Intervista ad Angelo Bagnasco sui 150 anni dell’unità

 

“Politica in difficoltà ad ascoltare il Paese.

Estrema cautela nel cambiare la Carta”

 

 

 

Il cardinale Angelo Bagnasco ci riceve nello studio che fu di Giuseppe Siri, «un grande padre e un grande maestro». Anche l’inginocchiatoio e la cattedra, nella piccola cappella a fianco, sono gli stessi. Alle pareti, i ritratti dei  predecessori, Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, lo stemma episcopale con il motto Christus spes mea, Cristo mia speranza. Dalle finestre si vedono i vicoli di Genova. Bagnasco è cresciuto in uno di questi, salita Montagnola della Marina. Ora è arcivescovo della sua città e capo dei vescovi italiani. Sottile, dita lunghe da statua gotica; molto cortese, molto fermo.

Eminenza, parlando dei fatti di 150 anni fa lei ha detto che «mai come in quella stagione la Provvidenza guidò gli eventi». Resta il fatto che il Risorgimento si fece contro la Chiesa, o no?
«Fu il cardinale Montini, per la prima volta, in un discorso al Campidoglio del 1961, a evocare “il gioco” della Provvidenza nella risoluzione della questione romana. In effetti, parte della Chiesa riteneva che la mancanza di un territorio geografico per garantire l’indipendenza del Papa dinanzi al mondo costituisse un problema insuperabile. Col tempo, al contrario, ci si sarebbe resi conto che la perdita del potere politico ha enormemente accresciuto la rilevanza morale della Chiesa nel mondo.
Il Risorgimento, se è parso all’inizio “contro” la Chiesa, in realtà non si è compiuto “senza” di essa.
Basterebbe pensare, nel filone risorgimentale, al contributo più federalista di Gioberti o di Rosmini, rispetto a quello più “unitarista”di Mazzini o di Garibaldi».

Vede rischi per l’unità nazionale in futuro?
«Ne vedo alcuni a partire da segnali in genere sottovalutati: a cominciare dal cambiamento demografico, dalla crisi economica, dalla fatica a uscire dai particolarismi e a promuovere le mediazioni necessarie per perseguire il bene comune. C’è poi la sfida della mondializzazione che un Paese spesso ripiegato su polemiche interne rischia di non cogliere. Il futuro dell’unità nazionale dipende anche dalla capacità del Paese di trovare una sua collocazione nello scenario globale. E rispetto a questo punto la Chiesa, che è una rete globale per vocazione ma anche nei fatti, può dare
un contributo importante. Dovremmo farci tutti più consapevoli del peso storico del nostro Paese, che è universalmente noto per la sua cultura e per la sua arte, ma che rappresenta pure il cuore del cattolicesimo. Dal Vangelo nasce quell’umanesimo plenario che è patrimonio universale. La sfida è concepire questa centralità non come una semplice eredità del passato, ma come un investimento per il futuro: l’unità non si fa solo attorno all’economia e alla politica, ma attorno a dei valori. Solo un nucleo vivo di valori suscita quel senso di appartenenza che resiste alle crisi ed è capace di generare una storia comune, di far superare ogni rischio di fuga e disgregazione».

Viviamo da anni in un clima di conflittualità permanente. È una rappresentazione esasperata del microcosmo politico o no? Quanto la divisione è reale, nel Paese?
«La scena pubblica offre una rappresentazione certamente distorta rispetto alla realtà del Paese.
Doppiamente distorta si può dire, dai media e dalla politica. I media, perché spesso esasperano episodi o realtà secondarie, mentre tacciono di altre ben più importanti o rendono invisibili le realtà positive di cui l’Italia è ricca. A volte, il sensazionalismo e la spettacolarizzazione creano una specie di “inquinamento ambientale”. E poi la distorsione della politica, che pare sempre meno il luogo della mediazione dei conflitti e degli interessi in funzione del bene comune, e sempre più un’arena in cui si cerca di neutralizzare l’avversario senza esclusione di colpi. Si alimenta così una sfiducia e un disinteresse per la politica, soprattutto nelle giovani generazioni, che non fa bene a nessuno.
Questa sorta di specchi deformanti lasciano fuori l’Italia più vera, la parte più sana e più vitale del Paese, che continua a rigenerare quegli elementi che fanno la ricchezza della nostra identità: la generosità, l’operosità, la creatività, la capacità di innovare nel solco di una tradizione, di sperare oltre difficoltà vecchie e nuove. Questa Italia esiste, ed è quella che costruisce l’unità».

La politica vive una stagione di crisi?
«La politica è diventata strumentale, sembra priva di grandi idee dopo la stagione per niente invidiabile delle ideologie, autoreferenziale e in difficoltà ad ascoltare il Paese, ad intercettare i bisogni e le speranze delle persone. È un gioco tra poteri, fortemente personalizzati, fatto di colpi bassi che demoliscono la fiducia nella democrazia e fanno il gioco del nichilismo, anche quando a parole si afferma il contrario. Alimentare lo scontro può essere una strategia per interessi che non sono quelli del Paese».


C’è il rischio che il federalismo impoverisca ulteriormente il Sud e allenti la coesione nazionale?

«È importante declinare la pluralità in chiave unitaria. C’è un modo di essere plurali che, nel valorizzare l’articolazione del Paese, può aiutare a conservare una unità di fronte alle spinte disgregatrici della globalizzazione. In questo senso un federalismo maturo non può voler dire localismo. Al contrario, vuol dire rinnovato patto di alleanza tra cittadini, territorio e Stato. Vuol dire realizzare il principio di sussidiarietà intersecando quello di solidarietà. Perché la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, così come la solidarietà senza la sussidiarietà
scade nell’assistenzialismo».

Il presidente del Consiglio è sotto processo per reati gravi. Quali riflessioni le suscita questa vicenda? Sono questioni private? O, se provate e condannate, rendono incompatibile la permanenza in una carica pubblica così importante come la guida del governo?
«Mi pare che la domanda esuli dal 150 ° e si concentri… sugli ultimi 150 giorni. In ogni caso, per il rispetto che si deve alla realtà, occorre attendere gli esiti della vicenda. È saggio non anticipare valutazioni e ancor meno sentenze, fermo restando il principio formulato nell’articolo 54 della Costituzione che recita: “Chiunque accetta di assumere un  mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta”».

In quale misura la Costituzione può essere modificata?
«La Costituzione non è un dogma di fede, però è un punto basilare. Non è che possiamo trattare la Carta con superficialità; andrebbe contro la sua stessa natura. In alcuni punti può essere opportunamente rivista, ma non la si può prendere alla leggera. La Carta è troppo seria, importante, costitutiva di una società e di uno Stato per esporla a incertezze che riguardano l’identità e la fisionomia di un popolo. Va trattata con estrema cautela. L’esperienza ci insegna che i processi di rivisitazione storicamente necessari si sa come cominciano ma non si sa mai come finiscano».

Che impressione le fa l’annunciata riforma della giustizia?
«Sento che da molte parti, di vario indirizzo, si invoca una certa rivisitazione, un migliore equilibrio. Questo è quel che sento dire. Dato che questo auspicio viene da parti diverse, che conosco molto bene, mi pare sia una testimonianza di verità. Del resto leggo e sento dichiarazioni dal mondo politico molto più possibiliste rispetto a qualche tempo fa, rispetto al niet assoluto. Mi sembra un altro segnale di onestà rispetto a situazioni di carattere strutturale che hanno bisogno di essere riviste».

La Cei come la Santa Sede hanno mostrato negli ultimi mesi grande sintonia con il Quirinale.
È anche un segnale di attenzione agli «arbitri» istituzionali, perché non vengano trascinati nello scontro?

«La figura del capo dello Stato realizza anche visivamente l’unità del Paese. Questo compito, che il presidente Napolitano svolge con competenza e dedizione, esprime una posizione sempre più necessaria in momenti di ricorrente contrasto politico. Anche la Chiesa non intende certo identificarsi con l’una o l’altra parte politica, ma svolgere il suo servizio a beneficio di tutti, credenti e non credenti».

La Chiesa denuncia da tempo l’emergenza educativa. Napolitano ha lanciato l’allarme su formazione e occupazione dei giovani. Cosa si può fare per loro, per l’Italia di domani?
«La perdita di senso del futuro è uno dei dati più preoccupanti del nostro Paese. Lo spazio per i giovani può essere ricreato se si torna a coltivare la speranza, che non è un generico atteggiamento di ottimismo ma un impegno verso qualcosa a cui come individui e come collettività tendiamo.
Nessuna società può prosperare senza investire nell’educazione dei suoi giovani. È un’antica saggezza che non dobbiamo smarrire neanche per un istante».

Ha davvero senso “consegnare anche la morte” a una legge? Non sarebbe meglio lasciare alla sensibilità di malati, medici e familiari la questione, compresa la possibilità di lasciarsi morire?
«Non si tratta di “consegnare la morte” alla legge, ma di garantire la tutela della salute e della vita di ogni persona umana in tutte le sue fasi e condizioni dell’esistenza, in particolare quelle più deboli.
Anche lo strumento di una legge può essere utile, dopo che l’esperienza degli ultimi anni ha mostrato i rischi derivanti dall’attuale vuoto legislativo».

Alcuni notano in lei uno stile meno «interventista» rispetto al suo predecessore. Sbagliano?
«Ciascuno porta con sé i tratti del proprio temperamento e della propria storia personale. Sono di natura piuttosto riservato. Non amo essere catapultato al centro della scena. Per il resto non credo ci sia discontinuità rispetto ai temi e alle questioni sollevate dal mio predecessore. A volte sorrido e qualche volta mi rammarico nel constatare quanto forzate siano certe interpretazioni, e quanto fantasiose siano le ricostruzioni su supposte divergenze dentro la Chiesa italiana e addirittura tra la Cei e il Vaticano».

Dopo gli studi classici in seminario e l’ordinazione sacerdotale, lei si iscrisse e si laureò in Filosofia alla Statale di Genova. Perché quella scelta?
«La scelta non fu la mia, ma del mio arcivescovo, il cardinale Giuseppe Siri. Fu lui che mi invitò, anzi mi ordinò di iscrivermi alla Facoltà di Filosofia, proprio negli anni della contestazione studentesca. Ricordo che ho sempre registrato rispetto e accoglienza. Erano tempi di barricate, di lezioni in birreria… Per me è stata una lezione importante di conoscenza e di dialogo a tutto campo con una cultura che non può fare a meno di cimentarsi con la grande questione cristiana e con le domande radicali circa il problema del male, il senso della vita, della storia e della morte».

Che ricordo personale ha di Siri?
«Conosceva intus et in cute tutti i suoi preti: dentro l’animo, e fuori. Nonostante il protocollo, che doveva essere assolutamente rispettato, tutto il clero avvertiva una grande paternità e un grande affetto. Tanto tuonava dal pulpito, tanto era accogliente e paziente nel rapporto personale. Sapeva ascoltare».

Crede che Siri sia stato sconfitto ma il suo pensiero abbia trovato una rivincita con il tempo?
«Il cardinale è stato se stesso sempre, anche nei momenti più difficili, sapendo che la storia avrebbe purificato tante conflittualità, alcune punte di ideologia. Non cercava l’affermazione di sé; desiderava solo servire la verità, anche quando non era riconosciuta, vista o presentata come faceva lui. La storia non evidenzia chi vince o chi perde. Fa emergere quel che rimane».

Tornando al Risorgimento, che cosa rimane della figura di Pio IX?
«La sua figura è segnata dal dilemma intorno alla necessità o meno del potere temporale in ordine alla missione universale. Non a caso Papa Mastai Ferretti non fu del tutto contrario alle prime aperture sociali e politiche, anche se poi dovette fare i conti con la realtà che rischiava di sfuggire di mano. L’essere stato di recente proclamato santo da Giovanni Paolo II attesta che la cifra più profonda della sua personalità resta comunque la sua fede incrollabile, pure dinanzi allo sfaldamento di un mondo. Alla fine, ciò che rende Pio IX se stesso è il suo slancio apostolico più che la sua strategia politica».

Come replica a chi oggi accusa la Chiesa di ingerenza?

«Mi sembrano accuse come minimo ingenerose. Gesù ha separato, come mai prima di lui, fede e politica, come ha scritto Benedetto XVI nel suo ultimo libro. La Chiesa, che ha a cuore l’essere umano e la sua umanità, non può non essere presente, con le opere oltre che con la parola, soprattutto laddove l’umanità è fragile e ha bisogno di essere riconosciuta, accompagnata, difesa.
Troppo spesso si definisce “ingerenza” la semplice presenza, che disturba il fondamentalismo laico perché propone una prospettiva antropologica incompatibile con l’idea di immanenza assoluta e individualista, e afferma una diversa idea di libertà e di umanità. La Chiesa interviene per difendere l’uomo debole, marginale, senza diritti: di volta in volta può essere il bambino nato e non nato, il giovane reso irrilevante da questa nostra società competitiva, l’anziano che rischia l’abbandono da parte di una società sempre più cinica e distratta. Ma questo non è politica. È servizio alla causa
dell’uomo nel nome del Signore».

 

in “Corriere della Sera” del 17 marzo 2011

I nuovi padri: intervista a Massimo Recalcati

Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?,  Cortina Editore, pag. 190, euro 14.


“Papi”: è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a “papi”, invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell’epoca ipermoderna, sull’evaporazione del padre, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l’interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).

Cosa resta dell’uomo che assicurava l’ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l’ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all’autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica… Si tratta allora di pensare al padre come “resto”, non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all’insegnamento esemplare, all’intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l’incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».

 

Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice “sì!” a ciò che esiste, senza sprofondare nell’abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell’avvenire».

 

In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l’insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo… Quando Freud gli attribuiva il saper “tenere gli occhi chiusi”, intendeva sottolineare il carattere “umanizzato” della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita… È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un “no!” che sia davvero un “no!”, e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».

 

Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all’adozione… C’era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre “interdice” il godimento incestuoso e “separa” la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero “nuovo” e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare.
Intesa come legame “naturale”, la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un’appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza… Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».

 

Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto “l’ordine del sangue”. Prendiamo Million Dollar Baby…
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un’adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia… “Io voglio lei!”. “Sarò il tuo allenatore!”: Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo  eccezione alla propria etica (“Io non alleno ragazze!”) e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l’atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l’ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l’abbandona come “una causa persa”, alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».

Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

 

in “la Repubblica” del 9 marzo 2011

Una teologa della salvezza.

Conoscevo Adriana Zarri dai libri e dagli articoli, ma l’ho incontrata soltanto durante la campagna sul referendum contro l’aborto.
Difendeva la libertà per una donna di rifiutare la gravidanza non perché la condividesse, ma per avvertire le credenti che nulla nelle scritture poteva essere invocato contro di essa.
Ricordo la sua persona nel mio studio, nell’unica sfondata poltrona del «manifesto», esile, diritta, i capelli rialzati, in un pomeriggio romano.
Poco dopo – veniva spesso a Roma – m’invitò al Molinasso, dove è stato scritto Erba della mia erba, e la prima volta che salii a Torino mi presi un giorno di piú per raggiungerla.
Il Molinasso era una cascina, forse un vecchio mulino, appena fuori della strada fra le colline attorno a Ivrea.
Stava su un poggio, isolato, lontano qualche chilometro dall’aggregato piú prossimo, in vista di un’unica altra cascina che si presumeva abitata per avervi intravvisto qualche luce.
Vi si accedeva da un sentiero tra l’erba, qualche rovo e un ruscello, era un’antica costruzione contadina, semplice, armoniosa, con un portone ancora orlato di marmo, e subito la scala che saliva al piano.
La scala finiva in una stanza abbastanza grande, con una stufa a legna e un gatto e le finestre che si aprivano su un orizzonte ondulato fin alla linea azzurra delle montagne.
Non si vedeva anima viva.
Adriana aveva lasciato le scarpe e gli abiti di città per gli zoccoli, un vasto grembiule su una vasta gonna, scuri come quelli delle contadine, e mi guidò nei suoi domini chiamando con il loro nome le piante, gli ortaggi e gli animali – i morbidi conigli che si lasciavano tirar su per le orecchie e i rumorosi polli, fra i quali pescò qualche uovo.
In quel silenzio e nel calare della sera parlammo a lungo, e cosí fu sempre quando potevo arrivare.
Prima di cena mi chiedeva se volevo assistere a una sua preghiera, che era di solito una lettura di qualche passo dell’antico Testamento, di quelli dove Dio è indulgente, al massimo un poco geloso – vuoi leggere tu? e io leggevo – qualche minuto di silenzio (lei non amava la parola che mi parve giusta, raccoglimento) e poi a tavola, non senza gustare un bicchiere di vino.
Attorno, verso il buio, vecchi mobili contadini, qualche arnese agricolo ormai fuori uso, qualche vaso con fiori o foglie o bacche delle prime brume dell’autunno.
Era la povertà della quale i poveri diffidano, perché non c’era nulla che non avesse una sua bellezza.
Ricordo di un trauma Del Molinasso m’era rimasta la persuasione che sarebbe stato per sempre, e che era tutto quel che ad Adriana occorreva, né molto né poco.
Lo aveva trovato, credo, nel 1975 e non so quante volte vi salii, almeno una volta l’anno per molti anni, per uno o due giorni di pace.
Né lei cercava di convertirmi, anche perché convinta che tutti saremo salvati, ci piaccia o no, né io di dissuaderla da quel che non provavo; ognuna ascoltava l’altra; solo una volta, dicendomi quanto amava questo mondo fatto da Dio (si doleva che lo scrivessi con la minuscola), aggiunse che non avrebbe potuto ccettare la morte se non avesse creduto alla resurrezione.
Ma restammo là, e d’altronde c’era poco da commentare.
La notte mettevamo fuori il micio, chiamato Malestro per qualche giovanile misfatto, e ci ritiravamo presto, io a leggere e lei a scrivere perché di giorno non aveva tempo.
L’orto, le piante e gli animali cui badare, la corrispondenza, le telefonate, il riporre o pescare dal cassone refrigerato le provviste, il muoversi ordinatamente in uno spazio vasto e che a me pareva disordinato, insomma soltanto a ora tarda era in grado di lavorare.
A quel tempo non la aiutava nessuno.
Quando doveva mettersi nella sua vecchia macchina o saltare in un treno per combattere il nemico principale, che era allora Comunione e Liberazione, chiudeva approssimativamente tutto, badava che al micio non mancasse né un rifugio né il cibo oltre alle lucertole e ai topi forniti dalla provvidenza, e trovava tutto uguale al ritorno.
Il Molinasso era la quiete e pareva che sarebbe stato cosí sempre.
Ma per la campagna piemontese correvano dei disperati che una notte le sfondarono la porta.
Dovevano averla sorvegliata, era una donna sola, palesemente non contadina, palesemente non miserabile, e non capirono perché non tirasse fuori i soldi che esigevano.
Non potevano immaginare che Adriana di soldi non ne avesse affatto, forse non ne aveva mai avuti, urlarono, la minacciarono e alla fine, dopo avere buttato all’aria tutto, la lasciarono legata a terra, e fu la postina a trovarla due giorni dopo.
(…) La sua inconfessata aristocrazia Fu un trauma, fra il terrore, il malessere, il freddo, quelle ore fra vita e morte e una perdita della quale non riusciva a consolarsi.
Dove poteva andare? Poteva mantenersi ma non aveva denaro per comprare niente, tanto meno un’altra cascina, e in una solitudine meno deserta e pericolosa.
Non le mancarono le proposte, di venire qui o andare là, di amici che ne aspettavano le parole e gli scritti, ma naturalmente non erano eremiti.
Vagò per un certo tempo senza nido, fin che parve rassegnata a fermarsi nel cuneese, dove una famiglia generosa deteneva il dorso di una collina fra i carpini.
Vi si scorgevano qualche rada costruzione e un borgo nel fondovalle.
La coppia ospitava dei tossicodipendenti.
Ricordo il volto smarrito di Adriana alla tavola comune, fra due adulti calorosi e alcuni giovani risentiti, incapaci di muovere un dito, infelicissimi e tetri.
Ho pensato allora, con qualche malizia, che delle virtú teologali la mia amica ne aveva in sovrabbondanza due, fede e speranza, mentre frequentava a modo suo la carità, il suo amore essendo tutto per Dio e qualche grande causa, ma poco incline alla sofferenza dei singoli, che in verità non ha nulla di splendido.
I suoi occhi spalancati su quelle infelicità ne vedevano la bruttezza e non riusciva, come i suoi amici, a tendere le braccia.
Non sarebbe mai stata come madre Teresa e le sue seguaci, delle quali diffidava e, come capii piú tardi, non a torto.
Il suo bisogno di solitudine veniva anche, credo, da una inconfessata aristocrazia del modo di essere.
Intanto era una gran pena e si stava già rassegnando a far planare sul terreno dei suoi ospiti, come la casa di Loreto portata dagli angeli, un prefabbricato norvegese minimo, munito di una poderosa stufa.
Me lo descrisse con voce ottimista.
Addio viste e orizzonti aperti, orto e rose.
Doveva mettersi da qualche parte dove poter chiudere una porta.
Fu allora che qualcuno, penso Luigi Bettazzi che allora era vescovo di Ivrea, la salvò, offrendole in comodato, che deve essere una sorta di affitto a termine, una proprietà diocesana abbandonata, che aveva il vantaggio di stare proprio sull’orlo di un paesino del torinese, un lato sulle ultime case e l’altro su una sconfinata campagna.
Un miracolo.
Adriana rifiorí, vi si insediò subito e io salii a vedere.
Avevo in mente il Molinasso e rimasi di stucco, era un luogo bruttissimo.
Un gran cancello arrugginito, fra due santi antipatici, immetteva a sinistra su una cascina disabitata e a destra su n’altra cascina appena meno sbrindellata, cui si accedeva da un’erta scala di legno, a sua volta collegata a uno sgarbato casone giallo, forse degli anni Trenta, che dava sulla campagna e un giardinetto ad aiuole.
Il quarto lato era indeciso fra una costruzione informe e un arruffato boschetto.
In mezzo uno spazio interrotto da un alto muro, inteso a dividere una delle due cascine e il casone dall’altra.
Adriana si era collocata al primo piano della cascina di destra, che era poi uno stanzone affacciato in fondo verso il paese, e per me aveva collocato un letto giú al pianterreno.
C’era dappertutto una polvere decennale, dappertutto tracce di immemoriali abbandoni, sgomberi frettolosi e confusi, mi misi a scopare e riordinare inutilmente, e quando ci lasciammo dopo una breve cena afferrai una coperta e scesi quella scala da vertigini giú in cortile dove, saltata la lampadina, sbagliai di porta e mi infilai a tastoni in una stanza dove mi parve di individuare un letto di legno.
La mattina dopo scoprii che avevo dormito su un catafalco, con i suoi bravi manici davanti e dietro, e un cespo di rose di pezza coperto di falso filo d’oro rimasto attaccato dall’ultima cerimonia.
Ero in una sorta di magazzino dove era stato ammucchiato tutto quel che una sacrestia povera poteva lasciare di non sacro dietro di sé.
(…) in “il manifesto” del 12 febbraio 2011

La tradizione europea delle grandi chiese

Dagli angoli della vita al cerchio dell’eternità  Tra le caratteristiche distintive del cristianesimo occidentale vi è la volontà di costruire grandi chiese: ancor oggi, in un’Europa che non vuole riconoscere ufficialmente le sue radici cristiane, gli edifici storici più imponenti delle città sono cattedrali, chiese monastiche o santuari.
Come nasce questa tradizione? L’idea cristiana del luogo di culto subisce una prima fondamentale trasformazione in Italia e specificamente a Roma a partire dall’epoca costantiniana.
Precedentemente, come apprendiamo dalle lettere di san Paolo, a Roma come in altre città evangelizzate, la Chiesa era strutturata in piccole comunità identificabili in base alle case private in cui i membri si riunivano.
Nella sua lettera ai Romani, ad esempio, salutando i suoi amici Aquila e Prisca, Paolo saluta anche “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Romani, 16, 3-5).
Tra le case utilizzate a Roma nel I secolo, c’erano però anche delle domus patrizie e forse perfino il palatium imperiale: scrivendo da Roma ai credenti di Filippi tra il 61 e il 63, san Paolo dirà: “Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare” (Filippesi, 4, 22).
Con la conversione alla nuova fede dei massimi ceti sociali tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, alcune “case” vennero destinate permanentemente al servizio della ecclesia erano poi grandi e lussuose: tra queste c’era un’aula di rappresentanza della residenza dell’imperatrice madre Elena, il Palazzo Sessoriano, nota poi col nome di basilica di Santa Croce in Gerusalemme.
 Sarà soprattutto il figlio di Elena, l’imperatore Costantino, a dare dignità ufficiale a questa tendenza, esaltando la nuova fede mediante la costruzione di una vera e propria rete di grandi chiese sul modello architettonico delle aule pubbliche o regie dell’impero: le basiliche.
Come per trecento anni le comunità cristiane avevano celebrato i riti in sale ordinarie in case private e nelle insulae delle città greco romane, senza avvertire una particolare necessità di distinguere i loro luoghi di culto dal mondo che li circondava, così, anche dopo l’ascesa sociale della Chiesa le grandiose strutture fatte costruire dal governo imperiale s’inserivano nell’esistente tessuto architettonico delle città in cui si trovavano.
Le fondazioni costantiniane e quelle del V secolo erano molte e molto grandi: San Giovanni in Laterano, forse già avviata nel 312-13, aveva dimensioni titaniche: 98 per 56 metri; la basilica cimiteriale di San Sebastiano, sulla via Appia, era lunga 75 metri; l’originaria basilica di San Lorenzo sulla via Tiburtina era lunga 98 metri.
C’era una basilica sulla via Labicana, attigua al martìrion dei santi Marcellino e Pietro contenente il mausoleo dell’imperatrice Elena, e un’altra sulla via Nomentana, vicino alla memoria di sant’Agnese, dove la figlia di Costantino, Costanza, aveva fatto costruire il suo mausoleo (l’attuale chiesa di Santa Costanza).
Soprattutto l’antica basilica di San Pietro era colossale, con una facciata larga circa 64 metri e un portico profondo 12.
Le navate (esclusa l’area presbiteriale) erano lunghe 90 metri e quella centrale larga 23,50 con un’altezza di 32,50, mentre le navatelle laterali avevano altezze, rispettivamente, di 18 e 14,80 metri.
Nell’ambito della corte imperiale viene fatto poi un passo carico di significato per la storia dell’architettura cristiana: l’adattamento a scopi liturgici dell’edificio circolare o cilindrico tipico nel mondo tardo-antico dei mausolei di personaggi illustri.
Per la sensibilità greco romana, la forma cilindrica-chiusa infatti suggeriva il mistero della morte; proprio questa configurazione era stata usata nel IV secolo a Gerusalemme per la struttura costantiniana dell’Anastasis, contenente la tomba vuota di Cristo; la stessa forma venne poi utilizzata dalla figlia di Costantino per il proprio mausoleo sulla via Nomentana, accanto all’antica basilica cimiteriale di Sant’Agnese.
Simili strutture circolari hanno un simbolismo particolare.
Mentre le più comuni basiliche longitudinali implicano un cammino – dall’ingresso all’altare – la forma circolare, senza inizio e senza fine, ha dell’infinito: giungere al suo centro connota la fine della ricerca, l’arrivo nel porto sospirato.
Al Santo Sepolcro gerosolimitano, dove prima si passava per una basilica longitudinale per poi – attraversato un cortile – penetrare nella struttura circolare, l’esperienza spaziale complessiva era quasi una metafora di ricerca e scoperta: del cammino di fede e della certezza con cui Dio pone fine alla ricerca dell’uomo, ammettendolo nella luce infinita.
Nel V secolo la più grande chiesa romana a pianta centrale, Santo Stefano Rotondo, proporrà un’esperienza nuova.
La basilica longitudinale diventa un immenso cortile rettangolare intorno all’elemento circolare, che a sua volta diventa un labirinto concentrico con più ingressi.
Dalle cappelle si passa successivamente nel penultimo anello, più alto di quelli esterni e più luminoso, che infine dà accesso all’altissimo spazio cilindrico centrale, un pozzo di luce al cuore dell’edificio.
A Santo Stefano Rotondo il senso del cammino cristiano veniva cioè articolato in termini mistagogici: non più come movimento lineare e neanche come semplice arrivo, ma nell’esperienza di una penetrazione per gradi: dall’esterno verso il centro, dalle tenebre verso la luce, metafora forse, questa, per la vita di una Chiesa che ormai trovava la ragione della sua comunione non solo nella radice storica di una condivisa romanitas, ma nella convergenza verso Colui che è luce degli uomini.
È suggestivo infatti mettere la pianta circolare di questa chiesa a confronto con una coeva immagine di Cristo che ascende nel circolare clipeus simboleggiante la luce, in uno dei pannelli lignei delle porte della Basilica di Santa Sabina, sull’Aventino.
 È il Cristo dell’Apocalisse, l’Alfa e l’Omega della storia umana, presentato tra i simboli dei quattro evangelisti, con – sotto di lui – i santi Pietro e Paolo che innalzano un serto sulla testa di una donna.
Questa, che con le braccia alzate in preghiera, simboleggia la stessa Chiesa che anela al suo Sposo.
A Roma per la prima volta la Chiesa si è identificata plasticamente con Colui che, immolato, è ora “degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (Apocalisse, 5, 12); ha occupato spontaneamente, trasformandoli, gli spazi architettonici e concettuali dell’antico impero, persuasa che Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d’Israele, s’era manifestato anche nello splendore materiale di Roma.
La marmorea magnificenza della città un tempo pagana fu letta come adombramento della città dell’Apocalisse, la Gerusalemme celeste le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose.
Roma è infatti la città dell’Apocalisse – dello svelamento del senso nascosto della storia – e dal V secolo in avanti i messaggi comunicati nei programmi iconografici delle più importanti chiese romane sono “apocalittici”.
Cristo nella toga dorata rivelato come Dominus dominantium, Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l’adorano, versando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi: sono queste le immagini realizzate nei presbiteri delle grandi nuove basiliche.
In diverse di queste poi, le scene rivelatrici dell’eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come risoluzione della vicenda terrestre.
Al Vaticano questo messaggio verrebbe anticipato già all’esterno, con un monumentale mosaico che ricopriva la parte superiore della facciata della basilica (conosciuta in una delineazione in un codice del XI secolo proveniente da Farfa e attualmente conservato all’Eton College di Windsor) mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l’Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide” (Apocalisse, 7, 9).
Pure questa caratteristica della vita dell’antica capitale, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana.
La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventerà la Roma papale che regolarmente accoglie uomini e donne “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Apocalisse, 7, 9).
Fenomeno, questo, che spiega la creazione – prima al Laterano e poi al Vaticano – di spazi adeguati ad accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo, spazi che esprimono continuità con l’antico impero: la basilica San Pietro ed antistante piazza infatti ricoprono un circo realizzato nel I secolo dagli imperatori Caligola e Nerone.
I giganteschi teatri e anfiteatri dell’Urbe, che ancor oggi testimoniano la capacità dell’impero di convogliare folle oceaniche verso un punto, fanno parte dell’esperienza della primitiva Chiesa di Roma.
Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.
Ciò significa che non solo l’idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo – di raduni per vedere insieme eventi che uniscano mediante l’emozione condivisa da centinaia di migliaia di persone – faceva parte del bagaglio culturale ed umano della primitiva Chiesa romana.
(©L’Osservatore Romano – 10 febbraio 2011)

La tristezza della lussuria

La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi – passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto…
– ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.
Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati.
Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.
Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto.
Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità.
L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico…
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.
Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce.
Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà – quasi sempre con prepotenza – all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l’orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi.
Linguaggio d’amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione.
La lussuria, per contro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro.
Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza.
L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione.
Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse.
Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza.
Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione.
La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico.
Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la  ornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.
Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito.
Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo.
Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità.
Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.
in “La Stampa” del 19 gennaio 2011

I cristiani perseguitati

Voto a Strasburgo: niente aiuti ai Paesi in cui sono discriminati o perseguitati.
Chiesta con urgenza ai Ventisette una strategia comune con possibili misure restrittive contro gli Stati che volutamente non tutelano le confessioni religiose.
Il documento sarà recapitato immediatamente ai rappresentanti di Pakistan, Iran, Iraq, Nigeria, Filippine e Vietnam.  –

 

DOCUMENTAZIONE

Cristiani, la Ue li difenderà

Un segno una speranza di Luigi Geninazzi

Il card. Turkson: «Nessuno può impedire al Papa di parlare»

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Il nostro tempo per gli altri

Arrivano le feste, ma con esse anche una domanda sempre più pertinente: siamo ancora capaci di fare festa? Riusciamo ancora a segnare un tempo come festivo, diverso dal feriale quotidiano? E, se e quando ci riusciamo, di cosa abbiamo bisogno per distinguerlo dalle ormai sempre più numerose occasioni che abbiamo per festeggiare, stimolati come siamo da un mercato che ci vuole sempre pronti a consumare tempo e denaro in beni fuori dall´ordinario? Finiamo per credere che ciò che caratterizza la festa debba essere l´eccesso, la ricchezza, il poter spendere per il superfluo, lo stordirci con lo stra-ordinario.
In questo senso il Natale è divenuta la ricorrenza che più di altre mostra la contraddizione in cui ci troviamo e il conseguente paradosso di trovarci in ansia per la festa: siccome ha perso la preziosità che gli derivava del suo essere unica o quasi durante l´anno, ora sembra condannata a distinguersi dalle mille altre feste che ci siamo inventati attraverso un “di più” di tutto: più spese, più regali, più cibi, viaggi più lontani, adunate più affollate…
Eppure, il cuore e la mente ci dicono che per noi la vera festa è fatta di altro, di cose che non si pesano in quantità ma in qualità, che non si misurano in estensione ma in profondità: incontri autentici, momenti di condivisione, equilibri di silenzi e parole, tempo offerto all´altro nella gratuità.
Se siamo onesti con noi stessi, il regalo più gradito non è quello che ci sorprende di più per la sua stranezza o per il suo prezzo, bensì quello che più è capace di narrarci il sentimento di chi lo porge.
Come non ricordare la povertà dei regali negli anni del dopoguerra o, ancora oggi, in tante famiglie in difficoltà economiche? Eppure bastava e basta così poco per far risplendere il dono più umile: era e rimane sufficiente che il gesto che lo offre sappia al contempo porgere il cuore di chi dona, sappia parlare al cuore di chi riceve.
A Natale, infatti, non dovremmo sorprendere l´altro con l´ostentazione della ricchezza o della stravaganza, né stordirlo con l´eccesso, bensì stupirlo e confermarlo con l´amore, l´affetto, l ´attenzione che non sempre nel quotidiano trovano il tempo e il modo di essere esplicitati.
Il piatto più apprezzato a tavola, allora, non sarà quello più esotico o costoso, ma quello che meglio mostra che conosco i gusti di chi mi sta accanto, che so cosa lo rallegra, che cerco solo di dirgli “ti voglio bene”.
Del resto, il regalo che più rallegra ciascuno di noi, di qualunque età, non è mai l´ultima trovata di cui tutti parlano o l´ennesima novità straordinaria che nel giro di pochi mesi sarà superata, ma quel semplice oggetto che mi fa capire che chi lo ha scelto ha pensato proprio a me, ha saputo interpretare i miei desideri inespressi, mi ha letto nel cuore.
Tutte cose, queste, che non si comprano in contanti né con carta di credito, anzi: sovente sono beni poveri, sobri, umili, “feriali”, ma che si accendono di novità per la carica di umanità che sappiamo immettervi.
E così, a loro volta accendono di semplicità la festa, fanno sentire che quel giorno è diverso, non perché così dice il calendario dei negozi, non perché lo abbiamo ricoperto d´oro, ma perché abbiamo saputo guardare noi stessi, gli altri, la realtà con occhio diverso, con uno sguardo predisposto a scorgere il bene nascosto in chi amiamo, perché abbiamo saputo essere autenticamente noi stessi, desiderosi di amare e di essere amati.
Sì, Natale è davvero festa quando l´amore trova spazio e tempo per essere narrato, semplicemente.
in “la Repubblica” del 23 dicembre 2010