche le hanno imposto di riappenderlo.
Ora si sta battendo per toglierlo di nuovo, e perché lo tolgano da tutte le classi nel nostro paese.
Per quanto riguarda la sua classe ha pienamente ragione.
(…) I problemi sono tanti e drammatici, nella scuola e altrove, è questo è un problema da nulla.
È vero.
Pure a me dispiace che il crocifisso scompaia.
Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non venisse toccato.
Ogni imposizione delle autorità è orrenda , per quanto riguarda il crocifisso sulle pareti.
Non può essere obbligatorio appenderlo.
Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo.
(…) Dovrebbe essere una libera scelta.
Sarebbe giusto anche consigliarsi con i bambini.
(…) Il crocifisso in classe non può che essere altro che l’espressione di un desiderio.
(…) L’ora di religione è una prepotenza politica.
È una lezione.
Vi si spendono delle parole.
La scuola è di tutti, cattolici e non cattolici.
Perché vi si deve insegnare la religione cattolica? Ma il crocifisso non insegna nulla.
Tace.
L’ora di religione crea una discriminazione fra cattolici e non cattolici, fra quelli che restano  nella classe in quell’ora e quelli che si alzano e se ne vanno.
Ma il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente.
La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo.
Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Siamo quasi duemila anni che diciamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo”.
O vogliamo forse smettere di dire così? (…) Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei.
Perché mai dovrebbero sentirsi offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano.
La corona di spine e i chiodi evocano le sue sofferenze.
La croce che vediamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte.
(…) Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso di una sventura,versando sangue e lacrime e cercando di non crollare.
Questo dice il crocifisso.
Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.
(…) Il crocifisso  fa parte della storia del mondo.
I modi di guardarlo e non guardarlo sono, come abbiamo detto molti.
(…) E’ tolleranza consentire  a ognuno di costruire intorno a un crocifisso i più incerti e contrastanti pensieri(Cfr: Natalia  Ginzburg, estratto da “Il Giornale” del  15/10/02.
Il pezzo uscì anche sull’”Unità “ del 25/03/1988).
False guerre di religione.
  …Il risultato è che l’anno scolastico si apre con un gesto inevitabilmente radicale, e non esattamente ospitale nei confronti delle sempre più numerose comunità non cattoliche che l’immigrazione ha infoltito.
Che le antipatie laiche per i residui confessionali nelle attività pubbliche si rafforzeranno.
E che il crocifisso tornerà a essere strumento di divisione e in qualche modo di potere  (potere di dissuasione nei confronti degli stranieri riottosi all’integrazione), e non per ciò che rappresenta, ma come è usato, “obbligatorio” per volontà ministeriale, sgradevole come tutte le imposizioni(Rosanna Angioi , Liceo Scientifico – Isili: estratto da “Repubblica” del 19/09/2002, p.
17).
 I druidi e il Crocifisso   Tranne, forse, pochi storici, i cattolici hanno dimenticato la vicenda inquietante dell’Action Française e del suo leader Charles Maurras.
Dichiaratamente agnostico se non ateo, gli sembrò di scoprire che una certa tradizione cattolica (quella dei cavalieri, dei crociati, dei “re cristianissimi”, dei grandi reazionari), poteva essere strumentalizzata a servizio del suo obiettivo, tutto politico, di nazionalismo e di conservatorismo, in lotta con la Gauche.
Da qui, la difesa a spada tratta della chiesa (o, meglio, di una certa idea di chiesa) da parte di chi in realtà non credeva in Cristo.
Anche l’Action Française, come certi movimenti odierni si batté – con rumorose campagne – a favore della “ricattolicizzazione” della società, con il recupero dei simboli: croci alle pareti dei luoghi pubblici o agli angoli delle strade, campane suonate il più possibile, processioni spettacolari.
Maurras e i suoi furono condannati severamente da Roma.
Sembrerebbe che oggi qualcosa della deformazione maurassiana rischi di reincarnarsi in politici che – appunto per fini meramente politici – alternano riti paganeggianti e chiusure ai bisognosi a grida di crociata per difendere, dicono, “l’eredità cristiana dell’Occidente”(Vincenzo Marras, estratto da Jesus, Ottobre 2002, p.
3).
No, certi simboli non s’impongono.
  Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane: “Sono perplesso e preoccupato per quanto annunciato dal Ministro Moratti.
Per ragioni politiche, religiose, culturali, ma anche per motivi personali.
Non potrò mai dimenticare il senso di esclusione, di isolamento e di inferiorità imposta che provavo quando, alunno delle elementari, negli anni ’30, entravo in aula e vedevo il crocifisso esposto sulla cattedra.
Sono sensazioni che ti segnano per tutta la vita.
E’ vero che l’Italia è a grandissima maggioranza cattolica ed è giusto che abbia i suoi simboli.
Ma quando una maggioranza impone i suoi simboli alle minoranze, non è un buon segno e c’è da preoccuparsi (Estratto da “Repubblica” del 19/09/2002, pag.
5).
  Se non togliete quella croce infilata sul mappamondo… MOSUL (Nord Iraq) – La minaccia islamica è arrivata assieme ai volantini che chiamano alla conversione, ormai periodicamente infilati di notte sotto le porte delle abitazioni cristiane a Mosul.  Se non togliete quella croce infilata sul mappamondo, che sta sul tetto della chiesa di Nostra Signora di Fatima, ci penseremo noi a rimuoverla con la forza , ripetevano gli imam nelle moschee.
E così l’arcivescovo siro – cattolico, Georges Casmoussa, ha deciso di nascondere la croce sull’edificio appena restaurato l’anno scorso, coprendola in parte con una gran scritta nera su un pannello di plastica bianca che riporta il nome della chiesa.
Il motivo?  I musulmani affermavano che il sostegno sferico su cui poggia la croce sembrava simboleggiare la volontà del dominio cristiano sul mondo intero.
E qui ribadiscono che questa è terra islamica , spiegano nei corridoi dell’arcivescovado.
Il viaggio tra la provincia di più antica civilizzazione cristiana in Iraq rivela paure raccontate a bassa voce.  Una comunità in decadenza , ammettono al patriarcato caldeo di Bagdad.
.
Nel 1989 c’erano oltre 600.000 cristiani (l’80 per cento cattolici) in Iraq, ma dall’invasione del Kuwait nel 1990 hanno iniziato ad emigrare.
Oggi non arrivano ai 450.000 , afferma un alto prelato.
Ma con i timori di una nuova guerra il senso di insicurezza si è fatto piÿ acuto, alimentato da una serie di fatti gravi.
Il più misterioso è stato l’assassinio di Cecilia Hannamushi, una suora di 70 anni sgozzata nel suo letto a Bagdad a metà agosto.  Le hanno tagliato il collo con un coltellaccio da cucina, poi è stata legata seminuda mani e piedi, potrebbe anche esser stata violentata , raccontano.
Un delitto subito condannato dal regime.
I tre aggressori sono stati mostrati alla tv locale prima dell’esecuzione capitale.  Erano solo dei ladri , dicono i portavoce della polizia.
Ma nella vicina chiesa di Mar Yusef non sono convinti:  E’ stata un’esecuzione in pieno stile algerino, l’accanimento contro il cadavere si spiega solo con l’odio religioso .
La violenza ha raggiunto anche Mosul.
La seconda domenica di settembre, un gruppo di estremisti armati di pietre e coltelli si è scagliato contro i fedeli che uscivano dalla messa.
Se la sono presa in particolare con le ragazze che secondo loro portano le gonne troppo corte e non si coprono il capo , rivelano nella scuola vicino all’arcivescovado.
E’ una scuola mista per cristiani e musulmani, da qualche anno Saddam Hussein ha fatto chiudere in tutto il Paese quelle private finanziate dalla Chiesa.
Ma i professori cristiani accettano di bisbigliare qualche veloce testimonianza solo quando i colleghi e gli allievi musulmani si allontanano: Qui stanno crescendo i gruppi wahabiti finanziati e spalleggiati dall’ Arabia Saudita.
Vorrebbero che diventassimo tutti musulmani .
 Il paradosso è che in verità il Ba’ath, il partito di Saddam Hussein, ha una tradizione laica che privilegia la convivenza tra le fedi.
Prova ne è che il numero due del regime, Tarek Aziz, è un cristiano.
Qui in passato c’era più tolleranza che in Egitto o in Giordania.
Ma ora i cristiani in Iraq sono una minoranza che teme l’anarchia del dopo Saddam, nel caso di un attacco americano.
Vedono nel regime l’unico scudo contro il fondamentalismo islamico.
Negli ultimi anni però lo stesso Saddam ha voluto islamizzare la società per raccogliere il consenso contro il nemico esterno.
E i cristiani si trovano in una posizione sempre più fragile , analizzano nei circoli diplomatici occidentali nella capitale.
I segni del nuovo islamismo di Stato sono evidenti: ormai non si può costruire una nuova basilica senza che vicino non sorga una moschea.
I nomi dei neonati cristiani devono essere arabizzati.
Non si può più chiamare, per esempio, il proprio figlio Giuseppe, ma solo Yusef.
È accettata Miriam, ma non Maria.
Il Vaticano ha protestato all’inizio dell’anno presso il governo di Bagdad quando era arrivata la notizia per cui il ministero dell’Interno stava approntando una  lista dei nomi proibiti .
Ma la questione per ora resta aperta(Cfr.:Lorenzo Cremonesi, Corriere 10/11/02)   Crocifisso da abolirsi?   Non è la prima volta che la presenza del Crocifisso nelle Scuole pubbliche viene presa di mira all’insegna di un rispetto per l’altro e di una falsa concezione del ‘laicismo’ dello Stato.
Ultimo è l’intervento del Tribunale dell’Aquila che, acco­gliendo il ricorso presentato da Adel Smith, presidente dell’Unione Musulmani in Italia, ha ordinato la rimozione del Crocifisso esposto nelle aule della Scuola materna ed elementare ‘Antonio Silveri di Ofena’, frequentata dai figli dello stesso Smith.
Nella sentenza emessa dal giudice Mario Montanaro si legge tra l’altro: “Nell’ambito scolastico la presenza del simbolo della croce induce nell’alunno ad una comprensione profondamente scorretta della dimensione culturale della espressione di fede… La presenza del crocifisso nelle aule scolastiche comunica un’implicita adesione a valori che non sono realmente patrimonio comune di tutti i cittadini”.
Si tratta di un ultimo esempio che indica fin dove può giungere una ignoranza e miopia religiosa, dove può approdare il condizionamento da pregiudizi o visioni molto ristrette della realtà.
Alcune persone sono prigioniere di una ideologia che ha fallito.
Tuttavia continuano ancora a sostenerla con più deter­minazione ed esaltazione mistica.
Questo genere di cecità è davvero sconcertante.
Il Crocifisso, simbolo della fede cristiana da duemila anni, oggi si vuol rimuovere dalle aule scolastiche, dagli ospedali, dagli uffici pubblici in nome del pluralismo religioso ed all’insegna del rispetto per l’altro, della tolleranza, del dialogo religioso.
Oltre a questo si sta infiltrando l’uso di non celebrare più il Natale nelle scuole, non fare il presepio, evitare di far cantare inni natalizi.
Il dibattito sulla presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici evidenzia un problema più profondo, cioè il rapporto tra coscienza religiosa e coscienza civile all’interno della nostra società pluralistica e secolarizzata.
Per comprendere questo si deve tener conto che oggi la cultura laica ha assimilato nel suo seno alcuni elementi di natura religiosa.
Infatti oggi molti valori originati da una cultura e sensibilità religiosa sono comunemente ritenuti ‘valori laici’ come: primato della persona umana, valore della solidarietà, principio di sussidiarietà, da cui scaturiscono i vari movimenti di volontariato.
Tutti di antica origine cristiana che ormai fanno parte anche della cultura civile.
La distinzione tra l’ambito laico dello Stato e quello religioso della Chiesa, che tuttavia non esclude una collaborazione, implica anche alcune conseguenze.
Da parte della chiesa: c’è la consapevolezza che la fede religiosa non può essere imposta a nessuno.
Da parte dello Stato: la sua laicità esclude ogni ingerenza in campo religioso; non può perciò né imporre, né proibire gli atti religiosi e l’ostensione dei simboli religiosi.
“Nell’ambito del bene comune (nel rispetto sempre dell’ordine pubblico, della legalità e della pubblica moralità), lo Stato ‘laico’ riconosce la rilevanza sociale del fatto religioso, tutela la libertà religiosa e ne garantisce l’esercizio”.
Le soluzioni vanno cercate in un clima di mutua collaborazione.
Certamente si dovrà evitare qualunque tentativo di strumentalizzazione della religione e dei suoi simboli per scopi politici.
Coloro che desiderano esporre il Crocifisso nei luoghi pubblici non devono farlo né per opportunismo, né per ipocrisia.
Ma come segno del dolore di ogni uomo.
In un mondo in cui i segni sono tanti, il segno della croce obbliga ad alzare lo sguardo, a riconoscere l’appartenenza ad una civiltà nata dal cristianesimo.
Anche coloro che non sono disposti ad accettare il Crocifisso per motivi religiosi, dovrebbero ugualmente condividerne l’ostensione almeno per evidenziare i contenuti umanitari che quella realtà esprime.
Ma: come può atteggiarsi a paladino del Crocifisso colui che non s’impegna a vivere almeno ‘laicamente’ questi valori, con i quali invece Colui che si è fatto crocifiggere ha voluto identificarsi? “La croce è per eccellenza il simbolo della universalità dell’amore di Dio e dell’accoglienza aperta a tutti i popoli e a tutte le razze, specialmente ai più diseredati.
Non può divenire il simbolo di una sola cultura o di una specifica identità… Pertanto fare del Crocifisso il simbolo esclusivo della civiltà occidentale, e – peggio ancora – usarlo a fini di discriminazione culturale, etnica e razziale, equivale a distruggere il significato stesso della croce e a rinnegare l’universalità del messaggio cristiano” .
Quando alla croce non si riconoscono più tali caratteristiche, si tende ad eliminarla ma nel contempo viene sostituita con altri simboli (di tremenda memoria la ‘croce uncinata’) che non esprimono questi valori ma esattamente l’opposto.
L’essere umano ha bisogno di simboli ai quali appellarsi.
Se viene privato di quelli veramente religiosi, viene inevitabilmente obbligato a credere in altri non forieri di vita ma di morte.
Per fermarsi alla scuola: da giustamente ‘laica’ sta orientandosi verso un cammino di laicizzazione.
Da ‘laica’ la si vuol trasformare in ‘laicista’.
In questa prospettiva è molto difficile riconosce quei valori umani dei quali il Crocifisso è l’emblema ed il portavoce.
Il Crocifisso, anche da un punto di vista semplicemente umano, è un simbolo altamente educativo.
Non è forse il Crocifisso che, in vita, ha insegnato ad amare il prossimo come noi stessi? Non è questa una lezione di umanità universale? Non ha detto di amare anche i propri nemici, al contrario di altre religioni che invece insegnano l’odio? La croce era il supplizio riservato agli schiavi, alle persone più spregevoli, a coloro che erano considerate ‘res’, ‘cose’, non persone, non degno di un cittadino romano.
Colui che è morto in croce, ha voluto riscattare il dolore umano, ridare personalità a coloro che il diritto romano privava di dignità umana; ha riabilitato i deboli, i poveri, il rifiuto della società.
Il Crocifisso è il simbolo di tutti coloro che nel mondo soffrono e muoiono per l’egoismo e la cattiveria di quelli che li schiacciano con la violenza delle armi e con la sopraffazione del loro potere economico e politico.
La croce è il supremo simbolo dell’amore.
Non sono forse questi aspetti condivisi anche dai laici? “Togliere da un’aula scolastica il Crocifisso significa, in fondo, privare gli studenti di un segno che potrebbe aiutarli a riflettere sulle cause profonde del peso immane e crudele di sofferenza e di morte che grava sui poveri, in particolare sui bambini, in tante parti del mondo; cause che sono l’egoismo e l’avidità del denaro e del potere” .
Questi sono i motivi che hanno convinto il legislatore a mantenere il Crocifisso.
“La Croce, a parte il significato per i credenti rappresenta un simbolo della civiltà e della cultura cristiana, della sua radice storica come valore universale, indipendente da una specifica confessione religiosa” .
La Corte di Cassazione (13 ottobre 1998) ha affermato che la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche non contrasta con la libertà religiosa sancita dalla Costituzione.
Ha inoltre rilevato che la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa.
Ha concluso osservando che la presenza dell’immagine del Crocifisso nelle aule scolastiche non può costituire motivo di costrizione della libertà individuale a manifestare le proprie convinzioni in materia religiosa .
L’Avvocatura di Stato di Bologna (16 luglio 2002) ha sostenuto che “le disposizioni che prevedono l’affissione del Crocifisso nelle aule scolastiche vanno ritenute ancora in vigore… L’affissione del Crocifisso va ritenuta non lesiva del principio della libertà religiosa”.
Nessuno che abbia un minimo di apertura culturale, può negare queste conclusioni.
Questo approccio non può essere frainteso con il proselitismo.
Quante volte si elogiano Martin Luthering, Gandhi per i valori universali che hanno espresso, Buddha per alcuni principi sulla mortificazione ed il superamento delle passioni! Eppure nessuno si permette di dire che si fa propaganda per l’Induismo o per il Buddismo! Perché l’unica eccezione dovrebbe farsi per gl’insegnamenti universali espressi dal Crocifisso? Non si tratta di una estrema miopia intellettuale? Non manifesta questo quanto siano ancora radicati certi pregiudizi storici e quanto sia difficile liberarsene? A meno che uno desideri eliminare anche il riferimento a questi valori che stanno invece a fondamento di una società laica.
Perché allora il Crocifisso come emblema umano, simbolo di una umanità sofferente, tradita e sfruttata, non dovrebbe essere accettato universalmente? Se non si vogliano accettare i contenuti religiosi che illuminano l’umana esistenza e danno un significato a tutto, si possono sempre condividere i contenuti umani, laici.
O forse c’è tanta cecità ed ostinazione da essere disposti a rifiutare anche i contenuti umani pur di non accettare quelli religiosi? Non è forse segno di limitatezza e di poca duttilità mentale il non essere capaci di distinguere i due ambiti? Compassione sarà il lievito dei secoli bui, la fratellanza degli oppressi, l’eguaglianza nel dolore, la libertà di chi non ha più nulla da perdere.
Non c’è progresso senza compassione.
E’ per questo che il Crocifisso non appartiene solo ai cristiani, non è loro monopolio.
Si deve ancora chiarire la natura della laicità.
La Chiesa non ha paura della laicità.
Già Pio XII sosteneva che “la legittima sana laicità dello Stato è uno dei principi della dottrina cattolica” .
Da un certo punto di vista significa distinzione tra poteri civili e religiosi, autonomia dello Stato e rispetto per la Chiesa.
Ma questo non significa marginalizzazione e relativizzazione delle fedi religiose.
Non si può ridurre la fede a qualcosa semplicemente di intimo, privato e pubblicamente irrilevante.
In conseguenza del rispetto che si deve portare per le varie fedi e culture, si dovrebbe rispettare anche il Crocifisso con i suoi significati.
Il rispettare infatti le fedi altrui, non implica compromettere la propria.
L’accettazione dell’altro non dovrebbe concludere con il venir meno alle proprie convinzioni offuscando i contenuti della religione di appartenenza.
La condivisione delle altrui culture non deve portare ad alterare e svuotare la propria dei suoi genuini contenuti.
Il rispetto per le altre religioni non può portare a denigrare la propria.
L’accoglienza di credenti di altre religioni che hanno chiesto ospitalità nel suolo italiano, non può concludersi con la mancanza di rispetto verso coloro che condividono la religione cristiana.
Non è giusto sottovalutare e tanto meno dimenticare una constatazione storica: che cioè l’Italia affonda le sue radici nel cristianesimo che ne ha ispirato i codici morali di base; che la cultura italiana è stata plasmata dal cristianesimo; che le espressioni letterarie ed artistiche non possono essere comprese prescindendo dai contenuti cristiani.
Questa è storia e “contra factum non valet argumentum”.
Il dialogo consiste nell’incontro di due entità, capaci di arricchirsi reciprocamente.
“Se non diamo al Crocifisso significati arroganti e strumentali che non ha, allora conserva quello che è, l’immagine di un Innocente sacrificato dal potere, la fonte, la causa ed il simbolo della nostra compassione, antica, contemporanea e futura.
Guardare poi al Crocifisso non sarà – non potrà mai essere – un atto ideologico, soggetto a interpretazioni o strattoni di parte.
Non ha senso appellarsi al Crocifisso e ignorare o disprezzare le persone crocifisse nella storia di ieri e di oggi, dimenticare le vittime dei campi di sterminio come dei gulag siberiani, scalciare sui disperati che arrivano sui nostri lidi.
Così induce a sospetto dichiararsi con gli ultimi e nel contempo rimuovere l’Ultimo” .
“Soltanto questo ricordo inattuale di lui libera gli uomini dal potere esercitato da fatti e leggi del nostro tempo, dalle coercizioni della storia, e li apre ad un futuro che non ripiomba nell’oscurità.
Ciò che oggi importa è che la chiesa e la teologia riflettano sul Cristo crocifisso per mostrare al mondo la sua libertà” .
Natalia Ginzburg (1916-1991) il 25 marzo 1988- come ho già riportato- ha scritto sul quotidiano L’Unità, un articolo dal titolo “Non togliete quel Crocifisso”.
E’ interessante che un giornale non religioso come L’Unità abbia pubblicato un articolo i cui contenuti tanti cristiani invece non sono capaci di cogliere .
Lei laica ma intelligente ed intellettuale, aveva nella sua onestà compreso i valori universali di quel simbolo.
Ed obiettava contro coloro che, pur cattolici, avevano la vista così corta da non essere capaci di cogliere nel Crocifisso il suo messaggio universale, di non vedere il Lui l’archetipo di ogni persona che soffre.
Passiamo ad una obiezione frequente: la presenza del Crocifisso urterebbe la sensibilità dei musulmani e potrebbe turbare il loro sentimento religioso.
Si tratta di una questione di contenuto teologico.
Prima di rispondere analizziamo alcuni aspetti.
Se un musulmano ha diritto al rispetto delle proprie convinzioni religiose, uguale diritto ha il cristiano al rispetto della propria fede e dei simboli nella quale la esprime.
Se quindi il togliere il Crocifisso da un’aula scolastica può apparire rispettoso verso il sentimento di un musulmano credente, nello stesso tempo però non è rispettoso verso i sentimenti di un cristiano, che si sente gravemente offeso nella propria fede.
Ma forse dietro tutto questo non si nasconde una forte presenza laicista nella cultura e nell’insegnamento, un tentativo tout court di abolire tutto ciò che c’è di religioso nelle espressioni del popolo italiano? Il Crocifisso non può essere ridotto ad una dimensione sociologica.
E’ pregno di contenuti teologici, che qui non posso affrontare per esteso.
Solo due chiarificazioni.
1) Dietro questo ‘zelo’ ed apparente rispetto mi sembra nascondersi una buona dose di ignoranza verso la religione musulmana.
Si sono voluti togliere anche il presepio ed i canti natalizi.
Ma: i cristiani che hanno fatto infelicemente questa scelta non sanno che anche i musulmani venerano Gesù, seppur solo come un grande profeta, ne festeggiano il natale e lo tengono in alta considerazione? L’abrogare queste manifestazioni ed il significato dei simboli non potrebbe essere una mancanza di rispetto verso la loro sensibilità religiosa? Il celebrare il natale non sarebbe una buona occasione di far meglio conoscere il contenuti della fede musulmana e cristiana e far capire che nelle differenze ci sono anche punti in comune? 2) Per la religione musulmana è impossibile che un Dio si sia fatto crocifiggere; questa possibilità è considerata altamente offensiva.
Si tratterebbe di una sconfitta e del trionfo dei suoi carnefici.
Il Corano nega la crocifissione di Cristo come conseguenza della grande stima che ha del Profeta.
Il Profeta deve essere sempre vincitore.
Dio invia il suo messaggero che deve essere sempre vittorioso.
Questa è la visione teologica coranica.
Non potendo negare il fatto della crocifissione, il Corano è ricorso alla escamotage della ‘sostituzione vicaria’: al momento di venire messo in croce, Cristo sarebbe stato misteriosamente ‘sostituito’ da un altro essere umano.
Per cui non sarebbe stato Cristo a morire in croce come un malfattore, ma solo un suo ‘sostituto’.
In tal modo però, secondo questa concezione, non c’è più salvezza, crolla tutto il progetto redentivo del Padre… Per cui anche per i musulmani Gesù Cristo è vivo, seppur con modalità diverse dalla concezione cristiana .
E’ proprio evidenziando questo aspetto che si potrà meglio mettere a fuoco il valore del Crocifisso, che non rappresenta soltanto Cristo apparentemente sconfitto ma che rinvia a tre giorni dopo, alla sua gloriosa risurrezione, preludio della vittoria finale.
Su questo punto  Bormans così si esprime: “La pietà occidentale si è compiaciuta, soprattutto a partire dal Medioevo, a rappresentarlo al massimo della sua sofferenza, come il ‘servo sofferente’ cantato da Isaia, mentre la pietà orientale ha rappresentato generalmente nei suoi crocifissi bizantini, un Cristo già glorioso, dotato di attributi reali ed effettivamente ‘pantocrator’, perché vincitore del peccato e della morte proprio nel momento in cui questi pensavano di averlo vinto.
In questa seconda prospettiva non si potrebbe forse sviluppare un discorso comune sulla ‘potenza di Dio’, per potervi meglio includere in seguito una valorizzazione della sofferenza, dell’agonia, e della morte nei confronti delle quali l’Islam ci propone soltanto una ‘bella rassegnazione’?”.
Una riflessione linguistica sarà molto utile.
Cristo è considerato il vero musulmano ante litteram e preso come modello dagli stessi musulmani.
Perché? Perché Cristo è colui che si è abbandonato completamente alla volontà di Dio.
Infatti: il vocabolo Islam significa ‘sottomissione a Dio’, ‘abbandono di sé a Dio’.
Il vero sentimento religioso è quello di abbandonarsi a Dio.
Muslim (musulmano) è colui che pratica l’Islam, cioè colui che si abbandona totalmente a Dio.
In questo contesto anche Adamo, Abramo sono stati musulmani perché si sono messi completamene nelle mani di Dio, si sono affidati del tutto a Lui.
Di riflesso l’essere umano in quanto tale è ‘musulmano’ e l’Islam si pone come religione naturale dell’umanità .
Il Prof.
Samir in una conferenza a Palermo l’11 novembre 1989, si è espresso in questa maniera: “Il vero Muslim, ossia l’unico vero musulmano è Cristo.
Lo è stato proponendo al mondo un insegnamento che rovescia i valori del mondo, mettendo la non violenza al posto della violenza, l’amore al posta della ‘giusta vendetta’.
Lo è stato rivelando al mondo un Dio che è anzitutto Padre, che si manifesta nell’amore più che nella potenza, che è sì l’Onnipotente, ma l’Onnipotente nell’amore.
Lo è stato vivendo perfettamente quest’insegnamento insolito, preferendo l’umiliazione alla gloria, la povertà alla ricchezza ‘per arricchirci della sua povertà.
Sì, il Muslim per eccellenza è Cristo, quello che sulla croce si ab­bandona per amore all’amore di Dio Padre, per amore dell’umanità”.
Dietro l’alibi del rispetto per l’altro, in alcuni cattolici non si nasconde forse una certa… allergia nei riguardi del Crocifisso? La motivazione di andare verso gli altri non potrebbe indicare una mancanza di interesse per i contenuti e simboli della propria religione? Alle spalle di tutto non ci potrebbe stare una limitata e frazionata conoscenza del cristianesimo, per cui, non conoscendo, non si può neanche comprendere ed apprezzare? Schiavitù dell’ignoranza, della indifferenza, del fastidio.
Schiavitù di un falso perbenismo: si vogliono coprire con il rispetto nei riguardi verso l’altro le proprie mancanze e deficienze.
Schiavitù dell’orgoglio intellettuale.
Si ha appena una patina di religiosità, sia teorica che pratica, e nello stesso tempo uno si ritiene preparato a fare scelte ed a prendere decisioni estremamente importanti e di grande rilevanza come se ne avesse la preparazione e capacità( ; Cfr.
Bartolomeo Sorge, “Votare per il Crocifisso?”, in Aggiornamenti Sociali, dicembre 2002, p.
805 – 810 ; “Via il Crocifisso dalle Scuole italiane?”, in La Civiltà Cattolica, Editoriale, 5 gennaio 2002, n.
3637, p.
5.; Consiglio di Stato, 27 aprile 1988.
La prima codificazione risale all’articolo 140 del regio decreto 15 settembre 1860, n.
4336, riguardante il regolamento per l’istruzione elementare e attuativo della legge 13 novembre 1859, n.
3725, la c.d.
legge Casati che prescriveva l’esposizione del Crocifisso in tutte le aule scolastiche.
L’ultima codificazione in ordine di tempo risale al 19 ottobre 1967, quando il Ministro della Pubblica Istruzione emanò la circolare n.
367 circa l’edilizia e l’arredamento delle scuole dell’obbligo.
Cfr.
Paolo Armaroli, “Il Crocifisso a scuola è ammesso dalla Costituzione”, in Il Giornale, 8 ottobre 1999, p.
10.   Bartolo Ciccardini, Il crocifisso e i crocifissi nella storia, in Avvenire, 22 settembre 2002, p.
2.  Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973, p.
7; da notare che l’Autore nello scrivere quest’opera pensava ancora alla tragedia del nazionalsocialismo conseguenza della pretesa di poter costruire una società senza Dio e senza cristianesimo; cfr.
anche: “La croce di Cristo speranza del cristiano”, in La Civiltà Cattolica, marzo 2001, n.
3618, Editoriale, p.
547 – 559.
Inoltre: articolo ripubblicato sul numero 14 di Liberal, novembre 2002; cfr.
L’Enciclica di Benedetto XV, Maximum Illud, in AA.
VV.
Roma e Pechino, a c.
di Agostino Giovagnoli, Studium, Roma 1999, p.
69 – 90.
 Cfr.
Maurice Bormans, I musulmani di fronte al mistero della croce: rifiuto o incomprensione?, in AA.VV., La sapienza della croce oggi, Atti Convegno internazionale, Roma 13-18 ottobre 1975, LDC, Torino 1976, vol.
I, p.
615 – 628;  cfr.
lo studio di Samir Khalil Samir, La crocifissione di Cristo nel Corano, in Piero Coda – Mariano Crociata, Il Crocifisso e le religioni, Città Nuova, Roma 2002, p.
49 – 82.
E…) E perché non qualche poesia al Crocifisso? Sul Calvario tre croci hanno piantato e Gesù Cristo ha un ladro da ogni lato.
Ma, dice, e gli occhi suoi al cielo vanno: Padre, perdona, non san quel che fanno Mentre gli sgherri aspettan la sua morte, le vesti di Gesù tirano a sorte.
Il popolo indugia a riguardare e tutti lo volevano beffare.
Perfino uno dei ladroni lo scherni Sei Cristo? – disse -Vola via di qui! Ma l’altro mormor: – O buon Gesti, non mi scordar, quando sarai lassù…
Disse Gesù, piegando il dolce viso: Oggi sarai con me, su in paradiso.
Era già l’ora sesta e fece notte la tenebra dur infino a nona trema la terra e tutto il ciel rintrona A quel punto Gesù lancia un alto grido Padre lo spirito mio in te confido! Poi la fronte da un lato reclin e su la Croce per tutti noi spir(poesia parecchio antica di Giuseppe Fanciulli).
Crocifisso al tuo amore    Tu che conosci me, sono l’ultimo dei figli tuoi, attendo la salvezza, dalle Tue mani disseterò d’amore la mia anima, tienimi stretto inchioda le mie mani, siano aperte le mie braccia per abbracciarti e non lasciarti mai più, i miei piedi serra al tuo legno in modo che non vada per altre vie.
Incidi il Tuo nome sul cuore t’appartengono le mie membra e lo spirito, io in Te Tu in me in un eterno dono d’amore(Bruno Quattrone).
  PREGHIERA DI S.
CARLO BORROMEO AL SANTO CROCIFISSO   Ciò che mi attira verso di Voi, Signore,   siete Voi!   Voi solo, inchiodato alla Croce,   con il corpo straziato tra agonie di morte.
  E il vostro amore   si è talmente impadronito del mio cuore   che, quand’anche non ci fosse il Paradiso,   io vi amerei lo stesso.
  Nulla avete da darmi   per provocare il mio amore   perché quand’anche non sperassi ciò che spero,   pure vi amerei come vi amo.
Amen           Sentenza sul crocefisso.
”Amarezza” della Cei, soddisfazione nell’estrema sinistra Il commento forse più significativo alla sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Coe) sul crocefisso in classe viene dalla Cei (Conferenza Episcopale Italiana), che dal suo sito esprime “amarezza e non poche perplessità”: “La decisione della Corte di Strasburgo suscita amarezza e non poche perplessità.
Fatto salvo il necessario approfondimento delle motivazioni, in base a una prima lettura, sembra possibile rilevare il sopravvento di una visione parziale e ideologica.
Risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale.
Non si tiene conto del fatto che, in realtà, nell’esperienza italiana l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici è in linea con il riconoscimento dei principi del cattolicesimo come ‘parte del patrimonio storico del popolo italiano’, ribadito dal Concordato del 1984”.
La Cei spiega che “in tal modo, si rischia di separare artificiosamente l’identità nazionale dalle sue matrici spirituali e culturali”, e cita eloquentemente le parole di papa Benedetto XVI: “Non è certo espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo, l’ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione; alla presenza, in particolare, di ogni simbolo religioso nelle istituzioni pubbliche”.
Sul fronte opposto, si registrano anche commenti apertamente positivi, come quello dell’Unione degli studenti, Uds: “Da sempre chiediamo una scuola plurale, democratica, laica e interculturale, che non ostacoli la libertà di scelta religiosa e la sensibilità degli studenti- spiegano dall’Uds- Sono questi i principi che devono caratterizzare le nostre scuole e riteniamo che anche il Governo e le forze politiche debbano agire in questa direzione perché si parta proprio dai luoghi della cultura e dell’educazione per raggiungere un costruttivo dialogo tra le varie culture e le varie fedi, in primo luogo tra i cittadini europei”.
Esultano anche i Cobas, il cui portavoce Piero Bernocchi parla di “sentenza storica della Corte Europea, il crocefisso in aula viola la libertà dei genitori e quella di religione”.
Berrnocchi spiega che la Corte ha emesso una “importantissima sentenza che afferma testualmente quello che da sempre i Cobas e vari gruppi laici e anticlericali sostengono”.
Nell’ambito della sinistra extraparlamentare, il segretario del Prc Paolo Ferrero, esprime “un plauso per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che ci segnale giustamente come uno stato laico debba rispettare le diverse religioni ma non identificarsi con nessuna”.
Gelmini sulla Corte di Strasburgo: ӏ ideologizz

Cercando Poimandres

BRUNO DEL MEDICO, Cercando Poimandres. Sul viaggio di alcuni Teonauti e sulla loro iniziazione mistica al senso della vita, di: Edizioni Lampi di Stampa, 2009, pp.
356 , ISBN 978-88-488-0913-9, Prezzo: 18 euro Cercando Poimandres è un testo assolutamente particolare, non ascrivibile a nessuno dei filoni letterari classici.
Per questo l’autore ha scelto di inserirlo in un nuovo genere: la mistica fabulata.
La mistica è quella attività della mente umana, di tipo spirituale, che si occupa del mistero di Dio, quindi si supporrebbe che lo facesse in modo serioso.
Qui però l’autore tratta argomenti di alta spiritualità raccontandoli in una cornice fiabesca.
In questo modo, usando uno stile leggero ed un linguaggio fluente, rende la lettura piacevole nonostante la serietà degli argomenti.
Se all’inizio la narrazione può richiamare l’irrazionalità geniale di Calvino o anche, in alcuni tratti, l’umorismo sofisticato di Wodehouse, nel seguito acquista un tono del tutto originale: le vicende assurde di un viaggio iniziatico alla scoperta dei motivi dell’esistenza si dipanano in mondi irreali, o forse in universi altri, o forse negli spazi angusti della mente delirante del protagonista.