Il 18 novembre scorso il Senato ha definitivamente approvato e convertito in legge il decreto legge 25-9-2009, n.
134, principalmente dedicato alle garanzie da offrire ai precari che – per via dei tagli operati sull’organico dei docenti – non hanno visto confermata quest’anno la supplenza annuale ricevuta l’anno precedente.
La disposizione ha mobilitato il mondo politico e sindacale, ma non intendiamo qui entrare nel merito del provvedimento, preferendo piuttosto segnalare come gli Idr siano stati coinvolti indirettamente nel dibattito che ha accompagnato l’iter legislativo.
Uno dei punti più controversi del decreto legge è stato il primo comma dell’articolo 1, in cui si diceva inizialmente che i contratti dei supplenti «non possono in alcun caso trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e consentire la maturazione di anzianità utile ai fini retributivi prima della immissione in ruolo».
In sede di conversione in legge, il comma è stato modificato consentendo che i contratti di supplenza possano trasformarsi in contratti a tempo indeterminato «solo nel caso di immissione in ruolo».
A prescindere dall’opportunità della modifica e delle polemiche che la prima formulazione ha innescato, si vuole richiamare l’attenzione sul fatto che nel corso del dibattito alla Camera si è più volte tornati sul caso degli Idr non di ruolo, unico esempio di precari cui oggi è consentito accedere a una progressione economica ai sensi dell’art.
53 della legge 312/80 o ad avanzamenti biennali.
Va peraltro notato che la condizione degli Idr era contenuta nella documentazione tecnica fornita ai parlamentari dall’ufficio legislativo della Camera, e l’on.
Maurizio Turco (componente radicale del PD) ha colto l’occasione per presentare alcuni emendamenti volti a ridurre i benefici per gli Idr.
L’oggetto del contendere è stato soprattutto l’art.
53 della legge 312/80, ora dato per abrogato e ora considerato ancora vigente: poiché da esso discende il trattamento economico degli Idr, la disputa è stata sulle garanzie da estendere a tutti i precari o da riservare ai soli Idr.
Di fatto la modifica infine introdotta non ha affrontato il problema, confermando implicitamente il trattamento economico degli Idr ma lasciando traccia negli atti parlamentari della loro equivoca condizione.
Nel passaggio al Senato si è avuta anche la presentazione di un ordine del giorno da parte dei senatori Donatella Poretti e Marco Perduca (componente radicale del PD), volto a parificare il trattamento giuridico ed economico degli Idr a quello degli altri docenti, svincolandone anche l’assunzione dal riconoscimento di idoneità da parte dell’autorità ecclesiastica.
È evidente l’intento provocatorio della proposta (che infatti non è stata neanche messa ai voti in quanto improponibile), ma pare il caso di sottolineare come la condizione degli Idr sia stata ancora una volta presentata come causa di difficoltà e motivo di discriminazioni, richiamando anche un precedente ricorso presentato sul tema alla Commissione Europea.
Il ricorso, promosso dallo stesso sen.
Turco, lamentava la presunta violazione della Direttiva europea n.
2000/78 del 27-11-2000, che mira a «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (art.
1).
Dato che per accedere all’Irc occorre l’idoneità ecclesiastica, non ci sarebbe parità di trattamento in quanto l’accesso sarebbe condizionato all’appartenenza religiosa.
Ma la stessa Direttiva, all’art.
4, chiarisce che «gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».
È dunque evidente che per insegnare religione “cattolica” sia necessaria l’approvazione dell’autorità ecclesiastica corrispondente.
Ciò rivela tutta la pretestuosità del ricorso, che la Commissione Europea ha infatti riconosciuto infondato.
Ne troviamo tuttavia traccia in un’interrogazione proposta qualche tempo fa dalla sen.
Luciana Sbarbati (PD), che raccoglieva tutta una serie di presunte irregolarità collegate alla gestione dell’Irc e degli Idr, tra cui la storia del loro trattamento economico privilegiato.
Visto il periodico ripresentarsi di certe tesi, ci sembra di poter immaginare che un “pacchetto Irc” circoli nei corridoi parlamentari in attesa di cogliere l’occasione, opportuna e inopportuna, per ripresentare il suo bagaglio di disinformazione e di vis polemica.
Questa volta è toccato al decreto sui precari, ma probabilmente non è l’ultima puntata.
“Il futuro dei bambini è nel presente”

“Il Futuro dei Bambini è nel Presente” Napoli 18-19-20 novembre 2009 Con questo slogan si inaugura il 18 novembre, a Napoli, la Conferenza Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, organizzata dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali insieme alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed in collaborazione con la Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza.
La Conferenza rappresenta un’occasione per trarre un bilancio dei risultati raggiunti negli ultimi anni nonché proporre nuovi obiettivi, non solo alle istituzioni, ma a tutto il mondo impegnato nella promozione dei diritti dell’infanzia.
Lo svolgimento dei lavori è previsto secondo il seguente calendario: mercoledì 18 novembre -apertura della conferenza e tavola rotonda per un confronto sul bilancio dell’attuazione della Convenzione sui diritti del fanciullo giovedì 19 novembre – giornata delle sessioni e dei gruppi di lavoro venerdì 20 novembre – restituzione dei lavori di gruppo, tavola rotonda e conclusioni.
Questa iniziativa rappresenta un grande momento istituzionale di ascolto, elaborazione e partecipazione su temi che interessano non soltanto gli “addetti ai lavori”, ma anche bambini, ragazzi e famiglie.
Si tratta di un’occasione importante di incontro tra saperi e poteri, conoscenze professionali e responsabilita’ politico-istituzionali, esperienze associative e rappresentanze sociali, aperta alla partecipazione di tutti.
Saranno tre giorni di intenso lavoro, di approfondimenti culturali, di momenti per conoscersi e confrontare esperienze e progetti.
E’ una sfida organizzativa molto impegnativa che, attraverso l’impegno, la creativita’ e la disponibilita’ di tutti, contribuirà ad indicare il cammino per costruire un sistema di welfare che riconosca e che promuova realmente i diritti dell’infanzia, dell’adolescenza e del suo principale contesto di crescita e sviluppo: la famiglia.
XXXIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Daniele 7,13-14 Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, glo-ria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.
La visione del Figlio dell’uomo in Dn 7,13ss chiude la prima visione apocalittica del no-stro libro.
La si trova al centro del c.
7 e poi alla fine della spiegazione dei simboli (7,26s).
Nella prima parte, sotto lo sguardo profetico del veggente, si svolge la paurosa attività del-le 4 bestie simboliche, che salgono dalle acque del mare mosse dai 4 venti.
Esse rappresen-tano 4 famosi re, che dalle descrizioni sembrano identificarsi con l’impero babilonese («ter-ribile leone dal cuore d’oro»), con l’impero medo («orso che divora Babilonia»), con il per-siano («leopardo» dalle 4 teste di reganti), con il greco («mostro dai denti di ferro, che tutto stritola» assieme al tiranno che combatte contro i Santi di Dio, probabilmente l’empio An-tioco IV del 168 a.C.
persecutore dei pii Giudei).
Si trattava di eventi del passato collegati alla situazione contemporanea, visti secondo la nota concezione apocalittica: l’agitarsi delle acque primordiali, da cui provengono le forze del male, sotto il vigile controllo della ruah, lo spirito di JHWH, come in Genesi 1,1-2; go-vernanti e imperi si muovono quali strumenti dell’onnipotente Dio d’Israele.
Lo dimostra l’improvvisa apparizione di un Vegliardo che, circondato da miriadi di es-seri celesti, siede sul trono a giudicare le 4 bestie, togliendo loro ogni potere e condannan-dole alla morte.
A questo punto irrompe la scena del nuovo sovrano dei popoli.
v.
13: «ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo».
Il personaggio viene dall’alto, e non più dagli abissi dell’oceano; è un essere dalle sembianze umane, non ben definite, superiori a quelle di un semplice mortale; non più sotto il simbolo di bestie mo-struose e feroci…
Egli è come l’angelo-principe di una grande nazione (10,13).
v.
14: «Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano».
A lui sono affidati i poteri regali su tutte le nazioni della terra: un regno che non vedrà mai il tramonto.
Nella prospettiva del messianismo escatologico reale rappresenta l’intervento definitivo del Dio d’Israele sulle vicende della storia, proiettato in un futuro indeterminato (l’escaton), l’’ahar, il seguito degli anni nella forma di un governo collettivo, consegnato al «resto santo» del popolo prediletto, i Santi dell’Altissimo.
Non si esplicita se esso sarà di tipo terreno o spirituale.
Si dichiara però che sia il rappresentante ideale (il figlio dell’uo-mo), sia la sua sovranità vengono dall’alto, proprio come la piccola pietra che si stacca dal monte e annienta le potenze del male (Dn 2,45).
Vi si intravede la figura personale di un Inviato dal Signore Onnipotente, già delineato negli scritti dell’epoca giudaico-maccabeica (Parabole di Enoc, del 95 circa a.C.): considera-to come «Re celeste, assise presso la gloria divina, che dovrà un giorno rendersi manifesto, quale giudice del cielo e della terra, dei vivi e dei morti».
È il Messia del giudizio universa-le, che in Mt 25,31 ss assegnerà a ogni uomo la sorte eterna in base al comandamento del sincero amore fraterno, e dirà l’ultima parola su tutta la storia dell’umanità: «gli rispose Gesù: Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64).
Seconda lettura: Apocalisse 1,5-8 Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli.
Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto.
Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! Siamo all’inizio della grande rivelazione profetico-apocalittica di Giovanni.
Dopo il bre-ve prologo (1,1-3) in cui si presenta il tema di tutta l’opera: — esposizione dei mirabili e-venti prossimi ad accadere, così come l’autore li ha appresi da Cristo, a utilità di chi legge e ascolta —, si entra immediatamente in dialogo con le 7 chiese della cristianità d’Asia, a cui saranno indirizzate le 7 epistole (cc.
2-3), dettate dal Figlio dell’uomo, il Vivente in eterno, apparso a Giovanni in estasi (1,9-17).
Il veggente si introduce con un saluto ai destinatari e con l’augurio di «grazia e pace» da parte di Colui che è, era e viene (il Padre divino), dei 7 Spiriti che stanno davanti al suo trono (Lo Spirito, cioè, con i suoi 7 doni, che da Lui proviene), e di Cristo Gesù.
Di questi in particolare vengono esaltate le eccelse prerogative in 3a persona (vv.
6-7) e più diretta-mente in 1a persona (v.
8).
v.
5a: «Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra».
Son i titoli della grandezza di Gesù, visto nel suo ruolo di rivelatore supremo delle realtà divine («testimone fedele»), protagonista della storia salvifica (il «primo» a risorgere), do-minatore delle vicende umane (signore dei signori).
vv.
5b-6: «A Colui che ci ama e ci ha liberati…
a lui la gloria e la potenza».
Al richiamo di quei titoli sgorga dal cuore del profeta una elevata dossologia: — egli è colui che per amore ci ha lavati nel suo sangue, purificandoci dai nostri peccati e facendo di noi (ormai uniti vi-talmente a Lui) una comunità sacerdotale di fronte al resto dell’umanità, per la lode di Dio suo Padre; a Lui si renda ogni onore e gloria per sempre…
v.
7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà».
Egli è il maestoso Personaggio, già contemplato da Daniele e annunziato dallo stesso Maestro divino nel processo di Caifa (MC 14,62), a cui è conferito ogni potere in cielo e in terra, dinanzi al quale compariranno un giorno tutte le genti, anche coloro che lo hanno trafitto, perché ne siano giudicati (Zc 12,9).
v.
8: «Io sono l’Alga e l’Omega…
Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!».
Ora parla lo stesso Gesù: — Egli non è il trasumanato eroe esaltato dalle mitologie orientali, ma Colui che è Principio e Fine di tutte le cose, Alfa e Omega cioè Colui che comprende e supera tutto ciò che esiste o è pensabile, che è (JHWH), che era ab aeterno, che viene in ogni epoca e si presenta sempre a nuovo nelle sue manifestazioni e nelle sue gesta, mai pienamente definibile dalla mente umana; centro e ragione d’essere di tutti gli avvenimenti che segui-ranno, meta gloriosa dell’umanità e dell’universo! —.
Vangelo: Giovanni 18,33b-37 In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giu-deo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fat-to?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono ve-nuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Esegesi Il tratto di Gv 18,33-38a è la parte centrale del processo di Gesù dinanzi a Pilato (18,28-19,16).
I capi dei Giudei che hanno deciso per conto loro di mandare a morte Gesù lo han-no condotto presso il tribunale del procuratore romano, perché sia lui a pronunziare la sentenza definitiva, quale detentore supremo del jus gladii (il diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma).
Dopo aver essi dichiarato che il Rabbì di Galilea, secondo il loro giudi-zio, era un trasgressore della legge e reo di morte.
Pilato rientra nel pretorio per interroga-re Gesù e rendersi personalmente conto della colpevolezza di Gesù (18,28-33): era nel suo diritto.
Qui l’evangelista Giovanni riporta il luminoso dialogo tra il Maestro divino e il rappre-sentante della potenza pagana.
Il discepolo vi ha impresso qualche barlume della sua in-tima comprensione del Cristo: ne ha fatto l’epifania della sua Regalità divina.
v.
33: «Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» L’interrogatorio comincia con la chiara accusa dei capi giudei: Gesù avrebbe preteso di essere uno dei seducenti Messia, preten-dente alla guida del suo popolo (Lc 23,3).
«Gesù il nazareno, il re dei Giudei»: sarà il titolo posto sulla croce per ordine dello stesso Pilato (19,19).
v.
34: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» Gesù, prima di rispondere, vuole chiarificare in che senso il governante di Roma intendeva quel titolo: nel senso del popolo giudaico che aspettava la venuta di un Messia, leader religioso inviato dall’alto, ovvero nel senso di un condottiero politico liberatore dal giogo straniero, come poteva immaginarlo un romano? Pilato parlava secondo la concezione degli ebrei, o secondo la propria mentalità?…
Il procuratore respinge quasi con sdegno la prima ipotesi.
Non gli in-teressava proprio nulla delle credenze di quella gente: «Sono forse io Giudeo?».
A lui preme sapere se davvero quell’imputato ha commesso le gravi trasgressioni per cui i suoi conna-zionali lo hanno sottoposto al suo giudizio! E conclude: «che cosa hai fatto»? (v.
35).
v.
36: «Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo».
Il divin Maestro ora può parlare liberamente e illustrare la sua reale posizione di fronte al tribunale di Roma.
Egli poteva rassicurare il rappresentante dell’impero, dicendo di non aver fatto nulla, né contro l’ordi-ne sociale, né contro l’autorità dei Cesari accettata dal suo popolo (Lc 20,20-26), ma ha pre-ferito attirare l’attenzione di quell’uomo a qualcosa di più profondo e convincente: la carat-teristica incontrovertibile della sua Persona, quella che Giovanni ha già molte volte sotto-lineato nel suo racconto: la trascendenza del messaggio di Cristo.
Egli promuove un regno che non appartiene all’ordinamento di questo mondo visibile (8,23), poggiato sulla forza delle armi e del consenso popolare.
Il governatore lo può ben constatare: non c’è alcun suo fautore che lo difenda contro le ingiuste accuse dei suoi av-versari (18,8.11).
v.
37: «Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re».
Al-l’insinuazione, sembra un po’ ironica di Pilato: «e allora saresti Re, tu?» «tu così solo e im-provviso?» (trad.
ad litt.
dal greco), il divino accusato prosegue: — Io sono realmente Re, nel senso che ti ho indicato, e sono venuto al mondo per testimoniare quel che ho visto e conosco (3,13; 8,23; 19,35): la realtà di un altro mondo, una realtà soprasensibile, che supe-ra tutte le cose e le concezioni di quaggiù; realtà percepibile da chi è pronto ad accettare la Verità.
Chi infatti è aperto alla verità riconosce la mia voce (10,3) e mi segue (3,31-36; 1 Gv 19,18-20).
Il mio sarà così un regno nuovo, senza violenza e soprusi di alcun genere, basato solo sulla libera accoglienza del Trascendente, che è presso di ognuno e si rivela attraverso la mia parola (8,26).
Siamo al centro di tutta la Rivelazione del Verbo divino fattosi uomo, così come si pre-senta nel quarto Vangelo: il Verbo che risplende tra le tenebre e manifesta a tutti la verità dell’Amore infinito del Creatore, e aggrega, chiunque vi aderisce, alla sua stessa vitalità e-terna e consostanziale col Padre; si rimane nel mondo, ma non si è più di questo mondo (17,11.16).
Pilato, tuttavia, è ancora lontano da quella verità, e se ne esce con una battuta: «ma co-s’è la verità?» (18,38a).
Meditazione L’anno liturgico si conclude ponendo davanti ai nostri occhi la visione di Gesù Cristo nelle vesti di un re.
Un re certamente singolare: che possiede sì un regno, ma tanto disso-migliante dai regni di questo mondo (vangelo) ; che esercita la sua regalità su tutti i popoli (prima lettura), ma nella forma di un «Agnello immolato» (Ap 5,12: antifona d’ingresso) che dall’alto del suo trono regale (la croce!) attira misteriosamente a sé ogni uomo, «anche quelli che lo trafissero» (Ap 1,7: seconda lettura).
Forse la festa di Cristo Re rischia oggi di venire mal compresa e mal interpretata: è facile infatti immaginare la regalità di Cristo alla stregua di quella che esibiscono i potenti del mondo.
Ma se ci atteniamo a ciò che i testi biblici ci dicono, ecco allora che essa assume tutta un’altra luce e un altro colore.
Non dimentichiamo poi che Gesù è apparso davanti agli uomini in vesti regali proprio alla vigilia della sua morte, appunto per togliere ogni fraintendimento sul modo in cui intendeva la sua regalità su questa terra.
L’ampio spazio dato al racconto del processo di Gesù davanti a Pilato nel quarto evan-gelo (da solo occupa più di un terzo dell’intera narrazione della passione) e la cura, lettera-ria e teologica, con cui è costruito, sono già un segno evidente dell’importanza che l’evan-gelista vi attribuisce.
Sette piccole scene compongono il racconto, che si snoda in un’alter-nanza continua tra spazi interni (pretorio) e spazi esterni (cortile), con Pilato che entra ed esce senza posa per parlare rispettivamente con Gesù e con i Giudei.
Tra Gesù e i Giudei c’è ormai una separazione definitiva, non c’è più comunicazione, non c’è più dialogo, il si-lenzio si fa totale.
Sembra quasi che Gesù non abbia più nulla da dire al suo popolo (e so-prattutto ai suoi capi religiosi): ha già detto tutto quello che doveva.
Ora non gli resta che presentarsi davanti a loro nelle vesti di un «re da burla» (B.
Maggioni), deriso, oltraggiato, umiliato e – apparentemente – sconfitto (cfr.
19,1-3: la scena degli oltraggi).
Ma proprio in questa umiliazione e in questa sconfitta risplende ancor più luminosa quella verità che non ha bisogno di ragioni per farsi valere: chiede solo di essere riconosciuta e accolta da un cuore libero da ogni falsità e ipocrisia…
Il testo di Gv 18,33-37 costituisce la seconda delle sette scene che scandiscono il processo romano nella visione giovannea.
Abbiamo qui il primo colloquio tra Pilato e Gesù.
Dopo essere stato fuori a discutere con i Giudei, Pilato rientra nel pretorio, chiama Gesù e, senza troppi preamboli, comincia l’interrogatorio: «Sei tu il re dei Giudei?» (v.
33).
La tematica della regalità è così posta subito al centro del dialogo e tutto si gioca sulla comprensione della vera natura della regalità rivendicata da Gesù.
Pilato formula la sua prima domanda in un tono di ironia mista a disprezzo e incredulità (come se dicesse: «E questo qui sarebbe un re?!»).
Ma Gesù, con una controdomanda, obbliga in qualche modo Pilato a uscire allo scoperto, a non nascondersi dietro opinioni altrui, a rivelare le sue vere intenzioni: «Dici questo da te…» (v.
34).
Pilato rifiuta di prendere posizione nei riguardi di Gesù, non vuole lasciarsi coinvolgere personalmente in una questione che ritiene non rilevante per lui,e cerca di venire subito al sodo: «Che cosa hai fatto?» (v.
35).
Poco prima i Giudei, conse-gnando Gesù, avevano riferito a Pilato che era un «malfattore» (v.
30), cioè «uno che fa il male».
Dovremmo lasciarci interrogare a lungo intorno a questa semplice – ma fondamen-tale – domanda: cosa mai ha fatto Gesù durante la sua breve esistenza terrena? La legge giudica i ‘fatti’, ma i fatti sono passibili di travisamenti o, se non altro, possono essere letti almeno secondo due prospettive: secondo le apparenze o secondo la fede.
Se letta dal punto di vista di Dio, la storia di Gesù rivela significati inediti e abissali che l’uomo non è in grado di comprendere se non accetta di «rinascere dall’alto» (Gv 3,3).
Che cosa «ha fatto» preci-samente, Gesù lo confessa poco più avanti, sul finire del colloquio: egli è venuto nel mon-do «per dare testimonianza alla verità» (v.
37).
Tutta la sua missione è riassunta in questa testimonianza data alla verità.
Gesù è re (lui stesso lo dichiara al v.
37: «Io sono re») in quanto testimone e servitore della verità.
La sua regalità è completamente a servizio della verità, di quella verità di Dio che viene prima di ogni altra cosa, anche prima della propria perso-na.
Tutto il contrario di ciò che fanno i sovrani del mondo, che non esitano a fare della re-galità un baluardo a difesa del proprio potere, dei propri interessi, a fare della menzogna uno strumento ordinario del proprio governo, sottomettendo spesso la verità (che è il bene supremo) alle esigenze della cosiddetta ‘ragion di stato’.
Ma il regno di Gesù ‘funziona’ secondo altri criteri, secondo criteri che vengono da al-trove, da un mondo ‘altro’, non da questo (cfr.
v.
36).
La verità che questo regno vuol cu-stodire e servire non ha bisogno di essere difesa con la forza: essa sa ‘difendersi’ da sola con la forza stessa della sua luce che illumina tutti, sia coloro che da essa si lasciano rag-giungere che coloro che da essa rifuggono.
Certamente, quello di Gesù è un regno sconcer-tante, che non ha bisogno di guardie che combattono per il suo re ma solo di due braccia che sanno distendersi sulla croce, in un vulnerabile abbraccio che mostra la verità di un amore che accoglie tutti.
La parola conclusiva del dialogo («chiunque è dalla verità ascolta la mia voce»), oltre che sottolineare la condizione necessaria per entrare nella logica di questa originale regali-tà (stare dalla parte della verità), getta una luce anche sul modo concreto con cui Gesù eser-cita il suo potere regale.
Il Signore infatti regna su di noi unicamente attraverso l’ascolto della sua voce: nessun altro strumento di ‘potere’ egli vuole utilizzare se non quello della sua parola.
Nel rispetto pieno della nostra libertà, perché una «voce» non si impone e vive in ogni istante la fragilità e il rischio di essere accolta o rifiutata…
La Verità e le verità «Credo che la nostra maturità umana dipende dalla capacità di unificare noi stessi e il nostro sguardo sulla realtà.
Altrimenti rischiamo di rimanere preda di un molteplice illu-sorio, di verità, libertà, parole…» Esercizio non facile in una società multiculturale come quella in cui viviamo, dove si incrociano esperienze, tradizioni e religioni diverse e dove chi parla di una sola verità ri-schia di essere o di apparire un integralista.
«Senza dubbio questo rischio c’è – ammette don Ignazio -, ma la verità di cui parlo io è la verità dell’indicibile.
Quando la verità è dici-bile c’è molta difficoltà a definirla come l’unica verità.
La verità unica è quella che parla a tutti e quando non riesce a farlo bisogna essere prudenti a definirla l’unica vera verità.
Quando diciamo che la parola è una noi siamo convinti di appartenere a questa verità, ma questa verità non ci appartiene, perché è molto più grande di noi e non possiamo gestirla né possiamo avere con essa un rapporto ideologico.
Noi apparteniamo alla verità e all’infinito, ma l’infinito non ci appartiene».
(Dal libro di Enzo Romeo, I solitari di Dio.
Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 10).
Dio-verità Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori.
Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita.
Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care.
Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità.
La verità non si può sacrificare per nessuna ragione.
La verità è come un grande albero, che più lo si colti-va, più da frutti.
Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.
Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la cono-scenza perfetta della verità è possedere Dio.
Poiché la verità è Dio.
Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e que-sto è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.
Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano.
Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei er-rori.
Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità.
Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli.
Volete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio? Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore.
Voi ed io siamo una cosa sola.
Non posso farvi del male senza ferirmi.
Io sono il servo di musulmani, cri-stiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù.
E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore.
L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.
(Mahatma Gandhi).
Ho cercato la verità, amando Ho cercato la verità, con l’Innominato di Manzoni.
Ho cercato la verità tra le lettere di don Milani.
Ho cercato la verità, curiosando nella vita di Gandhi.
Ho cercato la verità, nelle Confessioni di sant’Agostino.
Ho cercato la verità nelle prediche di don Mazzolari.
Ho cercato la verità, piangendo con Giobbe sul letamaio.
Ho cercato la verità, fuggendo da casa, con la mia parte di eredità, come il Figliol Prodigo.
Ho cercato la verità, nelle poesie di Tagore.
Ho cercato la verità, nei pensieri di Pascal.
Ho cercato la verità, nei fioretti di san Francesco.
Ho cercato la verità, nell’Allegretto della settima di Beethoven.
Ho cercato la verità, vagando stralunato.
Ho cercato la verità, negli occhi incavati e ormai vitrei di Brambilla, morto di Aids tra le mie braccia.
Ho cercato la verità, nei rosari che la mia santa madre recitava per me, prete molto diverso dal prete che teneva nella sua testa.
Ho cercato la verità, nel Parco Lambro, negli anni ottanta, assistendo giovani in overdose.
Ho cercato la verità, nei commenti biblici, stupendi, del mio cardinale di Milano.
Ho cercato la verità, nei viaggi del pellegrino Wojtyla.
Ho cercato la verità, nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.
Ho cercato la verità, nelle storie degli ultimi e dei diseredati.
Ho cercato… talvolta nell’affanno, tal’altra nella pazienza; talvolta nella confusione, tal’altra nel silenzio.
Una notte inginocchiato nella mia cameretta, recitavo Compieta.
Ho sentito battere al mio cuore.
Ho detto: avanti.
Ero assonnato e stanco.
Solo dopo qualche minuto mi sono accorto chi era.
«Sono la fede! So che mi hai cercato per tanto tempo…lo sai bene anche tu, che la fede non si cerca dove non è…perché la fede è LUI…e LUI è… l’irruzione, la gratuità, la meraviglia… Lui è quello che ha detto: «Cercate la verità, amando».
Smetti di cercare.
Aspetta perché arriverà.
Sono venuto a dirtelo.
Accendi la lampada e spegni i ragionamenti nella tua testa.
Perché LUI entra dal cuore.
È l’unica porta che può riceverlo».
(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).
Imparare a riconoscere Gesù Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manife-sta in maniera chiara, che non ci dice come fare.
Adagio adagio, però, si capisce che il Si-gnore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca.
Noi diventiamo veri ricer-catori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.
Così cresciamo.
Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col pro-gramma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema.
Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca.
Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è cre-scita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).
Il mio Regno non è di questo mondo Ascoltate, giudei e gentili; ascoltate circoncisi, ascoltate incirconcisi; ascoltate, regni tut-ti della terra: «Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo.
Il mio Regno non è di questo mondo (Gv 18,36)».
Non lasciatevi prendere dal vano timore da cui fu colto Erode il Grande, quando gli fu annunciato che era nato Cristo e, nell’intento di far morire Gesù, uccise così tanti bambini (cfr.
Mt 2,3.16).
«Il mio Regno non è di questo mondo», dice Gesù.
Che volete di più? Venite nel Regno che non è di questo mondo; venite con fede e non vo-gliate diventare crudeli per la paura! È vero che in una profezia Cristo, parlando di Dio suo Padre, dice: «Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo» (Sal 2,6), ma quella Sion e quel monte non sono di questo mondo.
Che cos’è il Regno di Cristo? Sono quelli che credono in lui, a proposito dei quali egli dice: «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16), anche se egli voleva che rimanessero nel mondo, e per questo prega il Padre per essi: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodi-sca dal male» (Gv 17,15).
Per questo anche qui non dice: «Il mio Regno non è in questo mondo», ma dice: «II mio Regno non è di questo mondo».
E dopo aver dimostrato questo dicendo: «Se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, af-finché non fossi consegnato ai giudei» (Gv 18,36), non dice: «Ora il mio Regno non si trova in questa terra», ma dice: «Il mio Regno non è di questa terra».
Il suo regno, infatti, è in questa terra fino alla fine dei secoli, e porta in sé la zizzania mescolata con il grano fino al momento della mietitura, che avverrà alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo Regno tutti gli scandali (cfr.
Mt 13,38-41).
E questo non po-trebbe avvenire se il regno non fosse qui, sulla terra.
Tuttavia, non è di questa terra, poiché è in esilio in questo mondo.
A quelli che fanno parte del suo Regno egli dice: «Voi non sie-te del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 115,2,NBA XXIV, pp.
1520-1522).
La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della cre-scita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.
Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di ac-cettazione da parte del genere umano.
L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita.
C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fis-sa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio.
Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui.
[…] Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).
Preghiera Troppe volte, Signore Gesù, abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani, ai vari dominatori del mondo.
Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro e dall’angoscia del pericolo, ci rivolgiamo ad altri «re».
Solo l’amore e la fiducia che ne deriva liberano l’uomo dalla fobia e dalla tirannia della sua presunzione.
Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo e a guardare nel tuo futuro.
Tu, Re di misericordia, ricordati di noi nel tuo Regno, facci percepire il palpito del tuo cuore.
Un mondo disgregato dalla diffidenza, dal dubbio e dallo scetticismo trova solo in te la salvezza.
Il tuo Regno non è fatto di splendido isolamento, ma di profonda solidarietà con l’umanità redenta.
Il tuo Regno non impone diffidenza, ma libera, salva, assicura speranza.
Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.

in questi ultimi anni abbiamo riflettuto su alcuni orientamenti culturali significativi per l’educazione religiosa, analizzando in particolare l’apprendimento, l’ermeneutica, il linguaggio religioso … Quest’anno vorremmo verificarne l’elaborazione attorno ad un tema fondamentale: Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso.
Vorremmo raccogliere le indicazioni più significative, a partire dalle molteplici competenze dei partecipanti.
Definiamo quindi in termini orientativi le dimensioni che vorremmo esplorare, lasciando a ciascuno la scelta della propria collocazione, con uno specifico contributo, che ci vorrà far pervenire per tempo.
I nuclei di riflessione potrebbero essere i seguenti: 1. Riferimenti da privilegiare nelle fonti bibliche; 2. Dire Dio secondo l’approccio psicologico e psicanalitico; 3. Dire Dio secondo le narrazioni più largamente divulgate; 4. Dire Dio nell’orizzonte ermeneutico; 5. Dire Dio secondo le Grandi Religioni; Lo svolgimento quindi della giornata: 1.
Ciascuno, nel limite del possibile, è invitato ad esporre l’argomento sulla base di un breve contributo (15-20 minuti con 5-6 cartelle al massimo); 2.
L’ordine dell’esposizione segue la successione dei nuclei sopra elencati; 3.
Una breve presentazione iniziale e una essenziale sintesi conclusiva fanno da cornice al dialogo, che vede l’apporto di tutti i partecipanti.
L’incontro è previsto per il 21 novembre p.v.
presso l’Università Salesiana.
Ci auguriamo che l’argomento Ti interessi vivamente e contiamo sulla Tua preziosa presenza e partecipazione.
Ti preghiamo di farci pervenire per tempo il tuo intervento scritto (non oltre il 15 novembre p.v.) in modo da consentirci una organizzazione di massima della giornata.
Un cordialissimo arrivederci.
E un fervido augurio per l’anno scolastico che riprende! Ubaldo Montisci (Direttore dell’Istituto di Catechetica) Introduzione 1.
Dire Dio: Legittimo? Giobbe finalmente si arrende a Dio: “ Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono.” (Giobbe, 42, 59) Non c’è uomo che non lo conosca, almeno per sentito dire; perché se ne parla: non c’è lingua che non lo nomini.
(Spaemann, 2008).
Legittimamente? Per garantirsi, la ragione ha percorso piste rigorose ed ha tentato di vegliarne la fidabilità.
Con esito incerto: una tradizione secolare e autorevole lo ha riconosciuto all’origine della realtà, causa e fondamento del mondo.
Ma la stessa tradizione trova resistenze tenaci, magari proprio sul versante di chi fa del riferimento a Dio l’orizzonte di significato definitivo per la propria esistenza.
Pascal e Kierkegaard rappresentano solo gli esponenti più illustri fra i credenti che hanno avanzato dubbi e perplessità sulla dimostrazione razionale, sulla via rationis.
In epoca moderna scuole filosofiche di impatto straordinariamente vasto e accreditato hanno negato alla ragione umana il diritto di parlare di Dio (Kant); hanno screditato l’intera compagine tradizionale che ne esigeva la presenza (Nietzsche); hanno denunciato il riferimento a Dio come evasivo di un impegno umano responsabile (Feuerbach, Marx, Bloch).
Insomma la compagine della credibilità appare scossa.
E tuttavia il tema di Dio non è di quelli che si possano sottacere; ha tutta la provocazione di un confronto che mette in gioco o addirittura a repentaglio l’esistenza.
Vale la pena ascoltare e decifrare il contributo che la riflessione è oggi in grado di offrire, portando liberamente il confronto sui diversi versanti della ricerca religiosa, soprattutto dove è in grado di esplorare istanze da cui l’esistenza è attanagliata.
2.
Dire Dio: ha senso? Dove la trascendenza è pensata rigorosamente, dire-Dio, chiamarlo per nome, sembra presunzione.
Una presunzione che attraversa comunque l’intera ricerca umana: i primi inni – i reg-veda – che conosciamo s’interrogano su Dio, su chi sia, con quale nome lo si debba invocare…[1] Soprattutto una provocazione che attanaglia il cuore dell’uomo.
Il nostro cuore è senza pace fino a che non riposa in Te, avverte un genio che ha segnato il nostro modo di capirci.
E suscita domande conturbanti su un’opzione che s’impone e appare obbligata:“Se l’uomo è fatto per Dio, perché così contrario a Dio; e se non è fatto per Dio perché così infelice senza Dio?” (Pascal, 367) si domanda uno dei credenti singolarmente lucido.
Domanda pertinente: vorremmo porla a filo conduttore della nostra riflessione.Tanto più che la ricerca religiosa recente ha concentrato sull’esperienza umana la propria attenzione.
Anche il discorso su Dio sembra dover attraversare obbligatoriamente il versante dell’esperienza.
Nel caso nostro dunque portarci sulla ricerca religiosa, con attenzione a quelle scienze che la esplorano.
Donde l’interesse anche di questa giornata, allargato ai diversi settori di ricerca.
3. In chi… crede colui che crede? Quasi un secolo fa un pensatore credente J.
Rivière, s’interrogava sulla resistenza dell’a-teo di fronte a tante verità di cui la fede è depositaria.
Mettendosi nei panni dell’interlocutore, ripeteva a se stesso: – com’è possibile che un uomo intelligente, di buona cultura ammetta… E faceva un elenco discreto di affermazioni cui il credente dà normalmente la sua adesione (Rivière, 1925, 32).
Per cui si era proposto un compito singolare: spiegargli il suo punto di vista, dipanargli la logica e la coerenza del proprio modo di pensare, con la… presunzione di metterlo a parte di un’esperienza singolarmente illuminante Qualche anno fa il cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano, aveva avviato una interessante iniziativa: la cattedra dei non credenti.
In un dibattito assai vivace aveva chiamato in causa il non credente e l’aveva sollecitato a spiegare la propria posizione.
Uno di loro, che si riconosce in questa schiera, riprende oggi le fila (Savater, 85).
“In che cosa crede chi non crede?” era la domanda.
“Crediamo, risponde F.
Savater, nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori morali, eccetera.” ( Savater, 2007, 85).
Considerazioni piuttosto evasiva.
E che? Forse che il credente non dà la sua adesione, piena e serena, a tutte queste cose e a tutte le altre che… l’illustre studioso va elencando.
Ma il credente sa che la fede è un’altra cosa.
Più incalzante è invece la domanda che a sua volta Savater propone: – In cosa credono coloro che credono… – Perché ci credono una volta che riescono a chiarire in cosa credono.
… – Non si tratta di pretendere da chi crede in ‘Dio’ che chiarisca il contenuto della sua fede e le ragioni che lo portano ad adottarla…” ( Savater, 2007, 86).
Invece noi pensiamo che proprio di questo si tratti: che chi crede in Dio sia in dovere di mettere a punto la risposta e dire con chiarezza in che cosa e in Chi crede e le ragioni per cui ci crede! Appunto perché vive in un contesto in cui ‘credere in Dio’ non è affatto ovvio.
Nel trecento l’amico di Dante, Guido Cavalcanti, è passato alla storia perché, secondo il suo biografo, ‘passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse…’ Savater sembra essersi proposto lo stesso compito; ma data la situazione culturale odierna non passerà alla storia per questo.
Fa parte di quella schiera piuttosto numerosa che Sartre ha già lucidamente identificata una cinquantina di anni fa.
Il nostro problema, scriveva Sartre, non è l’esistenza di Dio, ma che “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio.” (Sartre, 1968, 93).
Riferimenti bibliografici.
ACHARUPARAMBIL D., La spiritualità dell’ induismo, Roma, Studium, 1986.
MAINO G., “Vivere come se Dio ci fosse”, Padova, Messaggero, 2009 RIVIERE J, A’ la trace de Dieu, Paris, Gallimard, 1952.
SAVATER S., La vita eterna, Roma-Bari, Laterza, 2007.
SARTRE J.P., L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano, Mursia, 1968 Trenti [1] “ Qual germe d’oro (…) sorse nel principio ; appena nato fu l’unico signore di ciò che esiste.Egli sostenne la terra e il cielo: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l’oblazione? (Acharuparambil, 1986, 55).
Testimoni: Sugero e la luce mirabile

In una famosa lettera a Sugero, san Bernardo parla della abbazia di San Denis come di una “fucina di Vulcano” e di una “sinagoga di Satana”, stigmatizzando la “pompa e il fasto…
un po’ troppo insolenti” che lo stesso Sugero, nominato abate nel 1122, aveva avallato nei primi tempi della sua gestione, prima della radicale riforma varata nel 1127.
Se i rapporti umani tra i due religiosi dopo la riforma divennero persino affettuosi, non si avvicinarono però le loro idee sulla architettura monastica che possono collegarsi con il diversissimo rapporto che ciascuno di essi aveva verso la natura.
Una celebre affermazione di san Bernardo riguarda i boschi “nei quali si può trovare più che nei libri” ma in realtà i cronisti contemporanei lo descrivono, come scrive Panofsky, “semplicemente cieco di fronte al mondo visibile e alla sua bellezza” e narrano di una cavalcata di un giorno intero intorno al lago di Ginevra fatta senza che il suo sguardo si rivolgesse verso il paesaggio.
Sugero al contrario rivela nei suoi scritti una grande ammirazione per la bellezza del creato, le sue luci e i suoi colori.
Questa sensibilità naturale aveva trovato uno straordinario supporto negli scritti di Dionigi l’Areopagita che egli ancora identificava con il Dionigi amico di san Paolo e nello stesso tempo con il primo vescovo di Parigi, apostolo del cristianesimo in Francia, che aveva dato il suo nome all’abbazia in cui era custodito il suo corpo.
Negli scritti di Dionigi e nelle opere di Scoto Eriugena, suo traduttore e divulgatore, Sugero aveva trovato l’antidoto al rigorismo ascetico di san Bernardo e la giustificazione per la sua naturale inclinazione a vedere nelle bellezze del creato e delle materie preziose lo specchio della bellezza divina.
“Ogni creatura – si legge nel commento di Scoto Eriugena alla Gerarchia Celeste – visibile o invisibile, è una luce portata all’essere dal Padre delle luci.
Questa pietra (…) è una luce per me poiché io percepisco che esiste secondo le sue proprie regole, che cerca il suo luogo conforme alla sua specifica gravità.
Allorché in questa pietra percepisco tali e simili cose esse diventano luci per me, in altre parole mi illuminano.
Poiché io comincio a pensare donde la pietra sia investita da tali proprietà (…) e tosto, sotto la guida della ragione sono condotto, attraverso tutte le cose a quella causa di tutto che attribuisce alle cose luogo ed ordine, numero, specie e genere, bontà e bellezza, ed essenza”, universalis huius mundi fabbrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex lucernis compactum, dalle mille piccole luci che brillano nel mondo sensibile si deduce il fulgore compatto della luce divina, dal mondo materiale si ascende a quello immateriale delle gerarchie celesti.
Nel testo greco dello PseudoDionigi, conservato nell’abbazia, Sugero poteva leggere che la nostra natura è “incapace di salire immediatamente verso le contemplazioni spirituali e necessita dei graduali passaggi verso l’alto a lei consoni e naturali” e che “avendo anche la materia ricevuto l’esistenza da chi è veramente bello, possiede secondo tutta la sua disposizione alcune tracce della bellezza spirituale; ed è possibile risalire da queste verso gli archetipi immateriali” (Gerarchia Celeste, i, 3 e 4) Questa visione, tributaria del neo-platonismo enunciata dallo pseudo Dionigi nel V secolo, è ripresa da Ugo di San Vittore, contemporaneo e amico di Sugero che con intensità poetica celebra la luce e il colore.
“Cosa c’è di più bello della luce – si chiede – che pur non avendo in sé colore, nondimeno illuminandole colora le cose di tutti i loro colori? (…) Ecco la terra ornata di fiori, che spettacolo gioioso ci mostra, come diletta la vista, come provoca amore? Vediamo le rosseggianti rose, i candidi gigli, le purpuree viole, delle quali è mirabile non solo la bellezza ma l’origine stessa (…) E bello sopra ogni cosa per ultimo il verde, in che modo rapisce l’animo del contemplante, quando a primavera le gemme producono nuova vita ed erette in alto con le loro spighe erompono nella luce, quasi innestate sopra quelle morte come immagini di futura resurrezione”.
Per Ugo la teologia mondana che si serve della natura per accedere alle realtà spirituali deve integrarsi con la teologia più propriamente divina che utilizza il simulacro del verbo e, anche in questo Sugero si dimostra in sintonia per i continui riferimenti alla Sacra Scrittura di cui tutto il suo racconto è intessuto.
L’originalità di Sugero consiste nell’aver tradotto queste riflessioni filosofiche e teologiche in un programma di azione per estendere e rinnovare la chiesa abbaziale, considerata dalla monarchia francese come chiesa madre in quanto ospite delle sepolture reali.
A essa riuscì in pochi anni ad aggiunge il nartece-facciata e un magnifico coro con due deambulatori.
Spazio e luce erano i suoi obiettivi primari: lo spazio per evitare gli assembramenti nei giorni di festa, la luce per guidare la mente dei riguardanti dall’umano al divino.
“La potenza prodigiosa – così inizia lo Scriptum Consecrationis – di una ragione unica, singolare e suprema, egualizza armonizzandola la disparità tra il divino e l’umano e le cose che sembrano tra loro in contraddizione per l’inferiorità dell’origine e l’opposizione delle loro singole nature, essa sola le unisce per il felice accordo di una armonia misurata unica e suprema”.
Che Sugero abbia utilizzato per realizzare la sua visione un architetto – o due come suppongono alcuni studiosi – non toglie nulla alla funzione determinante che egli ebbe nella scelta delle forme che potevano tradurre le sue idee, con le quali nel suo scritto dimostra di aver avuto stretta confidenza.
D’altra parte, come affermò Filarete nel suo trattato, se l’architetto è la madre della sua opera in quanto l’ha generata, essa non esisterebbe senza l’azione di un padre-committente che l’ha voluta.
La trasformazione della chiesa iniziò con la demolizione del corpo occidentale costruito da Carlo Magno e la costruzione di una nuova facciata concepita come porta urbis e porta Coeli, sul modello delle porte romane fiancheggiate da due torri.
Nel nuovo portico e nella cappella superiore Sugero sperimentò la volta ogivale in progressive forme di leggerezza e nella facciata compresa tra le torri introdusse per la prima volta il motivo glorioso della finestra centrale a forma di rosone che si diffonderà rapidamente in tutta l’Europa.
Ma è nel rinnovamento della zona absidale che l’abate riesce a esprimere compiutamente la sua visione estetica e teologica puntando sulla trasparenza e sul colore.
“Ora che la nuova parte di fondo – commenta nel suo Scriptum – si congiunge a quella anteriore, la chiesa rifulge illuminata nella sua parte mediana.
Viva luce infatti illumina ciò che luminosamente si unisce a ciò che è luminoso, e luminoso è il nuovo edificio che è profuso di luce nuova”.
Il meditato gioco di parole intorno alla claritas fa capire l’importanza che viene attribuita nella costruzione al colloquio delle parti attraverso la luce, mentre l’allusione alla lux nova allude alla carica innovativa del Nuovo Testamento mostrando chiaramente come il suo metodo anagogico – letteralmente, “che conduce in alto” – si basi sulla trasmissione al linguaggio architettonico di alcune caratteristiche del linguaggio poetico, come la similitudine, la metafora e l’allegoria.
La parte certamente costruita da Sugero nella zona absidale della chiesa – completata poi mirabilmente dall’architetto Pierre de Montreuil – è il doppio deambulatorio e la corona di cappelle che lo circonda illuminate ciascuna da finestre che fiancheggiano gli altari: “Grazie alle quali tutta la chiesa brillerà per la luce ammirevole e continua delle vetrate risplendenti che scrutano la bellezza interiore” (quo tota, clarissimarum vitrearum luce mirabili et continua interiorem perlustrante pulchritudinem eniteret).
Alcuni studiosi hanno voluto vedere nel doppio ambulatorio un riflesso della soluzione absidale di Saint Martin-des-Champs a Parigi, di qualche anno precedente, ma il confronto tra le due opere non fa che sottolineare la profonda differenza tra uno sviluppo meramente funzionalistico – le cappelle comunicanti che si aggiungono deformandosi al deambulatorio – e una idea nuova di fluidità e trasparenza che, proprio perché ispirata da una nuova sensibilità, fa esplodere letteralmente la spazialità compressa della zona absidale secondo il modello irraggiante del flusso luminoso che proviene da un unico punto.
Segno evidente, questa svolta innovatrice, del ruolo lievitante delle idee, indispensabile nutrimento della ricerca architettonica che quando diventa autoreferenziale subito si isterilisce.
La verità è che Sugero conosceva benissimo le chiese della Normandia e della Borgogna che prefiguravano il gotico, ma nella ricchezza della sua memoria con essi convivevano i ricordi di Roma, di Montecassino e l’immagine mitica di Santa Sofia, come era stata descritta da Paolo Silenziario.
L’ammirazione per la luce e il colore delle vetrate si estende alle meravigliose decorazioni immaginate dall’abate per le suppellettili liturgiche, la grande croce, il paliotto dell’altare, il tempietto dei reliquiari.
Oro, perle e pietre preziose sono considerati da Sugero materie necessarie in questi oggetti di venerazione per due ordini di ragioni.
La prima è quella di manifestare la gratitudine verso Dio per aver creato materie di suprema bellezza che innalzano il pensiero verso le bellezze spirituali, la seconda è il richiamo alla Scrittura, all’Esodo, ai Salmi, al libro di Ezechiele e all’Apocalisse di san Giovanni (che Sugero non cita ma dimostra di aver ben presente).
Oltre alle perle, le pietre scelte per il paliotto, la grande Croce e i reliquiari sono il sardonico, il topazio, lo jaspide, il crisolito, l’onice, il berillo, lo zaffiro, il carbuncolo e lo smeraldo, le stesse pietre, con poche varianti, del pettorale di Aronne o delle vesti del re di Tiro, ma anche le pietre del basamento della Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse (21, 19-21): “Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni sorta di pietre preziose: il primo fondamento è diaspro, il secondo zaffiro, il terzo calcedonio, il quarto smeraldo, il quinto sardonico, il sesto sardo, il settimo crisolito, l’ottavo berillo, il nono topazio, il decimo crisopraso, l’undecimo giacinto, il dodicesimo ametista.
E le dodici porte sono dodici perle”. La fede profonda che permea di sé ogni azione del monaco costruttore gli fa riconoscere l’amore provvidenziale e miracoloso del Creatore in ogni felice evento della costruzione: dal rinvenimento di una cava di pietra, a quello delle pietre preziose o degli alberi necessari per ricavarne delle travi, alla resistenza insperata delle strutture incompiute alla furia di una tempesta.
“Ma una notte, rientrato dal mattutino, cominciai a pensare a letto che io stesso avrei dovuto percorrere tutte le foreste di queste zone (…) Mi liberai in fretta da altri impegni e uscii prestissimo; ci dirigemmo rapidamente, portando con noi i nostri carpentieri e le misure delle travi, alla foresta chiamata Iveline (…) radunammo i guardaboschi e tutti quelli che conoscevano le altre foreste e chiedemmo loro sotto giuramento se fosse possibile trovare anche con grandi difficoltà, tronchi di quelle misure.
A questa domanda si misero a ridere, o meglio ci avrebbero riso in faccia se avessero osato farlo; si meravigliarono che ignorassimo che nulla del genere si poteva trovare in tutta la regione (…) Ma noi cominciammo con il coraggio della fede, per così dire, a cercare per i boschi, e dopo un’ora avevamo trovato un tronco rispondente alle misure.
Che dire di più? Dopo otto ore, o forse meno, per macchie, folti, recessi spinosi invalicabili, avevamo già contrassegnato dodici tronchi”.
La certezza di essere amato da Dio e la speranza nella sua misericordia e quindi “il coraggio della fede” accompagna il racconto in ogni riga del suo svolgimento e dà all’indubbio protagonismo del suo autore che volle il suo nome ricordato infinite volte nelle iscrizioni della chiesa, un carattere diverso dal protagonismo individualistico, tipico del nostro tempo.
La bellezza della chiesa, che definisce madre come aveva fatto Agostino, non è fine a se stessa ma si compie nella solenne bellezza del rito in cui la luce, il colore, il suono, il gesto si fondono ma che solo nella parola, nel verbo, raggiunge la pienezza.
Anche quando dirige il coro, fa da duce al gruppo degli artigiani esecutori, l’abate se ne sente parte integrante e solo nella “coralità” del popolo di Dio riconosce il suo ruolo e i suoi meriti.
“Quando – scrive Sugero – l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne, e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, sulla diversità delle sacre virtù, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del Cielo; e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica”.
Quell’incanto delle pietre multicolori, capace di trasportare chi l’osserva in “un altro mondo”, da immagine intima e personale era destinata a tradursi, a partire dal coro di Saint-Denis, passando dalla scala della decorazione a quella dell’architettura, in una inesauribile pluralità di immagini spaziali vibranti di luce e di colore nel percorso, durato cinque secoli, dell’architettura gotica: una delle massime espressioni artistiche dell’Europa cristiana.
(©L’Osservatore Romano – 19 novembre 2009) Il dilemma se l’architettura sacra debba essere umile e spoglia o debba rispecchiare la ricchezza e lo splendore della creazione, attraversa tutta la storia della Chiesa cattolica ed è ancora oggetto di animate discussioni.
Due grandi personalità del medioevo rappresentano al più alto livello questo conflitto ideale: san Bernardo da Chiaravalle e l’abate Sugero, il primo, più giovane del secondo di nove anni, sostenitore del rigorismo che aveva ispirato l’architettura cistercense, il secondo considerato il realizzatore di un edificio, la chiesa abbaziale di Saint-Denis, nei pressi di Parigi, che si può definire il manifesto della architettura gotica.
Di umili origini, Sugero, che il padre Elinando volle donare come oblato al convento di Saint-Denis, svolse nella sua vita una quantità di ruoli diversi: l’abate, il consigliere di due re, il mediatore tra la monarchia e la Chiesa di Roma, il reggente del regno di Francia durante la seconda crociata, l’amministratore, il riformatore della vita monastica, raggiungendo in tutti – in contrasto con la piccolezza del suo corpo – una eccezionale statura.
Il ruolo tuttavia al quale deve maggiormente la sua fama è quella del committente, costruttore e cronista della sua opera, perché l’ampliamento da lui voluto della chiesa di Saint-Denis non è solo un capolavoro ma una delle opere di architettura di cui è meglio nota la genesi ideale in virtù degli scritti che Sugero stesso ci ha lasciato e in modo particolare dello Scriptum consecrationis ecclesiae sancti Dionysii di cui si conserva una copia manoscritta nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Codice Reg.
Lat.
571.
Le citazioni dalle opere di Sugero sono tratte dai due volumi delle edizioni Les Belles Lettres, Paris 2001).
Sulla parificazione degli insegnanti di religione

Oltre alla bocciatura di tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione al decreto legge precari, si è registrata oggi anche quella dell’ordine del giorno presentato dalla senatrice radicale Donatella Poretti al Senato, che puntava a “parificare l’assunzione, l’immissione in ruolo e le competenze salariali degli insegnanti di religione cattolica alle condizioni previste per gli insegnanti delle altre materie, nonché a svincolarne l’assunzione dal pronunciamento di idoneità da parte delle curie diocesane”.
La parlamentare eletta nelle liste del Pd ha commentato causticamente il voto sfavorevole: “Tecnicamente si chiama improponibilità perché materia concordataria, politicamente si spiega come impossibilità di ridiscutere i privilegi della Chiesa.
E’ quello che è avvenuto oggi in Senato con il nostro ordine del giorno che chiedeva di parificare i diritti degli insegnanti della scuola pubblica a prescindere dalla materia insegnata, a prescindere dalla fede professata e dal gradimento del vescovo”.
Per questa ragione, secondo la Poretti, “viene da chiedersi se la scuola pubblica sia ancora territorio italiano!”.
La senatrice radicale ha spiegato le motivazioni alla base dell’ordine del giorno presentato: “La nomina dell’insegnante di religione era su segnalazione della curia e prevedeva un contratto annuale, dopo la legge 186 del 2003 è stata prevista la loro messa in ruolo.
Oggi i circa 25 mila insegnanti sono formati e indicati dall’autorità religiosa, ma retribuiti da quella statale.
Discriminati anche in contrasto a direttive europee sulla parità dell’accesso al lavoro sono coloro che non professano la religione cattolica o che non sono graditi alla curia.
Privilegiati anche per retribuzione economica gli insegnanti di religione.
Il nostro ordine del giorno chiedeva al governo di parificare i diritti e di porre fine ai privilegi.
Impossibile anche solo discutere tale ragionevole proposta”.
La Costituzione più bella è quella scritta nel cuore

Così non posso non chiedermi, quali sono le cose che concorrono davvero, nell’educazione, a fare di un bambino un essere capace del vivere civile? Sono forse la grande quantità di corsi e discorsi che invadono da anni la scuola italiana — sulla tolleranza, sul multiculturalismo, su un generico irenismo, ed ora anche sulla Costituzione? Lo dubito, anzi ho la sensazione che tutta questa marea di ossessivo buonismo rischi di produrre effetti opposti.
Per quale ragione si deve rispettare il diverso, si deve preferire sempre la pace, si deve essere buoni quando è piuttosto evidente che il mondo è dei violenti e che la corruzione paga molto più dell’onestà? Ci salverà forse la conoscenza degli articoli della Costituzione da questo degrado? Credo che tutti questi corsi non siano molto diversi delle guarnizioni di una torta di gesso esposta nella vetrina di una pasticceria.
Ci sono ciliegine, canditi, panna montata, tutto sembra molto appetitoso ma in realtà, sotto quella torta, c’è solo una vuota anima di cartone.
Forse bisogna tornare a considerare il fatto che l’educazione ha bisogno soprattutto di due qualità: di semplicità e di coerenza.
La semplicità è la Cenerentola di tutte le teorie educative partorite negli ultimi decenni dai pedagoghi; come le sorelle della fiaba, l’hanno rinchiusa in un sottoscala e da lì si guardando bene di farla uscire.
La semplicità è guardare in faccia la natura dell’uomo e capire di cosa ha bisogno, questa natura, per crescere il più possibile armoniosamente.
La semplicità è fare capire che la vita è, prima di tutto, politically incorrect e che essere uomini vuol dire sapersi rapportare con la conflittualità e la contraddittorietà dei nostri giorni nei quali non sempre sventola l’iridata bandiera della pace.
In qualsiasi campo si operi, la via semplice è sempre la più difficile perché ci lascia inermi, sforbiciando via tutto ciò che non è essenziale, tutto ciò che allontana dal cuore del problema.
La patina di buonismo, del politically correct, evita di mettere a fuoco ciò che è più importante, e cioè che il male è dentro di noi, è una della nostre possibilità e che, per crescere, dobbiamo decidere in che modo rapportarci ad esso.
Si tratta di una scelta individuale che è in stretta relazione con l’idea di coscienza.
E la coscienza conduce a quel nucleo misterioso dell’uomo che lo rende essere capace di libertà.
È questo che ci differenzia dalle scimmie antropomorfe, con le quali pur condividiamo una gran quantità di codici etologici.
Entrambi abbiamo impressi nei nostri geni i comportamenti che ci consentono di creare una comunità stabile e di mutua assistenza, con la differenza che, da loro, comanda il maschio adulto e più abile nel tenere insieme il gruppo mentre da noi, purtroppo, anzianità di anni e saggezza di governo non vanno sempre di pari passo.
Crescere vuol dire saper scegliere e sapere che, scegliendo, si rinuncia a qualcosa.
Ma sono proprio quelle rinunce a costruire l’impalcatura solida della vita.
In un mondo bulimico che sempre più prospetta l’esistere come una corsa convulsa in cui afferrare più cose e più occasioni possibili, in cui ci viene proposto di essere tutto e il contrario di tutto, e che questo sia conciliabile, il discorso della scelta diventa quanto mai necessario.
La scelta, naturalmente, richiede l’entrata in campo di un’altra grande derelitta di questi tempi, la volontà.
È la volontà che ci permette di scegliere, che ci permette di costruire e di dare un senso preciso ai nostri giorni.
Senza esercizio della volontà, la nostra vita diventa qualcosa di non molto diverso da quella degli oggetti di plastica che cadono nei fiumi e vengono trascinati dalla corrente fino ad arenarsi in un’ansa.
È vero, viviamo in tempi complessi, tempi in cui avvengono mutazioni di portata straordinaria e queste mutazioni ci intimoriscono, ci fanno temere che le vie usuali dell’educazione non siano più in grado di creare gli uomini di domani.
Ed è forse proprio questo timore a far proliferare sistemi educativi sempre più farraginosi e astrusi, sempre più omologanti, volti a inseguire il nuovo, qualunque esso sia.
Quest’ansia, però, ci fa dimenticare che la natura profonda dell’uomo è sempre la stessa e che costruire senza aver prima fissato le fondamenta dell’etica vuol dire innalzare possenti edifici sulla sabbia.
Ricordo una serata trascorsa con un bambino di sette anni.
Tra un discorso sui Gormiti e uno sugli Invincibili, non ricordo come, ci siamo trovati a parlare del bene e del male e del senso che essi avevano nelle nostre vite.
Scegliere il bene vuol dire scegliere la vita, gli ho detto, costruire un mondo in cui le persone imparano, anche sbagliando, a volersi bene, scegliere il male vuol dire invece scegliere la morte, scegliere la menzogna che si insinua nei giorni, falsificando i rapporti e trasformando l’amore nel ghigno di una maschera.
«Io voglio essere buono.
Che cosa devo fare?» mi ha chiesto a un certo punto.
Ci siamo seduti allora sul divano e abbiamo ragionato a lungo su tutto ciò che, nella sua vita di bambino, portava al male o al bene.
«C’è una voce dentro di te», gli ho detto.
«E questa voce ti dice quello che è giusto e quello che è sbagliato.
Tu devi imparare solo ad ascoltarla».
A quel punto lui, altrimenti iperattivo, si è sdraiato, ha chiuso gli occhi e, con un sorriso beato, ha detto: «Questo per me è un momento bellissimo» e si è addormentato.
Sì, è davvero un momento bellissimo per i bambini capire che il bene e il male sono in noi e che, in noi, c’è sempre la voce della coscienza ed è questa voce che ci spinge a scegliere.
in “Corriere della Sera” del 18 novembre 2009 Leggendo, nei giorni scorsi, la notizia e i commenti sull’inserimento » del nuovo corso di «Cittadinanza e Costituzione» nelle scuole di ogni ordine e grado, mi sono trovata a fare alcune riflessioni.
Nei miei anni di scuola si studiava educazione civica, materia in realtà alquanto negletta anche dagli insegnanti che il più delle volte preferivano assorbirla nelle materie più importanti — italiano, storia, latino — sempre in affanno sui tempi nel programma.
Non conosco dunque la Costituzione, e confesso di non averla mai letta neppure in seguito, malgrado ciò mi considero una persona che continua, nonostante le vicende pietose che ci circondano e ci avviliscono, a rispettare le leggi dello Stato, a credere nell’importanza del bene comune e ad amare il mio Paese, pur rattristata dalla vergogna a cui tutti i cittadini per bene — che sono, per fortuna, la maggioranza — vengono sottoposti da una classe politica il cui primo tratto, al di là delle parti, sembra essere quello dell’immaturità.
“2012”

Il sole inquieto, qualche anno prima del 2012, comincia a sfornare neutrini che surriscaldano e smuovono il centro molle della Terra.
Sarà la causa della nostra estinzione.
Piace in questi anni l’apocalisse al cinema, anche se abbiamo già sorpassato indenni il fatidico millennio.
Nel recente Knowing di Alex Proyas la terra brucia completamente e spetterà a due bambini, in un tripudio di fiori e messaggi new-age, ricominciare la successione delle generazioni dopo essere stati trasportati in un pianeta nuovo di zecca scelto da creature aliene buone e intelligenti.
C’è poi 9, prodotto da Tim Burton, già uscito in gran parte del mondo ma non in Italia, che sembra essere il primo cartone animato apocalittico in cui sulla Terra del tutto abbandonata dall’umanità rimangono soltanto nove creature viventi e senza nome impegnate a combattere le macchine assassine che hanno preso il sopravvento.
Venature spirituali si troveranno, forse, ne Il libro di Eli, in sala dal prossimo gennaio: qui un eroe solitario – il suo nome è ricavato da tre lettere del verbo inglese to believe (“credere”) – protegge a tutti i costi, in un mondo devastato e violento, un libro che ha una croce impressa sulla copertina e sembra essere decisivo per il futuro dell’umanità.
Ora, molto semplicemente, archeologia e storia si alleano per suscitare nuove paure e manipolarne di antiche.
Il pretesto iniziale è fornito dal calendario dell’antica ed evoluta civiltà Maya: lì il computo del tempo, con il termine dell’ultimo ciclo, arriva al 20 dicembre del 2012 (20-12-2012), poi si interrompe.
Fine del mondo e dell’umanità? Cieli nuovi e Terra nuova? Rigenerazione o annientamento totale? Dopo aver messo in catalogo la nostra distruzione (e risicata salvezza) prima con formidabile attacco alieno (Independence Day), poi con spaventosa glaciazione (L’alba del giorno dopo), il regista tedesco Roland Emmerich, di stanza ormai a Hollywood e specializzato in film di enormi proporzioni, chiude la sua “trilogia della catastrofe” con la più terribile e spettacolare di tutte: in 2012, che esce venerdì 13 in Italia, città intere scompaiono, terremoti sfaldano la crosta terrestre, vulcani enormi eruttano vere e proprie bombe incendiarie, onde di oltre 1.500 metri devastano continenti e l’Himalaya, la Casa Bianca viene schiacciata da una portaerei, crolla il Cristo di Rio de Janeiro, si sbriciolano la Sistina e San Pietro travolgendo cardinali e fedeli in preghiera nella piazza.
Povero pianeta e povera umanità.
Uno spettacolo senza freni e senza misure, costato la cifra enorme di 260 milioni di dollari, con uno schema semplicissimo e accattivante: pochi sanno della fine imminente, il segreto non deve trapelare per tutelare così l’ordine sociale – accadeva, però, anche in Deep impact, mentre si attendeva il meteorite definitivo – pochissimi potranno salvarsi pagando un contributo ingentissimo che serve alla costruzione di mastodontiche “arche”.
Un eroe sfiduciato e depresso (l’attore John Cusack) s’intromette nel piano dei malvagi egoisti, salva la famiglia divisa e la sua anima buona disturba i progetti senza scrupoli dei potenti che almeno cercano, prima della fine, di redimersi dalle loro ipocrisie.
È questa la coscienza dell’umanità di fronte al disastro imminente? Emmerich, oltre che bravo nel gestire distruzioni ed effetti speciali, combina furbescamente aspetti di natura mitologica, tormenti millenaristici, attualità politica, disagio sociale, senso dell’avventura e prodezze della tecnologia, seminando la più terribile delle inquietudini: davanti alla fine dell’umanità, spogliata completamente del trascendente e del soprannaturale, non è vero che tutti siamo uguali, perché riesce a sopravvivere soltanto chi la salvezza non se l’è guadagnata con la fede e le buone opere, ma letteralmente comprata a carissimo prezzo disponendo di mezzi economici ingenti.
Dunque, milionari americani, oligarchi russi e principi arabi in prima fila.
Come spesso è accaduto nel cinema americano di fantascienza e fantasy, anche questa volta fanno sommessamente capolino le teorie di Joseph Campbell, filosofo e storico americano di miti e religioni comparate, morto nel 1987, regolarmente saccheggiato da sceneggiatori e registi che a lui hanno confessato di ispirarsi più o meno apertamente.
Tra questi, emblematico fu il caso di George Lucas per le sue Guerre stellari.
La Bibbia – che per Campbell non ha nulla di sacro e di divinamente ispirato, ma è una mera antologia di racconti mitologici che dimostrano quello che lui chiama sanctified chauvinism (“sciovinismo santificato”) – è il testo che offre lo schema archetipico più suggestivo e facilmente declinabile dal cinema: quello dell’eroe salvifico dalla paternità complicata.
Caso spudorato fu la trilogia cinematografica di Matrix nella quale Neo era completamente assimilato alla figura di Cristo, ma in un contesto risibile.
Le variazioni, poi, sul sacrificio non sono mancate: dal Re leone a Braveheart, da Batman al Signore degli anelli.
Con Emmerich inizia una nuova era per Hollywood: si va più indietro, dal Nuovo al Vecchio Testamento e addirittura a Noè, il diluvio, l’arca e l’Ararat, che nel film si è trasferito, causa movimenti tellurici sproporzionati, addirittura in Africa, dove approderà quel briciolo di umanità, ancora con tutti i suoi peccati, costretta a ricominciare.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2009)
“La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”

“Ogni contatto della Chiesa con Internet, come con qualsiasi altro strumento di comunicazione di ultima generazione, deve essere teologicamente informato.
Non siamo lì a vendere un messaggio qualunque ma ad annunciare, spiegare, approfondire la Parola di Cristo, che può ancora toccare i cuori di tutti e che ci invita continuamente a un cammino comune di fede e di servizio”.
Lo ha detto monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, intervenuto questa mattina alla riunione della Commissione episcopale europea per i media (Ceem) che si sta svolgendo in Vaticano.
Monsignor Tighe ha sottolineato l’importanza per qualsiasi persona anche di Chiesa di capire a fondo le capacità, ma anche i potenziali rischi delle nuove tecnologie prima di affidare ad esse il proprio messaggio.
“La sfida per noi uomini di Chiesa – ha spiegato il segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali – è di pensare come possiamo essere presenti in questo mondo in maniera utile e intelligente.
Non è solo un problema tecnologico.
Occorre trovare una strategia, il linguaggio giusto per esprimere i contenuti del nostro ministero, della nostra missione, un linguaggio che non sia solo testuale ma anche visuale, che attragga il visitatore anche con le immagini”.
Tighe ha detto che la sfida più grande da vincere, oggi, è quella al relativismo, atteggiamento di pensiero che rischia di trovare sul web ampio sviluppo: “Per vincere la sfida è fondamentale dare informazioni vere, corrette, inconfutabili, fornire risposte concrete alle domande più urgenti.
Anche nel mondo dell’interattività – ha ribadito – il relativismo si batte con la certezza, con la verità”.
L’assemblea plenaria della Ceem, che ha come tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”, aveva questa mattina in programma una tavola rotonda dal titolo “Chi fa la comunicazione oggi? Tra social network, social agent, social news e social encyclopaedia”.
Sono intervenuti Christian Hernandez Gallardo, di Facebook, Christophe Muller, direttore delle società di YouTube in sud ed est Europa, Medio Oriente e Africa, Delphine Ménard, di Wikimedia France, ed Evan Prodromou, di Status.net-identica.ca.
Hanno spiegato la filosofia, la metodologia, il funzionamento degli strumenti che fanno capo alle loro imprese, strumenti che si rivolgono universalmente a tutti.
E tutti, indistintamente, sono gli utenti.
In particolare Hernandez Gallardo ha sottolineato come, negli ultimi tempi, molte parrocchie e alcune diocesi abbiano cominciato ad essere presenti su Facebook e come alcuni utenti inseriscano tra le immagini dei loro “amici” anche le foto di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
(giovanni zavatta) (©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2009) Rafforzare la presenza cristiana su Internet: l’impegno dei vescovi europei riuniti in Vaticano sui nuovi media La Chiesa non può ignorare Internet: è quanto sta emergendo con forza alla Plenaria della Ceem, la Commissione episcopale europea per i media, in corso in Vaticano sul tema “La cultura di Internet e la comunicazione della Chiesa”.
In un messaggio indirizzato ai partecipanti all’incontro, Benedetto XVI invita i vescovi europei ad esaminare “questa nuova cultura e le sue implicazioni per la missione della Chiesa”.
Nel testo, a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il Papa sottolinea che la “proclamazione di Cristo richiede una profonda conoscenza della nuova cultura tecnologica”.
Stamani, la Plenaria si è incentrata sui social network.
E’ stata, inoltre, presentata l’attività del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali nel campo di Internet.
Ma torniamo ai discorsi principali della sessione d’apertura di ieri con il servizio di Alessandro Gisotti: “La Chiesa ha bisogno di Internet, perché ha una Buona Novella da comunicare”: ne è convinto il cardinale arcivescovo di Zagabria, Josip Bozanic, che nel suo intervento ha sottolineato che in Internet si sta costruendo “il modello antropologico di domani”.
Del resto, il porporato croato ha osservato che il peso crescente che la Rete sta assumendo nella vita delle persone e dei fedeli impone di annunciare il Vangelo anche nel mondo di Internet.
Ed ha sottolineato che Internet “non è solo un recipiente che raccoglie diverse culture.
Internet è cultura” e produce cultura.
Di fronte a questa realtà, ha detto il vicepresidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, bisogna rammentare che la Chiesa ha sempre saputo “cogliere la bontà degli strumenti di comunicazione sociale per l’edificazione del genere umano”.
E, dunque, l’interesse per i media e per Internet nasce dalla natura stessa della Chiesa quale “comunità dialogante”.
Sulla necessità per la Chiesa di entrare nell’agorà di Internet, si è soffermato mons.
Jean-Michel di Falco Léandri, vescovo di Gap e di Embrun, presidente della Commissione episcopale europea per i media.
“Così come la croce ha il suo asse verticale e il suo asse orizzontale – ha detto il presule francese – così deve essere la nostra evangelizzazione nella Rete: orizzontale per la sua estensione, verticale per la sua profondità e la sua qualità”.
Mons.
di Falco Léandri non ha mancato di evidenziare ritardi e difficoltà che la Chiesa incontra nel relazionarsi con il fenomeno Internet.
Un sito web cristiano, ha detto il presule, “deve occuparsi del mondo e non tagliarsi fuori dal mondo.
Deve evitare il politichese, evitare di essere esso stesso un ideologo che cerca di imporre la propria verità”.
Piuttosto, ha soggiunto, “deve accontentarsi di proporre la verità di Cristo in maniera ferma” e “umile”.
Pensando in particolare ai giovani, mons.
di Falco ha quindi ribadito che non essere presenti in Internet “equivale a tagliare fuori una buona parte della vita delle persone”, auspicando quindi che la Chiesa promuova sempre più una presenza cristiana sul web.
All’evento, è intervenuto anche mons.
Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, che al microfono di Philippa Hitchen si sofferma sul tema della Plenaria: “Il Santo Padre ci ha dato un grande incarico, quello della diaconia della cultura.
C’è questo servizio che la Chiesa deve prestare in questa realtà così complessa e ricca che è la cultura digitale.
I vescovi europei si stanno interrogando su questo.
Il grande rischio, alle volte, è che ci si concentri troppo sui media, quindi su questi nuovi mezzi che diventano sempre più sofisticati e che offrono sempre più ampie possibilità di comunicazione, su questo non c’è dubbio.
Tuttavia, credo che la Chiesa debba sempre interrogarsi alla radice della sua azione su cosa sia veramente comunicazione”.
Intanto, oggi pomeriggio, nella Sala Marconi della nostra emittente, il presidente della Ceem, mons.
Jean-Michel Di Falco ha tenuto una conferenza stampa sul tema della Plenaria.
La Chiesa, ha detto mons.
Jean-Michel Di Falco, non può ignorare Internet, una rivoluzione simile all’invenzione della stampa.
Il presule francese ha sottolineato che la riunione in corso in Vaticano serve proprio per mettere a fuoco punti deboli e punti di forza della comunicazione ecclesiale nel web.
Nella parola religione, ha poi osservato, c’è la radice della parola legare, ovvero connettere, che è proprio quanto realizzano i nuovi media.
Ecco perché, ha detto mons.
Di Falco, sono stati invitati alla Plenaria operatori dei social network, di Wikipedia, Google e Youtube.
C’è bisogno di una formazione all’uso responsabile della Rete, ha quindi avvertito, serve un’educazione ed un accompagnamento che la Chiesa può sviluppare in modo positivo.
Anche se ci sono ritardi nell’utilizzo di Internet da parte della Chiesa, ha infine riconosciuto, le cose stanno cambiando in meglio come testimoniano le numerose iniziative prese al riguardo dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.
Radio Vaticana La Chiesa cattolica “esce dai suoi ghetti” con internet di Stéphanie Le Bars in “Le Monde” del 13 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org) Papa Benedetto XVI aveva lasciato di sasso molti cattolici attribuendo la peggior stecca del suo pontificato ad un uso insufficiente di internet.
“Mi è stato detto che seguire con attenzione le informazioni a cui si può accedere su internet avrebbe permesso di avere rapidamente conoscenza del problema”, aveva scritto nel marzo 2009 ai vescovi, facendo riferimento alla revoca della scomunica di monsignor Williamson, prelato integralista e notoriamente negazionista.
Concepiti prima di quell’errore di comunicazione, i lavori che si aprono giovedì 12 novembre a Roma, in seno alla Commissione episcopale europea per i media (CEEM), potrebbero contribuire a colmare certe lacune.
Per quattro giorni, un centinaio di persone (vescovi, incaricati stampa delle diocesi) si immergeranno nella cultura della Rete, incontrando dei responsabili della rete sociale Facebook, del motore di ricerca Google, del microblogging (scambi di messaggi brevi) Identi.ca o dell’enciclopedia sociale Wikipedia.
Un hacker svizzero ed uno specialista di Interpol verranno a completare la presentazione delle possibilità esistenti sulla Tela.
“Dobbiamo avere la preoccupazione di continuare a essere là dove è la gente”, insiste monsignor Jean-Michel Di Falco Leandri, vescovo di Gap, presidente della CEEM.
È previsto che giovedì l’ex portavoce dei vescovi francesi faccia una riflessione molto chiara sull’incapacità della Chiesa a cogliere le risorse di internet, in particolare come “strumento di evangelizzazione”.
In filigrana, la sua analisi esprime una critica per una comunicazione troppo caratterizzata dall’organizzazione verticale della Chiesa cattolica.
“Internet ci fa scendere dalla nostra cattedra magistrale, ci fa uscire dai nostri ghetti, dalle nostre sacrestie”, secondo il vescovo francese.
Confrontati con la “web-generation”, i membri della CEEM dovrebbero interrogarsi “sulle conseguenze ecclesiologiche, sugli effetti sul governo stesso della Chiesa, sul posto della religione sul mercato di internet, sui modi di proclamarvi il Vangelo”.
Monsignor Di Falco Leandri sottolinea il vantaggio acquisito dai siti protestanti “evangelisti” in termini di audience.
“I siti cattolici sono centrati su se stessi.
Parlano la lingua degli iniziati ad uso esclusivo degli iniziati.
I siti ‘evangelisti’, al contrario, vogliono raggiungere gli internauti, utilizzando internet come vettore di evangelizzazione.” Certo, ogni diocesi possiede un sito più o meno nutrito, i blog di preti si moltiplicano, le preghiere e i ritiri “on line” si diffondono.
Il Vaticano, il cui sito internet è poco conviviale, ha lanciato in gennaio il proprio canale su Youtube.
Ma questa presenza non è fine a se stessa, insiste monsignor Di Falco Leandri: i siti “cristiani devono essere suscitatori di coscienza”.
Annale 2009

Presentazione L’Annale è fedele al suo appuntamento annuale, grazie all’impegno dell’équipe dell’Istituto di Catechetica, con il valido contributo di J.
Gevaert, E.
Alberich e F.
Pajer.
La Rassegna documenta un’ampia parte della riflessione catechetica dell’anno 2008.
Sono state prese in considerazione 46 riviste per un totale di 204 articoli recensiti (5564-5768).
Le Riviste sono di 8 lingue diverse: 6 di lingua inglese, 7 di lingua tedesca-neerlandese, 17 di lingua italiana, 12 di lingua spagnola e portoghese, 3 di lingua francese e 1 di lingua slava.
Di queste riviste: 11 sono di catechesi, 12 di pedagogia religiosa, le altre 23 di diversi ambiti di teologia e pastorale.
Per quanto riguarda gli articoli presentati: 43 sono di lingua inglese (5564-5607), 32 di lingua tedesca-neerlandese (5608-5640), 76 di lingua italiana (5641-5717), 14 di lingua francese (5718- 5732), 31 di lingua spagnola e portoghese (5733-5764), 4 di lingua slava (5765-5768).
Le riviste da cui proviene il maggior numero di recensioni sono: Catechesi (22), Katechetische Blätter (16), Religious Education e Via, Verità e Vita (13), Lumen Vitae (12), Journal of Religious Education (11), British Journal of Religious Education (10), Revista de Catequese (8), Note di Pastorale giovanile (6), Notiziario UCN, Orientamenti Pedagogici, Rivista Lasalliana, Sinite, Didascalia, The Sower, Tijdschrift voor liturgie (5), Evangelizzare, Insegnare Religione, Misión Joven, Teología y Catequesis, Mission Today, Zeitschrift für Pädagogik und Teologie, Kateheza (4), Rivista di Scienze dell’Educazione (3), Actualidad Catequética, Perspectiva Teológica, Religionsunterricht an hoeheren Schulen (RHS), Zeitschrift für Religionspädagogik, Erwachsenenbildung, Christlich-pädagogische Blätter (2).
La Rassegna è completata da 26 presentazioni di libri e documenti (9276-9302).
Il numero totale di recensioni risulta così di 230.
La scelta degli articoli realizzata dai collaboratori, interessa il pensiero e la ricerca catechetica, la formazione e la pedagogia religiosa.
Si estende, come ogni anno, su una gamma molto ampia di tematiche che vanno da temi generali sulla catechesi a temi specifici come l’iniziazione cristiana, il primo annuncio del Vangelo, l’educazione religiosa nella scuola, la pastorale dei giovani.
Per orientare la lettura indichiamo i principali nuclei tematici.
1.
L’area principale è quella dell’evangelizzazione e la catechesi.
Alcuni articoli trattano dell’evangelizzazione, altri, più di 20, affrontano temi generali di catechesi, una trentina aspetti più specifici come nuovo paradigma, catechesi e liturgia, catechesi familiare, catechesi mistagogica, la catechesi in relazione alla comunità.
Altri articoli, una ventina, si interessano della trasmissione della fede, la prima evangelizzazione, il primo annuncio del vangelo e i ricomincianti.
Molti contributi, più di 20, toccano il tema dell’iniziazione cristiana, si valorizza la catechesi degli adulti e il catecumenato, vengono proposti itinerari di educazione alla fede e itinerari catecumenali.
Diversi presentano la dimensione pedagogica: pedagogia della fede, pedagogia catechistica, pedagogia generativa, pedagogia iniziatica.
Alcuni contributi, non molto numerosi, si interessano della formazione dei catechisti.
Un numero monografico della Rivista Sinite studia il tema nel contesto della Spagna e dell’America latina: Argentina, Brasile e Cile.
Non mancano diversi studi sulla storia della catechesi.
Sono invece pochi quelli che riguardano la storia dei catechismi.
Diversi articoli trattano dei Direttori per la catechesi, in modo speciale il Direttorio Generale nel X Anniversario della sua pubblicazione e il Direttorio per la catechesi del Brasile.
Nelle riviste latinoamericane sono numerosi gli articoli che riguardano la Conferenza di Aparecida e la preparazione della Missione continentale, trattano in modo particolare il tema del discepolato e la sequela di Gesù.
2.
La seconda grande area riguarda l’educazione religiosa, la pedagogia religiosa, la didattica della religione (35 articoli).
Alcuni articoli trattano dell’educazione in generale, altri invece temi più specifici: scuola cattolica, educazione e cittadinanza, educazione e valori.
Sono numerose le ricerche empiriche nel campo della pedagogia religiosa, soprattutto nel mondo anglosassone.
Non mancano gli studi sul tema del pluralismo religioso e l’educazione interreligiosa (11 articoli).
Viene studiato il tema del pluralismo religioso, viene proposto il dialogo interreligioso e interculturale, l’educazione interculturale e interreligiosa. 3.
L’anno 2008 ha visto la celebrazione del Sinodo su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa e l’inizio della celebrazione dell’Anno Paolino, questo si riflette in un certo numero di articoli.
Sono più di 40 gli articoli che riguardano la Bibbia, che spaziano tra diversi temi, da quelli più culturali: la Bibbia nella Scuola, il “grande codice”, Bibbia e cultura; a quelli più teologici e pastorali: Parola di Dio, Bibbia e catechesi, Bibbia e liturgia, Bibbia e giovani, la Bibbia nella parrocchia e in famiglia, la pastorale biblica.
4.
Un altro ambito che è stato preso in considerazione è quello che riguarda i giovani (20 articoli).
Diversi articoli trattano della realtà giovanile, altri più specificamente la pastorale dei giovani, soprattutto nel contesto di Italia e Spagna: giovani ed educazione, giovani e fede, giovani e dottrina sociale della chiesa, associazionismo giovanile.
5.
Annale raccoglie anche quest’anno alcuni Documenti pubblicati nel 2008: La misión continental para una Iglesia Misionera, promosso dal Celam per la chiesa latinoamericana, e Orientaciones para la animación bíblica de la pastoral della Conferenza Episcopale del Cile.
L’Annale chiude con la lista delle riviste recensite, l’indice onomastico e quello tematico-contenutistico.
Siamo certi che la presentazione di tanti articoli presi da Riviste specializzate permette di farsi un’idea, anche se approssimativa, di ciò che si muove nel campo della catechesi e della pedagogia religiosa in ambito cattolico e presso altre confessioni cristiane, in tante zone diverse del mondo.
L’Istituto di Catechetica sa di prestare un servizio utile all’offrire un ricco materiale altrimenti difficilmente accessibile o del tutto precluso.
Corrado Pastore