XXXIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Lectio – Anno B   Prima lettura: Daniele 12,1-3          In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.
          La struttura dei 14 capitoli del libro di Daniele, a cui appartiene il brano della prima lettura, è molto semplice.
Si tratta infatti di un libro nel quale prevale l’elemento narrativo, composto dal racconto delle vicende di Daniele alla corte del re Nabucodonosor (cap.
1-6), dalla descrizione delle sue visioni (capp.
7-12) e da tre episodi molto noti (il caso di Susanna, la confutazione dei sacerdoti del Dio Bel e l’uccisione del Drago-idolo: capp.
13-14).
Più complesso è invece il modo con cui questo libro biblico trasmette il suo messaggio.
Gli esegeti infatti collocano il libro di Daniele al culmine di quella produzione letteraria che nel Giudaismo è conosciuta come letteratura apocalittica.
Questo genere letterario è stato molto utilizzato dagli autori dei testi apocrifici (quelli non accettati nel canone biblico): le loro immagini, le loro speculazioni sui numeri, le descrizioni di grandi bestie e di angeli, i segni premonitori della fine del mondo sono stati utilizzati (ma molto più sobriamente) anche dagli autori di alcuni libri biblici o di parti di essi (Daniele, parti di Is, Ez, Zc, Apocalisse).
     Il contenuto dell’apocalittica è racchiuso nel significato stesso di questo termine, che in greco significa «rivelazione».
Al popolo biblico (e nel NT alla comunità cristiana) che si sente sfiduciato e che sta per cedere alla tentazione di sentirsi definitivamente abbandonato dal suo Dio, l’autore sacro assicura la «rivelazione» di Dio attraverso visioni, sogni, immagini e simboli che il destinatario sa comprendere e interpretare (a differenza della difficoltà che incontriamo noi oggi).
L’angoscia dei tempi di persecuzione (sia per il popolo biblico che per i cristiani) favoriva l’utilizzazione del genere letterario dell’apocalittica; esso solo permetteva di proiettare l’attuale situazione di sofferenza nella vittoria definitiva che Dio avrebbe saputo riportare sul male e sui persecutori del suo popolo.
Il momento dell’angoscia e della persecuzione veniva così considerato come via alla definitiva vittoria di Dio e dei buoni.
     In questo contesto va letto anche il brano della prima lettura.
«Il tempo di angoscia» va compreso alla luce della riflessione che l’apocalittica fa sul momento presente della persecuzione: esso è preludio alla vittoria di Dio e del bene, non alla sconfitta e all’annullamento del suo popolo.
«Si troverà scritto nel libro» è l’immagine biblica che rasserena l’uomo: egli fa parte del progetto di Dio («il libro»), un progetto buono e destinato a realizzarsi nel bene; perciò l’uomo non deve temere né il fallimento né l’abbandono.
«Michele» è uno degli angeli che l’apocalittica colloca a protezione delle nazioni.
Secondo l’angelologia giudaica ogni nazione ha un angelo protettore, descritto spesso come «capo» o «principe» o «comandante» di eserciti celesti (cf.
Dan 10,13).
     «Vita eterna e l’infamia eterna» esplicitano la condizione dell’uomo davanti a Dio, dopo la risurrezione, a seconda del ruolo che ciascuno ha rivestito nella vita presente.
Il momento della persecuzione sembra dar ragione ai più forti e alle potenze del male e sembra porre fine a tutto ciò in cui il popolo biblico ha sempre creduto.
La «rivoluzione» che Dio fa al suo popolo è che la vera sorte e il vero destino dell’uomo sono definiti da Lui nell’aldilà e non nell’alternarsi continuo delle vicende di questo mondo.
  Seconda lettura: Ebrei 10,11-14.18          Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.
Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi.
Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.
       La lettera agli Ebrei propone il tema del sacerdozio di Cristo, un tema che non viene trattato esplicitamente nei Vangeli.
Nell’esporre la sua riflessione, l’autore di questa lunga «omelia» (come viene definita la Lettera agli Ebrei) si sofferma ora sul confronto tra il sacerdozio dell’AT e quello di Gesù, evidenziandone le differenze.
Il primo era ereditario nell’ebraismo, infatti, la carica di sommo sacerdote (almeno fino ai tempi di Erode il Grande) era a vita e veniva trasmessa ai discendenti.
Inoltre ad esso poteva accedere solo chi apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi.
Nel NT, invece, il sacerdozio costituisce uno speciale rapporto tra il credente e Gesù, una particolare chiamata, una risposta radicale alla sua sequela, cioè una vocazione.
     I sacerdoti dell’AT ripetevano ogni giorno e ogni anno gli stessi sacrifici e le stesse feste, senza tuttavia ottenere la salvezza e il perdono definitivo («Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati»).
Il sacrificio di Gesù, invece, è definitivo ed esaustivo: con l’offerta di se stesso al Padre sulla croce ha ottenuto «una volta per sempre» la salvezza per tutta l’umanità.
     L’espressione «si è assiso per sempre alla destra di Dio» (che ricalca il Salmo 110 messianico-sacerdotale) sottolinea l’unicità («una volta per sempre») e la definitività del sacerdozio di Cristo; l’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera «sacerdotale» è stata perfetta e non ha bisogno di essere ulteriormente completata con ripetizioni di riti e sacrifici, come invece avveniva nel sacerdozio levitico.
     Fondamentalmente il sacerdozio di Cristo consiste nell’aver egli sempre compiuto la volontà del Padre e nell’essersi offerto a lui nella totale disponibilità del suo essere (come le vittime sacrificate), fino ad accogliere docilmente la croce per la salvezza definitiva dell’umanità.
  Vangelo: Marco 13,24-32          In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.
Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
     Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina.
Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.  In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga.
Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
    Esegesi      Il brano evangelico contiene la conclusione del «discorso escatologico» di Gesù.
In questo discorso sugli «ultimi avvenimenti» (come significa in greco il termine éscathon) si intrecciano e si sovrappongono vari elementi: la descrizione della distruzione del tempio di Gerusalemme la descrizione della fine del mondo, l’esortazione alla vigilanza e il ricorso ad alcuni temi cari al genere letterario dell’apocalittica.
Gli studiosi hanno cercato di collocare in un certo ordine tutto questo complesso materiale e di interpretarlo per una migliore comprensione del messaggio che l’evangelista vuole comunicare al lettore (cf.
J.
Dupont, La distruzione del tempio e la fine del mondo.
Studi sul discorso di Mc 13, Ed.
Paoline, Roma 1979, pp.
44-54).
     Questo messaggio è profondamente radicato nella Bibbia e nella persona di Gesù.
La Bibbia annuncia in ogni sua pagina l’avvento del Regno di Dio e Gesù realizza nella sua persona e nella sua vita questa promessa.
Il nostro brano utilizza le immagini del genere letterario dell’apocalittica («in quel giorno», «quella tribolazione», «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi», «il sole si oscurerà»), ma il contenuto e totalmente aperto alla salvezza portata da Gesù e alla sua presenza nel mondo, da Lui amato e salvato (a differenza delle immagini apocalittiche che lo vedono destinato alla catastrofe).                                 Questa salvezza è stata possibile grazie all’incarnazione di Gesù e alla sua obbedienza al Padre, accettata fino alle estreme conseguenze, compresa l’esclusione dalla sua rivelazione di quanto in essa non rientrava (la conoscenza e la divulgazione del momento preciso della fine del mondo).
Anche il cristiano deve rinunciare a calcoli cronologici, ma deve spendere ogni giorno della sua vita aderendo alle parole e al vangelo di Gesù, che realizzano la promessa biblica del Regno di Dio, «vicino» ad ogni generazione che si succede.
     Meditazione      La liturgia della Parola di questa penultima domenica del tempo ordinario ci pone di fronte ad alcuni interrogativi essenziali che orientano ad una interpretazione del tempo e della storia in rapporto con Dio.
Il frammento tratto dal libro di Daniele e la pericope del racconto di Marco, che fa parte del più lungo discorso di Gesù riportato in questo vangelo, aprono il nostro sguardo sugli eventi riguardanti gli ultimi tempi (ta eschata, le ‘cose ultime’): hanno come orizzonte il limite estremo del tempo storico, cioè il momento in cui quest’ultimo cadrà per fare posto al mondo futuro.
Questi testi sono accomunati dall’uso dello stesso linguaggio apocalittico, ricco di simboli e immagini, che si presentano non tanto come una descrizione anticipata, puntuale e cronologica di eventi futuri, quanto piuttosto come un simbolo (che deve perciò essere decifrato) di una realtà di giudizio (salvezza o condanna) che riguarda un compimento il cui risultato non dipende da una iniziativa umana, ma è puro dono di Dio.
Se il mezzo espressivo di questo genere letterario utilizza immagini che richiamano tempi di guerre e di divisioni, di catastrofi cosmiche, sotto il segno di una grande subitaneità che crea angoscia e smarrimento, il messaggio da ricercare dietro questi simboli riguarda realtà esistenziali che mettono in relazione la nostra storia con il disegno esso di Dio su di essa.
Dunque, come collocarsi di fronte a questi testi? Che cosa è impor-tante in questa visione della storia e del suo fine? Quale è il punto focale di questa Parola? Certamente, ad una prima lettura di questi testi, viene spontaneo un paragone tra le immagini utilizzate da Mc 13,24-25 e dal profeta Daniele (Dn 12,1: «Sarà un tempo di angoscia come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni…») e gli eventi che viviamo.
E, inevitabilmente, rimaniamo inquietati da un confronto tra queste parole piene di morte e di devastazione e ciò che oggi vediamo nel mondo.
«In quei giorni…
le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» (Mc 13,25).
Non è quello che scorre sotto i nostri occhi? Una creazione che sembra ripiombare nel caos iniziale, che si rifiuta di obbedire all’uomo, e una umanità disorientata e lacerata da tante divisioni, incapace di guardare con speranza la storia.
Si percepisce un senso di fine e, sicuramente, un mondo sta per terminare.
Ma è veramente questa la prospettiva di Dio? È questo ciò che, in particolare, Gesù vuole comunicarci?      Un primo messaggio che possiamo cogliere, soprattutto a partire dalle parole di Gesù riportate dall’evangelista Marco, riguarda il senso della storia, il suo orientamento.
Al di là degli eventi tragici che costellano il tempo dell’uomo, la creazione stessa, la nostra storia cammina verso una pienezza, verso un fine (e non verso la fine) che è l’incontro definitivo con Cristo, kyrios della storia; incontro che è nello stesso tempo salvezza e giudizio.
È Colui che viene (o erchomenos) il punto focale che deve catturare il nostro sguardo interiore: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria…» (Mc 13,26).
Gli eventi drammatici non sono altro che una sorta di chiaroscuro che annuncia questa luce sfolgorante, questo evangelo di salvezza; c’è come un passaggio da una creazione privata della sua potenza, ridotta al nulla, ad una nuova potenza che rinnova tutto, la potenza del Kyrios, del Veniente, colui che «viene sulle nubi con grande potenza e gloria».
È questo l’evangelo che illumina tutta la storia e la orienta al compimento.
Ecco il primo messaggio pieno di speranza che ci comunica questa parola di Gesù, così difficile e carica di angoscia: in un mondo che finisce (o meglio, che giorno dopo giorno si incammina alla fine), si avvicina sempre di più il momento in cui l’umanità è chiamata a vedere in volto Colui che dà il senso a tutta la storia, Colui che la guida in ogni suo passo, Colui che la riempie di bellezza e di pace.
La speranza matura proprio nel momento in cui le possibilità umane sembrano essere giunte ad un vicolo cieco, sembrano esaurirsi; proprio lì, inaspettatamente, ma in una fedeltà mai venuta meno, si apre un orizzonte infinito e si comprende che c’è qualcuno al di là degli avvenimenti, anche quando questi sono segnati dal male e dalla morte.
     L’arrivo e l’incontro con il Veniente ha come frutto, nella storia, il compimento di essa.
È questo il secondo messaggio offerto dal testo di Marco.
E la parola compimento è una parola che apre al futuro, che lascia intravedere un nuovo inizio, che è carica di novità, di bellezza, di perfezione.
Ciò che all’uomo appare come conclusione e dunque morte definitiva di un mondo, di una storia, di una umanità, nello sguardo di Dio diventa occasione di creazione rinnovata, di amore ridonato, di novità di vita.
Anche se a noi pare strana, la logica di Dio è però la logica pasquale: dalla morte alla vita, e non viceversa.
E il testo di Marco descrive questo compimento non come giudizio sull’umanità (anche se questo è un tema fondamentale nei discorsi escatologici), ma come comunione e unità: «Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti…» (13,27.
Cfr.
anche Dn 12,2-3).
Il movimento è, dunque, dalla dispersione del popolo di Dio su tutta la terra, alla riunione nel regno alla fine dei tempi; il punto di arrivo è così la comunione in un incontro.
Ciò che segna la fine di questo mondo non è la distruzione, la morte, il caos: questi sono solamente una sorta di dolori del parto che preannunciano qualcosa di nuovo.
La novità sta nella nascita di una umanità che entra definitivamente nell’incontro con il suo Signore, quell’umanità che ha saputo attendere con pazienza «quei giorni» e che nel momento scelto da Dio «vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con gloria e potenza grande» e che «riunirà i suoi eletti» da tutti i luoghi in cui erano dispersi.
     Ma nel ‘frat-tempo’ il discepolo come deve comportarsi? Rimandato alla storia, che è attesa di questo incontro, che cosa deve fare il credente? Nella risposta a questi interrogativi sta un terzo messaggio che questa parola di Gesù ci offre.
Il discepolo deve imparare a discernere, a guardare per comprendere e per conoscere ciò che avviene.
Il discepolo deve abituare lo sguardo a cogliere i segni di questo incontro sempre rinnovato.
Bisogna saper leggere tutti quei segni, piccoli o grandi, di cui è disseminata la nostra storia e che ci aprono alla speranza.
E una umile pianta, il fico, ci ricorda Gesù, può aiutarci a comprendere questo: «Dalla pianta del fico imparate la parabola» (13,28).
Quando il fico incomincia a produrre le gemme e sui suoi rami crescono le prime foglie, ecco che si avvicina il tempo del raccolto, il tempo della gioia.
La nostra storia è paragonabile a quella pianta di fico: in essa, per chi sa guardare con occhi di novità, sono disseminate tante gemme, piccoli annunci di vita.
Essi ci dicono che il tempo della salvezza è già operante in mezzo a noi, che questo mondo è stato salvato dall’amore di Dio e che tocca a ciascuno di noi essere attenti per cogliere quella parola di salvezza che il Signore stesso vuole donarci.
     E infine Gesù ci dona anche un punto di appoggio saldo per poter discernere: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (13,31).
La parola di Gesù è, in fondo, ciò che ci permette di camminare in questa storia, attendendo l’incontro con Lui, senza perdere il cammino, ma imparando a leggere ogni segno che incontriamo su di esso.
Anche se la strada a volte è buia, anche se la nostra storia non sembra andare verso una meta, ma verso una fine, anche se spesso i cammini che incontriamo ci disorientano, abbiamo ricevuto dal Signore un appoggio sicuro: la sua parola che non passa, che non perde la sua forza, che contiene tutto il suo amore fedele, che è speranza.
Nella sua parola la vita continua, anche quando attorno a noi sembra finire (il cielo e la terra passeranno).
In questo tempo di attesa, veramente il Signore ci chiede una sola cosa: appoggiare tutta la nostra vita sulla sua parola e con pazienza, come la sentinella nella notte, attendere l’albeggiare della sua venuta.
    Preghiere e Racconti Cambiare la storia Chi spera cammina, non fugge! Si incarna nella storia! Costruisce il futuro, non lo attende soltanto! Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma! Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare.
Cambia la storia, non la subisce! (don Tonino Bello) Dopo l’11 settembre Il paradosso del nostro tempo nella storia è che abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse, autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.
  Spendiamo di più, ma abbiamo meno, comperiamo di più, ma godiamo meno.
Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole, più comodità, ma meno tempo.
  Più conoscenza, ma meno giudizio, più esperti, e ancor più problemi, più medicine, ma meno benessere.
  Beviamo troppo, fumiamo troppo, spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco, guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo, facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi, vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.
  Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà, ma ridotto i nostri valori.
Parliamo troppo, amiamo troppo poco e odiamo troppo spesso.
  Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere, ma non come vivere.
Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.
  Siamo andati e tornati dalla Luna, ma non riusciamo ad attraversare la strada per incontrare un nuovo vicino di casa.
Abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno.
  Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.
Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.
Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.
Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.
Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.
  Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni, per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.
Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta, grandi uomini e piccoli caratteri, ricchi profitti e povere relazioni.
  Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi, case più belle ma famiglie distrutte.
Questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e getta, della moralità a perdere, delle relazioni di una notte, dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto, dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.
  E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina e niente in magazzino.
Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera, e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri, o di cancellarle.
  Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora, perché non saranno con te per sempre.
Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno che ti guarda dal basso in soggezione, perché quella piccola persona presto crescerà e lascerà il tuo fianco.
  Ricordati di dare un caloroso abbraccio alla persona che ti sta a fianco, perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore e non costa nulla.
  Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari, ma soprattutto pensalo.
Un bacio e un abbraccio possono curare ferite che vengono dal profondo dell’anima.
Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti, perché un giorno quella persona non sarà più lì.
  Dedica tempo all’amore, dedica tempo alla conversazione, e dedica tempo per condividerei pensieri preziosi della tua mente.
  E ricorda sempre: la vita non si misura da quanti respiri facciamo, ma dai momenti che ci tolgono il respiro.
(George Carlin).
Le due venute Noi annunciamo non solo una, ma due venute di Cristo, la seconda molto più risplendente della prima.
La prima si compì sotto il segno della pazienza, la seconda porta la corona del regno regale.
Per lo più, infatti, il Signore nostro Gesù Cristo si manifesta in duplice modo: in due nascite, una da Dio prima dei secoli e una dalla Vergine al compimento dei secoli; in due discese, una nel nascondimento come pioggia sul vello (cfr.
Sal 71 [72] ,6) e una che alla fine sarà manifesta; in due venute: nella prima, avvolto in fasce dentro la stalla e, nella seconda, avvolto da un manto di luce (cfr.
Lc 2,7; Sal 103 [104] ,2); nella prima, sottoposto all’umiliazione della croce che non giudicò vergognosa e, nella seconda, scortato da schiere angeliche nella gloria.
Crediamo fermamente, dunque, non solo alla prima venuta, ma attendiamo anche la seconda.
Se nella prima abbiamo detto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21,9), nella seconda ripeteremo di nuovo le stesse parole e così correndo incontro al Signore insieme agli angeli, prostrandoci diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23,39).
Il Salvatore verrà di nuovo non per essere giudicato, ma per giudicare quelli che l’hanno giudicato.
[…] Viene il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli, viene nella gloria nell’ultimo giorno; vi sarà infatti la fine di questo mondo e sarà creato un mondo nuovo.
Sarà rinnovata la terra sommersa da corru-zioni, furti, adulteri e ogni genere di peccati, il mondo bagnato di sangue misto a sangue (cfr.
Os 4,1), perché questa meravigliosa dimora dell’uomo non resti colma di iniquità.
Questo mondo possa perché ne appaia uno migliore.
[…] Passeranno le cose che ora vediamo e verranno quelle migliori che attendiamo, ma nessuno pretenda di sapere quando.
Sta scritto: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7).
Non devi temerariamente pretendere di sapere che cosa accadrà dopo, né supinamente adagiarti nel sonno.
Sta scritto: «Vegliate perché nell’ora in cui non l’aspettate verrà il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42.44).
(CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi 15,1.3-4, PG 33.869A-B; 872C-873; 876A).
La biblioteca di Dio Credo che in qualche punto dell’universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell’uomo.
Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.
(Isaac Bashevis Singer).
Trova il tempo Trova il tempo di pensare; trova il tempo di pregare; trova il tempo di ridere.
  È la fonte del potere; è il più grande potere sulla terra; è la musica dell’anima.
  Trova il tempo per giocare; trova il tempo per amare ed essere amato; trova il tempo di dare.
  È il segreto dell’eterna giovinezza; è il privilegio dato da Dio; la giornata è troppo corta per essere egoisti.
  Trova il tempo di leggere; trova il tempo di essere amico; trova il tempo di lavorare.
  È la fonte della saggezza; è la strada della felicità; è il prezzo del successo.
  Trova il tempo di fare la carità; è la chiave del Paradiso.
(poesia scritta sul muro della Casa dei bambini di Calcutta).
  Insegnami ad usare bene il tempo Dio mio, insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai e ad impiegarlo bene, senza sciuparne.
Insegnami a prevedere senza tormentarmi, insegnami a trarre profitto dagli errori passati, senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.
Insegnami ad immaginare l’avvenire senza disperarmi che non possa essere quale io l’immagino.
Insegnami a piangere sulle mie colpe senza cadere nell’inquietudine.
Insegnami ad agire senza fretta, e ad affrettarmi senza precipitazione.
Insegnami ad unire la fretta alla lentezza, la serenita’ al fervore, lo zelo alla pace.
Aiutami quando comincio, perche’ e’ proprio allora che io sono debole.
Veglia sulla mia attenzione quando lavoro, e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.
Fa’ che io ami il tempo che tanto assomiglia alla Tua grazia perche’ esso porta tutte le opere alla loro fine e alla loro perfezione senza che noi abbiamo l’impressione di parteciparvi in qualche modo.
(Jean Guitton)      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
 

Quel che è di Cesare

ROSY BINDI – GIOVANNA CASADIO, Quel che è di Cesare, Laterza, Bari, 2009,  pp.127,  € 10.00 “Quel che è di Cesare” è una lunga intervista di Giovanna Casadio a Rosy Bindi, in cui la vicepresidente della Camera, incalzata dalle domande della giornalista, riflette sul rapporto tra fede, politica e religione nel tentativo di superare quel reciproco pregiudizio tra credenti e non credenti che ruota intorno al valore della laicità.
«Un pregiudizio – dice Rosy Bindi – che è tempo di archiviare, originato dal conflitto tra potere temporale e potere spirituale, che la storia ha già superato e la cui permanenza, tutta ideologica, rende più difficile affrontare le sfide della modernità.
La contrapposizione tra laici e credenti nasce da qui: i credenti sono sempre sospettati della loro laicità e i non credenti sono sempre sospettati della loro eticità».
Nel libro, edito da Laterza, Rosy Bindi racconta il suo impegno di cattolica che ha scelto la politica e va al cuore del principio di laicità.
In un colloquio franco e diretto affronta le questioni cruciali della nostra democrazia.
Scommette sul dialogo tra credenti e non credenti per superare reciproche scomuniche e afferma l’attualità del cattolicesimo democratico.
Rilancia la dimensione etica della politica come servizio e ricerca del bene comune.
Rosy Bindi, la sciabola laica e il vizio del compromesso di Michele Ainis Rosy Bindi non è donna che le mandi a dire.
Lei cattolica, che da giovane fu sul punto d’entrare in monastero, non ha mai parlato la lingua velata e un po’ allusiva della Curia.
Lei giurista, allieva di Vittorio Bachelet, ha sempre rifiutato gli alambicchi lessicali così familiari a chi maneggia codici e pandette.
Lei politica di lungo corso, e adesso fresca di nomina come presidente del Partito democratico, non ha mai amato il linguaggio involuto dei politici.
La schiettezza è una virtù evangelica («Sia il vostro dire: Sì sì, no no; il di più viene dal maligno»: Matteo 5, 37).
Ma in Italia è anche scarsamente praticata, vuoi per l’impero del politically correct, vuoi per opportunismo, per non farsi nemici.
Eppure se non sei franco – con gli altri e con te stesso – ti sarà impossibile mettere a profitto le tue relazioni con il mondo.
Perché chi canta in falsetto rifiuta a ben vedere il dialogo, si rende muto e sordo.
E invece il dialogo è sempre necessario, probabilmente oggi più di ieri.
Nelle guerre di religione che divampano su e giù lungo la penisola, nella rinnovata sfida tra guelfi e ghibellini, ciò vale innanzitutto sul fronte della laicità.
E alla laicità Rosy Bindi, intervistata da Giovanna Casadio, ha appena dedicato un libro (Quel che è di Cesare, Laterza, pp.
127, euro 10).
Lo sfogli, e incontri giudizi taglienti come altrettante sciabolate.
La posizione dell’Osservatore Romano contro la morte cerebrale? Oscurantista.
I divieti papali sull’uso della contraccezione? Già da ministro del governo Prodi, Bindi confezionò uno slogan: «Se non usi la testa, usa almeno il preservativo».
La battaglia sui Dico, creatura poi abortita di Rosy Bindi e Barbara Pollastrini? Davanti alla prospettiva di riscattare le coppie di fatto dalla clandestinità giuridica, i vescovi risposero: «Non possumus».
E lei disse a sua volta che un ministro della Repubblica italiana non è tenuto a conoscere il latino.
L’opposizione del Vaticano alla proposta – formulata in un consesso delle Nazioni Unite – di depenalizzare l’omosessualità? Una pagina triste.
Il ruolo del cardinal Ruini? Un panettiere al lavoro su due forni, destra e sinistra, che professava la «cultura dello scambio».
Inalberando la bandiera d’una Chiesa giudicante, che assolve nel confessionale e spara veti in piazza.
Non che Bindi sia diventata all’improvviso un’accanita mangiapreti.
Se è per questo, difende l’ortodossia cattolica su molte altre questioni, dall’eutanasia alla fecondazione assistita, e più in generale all’indisponibilità della vita per ogni essere vivente.
Arriva perfino a spalleggiare le pretese più mondane delle gerarchie ecclesiastiche, dall’8 per mille (un sistema «trasparente») al finanziamento delle scuole private (benché una norma costituzionale lo precluda).
Anche in questi casi usa parole nette, senza infingimenti.
Nel merito, potremo senz’altro dissentire.
Non però nel metodo: dopo tutto fu proprio il nitore delle rispettive posizioni – come ricorda Bindi – a permettere l’incontro fra laici e cattolici in Assemblea costituente.
Un miracolo che non si è poi ripetuto, nella storia della Repubblica italiana.
Qui c’è il punto cruciale di questo volumetto, però c’è anche il suo punto critico.
Perché vi si teorizza che ogni idea debba sempre stemperarsi nell’idea dell’altro, sino a forgiare un «meticciato», una contaminazione sistematica tra fede e ragione.
Ma davvero il compromesso su ogni singola questione è la nostra via d’uscita? E davvero per siglarlo dobbiamo rinunziare alla cultura del conflitto? Tuttavia quest’ultima costituisce il sale dei sistemi liberali; non per nulla la nostra Carta regola l’istituto del conflitto tra i poteri dello Stato, affidando alla Consulta ogni giudizio sulle ragioni e i torti.
D’altra parte non sempre è possibile raggiungere un’intesa.
Per esempio sul crocifisso nelle scuole: o lo espongo o non lo espongo, non posso appenderlo al muro e poi coprirlo con un velo.
Il compromesso, casomai, deriva dall’insieme, dal fatto che non tutte le decisioni soddisfino il medesimo uditorio.
Esattamente come avvenne all’atto di redigere la Costituzione, dove s’incontrano disposizioni di matrice liberale (per esempio quella sulla libertà d’impresa) accanto ad altre di marca socialista (il veto ai latifondi).
E quando viceversa i nostri padri fondatori misero il diavolo insieme all’acqua santa – come nell’art.
7 sui Patti lateranensi, che Rosy Bindi indica a modello – timbrarono «un errore logico e uno scandalo giuridico», per usare le parole di Benedetto Croce.
Oggi come allora, meglio un bisticcio di un pasticcio.
in “La Stampa” del 12 novembre 2009

A lezione di Sindone

Con il progetto “Imago Veritatis.
L’arte come via spirituale”, l’Associazione Sant’Anselmo realizza a Torino – nell’ambito del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana – una serie di iniziative culturali nel programma ufficiale dell’ostensione della Sindone.
Tra queste, l’associazione propone – con la collaborazione dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede e dell’Ufficio scolastico regionale del Piemonte – un concorso per le scuole sul tema del volto e del corpo di Cristo che verrà presentato agli insegnanti venerdì 13 novembre al liceo Massimo D’Azeglio di Torino.
Ne indica gli obiettivi il presidente.
L’ostensione della Sindone – che si svolgerà tra il 10 e il 23 maggio del prossimo anno e che sarà oggetto di una visita del Papa il 2 maggio – è un evento di rilievo internazionale che attirerà milioni di visitatori da tutto il mondo e che ripropone l’attenzione su un tema da sempre oggetto di analisi, studi, polemiche e anche facili e infondate ricostruzioni: la storicità di Cristo.
Con il concorso promosso nelle scuole del Piemonte dall’Ufficio scolastico regionale su iniziativa dell’Associazione Sant’Anselmo e in collaborazione con l’Ufficio scuola della diocesi piemontese, si vuole portare questo tema all’attenzione del mondo della scuola.
L’obiettivo dell’iniziativa non riguarda il livello della fede in Cristo, che è oggetto di percorsi diversi; bensì il livello della conoscenza, dell’acquisizione di nozioni, della comprensione dei testi, della ricostruzione storica, della elaborazione creativa; in una parola il livello tipico della scuola dove si opera con le metodologie che le appartengono.
Non è un mistero che l’alfabetizzazione biblica degli studenti italiani soffra di gravi carenze, nonostante la partecipazione della stragrande maggioranza della popolazione scolastica all’insegnamento della religione cattolica (secondo i dati ufficiali tra l’85 e il 90 per cento); e i risultati di una mancata conoscenza dei principi umani e civili del cristianesimo e dei passaggi più essenziali della sua storia sono sotto gli occhi di tutti.
Il concorso si prefigge di attirare la curiosità e l’applicazione scolastica degli studenti sulla figura storica di Gesù anche attraverso gli interrogativi posti dalla Sindone.
Quindi, di approfondire la conoscenza del personaggio storico, la storia e le caratteristiche della Sindone, impegnando i bambini delle scuole elementari a esprimere con il disegno la comprensione che ne hanno e le reazioni personali a ciò che rappresenta; e spingendo gli studenti delle scuole medie e superiori a esprimere con un elaborato artistico, scritto o multimediale vuoi la personale interpretazione, vuoi l’esposizione delle problematiche storiche e scientifiche che riguardano il reperto sindonico e la vicenda di Gesù.
Agli obiettivi del concorso gli insegnanti verranno introdotti dagli interventi di personalità già note ai frequentatori di queste pagine.
Timothy Verdon fornirà spunti relativi alla rappresentazione di Cristo nell’arte osservando che essa cerca spesso di mostrare le due nature, umana e divina, del personaggio anche quando lo dipinge come un fanciullo che apprende i gesti dell’amore dall’amore della madre come chiunque di noi, o come un giovane serio che guarda dritto negli occhi alla ricerca dell’essenziale.
Lucetta Scaraffia, storica della Sapienza, spiegherà che nessun altro personaggio dell’antichità dispone di una documentazione altrettanto abbondante e vicina agli avvenimenti come Gesù, la cui esistenza storica è testimoniata in modo fondamentale dallo storico ebreo Flavio Giuseppe.
A seconda delle epoche e anche delle ideologie Cristo è stato considerato ora il fondatore di una nuova religione, ora un rivoluzionario politico; ma oggi la tendenza prevalente, in ossequio alla banalizzazione diffusa secondo cui tutte le religioni sono ugualmente valide, è quella di leggere la vita di Gesù come un mito, molto simile a quelli di Dioniso o di Osiride.
Ma René Girard e Julien Ries, di cui l’Università Cattolica del Sacro Cuore – in collaborazione con il suo editore Jaca Book – ha appena inaugurato l’archivio sotto la direzione di Silvano Petrosino, hanno collocato il sacro in una prospettiva antropologica che fa emergere la struttura religiosa connaturata all’uomo, terreno della rivelazione di Cristo.
Il maggior responsabile della Commissione diocesana per la Sindone, monsignor Giuseppe Ghiberti, studioso del Nuovo Testamento, introdurrà alla questione della Sindone chiarendo in quale rapporto stia con la vicenda di Gesù e ricordando che ciò che è accaduto a quell’uomo che si vede sul telo corrisponde in modo “totale” a quanto è accaduto a Gesù: percosse sul volto, aculei infitti su tutta la cute del capo, flagellazione, chiodi, ferita al fianco; ma soprattutto avvertendo che essa è un segno che aiuta a entrare nel mistero.
Infine, la curiosità degli studenti sarà animata dal contributo di Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia, che spiegherà le caratteristiche dell’immagine (simili a quelle di un negativo fotografico) e il fatto che è stata prodotta attraverso un procedimento naturale, che possiede peculiari caratteristiche tridimensionali e che sulle impronte degli occhi vi sono segni caratteristici che potrebbero essere interpretati come tracce lasciate da monete romane coniate nella prima metà del i secolo dell’era cristiana.
(©L’Osservatore Romano – 13 novembre 2009)

Testimoni: Il vescovo Pinardi

“Servo fedele, prudente e buono”.
Queste fondamentali caratteristiche del ministero episcopale ricordate in un’omelia lo scorso 12 settembre da Benedetto XVI si attagliano perfettamente anche alla figura di monsignor Giovanni Battista Pinardi, vescovo ausiliare di Torino nella prima metà del Novecento.
Pinardi nasce a Castagnole Piemonte nel 1880, nel giorno dell’Assunzione di Maria, da una famiglia contadina, profondamente religiosa.
Il piccolo Giovanni Battista, quintogenito di sei fratelli, regolarmente, alle 5 del mattino, raggiunge la chiesa parrocchiale per servire la prima messa: qui nasce la sua vocazione al sacerdozio, maturata nell’ambiente salesiano di Alessandria e nei seminari diocesani di Torino.
Sarà ordinato sacerdote il 29 giugno 1903, con 51 compagni di studi, nella chiesa dell’Immacolata, annessa all’arcivescovado.
Nominato parroco di San Secondo in Torino nel 1912, accetta “per obbedienza” la nomina a vescovo titolare di Eudossiade e ausiliare del cardinale Richelmy il 24 gennaio 1916.
“Un uomo pio, d’una pietà che traspariva dal suo volto”, così lo descrive il vescovo coadiutore Tinivella nell’omelia per la traslazione delle sue spoglie dal cimitero di Castagnole Piemonte alla chiesa di San Secondo in Torino, avvenuta nel dicembre 1964.
A chiunque lo incontrava, monsignor Pinardi dava l’impressione d’essere costantemente in unione con Dio e di cercare unicamente nella Sapienza divina la soluzione di tanti gravosi problemi che gli si presentavano ogni giorno.
Per lunghe ore rimaneva in adorazione davanti al Tabernacolo, e chi l’ha visto pregare – annota un confratello parroco – ne ha certamente riportato sentimenti indelebili di edificazione.
Uomo coraggioso e intrepido, affrontò la buona battaglia della fede in tempi difficili, meritò dal suo arcivescovo Maurilio Fossati, piuttosto parco negli elogi, la lusinghiera definizione di bonus miles Christi.
Non poche furono le battaglie del Pinardi, seriamente impegnato sul versante sociale, amico fraterno di don Luigi Sturzo, che in incognito gli rese visita a San Secondo, durante il viaggio che lo portava esule nel nord d’Europa.
In tempi socialmente complessi, come lo fu il periodo tra le due guerre, monsignor Pinardi seppe attenersi rigorosamente alle indicazioni della dottrina sociale della Chiesa, che tracciava nella Rerum novarum e nei successivi documenti la via sicura da seguire.
La via della povertà e della giustizia nella misericordia.
Effettivamente, come si scrisse, monsignor Pinardi non è mai stato “anti-qualcuno”, diffondendo e difendendo l’ideale evangelico del pastore d’anime, fedele esecutore delle direttive del magistero.
Attento e sollecito nel “servizio della parola”, caratteristica propria e irrinunciabile del munus docendi, ricevuto dallo Spirito Santo, sapeva essere nella predicazione “totalmente relativo a Dio”.
Egli preparava minuziosamente le istruzioni parrocchiali – come s’usava allora durante la celebrazione pomeridiana dei vespri domenicali – le omelie e i molti discorsi d’occasione, dove tutto è riferito all’unico Assoluto: “Il Signore fa tutto bene, non chiediamogli mai perché.
La sua volontà è il nostro paradiso in terra, prima di essere la nostra beatitudine eterna”, era la frase ricorrente a ogni evento fausto o infelice che fosse.
Dopo il Vaticano II, quando stavano per entrare in vigore le nuove norme liturgiche, pur accusando la comprensibile fatica d’un aggiornamento così articolato e profondo, in una delle sue ultime istruzioni parrocchiali diceva: “Verranno indicazioni nuove e noi le metteremo in pratica”.
E aggiungeva un’espressione ricorrente nelle sue catechesi: “Lo ha detto il Papa, lo dicono i vescovi, dunque è così”.
La piena sintonia di Pinardi con il suo vescovo e con il magistero della Chiesa erano proverbiali.
Ricorrendo il suo giubileo sacerdotale, nel 1953, un noto giornalista e politico formatosi all’oratorio di San Secondo, nel discorso d’occasione ricordava: “Noi giovani ardenti uscivamo da quei colloqui con il cuore pieno di entusiasmo: era con noi un vescovo che intendeva il senso sociale del cristianesimo”.
Un vescovo che “conosceva quali doveri il mondo ha verso l’operaio e quali le strade da percorrere per redimerlo”.
L’immagine di monsignor Pinardi è inscindibilmente legata al sacerdozio, che egli non soltanto ha tenuto in grande onore, ma ha esemplarmente incarnato in tutta la sua vita.
La figura del sacerdote, nei suoi tratti essenziali, che attingono all’unico ed eterno sacerdozio di Cristo e rimangono invariati nel tempo, è caratterizzata dalla sua funzione pastorale.
Il sacerdote è anzitutto pastore e la sua spiritualità è profondamente segnata dalla carità pastorale.
Pinardi ne era profondamente consapevole.
Non si spiega altrimenti la sua quasi angosciosa resistenza ad assumere la “croce” dell’episcopato, in cui si concentra la pienezza del mandato divino.
Quanto monsignor Pinardi apprezzasse il sacerdozio risulta dalla sua profonda devozione eucaristica, ma non solo, se si pensa che dalla parrocchia di San Secondo sono sbocciate in quegli anni una quarantina di vocazioni sacerdotali e, cosa meno nota, molti sacerdoti in difficoltà hanno trovato in lui comprensione, conforto, sostegno spirituale e concreta accoglienza in spirito di vera fraternità sacerdotale.
Ripensando la bella figura del Pinardi, acquistano particolare splendore le parole di Benedetto XVI, richiamate in precedenza, a illustrare la prima caratteristica che il Signore chiede al suo servitore, la fedeltà: “Gli è stato affidato un grande bene, che non gli appartiene.
La Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio…
Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente…
La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati”.
È lo splendore della verità, vissuta nella libertà che ne deriva, che ha illuminato i passi di Pinardi, in tutti i campi della sua intensa attività pastorale, dal ministero parrocchiale in senso proprio, ai problemi sociali della prima immigrazione verso Torino, della comunicazione con una tipografia e un giornale, della tutela dei diritti dei lavoratori, per sfiorare i più vasti ambiti della politica del Paese, aprendo nuovi orizzonti sul fronte della carità vissuta, tradotta in opere ancora oggi fiorenti, come la “Casa della misericordia”.
Tutti i suoi interventi in campo sociale – dall’assistenza al sindacato e alla politica – mai miravano al consenso popolare, dal quale monsignor Pinardi era per sua natura schivo, ma anzitutto al bene dei fedeli.
Monsignor Pinardi era uomo “di poche parole, ma di saggi consigli”, che sapeva comprendere e ascoltare, accoglieva tutti con signorilità e cortesia e quanti ricorrevano a lui – ed erano molti – se ne tornavano sempre con grande sollievo, Questa dote era frutto anzitutto d’una, profonda e autentica, umiltà, virtù preclara del Pinardi, unanimemente riconosciutagli e frequentemente sottolineata da quanti hanno scritto di lui.
“La sua fu un’umiltà magnanima, che lo rendeva né timido né incerto nei suoi interventi e nelle sue decisioni quando fosse in gioco la giustizia o la verità”, scriveva, dopo la sua morte, il direttore del settimanale diocesano.
In effetti Pinardi ricoprì in diocesi incarichi molto importanti in quel momento storico, come quello di presidente della Società “Buona Stampa”, combattivo e irriducibile avversario “di coloro – come scriveva l’arcivescovo Fossati – che si fanno paladini di una falsa libertà e concorrono alla diffusione di quei fogli che sono per sistema nemici della Chiesa e avversari della buona causa”.
Monsignor Pinardi, ben conscio della sua totale consacrazione, svolse con coerente fedeltà la sua missione, dedicandovi tutte le sue energie.
Appena superati i sessant’anni la sua salute cominciò a essere malferma.
“Monsignor Pinardi – scrive un confratello – non era vecchio, ma era logoro”.
Ciononostante riuscirà a superare la soglia degli ottant’anni, traguardo ragguardevole all’epoca, conservando lo spirito dei tempi migliori fino al tramonto, con invidiabile serena lucidità e il solo rammarico di non poter più lavorare come un tempo, nel totale abbandono alla volontà del suo Signore e nel distacco dalle cose del mondo.
Ciò faceva dire all’arcivescovo Fossati, di fronte alla sua salma composta in San Secondo: “Ecce quomodo moritur vir iustus: qualis vita, finis ita!”.
La carità pastorale, virtù con la quale s’imita Gesù Buon Pastore, che dona la propria vita, si realizza anzitutto nel servizio.
Infatti l’episcopato è più un servizio che un onore, recita la Pastores dabo vobis (n.
23).
E, come ricorda Benedetto XVI nell’omelia citata sopra, Gesù venuto per servire e dare la vita in riscatto di molti “ha reso il termine “servo” il suo più alto titolo d’onore.
Con ciò ha compiuto un capovolgimento dei valori”.
Ma la carità pastorale trova il suo fondamento anche nella virtù della prudenza (Presbiterorum ordinis, 14, Ecclesiae imago, 22), virtù cardinale che rappresenta, dice Benedetto XVI, “la seconda caratteristica” del servo.
Essa indica la ricerca incessante della verità, anche la verità scomoda.
Il servo prudente è innanzitutto un uomo di verità, è un uomo dalla ragione sincera.
In tal senso Pinardi fu un uomo veramente ragionevole e saggio, capace di guardare il mondo e gli uomini e riconoscere così ciò che conta nella vita, senza lasciarsi abbagliare da pregiudizi.
Uomo di “verità e di comunione”, come sottolinea il direttorio sul ministero e la vita dei presbiteri (Tota Ecclesia, n.
30).
Spesso nelle discussioni interloquiva: “No, non voglio che prevalga chi è più tenace nelle sue idee, ma chi ha più ragione.
Riprendiamo a discutere”.
La prudenza, che suppone la saggezza, fu certamente una delle doti più in mostra e apprezzate del Pinardi, al cui consiglio molti ricorrevano proprio per la sua riservatezza e segretezza.
Anche dopo il suo “ritiro nell’ombra”, non si contavano i sacerdoti che ricorrevano a lui per un consiglio, sapendo di poter contare sulla sua prudente saggezza oltre che sulla sua riservatezza.
La sua bontà si traduceva anzitutto nell’amore ai poveri.
Ed erano centinaia quelli che gravitavano attorno alla chiesa di San Secondo.
Soleva, dire: “Anche se c’imbrogliano, amateli i poveri, Dio non ha dato loro quello che ha dato a noi”.
Messaggero di bontà – “l’unica cosa davanti alla quale il mondo è ancora capace d’inginocchiarsi”, per usare un’espressione del grande educatore salesiano don Cojazzi – monsignor Pinardi, già vescovo, saliva quattro piani di scale per raggiungere le soffitte di via San Secondo a portare conforto ai malati più poveri e abbandonati.
Tutti lo conoscevano per il suo tratto affabile e rispettoso, a ognuno rivolgeva una parola scoprendosi il capo per salutare, con ammirazione della gente più semplice.
Ma il segreto della sua bontà, da tutti riconosciuta, non può avere altra sorgente che Dio stesso, come il Signore afferma nel noto racconto evangelico: “Perché mi chiami buono, nessuno è buono se non Dio soltanto” (Marco, 10, 18).
E Benedetto XVI rammenta che “la bontà presuppone soprattutto una viva comunione con Dio…
se la nostra vita si svolge nel dialogo con Cristo…
se le sue caratteristiche penetrano in noi e ci plasmano, possiamo diventare servi veramente buoni”.
Monsignor Pinardi, sia per temperamento che per formazione, fu “un solitario” nel senso che non faceva parte di allegre combriccole di preti che dedicavano ore e ore al gioco delle carte, o a altri frivoli trattenimenti; situazione diffusa quanto mal tollerata dall’arcivescovo Richelmy, al quale il vicario generale con un certo humor replicava: “Eminenza, meglio i tarocchi (inteso come il gioco delle carte, ndr.) che passare il tempo a tagliare i panni all’arcivescovo!”.
Ma monsignor Pinardi non era certamente un prete “isolato” nella sua solitudine, che amasse non essere “disturbato”, cosa che lamentava soltanto quando stava recitando le Ore o si stava preparando alla celebrazione dell’Eucaristia.
La sua giornata scorreva continuamente a contatto con i fedeli, specialmente i più bisognosi, che prediligeva, ma anche con i confratelli, alle cui riunioni era sempre presente.
La fraternità sacerdotale, oggi tanto invocata, forse perché è diventata cosa rara, esigenza profonda della misteriosa realtà comunionale della Chiesa, era al vertice dei suoi pensieri e si manifestava nella sua cordiale accoglienza verso i confratelli, sublimandosi in una amicizia sincera, che trascende le categorie sociologiche mondane – incomprensione, solitudine, emarginazione – e supera le inevitabili difficoltà contingenti.
Lo confermano molti sacerdoti da lui aiutati e beneficati, che ospitava nella spaziosa residenza parrocchiale, fino ad averne in casa contemporaneamente una dozzina.
L’arcivescovo di Vercelli, Imberti, dava atto di questa sua disponibilità, scrivendo come “l’arcidiocesi di Torino non sarà mai abbastanza riconoscente a quest’uomo integerrimo pieno di bontà e di carità, specie con i sacerdoti”.
Scrive uno dei suoi viceparroci, oggi quasi centenario: “Per i confratelli poveri ebbe finezze squisite d’assistenza; per molti, vicini all’ultimo passo, fu l’informatore delicato e sollecito della gravità del male e del momento che suggeriva gli ultimi sacramenti; per delusi, calunniati, percossi o sviati fu l’angelo del conforto, il braccio di sostegno: sono pagine di soavità e di amore paterno e fraterno che si leggono solo nei libri dell’aldilà…”.
Indipendentemente da quale sarà il giudizio della Chiesa sulla eroicità delle virtù di monsignor Pinardi, del quale è stata introdotta la causa di canonizzazione nel 1999, l’esame delle circostanze storiche in cui visse e operò mette in risalto la grandezza dei doni che Dio gli ha fatto e la sua esemplare dedizione al ministero sacerdotale, che s’impone ancor oggi e offre in questo Anno sacerdotale un impareggiabile modello.
Con ragione hanno scritto di monsignor Pinardi: “Era sempre un vescovo: nella visione soprannaturale ed equilibrata delle cose, nella ponderatezza e decisione delle parole, nella carità e generosità delle opere”.
Nessun miglior elogio si sarebbe potuto fare di un pastore zelante, secondo il cuore di Dio, come seppe essere il Pinardi, guida dinamica e discreta nel cammino della vita, secondo la vocazione universale dei fedeli, verso la santità.
(©L’Osservatore Romano – 12 novembre 2009)

“Non smetteremo di danzare”.

GIULIO MEOTTI, Non smetteremo di danzare.
Le storie mai raccontate dei martiri di Israele” Lindau, Torino, 2009, ISBN: 978-88-7180-827-7, pp.
360, euro 24,00.
Quasi ogni giorno in Israele ci sono cerimonie funebri per le vittime del terrorismo.
Persone uccise per il solo fatto di essere ebree.
In banca, nei centri commerciali, in pizzeria.
Sul pullman, davanti a un cinema, per strada.
Da sole e in gruppo.
Giovani e vecchi.
Uomini e donne.
Tutti condannati dalla furia del fondamentalismo islamico, bersagli di un odio quotidianamente alimentato da decenni.
Questo lento e inesorabile stillicidio di morti – migliaia e migliaia – è il risultato di una guerra che ha avuto inizio nel 1972, alle Olimpiadi di Monaco, quando undici atleti della delegazione israeliana vennero trucidati da un commando di guerriglieri dell’organizzazione palestinese Settembre Nero.
Da allora ogni cittadino di Israele sa che può morire in qualsiasi istante.
Giulio Meotti racconta le storie dei «caduti in battaglia» di questa guerra condotta a fari spenti dal terrorismo islamico, abilmente dissimulata tra i fatti di cronaca della «questione palestinese», dietro la quale si cela la vera causa di una simile strage: l’antisemitismo.
Complice la distrazione dei media occidentali, queste storie ci appaiono sinistramente inedite, come se le leggessimo per la prima volta.
Come se neanche fossero vere.
Eppure nelle parole e nel dolore dei sopravvissuti – mogli, mariti, figli, padri, madri, nonni, sorelle, fratelli, amici, commilitoni, compagni di studi, conoscenti – ogni particolare suona autentico, definitivo, indimenticabile.
Parecchie di queste storie si intrecciano con quelle tristemente note della Shoah: chi muore oggi negli attentati è spesso figlio o nipote di un sopravvissuto ai campi di sterminio e diventa così parte di una sola, tragica, incomprensibile sequela.
L’ebraismo insegna che l’hazkarah, l’atto del ricordare, è l’unico modo per chi sopravvive di provare l’ingiustizia sofferta da ogni innocente e di opporsi al destino che molti vorrebbero riservare agli ebrei, anche in Israele: l’esilio, la fuga, il martirio.
Leggere queste pagine è quindi già un atto di resistenza alla barbarie.
L’AUTORE Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003.
Ha scritto per il «Wall Street Journal».
Con Lindau ha pubblicato Il processo della scimmia.
La guerra dell’evoluzione e le profezie di un vecchio biochimico (2006).
Può essere contattato scrivendo a meotti@ilfoglio.it I sommersi di Israele di Giulio Meotti Da “Non smetteremo di danzare”, pp.
26-36 Perché questo libro? Perché non vi era neppure una storia dei morti d’Israele.
È stato scritto senza alcun pregiudizio contro i palestinesi, è un racconto mosso dall’amore per un grande popolo e la sua meravigliosa e tragica avventura nel cuore del Medio Oriente e lungo tutto il XX secolo.
Ogni progetto di sterminio di una intera classe di esseri umani, da Srebrenica al Ruanda, ha avuto la sua migliore narrativa.
A Israele non sembra concesso, dalla storia si è sempre dovuto lavare via in fretta il sangue degli ebrei.
Ebrei uccisi perché ebrei e le cui storie sono state ingoiate nella disgustosa e amorale equivalenza fra israeliani e palestinesi, che non spiega nulla di quel conflitto e anzi lo ottunde fino ad annullarlo.
Il libro vuole salvare dall’oblio questo immenso giacimento di dolore, suscitando rispetto per i morti e amore per i vivi.
[…] Il più bel regalo, in questi quattro anni di ricerche, me lo hanno fatto gli israeliani che hanno aperto il loro mondo martoriato alla mia richiesta di aiuto, sono rimasti nudi con il proprio dolore.
Ero io a bussare alla loro porta, un estraneo, un non ebreo, uno straniero.
Ma mi hanno teso tutti una mano e parlato dei loro cari per la prima volta.
[…] Ho deciso di raccontare alcune grandi storie israeliane vivificate  dall’idealismo, dal dolore, dal sacrificio, dal caso, dall’amore, dalla paura, dalla fede, dalla libertà.
E dalla speranza che, nonostante tutto questo silenzio, Israele alla fine vinca.
[…] Ci sono persone incredibili come l’ostetrica Tzofia, che ha perso il padre rabbino, la madre e un fratellino, ma oggi aiuta le donne arabe a far nascere i loro bambini.
[…] C’è il copista di Torah, Yitro, che si convertì all’ebraismo e il cui figlio è stato rapito e giustiziato da Hamas.
C’è Elisheva, proveniente da una famiglia di pionieri agricoltori che ha perso tutti ad Auschwitz e una figlia incinta al nono mese per mano di terroristi spietati, perché “voleva vivere l’ideale ebraico”.
[…] A Tzipi hanno pugnalato a morte il padre rabbino e dove un tempo c’era la sua stanza da letto oggi sorge un’importante scuola religiosa.
Ruti e David hanno perso rispettivamente il marito e il fratello, un grande medico umanista che si prendeva cura di tutti, arabi ed ebrei.
C’è il rabbino Elyashiv, a cui hanno strappato un figlio seminarista ma che continua a credere che “nella vita tutto rafforza il forte e indebolisce il debole”.
Poi c’è Sheila, che parla sempre dell’arrivo del Messia e di come suo marito si prendeva cura dei bambini Down.
Menashe ha perso il padre, la madre, il fratello e il nonno in una notte di terrore, ma continua a credere nel diritto di vivere dove Abramo piantò la tenda.
[…] Elaine ha perso un figlio durante la cena di shabath e per oltre un anno non ha cucinato o emesso suoni.
Ci sono gli amici di Ro’i Klein, scudo umano che saltò su una mina recitando lo Shema’ Israel e salvando la vita dei compagni di brigata.
Yehudit ha perso la figlia troppo presto, al ritorno da un matrimonio assieme al marito.
Anche a Uri, che ha fatto alyah dalla Francia, hanno portato via la figlia, volontaria fra i poveri.
Orly ha vissuto felice in un caravan, ma suo figlio non fece in tempo a rimettersi in testa la kippah prima di essere ucciso.
C’è Tehila, una di quelle donne timorate ma moderne che popolano gli insediamenti, moglie di un idealista che “viveva la terra”, amava i ciuffi rosa e celesti dei fiori della Samaria.
[…].
C’è anche il meraviglioso Yossi, suo figlio ha sacrificato la propria vita per salvare quella degli amici e ogni venerdì andava a distribuire doni religiosi ai passanti.
Rina aveva creato una perla nel deserto egiziano, si credeva una pioniera e si è vista portare via un figlio con la moglie incinta.
[…] C’è Chaya, che ha abbracciato il giudaismo assieme al marito, la conversione per loro “era come sposarsi con Dio”.
[…] Tutte queste storie ci raccontano di questo Stato unico al mondo, nato da un’ideologia laica ottocentesca come il sionismo, che sulle ceneri dell’Olocausto radunò sulla sua terra d’origine un popolo esiliato duemila anni prima e sterminato per più della metà.
Storie che ci dicono del coraggio, della disperazione, della fede, della difesa della propria casa cercando, anche se a volte si sbaglia, di mantenere la “purezza delle armi” nell’unico esercito che consente di disubbidire a un ordine disumano.
[…] La storia di queste vittime ebree non è soltanto una storia di eroi.
È quasi sempre gente indifesa.
[…] Il Centro di Studi Antiterrorismo di Herzliya, il più importante istituto di analisi in Israele, ha calcolato che soltanto il 25 per cento delle vittime israeliane erano militari.
La maggioranza erano e sono ebrei in abiti civili.
Fra gli israeliani, le donne costituiscono il 40 per cento delle vittime totali.
Gli europei credono che Israele sia il soggetto forte, la patria e la guarnigione in armi che ha dalla sua il controllo del territorio, la tecnologia, i soldi, il sapere consolidato, la capacità di usare la forza, l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti.
E che contro di esso si erga la struggente debolezza di un popolo che rivendica i suoi diritti, disposto al martirio per ottenerli.
Ma non è così.
Le storie di questi nuovi “sommersi” lo dimostrano.
Gli israeliani hanno dimostrato di amare la vita più di quanto temano la morte.
I terroristi hanno ucciso centinaia fra insegnanti e studenti, ma le scuole non hanno mai chiuso.
Hanno ucciso medici e pazienti, ma gli ospedali hanno sempre funzionato.
Hanno massacrato esercito e polizia, ma la lista di chi si offre volontario non è mai diminuita.
Hanno preso a fucilate i bus di fedeli, ma i pellegrini continuano ad arrivare in Giudea e Samaria.
Hanno fatto stragi nei matrimoni e costretto le giovani coppie a sposarsi nei bunker sotto terra.
Ma la vita ha sempre vinto sulla morte.
Come quando, alla festa notturna al Sea Market Restaurant di Tel Aviv, Irit Rahamim festeggiava l’addio al celibato.
Quando il terrorista comincia a sparare e a lanciare granate sulla folla, Irit si butta a terra, e sdraiata sotto il tavolo chiama il futuro marito e gli dice che lo ama.
Fra le urla.
E la morte.
__________ Il libro: Giulio Meotti, “Non smetteremo di danzare.
Le storie mai raccontate dei martiri di Israele”, Lindau, Torino, 2009, pp.
360, euro 24,00.
Oggi gli ebrei di tutto il mondo commemorano i loro martiri della “notte dei cristalli”, cioè le vittime del pogrom nazista della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, in Germania.
Di quel massacro e poi del tremendo successivo sterminio degli ebrei ad opera del Terzo Reich oggi si fa universale e penitenziale memoria.
Non accade invece lo stesso, in Europa e in Occidente, per le numerose altre vittime ebree che cadono da anni in Israele, abbattute dal terrorismo musulmano.
Ogni volta che qualcuno di loro viene ucciso, entra nelle notizie e presto ne esce.
Finisce sommerso nell’indistinto della “questione palestinese”, letta da molti come prodotto della “colpa” di Israele.
Intanto, una famiglia israeliana su trecento è stata già colpita da un attentato.
Le azioni terroristiche si contano a migliaia.
Gli attentati suicidi andati a bersaglio sono più di 150 e per ogni attentato eseguito la polizia israeliana calcola di averne prevenuti altri nove.
A tutt’oggi, il totale dei morti è di 1723, di cui 378 donne.
I feriti sono più di diecimila.
Alla distrazione dell’occhio occidentale e cristiano di fronte a questo stillicidio di vittime, colpite sistematicamente nel tran tran quotidiano, sugli autobus, nelle caffetterie, nei mercati, in casa, reagisce un libro che per la prima volta racconta le loro storie.
Ci dice finalmente chi sono.
Il libro è uscito da un mese in Italia e presto sarà tradotto a New York e Londra.
Ha per titolo “Non smetteremo di danzare”.
E per sottotitolo: “Le storie mai raccontate dei martiri di Israele”.
L’autore, Giulio Meotti, è già noto ai lettori di www.chiesa per due suoi reportage che hanno avuto grande risonanza: sulla città più islamizzata d’Europa, Rotterdam, e sui “giovani delle colline”, i coloni israeliani dell’ultima generazione.
Questo suo ultimo libro si apre con una prefazione del filosofo inglese Roger Scruton e con una lettera di Robert Redeker, lo scrittore francese che vive in una località segreta da quando è stato minacciato di morte da islamisti fanatici.
Ecco qui di seguito un estratto del primo capitolo.

Avviare un percorso didattico sul sacro

SECODARIA DI SECONDO GRADO:  I ANNO                    I.
INTERVENTO: IL SACRO.
       1.      Brainstorming sulla parola sacro        2.      Ricerca di immagini sul tema:                Cosa io considero sacro?                                                 immagini di eventi naturali           3.      Brainstorming con immagini presentate da me:              Domanda: emozioni, sentimenti, sensazioni che ti suscitano le immagini.
     Immagine il Cristo di Dalì, il pensatore……       4.      Da un senso alle parole creando un testo 5.      Riflessione sul cammino fatto fino a questo momento:          dalla realtà sono nate emozioni , sentimenti, stati d’animo         Abbiamo trasformato il tutto in poesie, testi, racconti che ci appartengono, sono nostri.          Abbiamo fatto esperienza del sacro.
        Il sacro è in noi.          Ecco perché l’uomo da sempre ha manifestato questo rapporto con la realtà.
6.    Come lo ha manifestato?’’’  II.
INTERVENTO: IL SIMBOLO   1.   Il simbolo: realtà che ci riporta ad un’altra realtà   2.
Individuare e mettere a confronto i nostri simboli del sacro  3.
Ricercare  i simboli con i quali l’uomo  ha manifestato il sacro nella storia   4.
Confronto dibattito di gruppo: Quale significato hanno per noi i simboli del sacro?   5.
Esprimere la propria convinzione attraverso la produzione di un documento                                               

Il crocifisso, simbolo di sofferenza

Crocefissi in classe? Almeno non dite di essere liberali di Francesca Rigotti in l’Unità del 11 novembre 2009 Se alcuni settori del paese Italia non si riconoscono in uno stato laico e liberale, che lo facciano, ma abbiano almeno, se non il coraggio, la banale coerenza di dichiararlo e e di rinunciare all’ uso e all’abuso di termini quali libertà e liberalismo.
La battaglia del crocifisso.
Quella rivolta degli anni venti
di Filippo Ceccarelli in la Repubblica del 11 novembre 2009 “…
vale segnalare …quanto avrebbe risposto Antonio Gramsci, rinchiuso nel carcere di Turi, quando una guardia entrò imbarazzata in cella con l´ordine di apporvi il crocifisso: «Se fosse una roba che puzza, direi di no.
Ma come ci sto io, ci può stare anche lui».
Tra poveri Cristi, d´altra parte, ci si intende sempre.” Ma io difendo quella croce di Marco Travaglio in Il Fatto quotidiano del 5 novembre 2009 Dipendesse da me, il crocifisso resterebbe appeso nelle scuole.
E non per le penose ragioni accampate da politici e tromboni di destra, centro, sinistra e persino dal Vaticano.
Anzi, se fosse per quelle, lo leverei anch’io.” “le (alla chiesa) mancano proprio le parole.
Oggi i peggiori nemici del crocifisso sono proprio i chierici.
E i clericali.” Il crocefisso ridotto a bandiera nazionale di Filippo Gentiloni in il manifesto del 8 novembre 2009 “Non più il Gesù storico, dunque, ma un simbolo nazionale, portatore di unità tradizionale.
Un po’ come la lingua o il costume.
O la bandiera.
Uno spostamento di prospettiva che rappresenta una vera e propria degradazione del crocefisso.
Gesù destoricizzato perché sia «di tutti».
È il prezzo che l’autorità cattolica è pronta a pagare per mantenere la sua universalità? Se ne può discutere.” Il crocifisso addosso di Emilio Gentile in Il Sole 24 Ore del 8 novembre 2009 “Forse i giudici della Corte di Strasburgo…
sono stati inconsapevoli strumenti di un Disegno Superiore mirante a restituire la maestà del sacro al simbolo massimo della religione cristiana, sottraendolo ai molti usi che se ne fanno.
Infatti, il crocifisso lo si vede dondolare dai lobi, dalle narici…
ondeggiare su prosperosi seni…
pencolare da bracciali, portachiavi…
apparire stampigliato su indumenti e tatuato sulla pelle.
Chi lo esibisce…
probabilmente ha frainteso le parole di Gesù: «Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo, 16,24).
Molti che esibiscono il crocifisso hanno probabilmente scambiato “portare” per “indossare”…
l’hanno indossata.
Senza rinnegare se stessi.” Isteria senza fede intervista a Marinella Perroni a cura di Marco Politi in il Fatto quotidiano del 6 novembre 2009 “È terribile che la croce possa servire a fare violenza, anche solo verbale.
La croce è un testo, una narrazione della morte e resurrezione di Cristo, che invita ad un comportamento da tenere.
Guai se diventa un pretesto.
Perché non si riesce a fare una riflessione ad alto livello sulla sentenza della Corte di Strasburgo?” “vorrei che la Chiesa aprisse una riflessione con tutte le anime della cattolicità e del cristianesimo del nostro paese su ciò che significa essere testimoni della fede oggi in Italia” I vescovi, il premier e la partita del timer di Marco Politi in il Fatto quotidiano del 8 novembre 2009 “Per la Chiesa italiana la battaglia sul crocifisso è giunta come un’occasione insperata per cavalcare l’onda dell'”identità” e delle tradizioni popolari cattoliche.
Per presentarsi quale interprete nazionale di un simbolo, intorno al quale con maggiore o minore intensità si schiera gran parte del mondo politico…” La selva di croci sopra Strasburgo di Lorenzo Mondo in La Stampa del 8 novembre 2009 “Mi sembra distratta, avventata, e nella sostanza ingiusta (summum ius, summa iniuria) la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ritiene illegittima l’esposizione del Crocifisso nelle scuole italiane.
Nella dottrina e nella pratica corrente quell’icona non provoca conseguenze discriminatorie e persecutorie, come dimostra tra l’altro il fatto che sotto le sue braccia accoglienti sono cresciuti fior di anticlericali e laici catafratti.” Il giovane Sami Albertin — la cui madre ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle scuole statali approvata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricevendo per questo su forum e blog volgari insulti da chi, per il solo fatto di proferirli, non ha diritto di dirsi cristiano — dev’essere molto sensibile e delicato come una mimosa, se, com’egli dice, «si sentiva osservato» dagli occhi dei crocifissi appesi nella sua classe.
Se erano tre, come egli ricorda, erano un po’ troppi, ma provare turbamenti da giovane Werther o da giovane Törless è forse un po’ esagerato; fa pensare a quella prevalenza dei nervi sui muscoli irrisa da Croce, che preferiva studenti studiosi e gagliardi a precoci giacobini.
La sentenza e soprattutto i suoi strascichi provocheranno — ed è questa la conseguenza più grave — un passo indietro in quella continua lotta per la laicità che è fondamentale, ma che è efficace — ha ricordato Bersani, uno dei pochi a reagire con equilibrio a tale vicenda — solo se non travolge il buon senso e non confonde le inique ingerenze clericali da combattere con le tradizioni che, ancora Bersani, non possono essere offensive per nessuno.
La difesa della laicità esige ben altre e più urgenti misure: ad esempio — uno fra i tanti — il rifiuto di finanziare le scuole private, cattoliche o no, e di parificarle a quella pubblica, come esortava il cattolicissimo e laicissimo Arturo Carlo Jemolo.
Sono contrario a ogni Concordato che stabilisca favori a una Chiesa piuttosto che a un’altra anche se numericamente poco rilevante; ritengo ad esempio — è solo un altro esempio fra i tanti — che il matrimonio cattolico e il suo eventuale annullamento ecclesiastico non dovrebbero avere alcuna rilevanza giuridica, che dovrebbe essere conferita solo dal matrimonio e dal suo eventuale annullamento civile.
«Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», pare abbia detto Cavour in punto di morte al religioso che lo esortava a confessarsi.
Forse è una leggenda, ma esprime bene la fede nel valore della laicità — che non è negazione di alcuna fede religiosa e può anzi coesistere con la fede più appassionata, ma è distinzione rigorosa di sfere, prerogative e competenze.
L’obbligatoria rimozione del crocifisso è formalmente ineccepibile, in quanto la separazione fra lo Stato e la Chiesa — tutte le Chiese — non richiede di per sé la presenza di alcun simbolo religioso.
La legge tuttavia consente di temperare la formale applicazione del diritto con l’equità ossia con la giustizia nel caso concreto.
Ad esempio è giusto che i responsabili di istituzioni pubbliche non possano affidare lavori che riguardino quest’ultime senza indire pubbliche gare di appalto, perché altrimenti si favorirebbe la corruzione.
Confesso che trenta o quarant’anni fa, all’epoca in cui dirigevo a Trieste un minuscolo e fatiscente Istituto di Filologia germanica, quando in una gelida giornata invernale di bora si era rotto il vetro di una piccola finestra ed entrava il gelo, non ho indetto alcuna gara d’appalto bensì ho cercato nella guida telefonica il vetraio più vicino, l’ho chiamato e gli ho pagato la piccola cifra richiesta, facendola gravare sulle piccole spese destinate all’acquisto di cancelleria, gomme, carta igienica, gesso.
Formalmente sarebbe stato possibile incriminarmi, ipotizzando un mio illecito accordo col vetraio; ad ogni buon conto confesso il reato solo ora, in quanto caduto in prescrizione.
Credo tuttavia che, in quel caso come in altri, ciò avrebbe convalidato il detto, proclamato da rigorosi giuristi e non da teste calde, «summum ius, summa iniuria» — massimo diritto, massima ingiustizia.
E così forse è il caso del crocifisso.
Quella figura rappresenta per alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; come tale non offende nessuno, purché ovviamente non si voglia inculcare a forza o subdolamente questa fede a chi non la condivide.
Per altri, per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che esso rappresentava per Tolstoj o per Gandhi, che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta.
Un analogo discorso, naturalmente vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di altre civiltà come il cristianesimo nella nostra.
Per altri ancora, scriveva qualche anno fa Michele Serra, quel crocifisso è avvolto dalla pietas dei sentimenti di generazioni.
Altri ancora possono essere del tutto indifferenti, ma difficilmente offesi.
Si può e si deve osservare che le potenze terrene di cui quel crocifisso è simbolo e sostanza ossia le Chiese si sono macchiate e talvolta si macchiano ancora di violenze, prepotenze, ipocrisie, che negano quell’uomo in croce e fanno del male agli uomini.
Tutte le Chiese, non solo la cattolica; anche i protestanti hanno i loro roghi di streghe e la consonante finale dell’orrenda sigla razzista wasp (bianchi anglosassoni protestanti, sprezzantemente contrapposti ai neri).
Naturalmente, siccome a noi stanno sullo stomaco le prepotenze della Chiesa cattolica, quando essa le commette, è giusto prendersela con essa prima che con le malefatte di altre confessioni in altri Paesi.
Ma come quella p di wasp non offusca la grandezza della Riforma protestante e del suo libero esame, i misfatti e le pecche delle Chiese cristiane d’ogni tipo non offuscano l’universalità di Cristo, che anzi le chiama a giudizio.
Su ogni bandiera e anche sulla croce ci sono le fetide macchie dei delitti commessi dai loro seguaci.
In nome della patria si sono perpetrate violenze feroci; in nome della libertà e della giustizia si sono innalzate ghigliottine e creati gulag; in nome del profitto svincolato da ogni legge si sono compiute inaudite ingiustizie e crimini.
Sulla bandiera dell’Inghilterra e della Francia c’è anche lo sterco della guerra dell’oppio, una guerra mossa per costringere un grande ma allora indifeso Paese a drogarsi in nome del profitto altrui.
L’elenco potrebbe continuare a piacere.
Ma le barbarie nazionaliste non cancellano l’amor di patria; la guerra dell’oppio non cancella l’universalità della Magna Charta e della Dichiarazione dei Diritti dell’89 e quelle bandiere, inglese e francese, restano degne di rispetto e d’amore; il gulag installato in uno Stato che si proclamava socialista non distrugge l’universalità del socialismo e la ghigliottina non ha decapitato l’idea di libertà e di repubblica.
E così tutto il negativo che si può e si deve addebitare alle Chiese cristiane non può far scordare anche il grande bene che loro si deve; la Chiesa cattolica non è solo Monsignor Marcinkus; è anche don Gnocchi e don Milani o padre Camillo Torres, morto combattendo per difendere i più miseri dannati della terra.
Quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio.
La bagarre creata da questa sentenza farà dimenticare temi ben più importanti della difesa della laicità, fomenterà i peggiori clericalismi; dividerà il Paese in modo becero su entrambi i fronti, darà a tanti buffoni la tronfia soddisfazione di atteggiarsi a buon prezzo a campioni della Libertà o dei Valori, il crocifisso troverà i difensori più ipocriti e indegni, quelli che a suo tempo lui definì «sepolcri imbiancati».
Il Nostro Tempo ha ricordato che Piero Calamandrei — laico antifascista, intransigente nemico della legge truffa dei governi democristiani e centristi di allora— aveva proposto di affiggere, nei tribunali, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti.
Evidentemente Calamandrei era meno delicatino del giovane Albertin.
In Italia, la sentenza è un anticipato regalo di Natale al nostro presidente del Consiglio, cui viene offerta una imprevista e gratissima occasione di presentarsi nelle vesti a lui invero poco consone, di difensore della fede, dei valori tradizionali, della famiglia, del matrimonio, della fedeltà, che quell’uomo in croce è venuto a insegnare.
È venuto per tutti, e dunque anche per lui, ma questo regalo di Natale non glielo fa Gesù bambino bensì piuttosto quel rubizzo, giocondo e svampito Babbo Natale che fra poche settimane ci romperà insopportabilmente le scatole, a differenza di quel nato nella stalla.
Claudio Magris 07 novembre 2009

Sessantesima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana

Il messaggio del Papa alla sessantesima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana Nel suo impegno per portare il “lievito del Vangelo nella cultura e nel tessuto della società” la Chiesa italiana è chiamata a farsi “voce e carico delle esigenze di un Paese che non crescerà se non insieme”.
È quanto scrive Benedetto XVI nel messaggio ai partecipanti alla sessantesima assemblea generale della Cei, in corso ad Assisi.
Al Venerato Fratello Il Signor Cardinale Angelo Bagnasco Presidente della Conferenza Episcopale Italiana In occasione dei lavori della 60 Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, mi è particolarmente gradito inviare il mio affettuoso saluto a Lei, al Segretario della cei e a tutti i Pastori della Chiesa che è in Italia, riuniti in Assisi, città simbolo di quella vita cristiana condotta “secondo la forma” del Vangelo, incarnata nell’esistenza di san Francesco e santa Chiara, che continuano ad esercitare in Italia e nel mondo un irresistibile fascino spirituale.
Idealmente presente esprimo a tutti la mia vicinanza spirituale, ben conoscendo lo zelo con cui voi, venerati e cari Fratelli, operate quotidianamente al servizio delle comunità affidate alle vostre cure pastorali.
Nei viaggi apostolici che vado compiendo nelle diocesi italiane, come pure in altre occasioni che mi portano a contatto con l’amata Chiesa che è in Italia, incontro comunità vive, salde nel loro legame col Successore di Pietro e nella comunione reciproca.
Per questo, “continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere” (Ef 1, 16), insieme ai presbiteri, vostri primi collaboratori nelle fatiche apostoliche, insieme ai diaconi, ai religiosi e alle religiose e ai fedeli laici che condividono la vostra gioia e la vostra responsabilità di testimoni di Cristo in ogni ambito della società italiana.
Questi periodici incontri – ne sono certo – alimentano la vostra reciproca cooperazione indispensabile per realizzare il mandato, che contraddistingue la vostra azione apostolica, di incrementare nel popolo cristiano la fede, la speranza e la carità, di alimentare i rapporti con le altre comunità religiose e le autorità civili, di operare per la presenza del lievito del Vangelo nella cultura e nel tessuto della società italiana, per la tutela della vita umana, per la promozione della pace e della giustizia e per la difesa del creato.
Lo scambio e la fraternità che caratterizzano i vostri lavori assembleari danno forza e vivacità all’impegno comune per l’unica Chiesa di Cristo e per la crescita del tessuto umano della società.
Sono trascorsi pochi mesi dal nostro incontro in occasione dell’Assemblea Generale svoltasi a maggio, nel corso della quale è stata individuata nell’educazione la prospettiva di fondo degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio.
L’emergere dell’istanza educativa è un segno dei tempi che provoca l’Italia intera a porre la formazione delle nuove generazioni al centro dell’attenzione e dell’impegno di ciascuno, secondo le rispettive responsabilità e nel quadro di un’ampia convergenza di intenti.
Come ricordavo nel mio intervento del 28 maggio scorso, l’educazione è “una esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa” e si colloca nel cuore della sua missione, volta a far sì che ogni persona possa incontrare e seguire il Signore Gesù, Via che conduce all’autenticità dell’amore, Verità che ci viene incontro e Vita del mondo.
La sfida educativa attraversa tutti i settori della Chiesa ed esige che siano affrontate con decisione le grandi questioni del tempo contemporaneo: quella relativa alla natura dell’uomo e alla sua dignità – elemento decisivo per una formazione completa della persona – e la “questione di Dio”, che sembra quanto mai urgente nella nostra epoca.
Vorrei richiamare, in proposito, ciò che ebbi a dire, il 24 luglio scorso, durante la celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Aosta: “Se la relazione fondamentale – la relazione con Dio – non è viva, non è vissuta, anche tutte le altre relazioni non possono trovare la loro forma giusta.
Ma questo vale anche per la società, per l’umanità come tale.
Anche qui, se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente, manca la bussola per mostrare l’insieme di tutte le relazioni per trovare la strada, l’orientamento dove andare.
Dio! Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente” (L’Osservatore Romano, 26 luglio 2009, p.
8) Perché ciò si realizzi occorre che noi per primi, cari Fratelli Vescovi, con tutto il nostro essere, diventiamo adorazione vivente, dono che trasforma il mondo e lo restituisce a Dio.
È questo il messaggio profondo dell’Anno Sacerdotale, che costituisce una straordinaria occasione per andare al cuore del ministero ordinato, riconducendo a unità, in ciascun sacerdote, l’identità e la missione.
Sono contento di vedere come, nelle vostre Diocesi, questa speciale proposta stia generando non poche iniziative soprattutto di carattere spirituale e vocazionale, e contribuisca a mettere in luce il cammino di santità tracciato nel tempo da tanti Vescovi e presbiteri italiani.
La storia d’Italia, infatti, è anche la storia di un’innumerevole schiera di sacerdoti che si sono chinati sulle ferite di un’umanità smarrita e sofferente, facendo di se stessi un’offerta di salvezza.
Mi auguro che possiate raccogliere abbondanti frutti da questa corale preghiera e meditazione sul dono del sacerdozio, scaturito dal cuore di Cristo per la salvezza del mondo.
Un altro tema al quale sarà dedicato ampio spazio nei lavori della vostra Assemblea, è la “questione meridionale”.
A vent’anni dalla pubblicazione del documento “Sviluppo nella solidarietà.
Chiesa italiana e Mezzogiorno”, avvertite il bisogno di farvi voce e carico delle esigenze di un Paese che non crescerà se non insieme.
Nelle terre del Sud la presenza della Chiesa è germe di rinnovamento, personale e sociale, e di sviluppo integrale.
Possa il Signore benedire gli sforzi di coloro che operano, con la tenace forza del bene, per la trasformazione delle coscienze e la difesa della verità dell’uomo e della società.
Nel corso della vostra Assemblea, inoltre, verrà esaminata la nuova edizione italiana del Rito delle esequie.
Essa risponde alla necessità di coniugare la fedeltà all’originale latino con gli opportuni adattamenti alla situazione nazionale, facendo tesoro dell’esperienza maturata dopo il Concilio Vaticano II, con sguardo attento al mutato contesto socio-culturale e alle esigenze della nuova evangelizzazione.
Il momento delle esequie costituisce un’importante occasione per annunciare il Vangelo della speranza e manifestare la maternità della Chiesa.
Il Dio che “verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”, è Colui che “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21, 4).
In una cultura che tende a rimuovere il pensiero della morte, quando addirittura non cerca di esorcizzarla riducendola a spettacolo o trasformandola in un diritto, è compito dei credenti gettare su tale mistero la luce della rivelazione cristiana, certi “che l’amore possa giungere fin nell’aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto” (Spe salvi, 48).
Signor Cardinale e venerati Fratelli nell’Episcopato, cinquant’anni fa, al termine del XVI Congresso Eucaristico Nazionale e dopo una straordinaria Peregrinatio Mariae, i Vescovi italiani vollero consacrare l’Italia al Cuore Immacolato di Maria.
Di tale atto così significativo e fecondo, voi rinnoverete la memoria, confermando il particolarissimo legame di affetto e devozione che unisce il popolo italiano alla celeste Madre del Signore.
Volentieri mi unisco a questo ricordo, affidando i lavori della vostra Assemblea, la Chiesa che è in Italia e l’intera Nazione alla materna protezione della Vergine Maria, Regina degli Angeli e immagine purissima della Chiesa.
Invoco la sua intercessione, con quella dei santi Francesco e Chiara d’Assisi e di tutti i santi e le sante della terra italiana.
Con tali sentimenti imparto di cuore a Lei, ai Vescovi, ai loro collaboratori e a tutti i presenti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 4 novembre 2009 (©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) La 60ª Assemblea Generale della CEI si aprirà nel pomeriggio del 9 novembre 2009, ad Assisi, con la prolusione del Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI.
Il giorno seguente, dopo la Celebrazione Eucaristica nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, il Nunzio Apostolico in Italia, S.E.
Mons.
Giuseppe Bertello, saluterà i Vescovi Italiani.
Sono quattro i principali argomenti che saranno al centro dei lavori dell’Assemblea dopo l’elezione del Vice Presidente della CEI (Italia centrale): l’approvazione della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie; l’approvazione della Nota su Chiesa e Mezzogiorno; la riflessione sulla questione antropologica alla luce del nesso fra etica della vita ed etica sociale, secondo la Caritas in veritate; l’approfondimento del rapporto fra l’immagine della Chiesa e la comunicazione dei media.
Nel contesto dei lavori assembleari particolare rilievo avranno le iniziative di carattere nazionale in occasione dell’Anno Sacerdotale.
Sono inoltre previste la comunicazione sulla rilevazione delle opere sanitarie e sociali ecclesiali in Italia e alcune informazioni sull’Ostensione della Sindone (Torino, 10 aprile -23 maggio 2010) e sul Convegno “Testimoni digitali” (Roma, 22-24 aprile 2010).
Documenti allegati:Prolusione card.
Bagnasco Prolusione card.
Bagnasco

Anglicanorum cœtibus

Il testo integrale della costituzione apostolica “Anglicanorum cœtibus” che regola l’ingresso nella Chiesa cattolica di gruppi provenienti dalla Comunione anglicana di Benedetto XVI   In questi ultimi tempi lo Spirito Santo ha spinto gruppi anglicani a chiedere più volte e insistentemente di essere ricevuti, anche corporativamente, nella piena comunione cattolica e questa Sede Apostolica ha benevolmente accolto la loro richiesta.
Il Successore di Pietro infatti, che dal Signore Gesù ha il mandato di garantire l’unità dell’episcopato e di presiedere e tutelare la comunione universale di tutte le Chiese, (1) non può non predisporre i mezzi perché tale santo desiderio possa essere realizzato.
La Chiesa, popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, (2) è stata infatti istituita da Nostro Signore Gesù Cristo come “il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.” (3) Ogni divisione fra i battezzati in Gesù Cristo è una ferita a ciò che la Chiesa è e a ciò per cui la Chiesa esiste; infatti “non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura”.
(4) Proprio per questo, prima di spargere il suo sangue per la salvezza del mondo, il Signore Gesù ha pregato il Padre per l’unità dei suoi discepoli.
(5) È lo Spirito Santo, principio di unità, che costituisce la Chiesa come comunione.
(6) Egli è il principio dell’unità dei fedeli nell’insegnamento degli Apostoli, nella frazione del pane e nella preghiera.
(7) Tuttavia la Chiesa, per analogia al mistero del Verbo incarnato, non è solo una comunione invisibile, spirituale, ma anche visibile; (8) infatti, “la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino.” (9) La comunione dei battezzati nell’insegnamento degli Apostoli e nella frazione del pane eucaristico si manifesta visibilmente nei vincoli della professione dell’integrità della fede, della celebrazione di tutti i sacramenti istituiti da Cristo e del governo del Collegio dei Vescovi uniti con il proprio capo, il Romano Pontefice.
(10) L’unica Chiesa di Cristo infatti, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, “sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro, e dai Vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica.” (11) Alla luce di tali principi ecclesiologici, con questa Costituzione Apostolica si provvede ad una normativa generale che regoli l’istituzione e la vita di Ordinariati Personali per quei fedeli anglicani che desiderano entrare corporativamente in piena comunione con la Chiesa Cattolica.
Tale normativa è integrata da Norme Complementari emanate dalla Sede Apostolica.
I.
§ 1.
Gli Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica vengono eretti dalla Congregazione per la Dottrina della Fede all’interno dei confini territoriali di una determinata Conferenza Episcopale, dopo aver consultato la Conferenza stessa.
§ 2.
Nel territorio di una Conferenza dei Vescovi, uno o più Ordinariati possono essere eretti, a seconda delle necessità.
§ 3.
Ciascun Ordinariato “ipso iure” gode di personalità giuridica pubblica; è giuridicamente assimilato ad una diocesi.
(12) § 4.
L’Ordinariato è formato da fedeli laici, chierici e membri d’Istituti di Vita Consacrata o di Società di Vita Apostolica, originariamente appartenenti alla Comunione Anglicana e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica, oppure che ricevono i Sacramenti dell’Iniziazione nella giurisdizione dell’Ordinariato stesso.
§ 5.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica è l’espressione autentica della fede cattolica professata dai membri dell’Ordinariato.
II.
L’Ordinariato Personale è retto dalle norme del diritto universale e dalla presente Costituzione Apostolica ed è soggetto alla Congregazione per la Dottrina della Fede e agli altri Dicasteri della Curia Romana secondo le loro competenze.
Per esso valgono anche le suddette Norme Complementari ed altre eventuali Norme specifiche date per ciascun Ordinariato.
III.
Senza escludere le celebrazioni liturgiche secondo il Rito Romano, l’Ordinariato ha la facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere.
IV.
Un Ordinariato Personale è affidato alla cura pastorale di un Ordinario nominato dal Romano Pontefice.
V.
La potestà (potestas) dell’Ordinario è: a.
ordinaria: annessa per il diritto stesso all’ufficio conferitogli dal Romano Pontefice, per il foro interno e per il foro esterno; b.
vicaria: esercitata in nome del Romano Pontefice; c.
personale: esercitata su tutti coloro che appartengono all’Ordinariato.
Essa è esercitata in modo congiunto con quella del Vescovo diocesano locale nei casi previsti dalle Norme Complementari.
VI.
§ 1.
Coloro che hanno esercitato il ministero di diaconi, presbiteri o vescovi anglicani, che rispondono ai requisiti stabiliti dal diritto canonico (13) e non sono impediti da irregolarità o altri impedimenti, (14) possono essere accettati dall’Ordinario come candidati ai Sacri Ordini nella Chiesa Cattolica.
Per i ministri coniugati devono essere osservate le norme dell’Enciclica di Paolo VI “Sacerdotalis coelibatus”, n.
42 (15) e della Dichiarazione “In June”.
(16) I ministri non coniugati debbono sottostare alla norma del celibato clericale secondo il can.
277, §1.
§ 2.
L’Ordinario, in piena osservanza della disciplina sul celibato clericale nella Chiesa Latina, “pro regula” ammetterà all’ordine del presbiterato solo uomini celibi.
Potrà rivolgere petizione al Romano Pontefice, in deroga al can.
277, § 1, di ammettere caso per caso all’Ordine Sacro del presbiterato anche uomini coniugati, secondo i criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede.
§ 3.
L’incardinazione dei chierici sarà regolata secondo le norme del diritto canonico.
§ 4.
I presbiteri incardinati in un Ordinariato, che costituiscono il suo presbiterio, debbono anche coltivare un vincolo di unità con il presbiterio della Diocesi nel cui territorio svolgono il loro ministero; essi dovranno favorire iniziative e attività pastorali e caritative congiunte, che potranno essere oggetto di convenzioni stipulate tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano locale.
§ 5.
I candidati agli Ordini Sacri in un Ordinariato saranno formati insieme agli altri seminaristi, specialmente negli ambiti dottrinale e pastorale.
Per tener conto delle particolari necessità dei seminaristi dell’Ordinariato e della loro formazione nel patrimonio anglicano, l’Ordinario può stabilire programmi da svolgere nel seminario o anche erigere case di formazione, connesse con già esistenti facoltà di teologia cattoliche.
VII.
L’Ordinario, con l’approvazione della Santa Sede, può erigere nuovi Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica e promuoverne i membri agli Ordini Sacri, secondo le norme del diritto canonico.
Istituti di Vita Consacrata provenienti dall’Anglicanesimo e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica per mutuo consenso possono essere sottoposti alla giurisdizione dell’Ordinario.
VIII.
§ 1.
L’Ordinario, a norma del diritto, dopo aver sentito il parere del Vescovo diocesano del luogo, può, con il consenso della Santa Sede, erigere parrocchie personali, per la cura pastorale dei fedeli appartenenti all’Ordinariato.
§ 2.
I parroci dell’Ordinariato godono di tutti i diritti e sono tenuti a tutti gli obblighi previsti nel Codice di Diritto Canonico, che, nei casi stabiliti nelle Norme Complementari, sono esercitati in mutuo aiuto pastorale con i parroci della Diocesi nel cui territorio si trova la parrocchia personale dell’Ordinariato.
IX.
Sia i fedeli laici che gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che provengono dall’Anglicanesimo e desiderano far parte dell’Ordinariato Personale, devono manifestare questa volontà per iscritto.
X.
§ 1.
L’Ordinario nel suo governo è assistito da un Consiglio di governo regolato da Statuti approvati dall’Ordinario e confermati dalla Santa Sede.
(17) § 2.
Il Consiglio di governo, presieduto dall’Ordinario, è composto di almeno sei sacerdoti ed esercita le funzioni stabilite nel Codice di Diritto Canonico per il Consiglio Presbiterale e il Collegio dei Consultori e quelle specificate nelle Norme Complementari.
§ 3.
L’Ordinario deve costituire un Consiglio per gli affari economici a norma del Codice di Diritto Canonico e con i compiti da questo stabiliti.
(18) § 4.
Per favorire la consultazione dei fedeli nell’Ordinariato deve essere costituito un Consiglio Pastorale.
(19) XI.
L’Ordinario ogni cinque anni si deve recare a Roma per la visita “ad limina Apostolorum” e tramite la Congregazione per la Dottrina della Fede, in rapporto anche con la Congregazione per i Vescovi e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, deve presentare al Romano Pontefice una relazione sullo stato dell’Ordinariato.
XII.
Per le cause giudiziali il tribunale competente è quello della Diocesi in cui una delle parti ha il domicilio, a meno che l’Ordinariato non abbia costituito un suo tribunale, nel qual caso il tribunale d’appello sarà quello designato dall’Ordinariato e approvato dalla Santa Sede.
XIII.
Il Decreto che erigerà un Ordinariato determinerà il luogo della sede dell’Ordinariato stesso e, se lo si ritiene opportuno, anche quale sarà la sua chiesa principale.
Vogliamo che queste nostre disposizioni e norme siano valide ed efficaci ora e in futuro, nonostante, se fosse necessario, le Costituzioni e le Ordinanze apostoliche emanate dai nostri predecessori, e ogni altra prescrizione anche degna di particolare menzione o deroga.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.
BENEDICTUS PP XVI __________ (1) Cf.
Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 23; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett.
“Communionis notio”, 12; 13.
(2) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 4; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2.
(3) Cost.
dogm.
“Lumen gentium” 1.
(4) Decr.
“Unitatis redintegratio”, 1.
(5) Cf.
Gv 17,20-21; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2.
(6) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 13.
(7) Cf.
Ibidem; At 2,42.
(8) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8; Lett.
“Communionis notio”, 4.
(9) Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8.
(10) Cf.
CIC, can.
205; Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 13; 14; 21; 22; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2; 3; 4; 15; 20; Decr.
“Christus Dominus”, 4; Decr.
“Ad gentes”, 22.
(11) Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 1; 3; 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
“Dominus Iesus”, 16.
(12) Cf.
Giovanni Paolo II, Cost.
Ap.
“Spirituali militum curae”, 21 aprile 1986, I § 1.
(13) Cf.
CIC, cann.
1026-1032.
(14) Cf.
CIC, cann.
1040-1049.
(15) Cf.
AAS 59 (1967) 674.
(16) Cf.
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione del 1° aprile 1981, in Enchiridion Vaticanum 7, 1213.
(17) Cf.
CIC, cann.
495-502.
(18) Cf.
CIC, cann.
492-494.
(19) Cf.
CIC, can.
511.
__________ NORME COMPLEMENTARI Dipendenza dalla Santa Sede I.
Ciascun Ordinariato dipende dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e mantiene stretti rapporti con gli altri Dicasteri Romani a seconda della loro competenza.
Rapporti con le Conferenze Episcopali e i Vescovi diocesani II.
§ 1.
L’Ordinario segue le direttive della Conferenza Episcopale nazionale in quanto compatibili con le norme contenute nella Costituzione Apostolica “Anglicanorum coetibus”.
§ 2.
L’Ordinario è membro della rispettiva Conferenza Episcopale.
III.
L’Ordinario, nell’esercizio del suo ufficio, deve mantenere stretti legami di comunione con il Vescovo della Diocesi in cui l’Ordinariato è presente per coordinare la sua azione pastorale con il piano pastorale della Diocesi.
L’Ordinario IV.
§ 1.
L’Ordinario può essere un vescovo o un presbitero nominato dal Romano Pontefice “ad nutum Sanctae Sedis”, in base ad una terna presentata dal Consiglio di governo.
Per lui si applicano i cann.
383-388, 392-394 e 396-398 del Codice di Diritto Canonico.
§ 2.
L’Ordinario ha la facoltà di incardinare nell’Ordinariato i ministri anglicani entrati nella piena comunione con la Chiesa Cattolica e i candidati appartenenti all’Ordinariato da lui promossi agli Ordini Sacri.
§ 3.
Sentita la Conferenza Episcopale e ottenuto il consenso del Consiglio di governo e l’approvazione della Santa Sede, l’Ordinario, se ne vede la necessità, può erigere decanati territoriali, sotto la guida di un delegato dell’Ordinario e comprendenti i fedeli di più parrocchie personali.
I fedeli dell’Ordinariato V.
§ 1.
I fedeli laici provenienti dall’Anglicanesimo che desiderano appartenere all’Ordinariato, dopo aver fatto la Professione di fede e, tenuto conto del can.
845, aver ricevuto i Sacramenti dell’Iniziazione, debbono essere iscritti in un apposito registro dell’Ordinariato.
Coloro che sono stati battezzati nel passato come cattolici fuori dall’Ordinariato non possono ordinariamente essere ammessi come membri, a meno che siano congiunti di una famiglia appartenente all’Ordinariato.
§ 2.
I fedeli laici e i membri di Istituti di Vita Consacrata e di Società di Vita Apostolica, quando collaborano in attività pastorali o caritative, diocesane o parrocchiali, dipendono dal Vescovo diocesano o dal parroco del luogo, per cui in questo caso la potestà di questi ultimi è esercitata in modo congiunto con quella dell’Ordinario e del parroco dell’Ordinariato.
Il clero VI.
§ 1.
L’Ordinario, per ammettere candidati agli Ordini Sacri deve ottenere il consenso del Consiglio di governo.
In considerazione della tradizione ed esperienza ecclesiale anglicana, l’Ordinario può presentare al Santo Padre la richiesta di ammissione di uomini sposati all’ordinazione presbiterale nell’Ordinariato, dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell’Ordinariato.
Tali criteri oggettivi sono determinati dall’Ordinario, dopo aver consultato la Conferenza Episcopale locale, e debbono essere approvati dalla Santa Sede.
§ 2.
Coloro che erano stati ordinati nella Chiesa Cattolica e in seguito hanno aderito alla Comunione Anglicana, non possono essere ammessi all’esercizio del ministero sacro nell’Ordinariato.
I chierici anglicani che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari non possono essere ammessi agli Ordini Sacri nell’Ordinariato.
§ 3.
I presbiteri incardinati nell’Ordinariato ricevono le necessarie facoltà dall’Ordinario.
VII.
§ 1.
L’Ordinario deve assicurare un’adeguata remunerazione ai chierici incardinati nell’Ordinariato e provvedere alla previdenza sociale per sovvenire alle loro necessità in caso di malattia, di invalidità o vecchiaia.
§ 2.
L’Ordinario potrà convenire con la Conferenza Episcopale eventuali risorse o fondi disponibili per il sostentamento del clero dell’Ordinariato.
§ 3.
In caso di necessità, i presbiteri, con il permesso dell’Ordinario, potranno esercitare una professione secolare, compatibile con l’esercizio del ministero sacerdotale (cf.
CIC, can.
286).
VIII.
§ 1.
I presbiteri, pur costituendo il presbiterio dell’Ordinariato, possono essere eletti membri del Consiglio Presbiterale della Diocesi nel cui territorio esercitano la cura pastorale dei fedeli dell’Ordinariato (cf.
CIC, can.
498, § 2).
§ 2.
I presbiteri e i diaconi incardinati nell’Ordinariato possono essere, secondo il modo determinato dal Vescovo diocesano, membri del Consiglio Pastorale della Diocesi nel cui territorio esercitano il loro ministero (cf.
CIC, can.
512, § 1).
IX.
§ 1.
I chierici incardinati nell’Ordinariato devono essere disponibili a prestare aiuto alla Diocesi in cui hanno il domicilio o il quasi-domicilio, dovunque sia ritenuto opportuno per la cura pastorale dei fedeli.
In questo caso dipendono dal Vescovo diocesano per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.
§ 2.
Dove e quando sia ritenuto opportuno, i chierici incardinati in una Diocesi o in un Istituto di Vita Consacrata o in una Società di Vita Apostolica, col consenso scritto rispettivamente del loro Vescovo diocesano o del loro Superiore, possono collaborare alla cura pastorale dell’Ordinariato.
In questo caso dipendono dall’Ordinario per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.
§ 3.
Nei casi previsti nei paragrafi precedenti deve intervenire una convenzione scritta tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o il Superiore dell’Istituto di Vita Consacrata o il Moderatore della Società di Vita Apostolica, in cui siano chiaramente stabiliti i termini della collaborazione e tutto ciò che riguarda il sostentamento.
X.
§ 1.
La formazione del clero dell’Ordinariato deve raggiungere due obiettivi: 1) una formazione congiunta con i seminaristi diocesani secondo le circostanze locali; 2) una formazione, in piena armonia con la tradizione cattolica, in quegli aspetti del patrimonio anglicano di particolare valore.
§ 2.
I candidati al sacerdozio riceveranno la loro formazione teologica con gli altri seminaristi in un seminario o in una facoltà teologica, sulla base di un accordo intervenuto tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o i Vescovi interessati.
I candidati possono ricevere una particolare formazione sacerdotale secondo un programma specifico nello stesso seminario o in una casa di formazione appositamente eretta, col consenso del Consiglio di governo, per la trasmissione del patrimonio anglicano.
§ 3.
L’Ordinariato deve avere una sua “Ratio institutionis sacerdotalis”, approvata dalla Santa Sede; ogni casa di formazione dovrà redigere un proprio Regolamento, approvato dall’Ordinario (cf.
CIC, can.
242, §1).
§ 4.
L’Ordinario può accettare come seminaristi solo i fedeli che fanno parte di una parrocchia personale dell’Ordinariato o coloro che provengono dall’Anglicanesimo e hanno ristabilito la piena comunione con la Chiesa Cattolica.
§ 5.
L’Ordinariato cura la formazione permanente dei suoi chierici, partecipando anche a quanto predispongono a questo scopo a livello locale la Conferenza Episcopale e il Vescovo diocesano.
I Vescovi già anglicani XI.
§ 1.
Un Vescovo già anglicano e coniugato è eleggibile per essere nominato Ordinario.
In tal caso è ordinato presbitero nella Chiesa cattolica ed esercita nell’Ordinariato il ministero pastorale e sacramentale con piena autorità giurisdizionale.
§ 2.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere chiamato ad assistere l’Ordinario nell’amministrazione dell’Ordinariato.
§ 3.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere invitato a partecipare agli incontri della Conferenza dei Vescovi del rispettivo territorio, nello stesso modo di un vescovo emerito.
§ 4.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato e che non è stato ordinato vescovo nella Chiesa Cattolica, può chiedere alla Santa Sede il permesso di usare le insegne episcopali.
Il Consiglio di governo XII.
§ 1.
Il Consiglio di governo, in accordo con gli Statuti approvati dall’Ordinario, ha i diritti e le competenze che secondo il Codice di Diritto Canonico sono propri del Consiglio Presbiterale e del Collegio dei Consultori.
§ 2.
Oltre tali competenze, l’Ordinario ha bisogno del consenso del Consiglio di governo per: a.
ammettere un candidato agli Ordini Sacri; b.
erigere o sopprimere una parrocchia personale; c.
erigere o sopprimere una casa di formazione; d.
approvare un programma formativo.
§ 3.
L’Ordinario deve inoltre sentire il parere del Consiglio di governo circa gli indirizzi pastorali dell’Ordinariato e i principi ispiratori della formazione dei chierici.
§ 4.
Il Consiglio di governo ha voto deliberativo: a.
per formare la terna di nomi da inviare alla Santa Sede per la nomina dell’Ordinario; b.
nell’elaborare le proposte di cambiamento delle Norme Complementari dell’Ordinariato da presentare alla Santa Sede; c.
nella redazione degli Statuti del Consiglio di governo, degli Statuti del Consiglio Pastorale e del Regolamento delle case di formazione.
§ 5.
Il Consiglio di governo è composto secondo gli Statuti del Consiglio.
La metà dei membri è eletta dai presbiteri dell’Ordinariato.
Il Consiglio Pastorale XIII.
§ 1.
Il Consiglio Pastorale, istituito dall’Ordinario, esprime il suo parere circa l’attività pastorale dell’Ordinariato.
§ 2.
Il Consiglio Pastorale, presieduto dall’Ordinario, è retto dagli Statuti approvati dall’Ordinario.
Le parrocchie personali XIV.
§ 1.
Il parroco può essere assistito nella cura pastorale della parrocchia da un vicario parrocchiale, nominato dall’Ordinario; nella parrocchia dev’essere costituito un Consiglio pastorale e un Consiglio per gli affari economici.
§ 2.
Se non c’è un vicario, in caso di assenza, d’impedimento o di morte del parroco, il parroco del territorio in cui si trova la chiesa della parrocchia personale, può esercitare, se necessario, le sue facoltà di parroco in modo suppletivo.
§ 3.
Per la cura pastorale dei fedeli che si trovano nel territorio di Diocesi in cui non è stata eretta una parrocchia personale, sentito il parere del Vescovo diocesano, l’Ordinario può provvedere con una quasi-parrocchia (cf.
CIC, can.
516, § 1).
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Norme Complementari alla Costituzione Apostolica “Anglicanorum coetibus”, decise dalla Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato le pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.
William Card.
Levada Prefetto Luis.
F.
Ladaria, S.I.
Arcivescovo tit.
di Thibica Segretario __________

Guglielmo Massaja. e Abuna Messias

Ago e filo, si rattoppa da solo lo zucchetto.
È ospite alla corte del ribelle e ambizioso Menelik, nell’Etiopia lontanissima e sconosciuta.
In mezzo a tanto lusso indigeno, spicca la sua bella croce pettorale.
È vescovo.
Ma prima di tutto, è cappuccino e indomito missionario.
Scrive, infatti, nelle sue memorie: “Sono un povero cappuccino, un missionario di Gesù Cristo.
Qualunque altra dignità e supposto merito non sono per me che maggiori debiti presso Dio e presso gli uomini”.
Guglielmo Massaja, ovvero Abuna Messias: nel 1939 forse pochi lo ricordano, ugualmente oggi.
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e settanta da quando Goffredo Alessandrini realizzò questo kolossal del cosiddetto cinema coloniale italiano, vincendo l’1 settembre di quell’anno la Coppa Mussolini come miglior film alla vii Esposizione d’Arte Cinematografica di Venezia.
Si celebrava, indirettamente, la fragile Africa Orientale Italiana, proprio nel giorno in cui la Germania nazista invadeva la Polonia, la guerra iniziava e l’Impero italiano ipotecava definitivamente il suo crollo.
Al Lido, proiettarono più volte Abuna Messias nel corso della giornata vittoriosa e terribile.
Argomenti per stupire e commuovere ce n’erano assai: costato oltre cinque milioni di lire dell’epoca (circa venti milioni di euro attuali), con 250.000 comparse, 500 metri cubi di legname per le costruzioni, 50.000 metri di negativo di pellicola impressionata, interni nella nascente Cinecittà romana ed esterni tra le montagne del Ch’erch’er e a K’obo, nella regione dell’Amhara, attraversate in modo piuttosto fantasioso da miriadi di cavalieri, sacerdoti, schiavi e contadini, con grande sfarzo di costumi, copricapi, armi e chincaglie.
Si trattava di una storia di ispirazione “cattolica” inserita, però, nella propaganda di regime che vedeva necessaria la giustificazione della missione civilizzatrice italiana in terre povere dedite a schiavitù, scorribande, superstizioni e stregoneria, rafforzata da curiosità anche “antropologica” ed etnica per gli usi e i costumi di quella gente e i riti della chiesa copta, ricostruiti da Alessandrini con fedeltà, come ad esempio l’ordinazione sacerdotale presieduta dal metropolita copto Abuna Attanasio, acerrimo nemico di Messias, o il vivace concilio della medesima Chiesa in lingua locale.
C’era anche il peso della nuova società di produzione, la Romana Editrice Film, fondata un anno prima, braccio operativo del progetto della Società San Paolo e di don Alberione, di entrare direttamente nel mondo del cinema producendo film di chiara matrice cattolica: “deporre le forbici della censura e prendere in mano la macchina da presa” era la finalità di tale impegno, che in Abuna Messias riponeva altissime attese.
Ma il film non ebbe lunga vita, i problemi erano ben altri in quel frangente storico, tali da offuscare il successo iniziale (riapparve curiosamente in Francia nell’agosto 1948 con il titolo L’apôtre du désert) e quello del protagonista, il bravo e longevo Carmine Pilotto, già attore di lavori ben noti firmati, durante il fascismo, da Carmine Gallone, Aldo Vergano, Enrico Guazzoni e, dopo il conflitto, da Fernando Cerchio, Luigi Chiarini e Raffaello Materazzo.
Quest’anno le celebrazioni del bicentenario del vescovo missionario, con interessi nella medicina (il suo secondo soprannome era “Padre del Fantatà”, ossia “Signore del vaiolo”, per le migliaia di vaccinazioni somministrate, una delle sequenze più autentiche e commoventi del film), nell’ingegneria e nella politica, stimato da Leone xiii e creato cardinale nel 1884, hanno giustamente coinvolto la Cineteca Nazionale di Roma che ha portato a termine, grazie al coordinamento di Sergio Toffetti, suo Conservatore fino allo scorso mese di settembre, il delicato restauro della pellicola, della quale ora si possono apprezzare la qualità e l’audio, con una stravagante e solenne colonna sonora composta per l’occasione da Mauro Gaudiosi e don Licinio Refice (anche se quest’ultimo non compare nei crediti).
Il nome di Goffredo Alessandrini non era nuovo a operazioni di cinema gradite al regime e applaudite dal pubblico: nel 1934 aveva già vinto a Venezia un Premio speciale per Seconda B, nel 1938 la sua prima Coppa Mussolini (ex-aequo con Olympia di Leni Riefenstahl, miglior film straniero) per uno dei titoli più importanti e ricordati del cinema di quegli anni, Luciano Serra pilota interpretato dalla star di casa Amedeo Nazzari; infine nel 1942, ancora alla Biennale, un ultimo riconoscimento con Noi vivi.
Il filone del cinema coloniale italiano, pur contando su un elenco assai esiguo di titoli, non più di una decina, rappresenta però uno spaccato importante della cultura e dell’arte cinematografica dell’epoca, sospesa tra esigenze di mercato e obblighi di partito, e Abuna Messias rispecchia perfettamente queste tensioni, nelle quali la glorificazione della potenza e della civilizzazione italiana in Africa si accompagna a un curioso approccio etnico-antropologico che non dimentica le necessità e le logiche narrative del cinema.
Prima di tutto, avventura e mistero: l’esempio più bello, anche sul piano figurativo, è Lo squadrone bianco di Augusto Genina (Coppa Mussolini a Venezia nel 1936) con Fosco Giachetti, che riprende lo stile del cinema coloniale francese.
Qui meharisti coi bianchi burnus scorazzano sulla cresta delle dune, capeggiati da un comandante duro, ma giusto.
Cinema obbligatoriamente anche “ideologico”, che presenta la conquista italiana come fonte di civiltà per popolazioni oppresse da primitive leggi e consuetudini.
Abuna Messias, però, non rientra in alcuna di queste categorie e in questo risiede tutto il suo fascino e il suo interesse.
Non manca certo la volontà di assecondare gli obblighi della propaganda, coniugandoli a quelli del buon cristiano.
Nel film la prima azione di Massaja, proprio all’inizio della sua ultima missione etiopica iniziata nel 1868 e che si concluderà con l’esilio decretato dall’imperatore Johannes iv nel 1879 (in tutto, il missionario trascorse trentacinque anni di vita in Africa), è quella di liberare uno schiavo che poi diverrà sacerdote e al quale lascerà il compito di evangelizzare quelle terre e di creare, in prospettiva, un clero cattolico indigeno.
Ma non mancano dialoghi dichiaratamente piegati alle esigenze “esterne”.
Ecco quello che segue un banchetto di Menelik.
Il re: “Lasciamo il posto ai poveri, servite la carne cruda.
Vedi, senza l’aiuto della vostra civiltà non potrò mai arrivare a farne degli uomini.
Io ho bisogno della vostra civiltà: che intenzione ha l’Italia nei miei riguardi?”.
La risposta del missionario: “Cavour intuì, come sempre del resto, l’utilità di questo intervento, ma governare in parlamento fra partiti diversi non è facile.
Se dipendesse da lui la cosa sarebbe già avvenuta, ma la spedizione Antinori è già in viaggio per conoscere la situazione geografica del paese e chissà, da cosa può nascere cosa”.
Massaja, però, aggiunge in modo coerente alla sua fede: “Ti devo ringraziare di una cosa: tu hai visto poco fa quella folla di infelici, la mia vita è fra di loro, nessuna altra cosa ha importanza per me”.
Per quella folla Abuna Messias – che nel film, incarnando il puro spirito francescano di affidamento alla provvidenza divina, non cerca la difesa dei potenti perché, confessa allo stesso Menelik, toccandosi la croce che ha sul petto, “per difendermi mi basta questa” – spenderà davvero la sua vita e consumerà le sue forze, provate da interminabili viaggi: otto traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso, quattro pellegrinaggi in Terra Santa, quattro esili, innumerevoli prigionie, rischi di morte e malattie.
Il film di Alessandrini coglie qualche risvolto di questa vita avventurosa, lo fa con il minor peso di retorica possibile, anche se la recitazione degli attori italiani è piuttosto statica rispetto agli americani coevi.
E meno legata alle esigenze di veridicità: tutti, anche gli etiopi, sono italiani opportunamente truccati, tranne la bella principessa Alem, il capo indigeno Abd-el-Uad e il giovane schiavo Morka al quale, prima dell’ordinazione, Massaja insegnerà a non odiare il nemico, anche se è la cosa più difficile che bisogna imporsi per essere un bravo missionario.
Mario Ferrari, poi, nel ruolo dell’Abuna Attanasio, cerca di scolpire un mefistofelico avversario del Massaja che aizza il popolo con toni roboanti, molto simili a quelli che in Italia stavano infiammando le piazze.
Il vecchio e sapiente francescano nel film di Alessandrini sta in equilibrio tra esigenze missionarie e imposizioni politiche.
“Mi guardano, desidero capirli, entrare nella loro cultura, rispettare le loro origini, la loro storia.
Un missionario non può dimenticarlo” scrive di suo pugno a proposito dei popoli etiopi con i quali entra in contatto per portare a termine la sua missione evangelizzatrice.
Rifiutando la logica della contrapposizione e dell’imposizione, sensibile alle molteplici identità e culture africane, rispettoso dei costumi e degli usi che non deturpano la morale cattolica e difendono l’uomo nella sua totalità, cercando con tutti un dialogo, Massaja diventa così l’antieroe coloniale che i gerarchi d’allora mai avrebbero voluto assoldare e vedere raccontato in un film da loro ispirato, profeta di un mondo giusto, equo, libero, in pace.
Per quei tempi, quasi un’utopia.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) L’antieroe coloniale che il fascismo mal sopportava In occasione dei duecento anni dalla nascita del cardinale Guglielmo Massaja, il 10 novembre vengono presentati al Museo del cinema di Torino la copia restaurata dalla Cineteca Nazionale del film Abuna Messias di Goffredo Alessandrini (1939) e il nuovo documentario Guglielmo Massaja.
Un illustre conosciuto del regista Paolo Damosso, realizzato dalla Nova-t della Provincia dei frati cappuccini di Torino.